Sommario
IL RICONOSCIMENTO DELLO STATUS DI RIFUGIATO. Appartenenza ad un particolare gruppo sociale – Violenza di genere – Convenzione di Istanbul – Protezione effettiva da parte delle autorità statuali –
Tratta di essere umani – Sfruttamento lavorativo – Rischio di re-trafficking – Domande basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere – Mutilazioni genitali femminili – Particolare gruppo sociale dei non udenti – Gruppo sociale degli apolidi – Opinioni politiche. PROTEZIONE SUSSIDIARIA. Grave danno, ex art. 14, lett. a) d.lgs. n. 251 del 2007 – Cause di esclusione – Onere della prova – Violenza indiscriminata in condizioni di conflitto armato interno – Ucraina. QUESTIONI PROCEDURALI E PROCESSUALI. Ambito del sindacato del giudice – Designazione di un Paese di origine come sicuro – Principi affermati dalla Corte di giustizia nella sentenza del 4.10.2024 – Eccezioni alla presunzione di sicurezza del Paese d’origine previsti nelle c.d. schede Paese – Conseguenze in tema di effetto sospensivo automatico della proposizione del ricorso – Procedure accelerate – Mancato rispetto dei termini – Inammissibilità – Domande reiterate – Mancato rispetto di tutte le articolazioni procedimentali – Conseguenze in punto di sospensione automatica degli effetti del provvedimento di inammissibilità – Cooperazione istruttoria del giudice – Onere di allegazione del ricorrente – Termine per proporre ricorso in Cassazione – Decorrenza. REGOLAMENTO DUBLINO (clausola discrezionale ex art. 17 reg. n. 604/2013: sindacato giurisdizionale – protezione speciale – carenze sistemiche nel sistema asilo e di accoglienza nel Paese di rinvio: trasferimento – termine ragionevole – irreperibilità – proroga del termine – presupposti). PROTEZIONE COMPLEMENTARE (giurisdizione ordinaria; art. 8 CEDU – nozione e presupposti – genitori e figli adulti – convivenza – requisito non richiesto; competenza territoriale del Tribunale – procedura di notifica della decisione – vita privata; nuovo art. 19 TU d.lgs. 286/98 post riforma d.l. n. 20/2023 – istanza reiterata di protezione internazionale – procedura di notifica della decisione; protezione speciale e pregressa condanna. PERMESSO DI SOGGIORNO DIRETTO AL QUESTORE EX ART. 19 TU D.LGS. 286/98 (domanda diretta al questore di permesso ex art. 19 TU d.lgs. 286/98 – obbligo della PA di rispondere anche in mancanza di disciplina regolatoria – diritto alla presentazione quale diritto in sé; sussistenza rischio espulsivo). ACCOGLIENZA DI RICHIEDENTI ASILO (richiedente asilo destinatario di decisione definitiva di rinvio “Dublino” – diritto all’accoglienza; revoca delle misure di accoglienza – distinzione tra abbandono e assenza dal Centro – diritto al giusto contraddittorio). DIRITTI CIVILI (ritardo rilascio di permesso di soggiorno per asilo – fatto illecito della questura – risarcimento dei danni patrimoniale e non patrimoniale).
STATUS DI RIFUGIATO
Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
Nel periodo in rassegna, molte le decisioni delle Sezioni specializzate in materia di riconoscimento dello status di rifugiato in favore di donne vittima di violenza di genere.
Il Tribunale di Bologna, con decreto del 4.10.2024 , ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna tunisina, costretta ad un matrimonio forzato e vittima di violenza di genere. Nella decisione in esame, i giudici bolognesi hanno qualificato i ripetuti atti di violenza subiti dalla ricorrente come violazione grave dei diritti umani fondamentali (riconducibile alla lett. a) dell’art. 7 del d.lgs. n. 251 del 2007), posta in essere da un soggetto non statuale (nel caso di specie, dallo zio acquisito). Con riferimento alla possibilità di ottenere protezione effettiva dalle autorità statuali, il Collegio, richiamate le più recenti ed accreditate fonti di informazione, ha osservato come lo Stato tunisino non sia in grado di offrire protezione adeguata e durevole alle donne vittime di violenza di genere. Il Tribunale, anche in forza di un esplicito richiamo all’art. 60 della Convenzione di Istanbul, rilevato che la ricorrente è stata vittima di una persecuzione personale e diretta per l’appartenenza ad un particolare gruppo sociale (ovvero in quanto donna), nella forma di «atti specificamente diretti contro un genere sessuale», le ha riconosciuto la protezione maggiore.
Anche Tribunale di Torino, con decreto del 9.12.2024 , chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto da una donna tunisina, vittima di numerose violenze subite da parte dei fratellastri del marito, ha affermato che la stessa appartiene al gruppo sociale delle donne vittime di violenza domestica e che, in quanto tale, in caso di rimpatrio, sarebbe fondatamente esposta al “danno grave” consistente nella minaccia effettiva di subire nuovamente atti di violenza da parte di un membro della sua famiglia (il marito) o della sua comunità. In forza di tali ragioni, le ha riconosciuto lo status di rifugiata. Ad analoghe conclusioni è giunto anche il Tribunale di Torino, con decreto del 9.12.2024 , nell’esaminare la domanda spiegata da una minore tunisina, vittima di violenze domestiche perpetrate da parte del padre.
Ancora il Tribunale di Torino, con decreto del 25.11.2024 , ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna, cittadina del Perù, vittima di abusi e violenze subite da padre, sin dalla tenera età. Anche nel caso in esame, il Collegio, sulla base di un’attenta e completa analisi delle COI, ha precisato che, nonostante siano state promulgate leggi volte a contrastare la violenza contro le donne, non vi sia un’efficace implementazione di tali sistemi di protezione, che si traduce nell’impossibilità di ricevere protezione effettiva da parte delle autorità statuali.
Diverse le pronunce delle Corti di merito in tema di riconoscimento della protezione maggiore in favore di richiedenti protezione, vittima di tratta ai fini di sfruttamento lavorativo.
Il Tribunale di Bologna, con decreto dell’8.11.2024 , nell’esaminare la domanda spiegata da un cittadino della Costa d’Avorio, costretto dallo zio a vivere in condizioni di schiavitù ed a lavorare nei campi sin dall’età di 12 anni, per essere poi venduto ad altri e continuare a vivere in una condizione di totale soggezione, ha affermato che il ricorrente è stato vittima di tratta. Con riferimento al rischio di re-trafficking, il Collegio ne ha ravvisato la sussistenza alla luce della giovane età del ricorrente, dello scarso livello di istruzione, della condizione di estrema povertà e soggezione vissuta sin dalla più tenera età.
Anche il Tribunale di Torino, con decreto del 23.12.2024 , si è pronunciato in tema di sfruttamento lavorativo. Nel caso portato all’attenzione del Collegio, il ricorrente, cittadino del Bangladesh, aveva riferito di aver contratto debiti e di essersi affidato a trafficanti locali per lasciare il Paese d’origine, spinto dalla situazione di indigenza della famiglia, essendo l’unico della famiglia in grado di lavorare. Nella decisione in esame, il Tribunale ha ravvisato, nelle dichiarazioni del ricorrente, l’esistenza degli indici di tratta di sfruttamento lavorativo elaborati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro ed ha ritenuto che, in caso di rientro nel Paese d’origine, stante la situazione di estrema vulnerabilità dovuta alla tratta subita, possa subire nuovi episodi qualificabili come atti persecutori ed ha, pertanto, riconosciuto al ricorrente lo status di rifugiato.
Il Tribunale di Bologna, con decreto del 12.11.2024 si è pronunciato sul ricorso in riassunzione proposto in sede di rinvio, a seguito dell’annullamento da parte della Suprema Corte di cassazione della decisione di rigetto con la quale il Tribunale aveva omesso l’esame dei presupposti relativi alla sussistenza di una condizione di tratta ai fini di sfruttamento lavorativo minorile. Nel caso portato all’attenzione dei giudici bolognesi, il ricorrente aveva riferito di aver subito, in quanto vittima di tratta minorile, gravi violenze e maltrattamenti ed era stato oggetto di sfruttamento lavorativo fin dall’età di undici anni, da parte prima dello zio paterno, quindi da parte di un uomo dal ragazzo ritenuto proprio amico, che per alcuni anni lo aveva sfruttato, impiegandolo nel taglio di legname e nella produzione di carbone, infine da parte di un cittadino senegalese, che in Libia lo aveva indotto ad imbarcarsi alla volta dell’Italia. Il Tribunale ha ritenuto che i fatti narrati integrino una persecuzione motivata dall’appartenenza al gruppo sociale composto dai minori privi di sostegno familiare ed ha riconosciuto lo status di rifugiato.
Con decreto del 25.11.2024 , il Tribunale di Bologna ha esaminato la domanda di protezione fondata sull’orientamento sessuale, proposta da un cittadino del Pakistan. In via generale, con riferimento alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni del ricorrente, il Collegio ha ricordato che «le domande basate sull’orientamento sessuale o l’identità di genere possono essere particolarmente impegnative, in quanto i motivi sono connessi con aspetti sensibili e intimi della sfera privata. I richiedenti possono aver sviluppato timore di essere stigmatizzati, provare vergogna e/o abnegazione e possono essere stati rifiutati e sottoposti a maltrattamenti da parte della famiglia e/o della comunità. Tali fattori possono rendere difficile l’esposizione da parte dei richiedenti dei fatti sostanziali in modo chiaro e coerente, per cui le loro prove possono essere oggetto di rivelazione tardiva, scarsità di dettagli e incoerenze». Nel caso portato all’attenzione dei giudici bolognesi, è stato riconosciuto lo status di rifugiato, nonostante il richiedente asilo non abbia allegato di riconoscersi egli stesso quale persona effettivamente omosessuale, proprio dando rilievo al fatto che nel suo ambiente sociale egli era irrimediabilmente associato alla relazione amorosa con una persona dello stesso sesso, così da apparire comunque esposto ad un concreto rischio di persecuzione in ragione del suo (percepito) orientamento sessuale.
Ancora con riferimento al fattore di inclusione del particolare gruppo sociale, il Tribunale di Venezia, con decreto del 7.11.2024 , ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna nigeriana ed alle sue due figlie in relazione al rischio che le due giovani – di 6 e 13 anni – in caso di rientro nel Paese d’origine possano essere sottoposte all’atto persecutorio delle mutilazioni genitali femminili. Il Collegio, ritenute credibili le dichiarazioni della ricorrente (anche alla luce dell’etnia della ricorrente, della zona di provenienza della stessa, dell’età delle figlie e della sottoposizione della stessa al volere dei parenti più anziani, intenzionati a costringere le di lei figli a subire tale forma di violenza), ha sottolineato come le donne che hanno rifiutato di sottoporsi a mutilazioni genitali sono esposte al rischio di sanzioni sociali come recriminazioni, marginalizzazione e diminuzione delle possibilità di matrimonio, con forme che si traducono in forme di reali discriminazioni, che giustificano il riconoscimento della protezione maggiore, sia in favore della madre, che delle figlie minori.
Il Tribunale di Torino, con decreto del 30.9.2024 , si è pronunciato sulla domanda di protezione spiegata da un cittadino tunisino non udente. Il Collegio, ritenute credibili le dichiarazioni del ricorrente relative a tutte le discriminazioni vissute in Tunisia in conseguenza della sua condizione di non udente, ha esaminato le più aggiornate fonti di informazione, dalle quali è emerso che, nonostante la Costituzione e le leggi proibiscano esplicitamente la discriminazione basata sulla disabilità sia fisica che mentale, tuttavia l’uguaglianza delle persone con disabilità rispetto alle altre non è sempre garantita a causa di infrastrutture inadeguate, della disponibilità limitata dei servizi e della mancanza di informazioni pubbliche. Il Tribunale ha pertanto ritenuto che, con ragionevole grado di probabilità, in caso di rimpatrio in Tunisia, il richiedente possa essere sottoposto ad atti persecutori per appartenenza ad un dato gruppo sociale per via del fatto di essere non udente e gli ha, pertanto, riconosciuto, la protezione maggiore.
Infine, l’appartenenza al gruppo sociale degli apolidi ha portato il Tribunale di Napoli – decreto del 6.11.2024 – a riconoscere lo status di rifugiato, in favore di un cittadino nato in Costa d’Avorio, da padre proveniente dalla Guinea Conakry e da madre di origini maliane. All’esito di un’accurata ricostruzione della legislazione dei Paesi coinvolti in materia di acquisto della cittadinanza, il Collegio partenopeo ha affermato che il ricorrente doveva ritenersi apolide e le gravi discriminazioni cui sarebbe esposto, in quanto apolide, in caso di rientro in Costa D’Avorio, giustificavano il riconoscimento della protezione maggiore.
Opinioni politiche
Il Tribunale di Torino, con decreto del 19.12.2024 , si è pronunciato sulla domanda di protezione spiegata da un cittadino pakistano, il quale aveva riferito di essere stato costretto a fuggire per motivi politici, in particolare per essersi battuto, in Patria, per la liberazione del Kashmir e per aver aderito al partito Jammu & Kasmir Liberation Front (JKLF). Il Collegio, ritenute credibili le dichiarazioni del ricorrente, anche alla luce dell’esame delle specifiche fonti di informazione relative al trattamento dei membri del partito JKLF in territorio pakistano, ha ritenuto ragionevolmente fondato il timore espresso di subire atti qualificabili come persecuzione da parte delle forze dell’ordine a causa del suo impegno politico tra le fila del predetto partito ed ha ravvisato, pertanto, la sussistenza di un rischio di persecuzione per motivi politici, tale da giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato.
PROTEZIONE SUSSIDIARIA
Grave danno, ex art. 14, lett. a) d.lgs. n. 251 del 2007
Il Tribunale di Torino, con decreto dell’8.11.2024 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria, ex art. 14, lett. a) d.gs. n. 251 del 2007, ad un cittadino indiano in ragione del rischio che lo stesso, in caso di ritorno in India, venisse sottoposto alla pena di morte per reati connessi agli stupefacenti. Nella decisione in esame, il Collegio ha affermato che la circostanza che il richiedente sia indagato anche per reati punibili nel massimo con la pena capitale è di per sé sola sufficiente ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria ed ha richiamato i principi affermati dalla Suprema Corte, in forza dei quali l’eventuale messa in esecuzione di un ordine di espulsione di uno straniero verso il Paese di appartenenza può costituire violazione dell’art. 3 CEDU, relativo al divieto di tortura, quando vi sono circostanze serie e comprovate che depongono per un rischio reale che lo straniero subisca in quel Paese trattamenti contrari proprio all’art. 3 della Convenzione (Cass. n. 1033 del 17.1.2020, rv. 656757).
Di particolare rilievo quanto affermato dal Tribunale in merito alle cause di esclusione. Dopo aver ribadito che, nell’accertamento della sussistenza della causa di esclusione, l’onere della prova grava sull’autorità dello Stato che voglia far valere l’esclusione (principio da tempo affermato dalla Suprema Corte, cfr. Cass. 25596/2021), il Collegio ha precisato che la normativa impone al giudice una valutazione autonoma che si dia carico di affrontare anche le deduzioni del richiedente, dal momento che le cause di esclusione vanno accertate con rigore e con onere della prova a carico dello Stato. È stato altresì ribadito che integrerebbe una erronea applicazione della norma il mero rilievo attribuito alla sentenza straniera, senza alcun esame della concreta portata della decisione e senza una puntuale considerazione delle specifiche circostanze, dedotte dal ricorrente, sull’essere stata la sentenza, da lui stesso prodotta, il frutto di una macchinazione per ragioni religiose ai suoi danni. Devono pertanto ritenersi irrilevanti, ha così precisato il Tribunale, la mera esistenza di un mandato di cattura e la pendenza di un procedimento penale a carico del richiedente, in quanto il dettato normativo come detto richiede che la clausola di esclusione possa essere applicata soltanto laddove sussistano “fondati motivi” per ritenere che lo straniero abbia effettivamente “commesso” dei reati. In forza di tali elementi, esaminate le prove indicate dalla Commissione territoriale (dichiarazione dei correi, dichiarazioni di cinque testimoni e affidavit del Governo indiano), il Tribunale, ritenuto che gli elementi di prova raccolti costituiscano dei meri “spunti investigativi” per l’avvio di un’indagine penale, senza che possa dirsi in alcun modo integrato lo standard probatorio minimo dei “fondati motivi per ritenere” commesso il reato richiesti dall’art. 16 d.lgs. n. 251/07, ha escluso la sussistenza della causa di esclusione.
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. b)
Il Tribunale di Perugia, con decreto del 15.11.2024 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria, ex art. 14, lett. b), d.lgs. n. 251 del 2007, in favore di una donna proveniente dalla Costa D’Avorio, già sottoposta, nel Paese d’origine a mutilazioni genitali femminili. Nella decisione in esame, il Collegio ha ritenuto plausibile che la ricorrente, laddove rimpatriata in Costa d’Avorio, in una condizione di evidente vulnerabilità rappresentata dall’aver già subito atti di violenza gravemente lesivi della sua incolumità fisica ed integrità morale, potrebbe essere immessa in contesto connotato ancora da diffuse violazione dei diritti fondamentali delle donne ed esposta a trattamenti inumani e degradanti sia da parte del padre, sia del contesto comunitario e sociale non adeguatamente controllati dalle autorità statuali.
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. c)
Il Tribunale di Napoli, con decreto dell’8.1.2025 , nell’esaminare la domanda di protezione spiegata da una donna ucraina, alla luce della mutata situazione dell’Ucraina e delle informazioni recenti riguardanti la situazione della sicurezza, come emerge dalle fonti internazionali consultate nell’esercizio dei poteri di ufficio, ha ritenuto ex nunc fondata la richiesta di riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14 lett. c) d.lgs. 251/07, in quanto il Paese attualmente versa in una situazione di violenza indiscriminata derivante da situazioni di conflitto armato internazionale. In particolare, i giudici partenopei hanno osservato che l’espandersi della situazione di violenza indiscriminata in tutto il Paese, da interpretarsi alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza europea (sentenza CGUE Grande sezione del 17 febbraio 2009 nel procedimento C-465/07, caso Elgafaji), porti a ritenere sussistente un rischio effettivo di subire un danno grave nella forma di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla sua persona, cui sono esposti i civili per la sola presenza nel Paese.
QUESTIONI PROCEDURALI E PROCESSUALI
Sindacato del giudice sulla designazione di un Paese di origine come sicuro
Cass. 19.12.2024 n. 33398 – pronunciandosi sul rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. con cui il Tribunale di Roma ha sottoposto alla Corte di cassazione la questione circa l’ambito e l’ampiezza del sindacato del giudice sulla designazione di un Paese di origine come sicuro per effetto del decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, in data 7 maggio 2024 (Aggiornamento della lista dei Paesi di origine sicuri prevista dall’articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 105 del 7 maggio 2024 – ha affermato il seguente principio di diritto: «Nell’ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024, n. 158, e alla legge 9 dicembre 2024, n. 187, se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di richiedente proveniente da Paese designato come sicuro, il giudice ordinario, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc, può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all’art. 37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in via incidentale, in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei Paesi di origine sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall’autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale. Inoltre, a garanzia dell’effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l’istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l’insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. In quest’ultimo caso, pertanto, la valutazione governativa circa la natura sicura del Paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale».
La Prima Sezione civile, dopo aver precisato che l’indicazione di un Paese quale sicuro, se consente di realizzare una più efficiente dismissione di domande di protezione internazionale, considerate ex ante strumentali, può comportare una rimodulazione in senso riduttivo delle garanzie individuali, ha affermato che il decreto ministeriale che individua i Paesi di origine sicuri non è un atto politico, un atto fuori dal diritto e dalla giurisdizione, perché deriva dalla applicazione dei criteri individuati dagli artt. 36 e 37 e dall’allegato I della direttiva 2023/32/UE e dall’art. 2-bis del d.lgs. n. 25 del 2008. In particolare, è stato precisato che l’esistenza di una dettagliata disciplina (procedurale e sostanziale) applicabile al relativo potere amministrativo implica che il rispetto di tali requisiti e criteri è suscettibile di verifica in sede giurisdizionale e che, in presenza di un riferimento normativo il sindacato giurisdizionale «diviene doveroso, proprio perché la giustiziabilità dell’atto dipende dalla regolamentazione sostanziale del potere».
Con riferimento ai limiti tra potere dell’autorità governativa e sindacato giurisdizionale, è stato affermato che il giudice non si sostituisce all’autorità governativa sconfinando nel fondo di una valutazione discrezionale a questa riservata, ma ha il potere-dovere di esercitare il sindacato di legittimità del decreto ministeriale, nella parte in cui inserisce un certo Paese di origine tra quelli sicuri, ove esso chiaramente contrasti con la normativa europea e nazionale vigente in materia, anche tenendo conto di informazioni sui Paesi di origine aggiornate al momento della decisione, secondo i principi in tema di cooperazione istruttoria. È stato altresì precisato che l’ammissibilità del sindacato è una soluzione che discende de plano dalla sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 4 ottobre 2024: la designazione di un Paese terzo come Paese di origine sicuro, infatti, rientra negli aspetti procedurali della domanda di protezione internazionale, in quanto siffatta valutazione è suscettibile di comportare ripercussioni sull’accoglimento della richiesta.
Nella pronuncia in esame, viene compiuta un’ulteriore precisazione, necessaria in ragione della specificità del diritto invocato (il diritto alla protezione internazionale). In particolare, la Suprema Corte ha affermato che, laddove, nella fase giurisdizionale conseguente all’impugnazione del diniego della protezione internazionale, con riguardo alla situazione personale del singolo, vengano allegate ragioni di carattere individuale che depongano per una situazione di insicurezza che caratterizza il singolo richiedente, in tale evenienza, non si pone più un problema di rilevanza, e di conseguente disapplicazione, della valutazione governativa, dovendo il giudice procedere, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, all’accertamento della condizione soggettiva del richiedente, tale da integrare i gravi motivi.
Sospensione dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti emessi nei confronti dei cittadini provenienti da Paesi designati di origine sicura
Con decreto del 21.11.2024 , il Tribunale di Catania – nell’esaminare l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento con cui la Commissione territoriale, a seguito di procedura accelerata, ex art. 28-bis del d.lgs. n. 25 del 2008, aveva rigettato, per manifesta infondatezza, la domanda di protezione internazionale spiegata da un cittadino del Bangladesh, in quanto proveniente da un Paese designato di origine sicura – si è soffermato sui presupposti per l’accoglimento dell’istanza. In primo luogo, il Collegio ha osservato che la scelta procedurale operata dalla Commissione territoriale e la conseguente decisione negativa qualificata da manifesta infondatezza, trovano, nel caso in esame, il loro unico presupposto nella provenienza del richiedente da Paese sicuro del quale ha la cittadinanza. Richiamando i principi affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, nella sentenza del 4 ottobre 2024 della Grande Camera, nel procedimento C-406/2022, e, in particolare, il principio in forza del quale il giudice ha l’obbligo di verificare, anche d’ufficio, quantomeno la compatibilità della designazione con le condizioni stabilite dalla direttiva Procedure, il Tribunale ha affermato che la normativa europea in esame è una norma ad efficacia diretta.
Tanto premesso, con specifico riferimento alla scheda governativa relativa al Bangladesh, si è rilevato come dalla stessa emerga la presenza di sette gruppi di persone a rischio, per i quali quindi non può operare la presunzione di sicurezza («I casi in cui si riscontra un effettivo bisogno di protezione internazionale sono principalmente legati all’appartenenza alla comunità LGBTQI+, alle vittime di violenza di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili, alle minoranze etniche e religiose, alle persone accusate di crimini di natura politica e ai condannati a morte. Si segnala anche il crescente fenomeno degli sfollati “climatici”, costretti ad abbandonare le proprie case a seguito di eventi climatici estremi.»). Tali eccezioni, ad avviso del Tribunale catanese, evidenziano l’esistenza in Bangladesh di gravi violazioni dei diritti umani, che, ad avviso del Collegio, rivelano «la mancanza, allo stato, di quelle garanzie minime che consentono di ritenere effettivo il sistema di ricorsi contro le violazioni dei diritti e libertà» ed integrano rischi di insicurezza, che riguardando, in maniera stabile ed ordinaria, intere ed indeterminate categorie di persone, e che portano de plano il decidente ad escludere che il Bangladesh possa ritersi Paese sicuro alla luce del diritto dell’Unione europea, e ciò per quanto si legge nelle argomentazioni della citata sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 4 ottobre 2024, laddove in motivazione richiede che il Paese (per dirsi sicuro) sia caratterizzato da una situazione “generale e costante di sicurezza”. Difettando i presupposti che hanno giustificato la scelta procedurale operata dalla Commissione territoriale e la conseguente decisione di manifesta infondatezza dell’istanza di protezione internazionale, il Tribunale ha rilevato l’applicabilità della regola generale dell’automatica sospensione degli effetti esecutivi del provvedimento impugnato (ancora con riferimento ad un caso di sospensione degli effetti esecutivi di una decisione di manifesta infondatezza adottata nei confronti di un cittadino del Bangladesh, per ragioni simili a quelle appena esaminate, cfr. Tribunale di Catania, decreto del 17.10.2024 .
I principi affermati dalla Corte di giustizia nella richiamata sentenza del 4.10.2024 e la necessità che il giudice valuti il rispetto delle condizioni sostanziali di cui all’Allegato I della direttiva 2013/32/UE sono alla base delle decisioni di accoglimento delle istanze di sospensiva, adottate dal Tribunale di Milano – decreto del 9.1.2025 – e del Tribunale di Trieste – decreto del 22.11.2024 , all’esito di un attento esame delle indicazioni contenute nelle c.d. schede Paese di origine dei ricorrenti.
A medesime conclusioni, con riferimento all’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento di manifesta infondatezza adottato nei confronti di un ricorrente proveniente dal Perù, è giunto anche il Tribunale di Roma – decreto del 9.10.2024 – dopo aver osservato che in base alla direttiva 2013/32, così come interpretata dalla sentenza della Corte di giustizia del 4.10.2024, se vi siano esclusioni di parti di territorio o di categorie di persone il Paese non possa essere designato come sicuro.
Provvedimenti di manifesta infondatezza all’esito delle procedure accelerate e di inammissibilità di domanda reiterate e sospensione automatica dell’efficacia degli stessi
Il Tribunale di Bologna, con decreto del 21.11.2024 , si è pronunciato sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento di manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 28-ter, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 25/2008, adottato nei confronti di un ricorrente che proveniva da un Paese designato di origine sicura. Nella decisione in esame, il Collegio, dopo aver richiamato i principi affermati nella sentenza n. 11399/2024 delle Sezioni Unite, ha ribadito la necessità della correttezza dell’iter della procedura accelerata in tutte le sue articolazioni procedimentali, con l’effetto che la deroga ad ogni articolazione della procedura accelerata comporta sospensione automatica (con particolare riferimento per l’ipotesi di superamento dei termini della procedura). Nel caso portato all’attenzione dei giudici bolognesi, la domanda era stata proposta in data 10 maggio 2024 (data di acquisizione del passaporto) mentre la decisione era stata adottata in data 28 maggio 2024 e quindi oltre il termine di complessivi 9 giorni dalla trasmissione della domanda da parte della questura alla Commissione territoriale. Per tali ragioni, il Tribunale, considerato che dalla documentazione prodotta non risultava la data della trasmissione alla Commissione territoriale e che la questura doveva provvedervi senza ritardo, si è ritenuto che l’invio telematico della domanda alla Commissione debba avvenire “quanto prima” dopo la formalizzazione della domanda, ossia entro lo stesso giorno, salvo comprovata impossibilità. Rilevato che il mancato rispetto dei termini comporta sospensione automatica, il Tribunale ha dichiarato il provvedimento impugnato automaticamente sospeso per effetto della proposizione del ricorso.
Il Tribunale di Roma, con decreto del 21.10.2024 , si è pronunciato sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento di inammissibilità adottato nei confronti di un ricorrente che aveva proposto una domanda reiterata. Nella decisione in esame, il Collegio, dopo aver ricordato i principi affermati nella sentenza n. 11399 del 2024 delle Sezioni Unite, ha richiamato la motivazione della citata pronuncia, per chiarire come la Corte si sia chiaramente riferita a tutte le ipotesi di manifesta infondatezza e di inammissibilità (come peraltro richiesto espressamente dalla Procura generale nelle sue conclusioni richiamate nella sentenza), evidenziando in modo chiaro al § § 33 che «deve essere quindi ritenuto che, al fine di poter ritenere derogato il principio generale di sospensione del provvedimento della Commissione, principio, ricordiamolo, posto a presidio della effettività delle tutele riconosciute per la protezione internazionale, deve essere stata svolta e rigorosamente osservata la procedura accelerata, con i termini suoi propri nei casi, espressamente previsti, di manifesta infondatezza (o inammissibilità)». Da tali premesse, il Tribunale ha tratto la conseguenza che per tutte le ipotesi di manifesta infondatezza e di inammissibilità, anche in relazione alle domande reiterate, vale la regola della sospensione automatica qualora non sia stata seguita una corretta procedura accelerata.
A medesime conclusioni giunge anche il Tribunale di Trieste – decreto del 9.12.2024 – che, nell’esaminare l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento di manifesta infondatezza adottato, in violazione dei termini della procedura accelerata, nei confronti di un ricorrente non proveniente da un Paese di origine sicura, ha affermato che è necessario estendere il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 11399 del 2024 a tutte le ipotesi di declaratoria di manifesta infondatezza, siano esse motivate dalla provenienza da Paese di origine sicuro, ovvero da una delle altre ragioni indicate dall’art. 28-ter del d.lgs. n. 25 del 2008.
Domande reiterate
Il Tribunale di Firenze, con decreto del 2.10.2024 , nel pronunciarsi sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento di inammissibilità di una domanda reiterata, ha precisato che la definizione di domanda reiterata (art. 2, co. 1, b-bis, d.lgs. n. 25 del 2008) presuppone la permanenza sul territorio del richiedente asilo, sottolineando come la collocazione delle relative disposizioni all’interno dell’impianto normativo e la loro ricostruzione sistematica mostrano come ratio e finalità quella di tutelare l’eventuale successivo insorgere di esigenze di protezione sur place. Il Collegio, alla luce di un’interpretazione sistematica della norma con le altre disposizioni unionali in materia di protezione internazionale (e, in particolare, l’art. 19, “Cessazione delle competenze” - Regolamento (UE) n. 604/2013, in materia di determinazione dello Stato membro competente all’esame della domanda di protezione internazionale) ha affermato che, se ai fini dell’applicazione del reg. n. 604/2013 la domanda presentata successivamente ad un periodo di assenza dal territorio unionale sia considerata “nuova”, ugualmente la stessa non può essere classificata “reiterata” ai fini dell’applicazione della normativa in materia di procedura accelerata. Nel caso portato all’attenzione del Collegio, l’allontanamento dal territorio italiano del ricorrente, e a maggior ragione il rientro nel Paese di origine per un periodo di quasi due anni, ha portato il Tribunale ad escludere che la domanda di protezione internazionale dallo stesso proposta potesse essere considerata una domanda reiterata, con la conseguenza che la stessa dovesse essere valutata come nuova domanda, escludendosi dunque la possibilità di applicazione della procedura accelerata ai sensi dell’art. 29, co. 1, lett. b), e 28-bis, co. 1 lett. a), del citato d.lgs. n. 25 del 2008.
Cooperazione istruttoria
Con riferimento al contenuto del dovere di cooperazione istruttoria, Cass. n. 29455 del 14.11.2024 ha affermato che i doveri di cooperazione e integrazione istruttoria, di cui agli artt. 8, comma 3, e 27, comma 1-bis, d.lgs. n. 25 del 2008, postulano il puntuale assolvimento dell’onere di allegazione e prova da parte del richiedente asilo, cosicché, in presenza di allegazioni o produzioni generiche, il giudice non è tenuto ad adottare d’ufficio alcuna iniziativa per supplire a carenze istruttorie circa la situazione personale del richiedente, non avendo a disposizione gli elementi indispensabili per orientare utilmente la propria ricerca. Nel caso portato all’attenzione della Suprema Corte, il richiedente si era limitato a produrre un articolo di giornale riguardante l’omicidio di una persona «non meglio identificata», indicata come «lo zio e colui che lo avrebbe aiutato a fuggire». A fronte di tale allegazione, è stato affermato che correttamente il giudice di merito non ha assunto l’iniziativa di verificare una notizia di stampa riguardante una persona di identità sconosciuta con cui il migrante non aveva dimostrato, in violazione dell’obbligo previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 252 del 2007, di avere un legame parentale (ciò malgrado l’assenza in Pakistan, stando a quanto acclarato dal Tribunale, di “difficoltà strutturali” in termini di accesso in genere agli atti pubblici giudiziari o amministrativi).
Decorrenza del termine per proporre ricorso in Cassazione
Cass. 22.11.2024 n. 30185 ha ribadito che il termine per proporre ricorso per Cassazione nelle controversie in materia di protezione internazionale, ex art. 35-bis, comma 13, del d.lgs. n. 25 del 2008, nel testo vigente ratione temporis, è di trenta giorni decorrente dalla comunicazione del decreto impugnato a cura della Cancelleria. Nella pronuncia in esame, la Suprema Corte ha poi riaffermato che è stato ritenuto inammissibile il ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. avverso il decreto del Tribunale che rigetti l’impugnazione contro il provvedimento di diniego della richiesta di protezione internazionale, in quanto avverso il predetto decreto è espressamente prevista la possibilità di ricorso – ordinario – per Cassazione ai sensi del citato art. 35-bis, comma 13, il che esclude la carenza di tutela che legittima il ricorso al mezzo di impugnazione straordinario, dovendo ulteriormente rilevarsi che il rigetto della domanda di protezione internazionale, nelle sue diverse declinazioni, non è configurabile come provvedimento limitativo della libertà personale e di altri diritti fondamentali dello straniero.
REGOLAMENTO DUBLINO n. 604/2013
Clausola discrezionale ex art. 17 reg. n. 604/2013 e sindacato giurisdizionale
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno emesso, il 15 gennaio 2025, la sentenza n. 935/2025 , pronunciandosi su una questione – le facoltà inerenti la clausola discrezionale di cui all’art. 17 reg. n. 604/2013 con particolare riguardo al rischio di refoulement diretto o indiretto – per la quale la Presidente della 1^ sezione aveva rimesso alle Sezioni Unite, ex art. 374 c.p.c., per il particolare rilievo nomofilattico anche dopo la decisione della Corte di giustizia 23.11.2023, cause riunite C-228/21, C-254/21, C-297/21, C-315/21 e C-328/21 (si veda in Rassegna n. 1.2024) e «in particolare, anche dopo la risposta al quesito n. 3 in questo senso: «L’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento n. 604/2013, in combinato disposto con l’articolo 27 di tale regolamento nonché con gli articoli 4, 19 e 47 della Carta dei diritti fondamentali, deve essere interpretato nel senso che esso non impone al giudice dello Stato membro richiedente di dichiarare tale Stato membro competente qualora non condivida la valutazione dello Stato membro richiesto quanto al rischio di refoulement dell’interessato. In assenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale nello Stato membro richiesto in occasione del trasferimento o in conseguenza di esso, il giudice dello Stato membro richiedente non può neppure obbligare quest’ultimo Stato membro a esaminare esso stesso una domanda di protezione internazionale sul fondamento dell’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento n. 604/2013 per il motivo che esiste, secondo tale giudice, un rischio di violazione del principio di non-refoulement nello Stato membro richiesto.».
Giudizio che ha riguardato il ricorso proposto dal Ministero dell’interno avverso il decreto con cui, nel 2020, il Tribunale di Firenze aveva annullato la decisione dell’Unità Dublino di rinvio di richiedente asilo pakistano in Austria (dove gli era già stata negata la protezione internazionale), da cui rischiava di essere rinviato in Pakistan in un’area in cui poteva subire trattamenti inumani e degradanti.
Nel giudizio rimesso alle Sezioni Unite si trattava, dunque, di esaminare il perimetro dei poteri esercitabili dall’autorità giudiziaria con riguardo alla clausola discrezionale qualora ritenga motivatamente che nel Paese di rinvio non vi sia protezione dal rischio di refoulement diretto o indiretto. Nello specifico, l’ordinanza interlocutoria aveva posto i seguenti quesiti:
«I) «Il complesso sistema di protezione nazionale interno, fondato, come ampiamente illustrato, sulla necessità di portare a compimento l’attuazione del diritto d’asilo costituzionale, essendo insufficiente al riguardo il sistema di protezione internazionale euro-unitario, può essere qualificato come una modalità di esercizio della clausola discrezionale, così da ritenere che la decisione di trasferimento da parte dell’autorità statale che ha la facoltà di applicare la clausola di sovranità, evidenzi un rifiuto tacito di avvalersene e ne consenta la sindacabilità, così come in concreto effettuato dal giudice del merito nella decisione di annullamento?».
II) «La deroga ai principi generali di determinazione della competenza di uno Stato membro ex reg. UE n. 604 del 2013, desumibile dal combinato disposto dell’art. 3 del reg. UE n. 604 del 2013 e dell’art.4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE anche alla luce della risposta al quesito n. 2 da parte della Corte di giustizia nella sentenza del 30 novembre 2023, può condurre a verificare non la necessità di procedere a una comparazione tra i due Stati (il richiedente, nella fattispecie l’Italia ed il richiesto ovvero quello di ripresa in carico) sulla valutazione del rischio di non refoulement indiretto dovuta al pericolo di rimpatrio conseguente al rigetto della domanda di protezione internazionale, ma la legittimità dell’interferenza del nostro sistema di rango costituzionale di protezione nazionale con la decisione di trasferimento, sulla base di un’indagine caso per caso o per determinate categorie di persone, tenuto conto della riconducibilità della vulnerabilità giuridicamente qualificata, cui si esporrebbe il richiedente in caso di rimpatrio coattivo verso il Paese terzo, all’interno delle ipotesi tutelate dal nostro sistema di protezione nazionale?».
Per rispondere a essi la sentenza n. 935/2025, qui rassegnata, muove dalla ricostruzione del quadro normativo europeo e dei principi che disciplinano il regolamento cd. Dublino, richiamando i principi espressi dalla Corte di giustizia, ovverosia il principio della fiducia reciproca, la facoltà per lo Stato membro di esercitare la clausola discrezionale di cui all’art. 17 reg. n. 604/2013, l’inesistenza di un obbligo per l’autorità giudiziaria «di dichiararne la competenza allorché non condivida la valutazione dello Stato membro richiesto quanto al rischio di refoulement dell'interessato», l’eccezionalità dell’esclusione del trasferimento verso lo Stato competente, sussistente solo in presenza di carenze sistemiche nella procedura d’asilo o nel sistema di accoglienza tali da esporre il richiedente asilo al rischio di trattamenti inumani e degradanti. Secondo le Sezioni Unite «14.3. Il dictum della Corte europea è inequivoco nel negare ai giudici degli Stati membri il potere di sindacare l’esercizio della clausola discrezionale di cui all’art.17 del regolamento Dublino III da parte dell’autorità competente del loro Stato allo scopo di tutelare il richiedente asilo dal rischio di refoulement indiretto, in assenza di carenze sistemiche della procedura di asilo e delle condizioni di accoglienza nel Paese altrimenti ordinariamente competente, sul presupposto di una diversa valutazione dei rischi connessi al rimpatrio nel Paese di provenienza.», confermato anche dalla giurisprudenza della stessa Cassazione (n. 23724 e 23727 del 2020). Ha, tuttavia, precisato che «14.4. In sostanza, già questa Corte, prima dell’intervento chiarificatore della Corte di giustizia, aveva affermato che l’esaurimento della procedura di riconoscimento della protezione internazionale non comporta affatto in via automatica la disapplicazione del principio di non refoulement e della tutela da esso accordata in sede di espulsione contro il rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o a trattamenti inumani e degradanti; non solo lo Stato italiano, ma ogni altro Stato membro, è tenuto al rispetto di tali principi nell’applicazione del diritto dell’Unione, quale è il Regolamento 604/2013.».
Muovendo dall’accentuazione del principio di reciproca fiducia tra gli Stati membri dell’Unione europea, le Sezioni Unite escludono che l’autorità giudiziaria possa annullare la decisione di rinvio cd. Dublino verso uno Stato membro se ritenga vi sia il rischio di violazione del divieto di refoulement, potendo solo verificare se in quello Stato membro vi siano carenze sistemiche nella procedura d’asilo e/o nel sistema di accoglienza tali da esporre il richiedente al rischio di trattamenti inumani e degradanti. All’esito del giudizio su cui la Corte era chiamata a decidere, accoglie dunque il ricorso del Ministero dell’interno e rinvia al Tribunale di Firenze per un nuovo esame del caso, non essendo «ipotizzabile nel presente procedimento l’alternativa della cassazione senza rinvio della pronuncia impugnata e tantomeno di una decisione di questa Corte nel merito del ricorso, che necessita di ulteriori accertamenti in fatto, non eseguiti dal Tribunale gigliato.».
Ed è questo un passaggio particolarmente significativo della sentenza n. 935/2025, in quanto gli “ulteriori accertamenti” riguardano un segmento integrativo di quella che potrebbe essere la nuova decisione di merito, di eventuale riconoscimento della protezione complementare, all’epoca non considerata dal giudice fiorentino. Questione oggetto del 2^ quesito dell’ordinanza interlocutoria, che ipotizza che detto riconoscimento possa avvenire anche ex officio e su cui le Sezioni Unite si soffermano.
Al riguardo, la sentenza n. 935 afferma che, pur relativo a un unitario procedimento, il ricorso avverso la decisione cd. Dublino è autonomo rispetto a quello della protezione internazionale e pertanto in entrambi il richiedente asilo deve allegare i fatti e, richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia, ritiene che «il ricorso previsto dall’art.27 [ndr: del reg. n. 604/2013] deve essere effettivo, deve vertere sia sulle questioni di diritto sia sulle questioni di fatto e non soffre alcun limite contenutistico circa gli argomenti che il richiedente asilo può dedurre nel contesto del suo ricorso. Possono pertanto, avere ingresso anche censure volte a dedurre violazioni dei suoi diritti diverse dal rischio di trattamenti inumani e degradanti che conseguano alle carenze sistemiche previste dall’articolo 3.2 del regolamento.».
Dunque, non c’è alcun limite alle deduzioni di questioni in fatto e in diritto nel giudizio “Dublino” e pertanto la Corte di cassazione si pone il tema dei limiti del sindacato giurisdizionale in merito all’art. 17 del regolamento n. 604, effettuando un’ampia ricostruzione della giurisprudenza su di esso della Corte di giustizia e, richiamando una recente pronuncia (sentenza 16.2.2023, causa C-745/21, L.G.), afferma che è rimesso al giudice nazionale verificare se il mancato esercizio (facoltativo, secondo il diritto europeo) della clausola discrezionale abbia violato, nel singolo caso, il diritto nazionale («Con specifico riferimento alla questione relativa alla possibilità che l’esercizio della clausola discrezionale, puramente facoltativo nel sistema Dublino III, assuma caratteristiche diverse in ragione delle specificità del singolo ordinamento nazionale, la Corte ha affermato che spetta al giudice nazionale esaminare se le «autorità nazionali competenti abbiano violato il diritto nazionale respingendo la domanda di protezione internazionale presentata dalla ricorrente nel procedimento principale, benché quest’ultima fosse in stato di gravidanza al momento della presentazione di tale domanda» (§ 53).»).
Neppure la sentenza della CGUE del novembre 2023 esclude analoga facoltà per il giudice nazionale (cfr. p. 42 della sentenza in Rassegna).
Proseguendo nell’individuazione dei limiti del sindacato giurisdizionale, le Sezioni Unite richiamano un’altra pronuncia della Corte di giustizia (causa C-359/22, AHY del 18.4.2024), che ha escluso che la clausola discrezionale di cui all’art. 17 reg. n. 604 possa essere equiparata agli ordinari criteri di determinazione della competenza all’esame della domanda di protezione e dunque non può essere considerata equivalente a una decisione di trasferimento, con la conseguenza che solo il diritto interno può determinare se il mancato esercizio della clausola discrezionale possa essere oggetto di ricorso.
Dopo ampi e articolati richiami alla giurisprudenza unionale e precisato (ancora una volta) che la protezione speciale, e prima quella denominata umanitaria, completa il sistema costituzionale d’asilo, le Sezioni Unite hanno ritenuto di non poter rispondere al 2^ quesito posto dall’ordinanza interlocutoria poiché nel ricorso oggetto di scrutinio la protezione complementare, prevista dall’ordinamento interno, non è mai entrata nel giudizio, né come allegazioni del richiedente asilo, né come valutazione ex officio del giudice. A significare che se essa fosse introdotta nel giudizio di merito, avrebbe un autonomo spazio rispetto al diritto europeo.
Questione che, dunque, rimane aperta, pur le chiare declinazioni offerte dalla stessa sentenza, e l’unico principio di diritto espresso dalla sentenza n. 935/2025 è il seguente:
«Nel procedimento di impugnazione delle decisioni di trasferimento dei richiedenti asilo ex art. 27 del regolamento UE n. 604 del 26.6.2013, nonché ex art. 3 del d.lgs. 28.1.2008 n.25, e s.m.i. e ex art. 3, lettera e-bis del d.l. 17.2.2017 n. 13, convertito con modifiche in legge 13.4.2017 n. 46, il giudice adito non può esaminare se sussista un rischio, nello Stato membro richiesto, di una violazione del principio di non-refoulement al quale il richiedente protezione internazionale sarebbe esposto a seguito del suo trasferimento verso tale Stato membro, o in conseguenza di questo, sulla base di divergenze di opinioni in relazione all’interpretazione dei presupposti sostanziali della protezione internazionale, a meno che non constati l’esistenza, nello Stato membro richiesto, di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale.».
Clausola discrezionale, sindacato giurisdizionale, protezione speciale
L’ ordinanza 23.12.2024, RG. 6853/2023, del Tribunale di Torino anticipa e per certi versi “supera”, sostanzialmente, la sentenza delle Sezioni Unite sopra rassegnata, poiché nel decidere su un ricorso “Dublino” (decisione di rinvio di richiedente asilo verso l’Austria) si interroga sui poteri del sindacato giurisdizionale sull’applicazione della clausola discrezionale, di cui all’art. 17 reg. n. 604/2013 e nello specifico se possa il giudice applicarla alla luce del diritto nazionale e, in particolare, in relazione all’art. 19, commi 1 e 1.1. TU d.lgs. 286/98.
L’ordinanza muove il ragionamento a partire dalla sentenza 30.11.2023 della Corte di giustizia che, con riguardo all’art. 17 del regolamento Dublino, ha affermato che esso “non impone” al giudice di applicarla per evitare il rischio di refoulement nel Paese di rinvio, mentre lo consente nel caso in cui in esso siano accertate carenze sistemiche nella procedura di esame dell’asilo o nel sistema di accoglienza. Secondo il Tribunale piemontese, il “non obbligo” non equivale a un divieto bensì a una facoltà del giudice, da esercitarsi alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza europea, di cui fa ampi richiami (CGUE sentenza MA, sul principio del diritto a un ricorso effettivo ex art. 27, par. 1 reg. n. 604 e CGUE sentenza LG, 16.2.2023 causa C-745/21, sulla decisione di rinvio che viola il diritto nazionale). Tanto precisato, l’ordinanza affronta il tema delle «interferenze tra il “procedimento Dublino” e quello per il riconoscimento della protezione (internazionale e nazionale) e la situazione giuridica soggettiva del richiedente o protezione nel “procedimento Dublino” e nel procedimento per il riconoscimento della protezione.», richiamando la giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha definito unitario l’intero procedimento di protezione internazionale, comprensivo anche della fase “Dublino” e affermato che nel giudizio di quest’ultimo devono essere valutate non solo le condizioni del Paese di rinvio ma anche se il trasferimento esponga il richiedente a un rischio reale di trattamenti inumani o degradanti (Cass. 8044/2018). Nel contempo, richiama la Cassazione che ha ricompreso la protezione speciale, di cui all’art. 19 TU d.lgs. 286/98, tra i diritti attuativi dell’asilo costituzionale ex art. 10, co. 3 Cost. (Cass. SU n. 29459/2019, SU n. 24413/2021).
«La rassegna delle decisioni della Corte di cassazione a Sezioni Unite porta dunque a concludere che il giudice del procedimento “Dublino” si confronta, in una fase incidentale del processo per il riconoscimento della protezione internazionale e nazionale, con diritti soggettivi fondamentali della persona e che la consistenza di diritto soggettivo fondamentale appartiene tanto alla situazione giuridica soggettiva che è tutelata dalle norme internazionali sullo status di rifugiato e dal Sistema Comune Europeo dell’Asilo quanto a quella riconosciuta dalle norme nazionali sulla protezione complementare.» e dunque «Il giudice cui si rivolga il cittadino di un Paese terzo contro un ordine di trasferimento è dunque chiamato a verificare non solo che siano state rispettate le regole di competenza stabilite dal regolamento ma anche che non sia occorsa la violazione di un diritto soggettivo fondamentale della persona.».
Verifica della lesione di diritti fondamentali che il Tribunale svolge, in aderenza ai principi giurisdizionali europei (CGUE NS, cause C-411/10 e C-493/10), innanzitutto considerando il tempo di attesa del richiedente asilo per la definizione del procedimento Dublino e dunque per la certezza della propria condizione, che il giudice ritiene irragionevole a causa della sospensione forzosa che i giudizi “Dublino” hanno avuto nell’attesa che sulla clausola discrezionale si pronunciasse la Corte di giustizia (ciò che, è noto, è avvenuto il 30.11.2023). Il Tribunale, però, non si ferma a questa qualificazione di irragionevolezza del termine, che di per sé avrebbe reso possibile l’applicazione giurisdizionale dell’art. 17 reg. Dublino, ma compie un ulteriore passaggio motivazionale di straordinaria importanza, affermando che «il tempo è un fattore rilevante anche per il riconoscimento della protezione nazionale: l’articolo 19.1. l. del d.lgs. 286/1998 (nella versione applicabile al caso esaminato dal Tribunale) stabilisce che, nel riconoscere la protezione speciale, lo Stato debba tenere conto della durata del soggiorno nel territorio nazionale della persona.» e precisa che «La durata del soggiorno è dunque un fatto sopravvenuto che l’Amministrazione dovrebbe tenere in considerazione per riconoscere, ove ne ricorrano i presupposti, la protezione speciale, con ricorso alla clausola discrezionale».
Rapportati tutti i principi enucleati nell’ordinanza e verificata la condizione del richiedente asilo destinatario di una decisione di rinvio in Austria (in Italia da due anni, con un rapporto di lavoro stabile, vittima di un gesto di autolesionismo per il timore del rimpatrio) il Tribunale torinese annulla, dunque, la decisione dell’Unità Dublino.
Il termine ragionevole di trasferimento
Il Tribunale di Roma, decreto 23.12.2024, RG. 29383/2022 , ha annullato un provvedimento dell’Unità Dublino di rinvio in Croazia di richiedente asilo del Bangladesh, impugnato sotto svariati profili tra i quali il mancato esercizio della clausola discrezionale di cui all’art. 17 reg. n. 604/2013, dando rilievo, pregiudizialmente, al tempo decorso tra la decisione di rinvio (2022) e l’attesa che sulla clausola discrezionale si pronunciasse la Corte di giustizia dell’Unione europea, avvenuto con la sentenza 30.11.2023 (cause riunite C-228/21, C-254/21, C-297/21, C-315/21 e C-328/21) e la decisione sul ricorso (2024). Il giudice romano ha effettuato puntuale ricostruzione delle disposizioni del regolamento Dublino che impongono il rispetto di determinati termini, sia per la richiesta di presa o ripresa in carico del richiedente asilo spostatosi dal Paese di primo arrivo, sia di quelli per effettuare materialmente il trasferimento. Termini la cui ratio è quella di avere una procedura celere che consenta la determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di asilo (nell’interesse anche del richiedente, oltre che del sistema europeo d’asilo), da concludersi in un tempo ragionevole, come statuito dalla Corte di giustizia, Grande Camera, causa C-201/16 Madzhid del 25.10.2017.
Rapportati i principi giurisprudenziali europei al caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che non possa essere qualificato ragionevole il tempo decorso dalla decisione di rinvio alla definizione del giudizio, pur nella peculiare situazione di sospensione del processo dovuta all’attesa della decisione della Corte di giustizia, annullando dunque la decisione dell’Unità Dublino, in applicazione della clausola derogatoria di cui all’art. 17, co. 1, reg. n. 604/2013.
Clausola discrezionale e carenze sistemiche nel Paese di rinvio
Con decreto 18.11.2024, RG. 28074/2023, il Tribunale di Roma ha annullato la decisione dell’Unità Dublino di rinvio di richiedente asilo in Austria, in applicazione dell’art. 17 reg. n. 604/2013, dopo avere accertato con plurime e concordi fonti di informazione che in detto Paese dell’Unione europeo vi sono carenze sistemiche gravi sia nella procedura di asilo che in quello di accoglienza.
Irreperibilità del richiedente asilo destinatario di decisione di rinvio - presupposti
Il Tribunale di Trieste, con decreto d’urgenza ex art. 700 c.p.c. del 30.12.2024, RG. , ha affrontato la particolare vicenda di un richiedente asilo pakistano, destinatario di una decisione dell’Unità Dublino di rinvio in Romania (Paese di primo arrivo, ove aveva presentato e formalizzato la domanda di asilo e che aveva accettato la ripresa in carico), decisione non impugnata, cui è conseguito l’appuntamento fissato dalla questura per procedere materialmente al trasferimento, al quale, tuttavia, non si è presentato, determinando, secondo la questura, la proroga automatica del termine di trasferimento per ritenuta irreperibilità (art. 29, par. 2 reg. n. 604/2013), ciò che il ricorrente ha appreso recandosi in questura per i successivi appuntamenti organizzati dalla stessa questura di Trieste.
Da precisare che il richiedente asilo era accolto in una struttura pubblica di accoglienza, revocatagli (provvedimento poi annullato dal Tar Friuli Venezia Giulia: cfr. nel prosieguo).
Il Tribunale ha accolto il ricorso affermando che le regole e il dovere di cooperazione stabilito nell’art. 11, commi 2 e ss. d.lgs. 25/2008 (obbligo del richiedente di comunicare il domicilio e le sue variazioni, con la precisazione che per il richiedente accolto nelle strutture pubbliche di accoglienza il Centro è il luogo di domicilio anche per le notificazioni e le comunicazioni) sono applicabili anche al procedimento cd. Dublino che, rispetto alla complessiva procedura di protezione internazionale, costituisce un segmento prodromico. Viene dato rilievo anche alle disposizioni penalistiche afferenti alle funzioni della p.s. (artt. 159 e 293 c.p.p.) utilizzabili per una corretta determinazione della condizione di irreperibilità della persona.
Tanto premesso, il Tribunale afferma che «Non può trascurarsi, oltretutto, che in materia di protezione internazionale l’irreperibilità si presenta come un concetto distinto da quello di fuga richiesto dall’art. 29.2 del regolamento, poiché quest’ultima esige un onere probatorio più gravoso, consistente nella dimostrazione inequivoca della volontà di sottrarsi alle ricerche dell’autorità (Cass. civ., sez. lav., ord. 9 settembre 2021, n. 24411; Cass. pen., sez. III, sent. 23 febbraio 2022, n. 22178).».
Nel caso oggetto di giudizio è stato accertato che il richiedente asilo era ospitato in una struttura pubblica di accoglienza e dunque era reperibile, oltre al fatto che si era recato varie volte presso la questura per regolarizzare la propria posizione sul territorio nazionale e dunque non si è affatto sottratto alla possibilità di essere rintracciato, irrilevanti le difficoltà organizzative della questura. Conseguentemente, il Tribunale ha ritenuto inapplicabile la proroga dei termini di trasferimento prevista dall’art. 29, par. 2 reg. n. 604/2013 e dunque conclusa la procedura Dublino, con radicamento della competenza dell’Italia per l’esame della domanda di protezione internazionale.
PROTEZIONE COMPLEMENTARE
Giurisdizione ordinaria
Con ordinanza n. 30137/2024 la Corte di cassazione ha annullato una decisione con cui il Tribunale di Potenza aveva declinato la propria giurisdizione a favore del giudice amministrativo, in un caso in cui era stato impugnato il diniego di conversione del permesso di soggiorno da protezione umanitaria a lavoro ma in giudizio era stato chiesto il rilascio della protezione speciale di cui all’art. 19 TU d.lgs. 286/98 (non richiesto in sede amministrativa). Richiamando vari precedenti giurisprudenziali (Cass. n. 9791/2023 - Cass. SU n. 30658/2018 - SU n. 2716/2022) la Corte ha ritenuto sussistente la giurisdizione ordinaria poiché si deve avere riguardo non tanto a quanto avvenuto in sede amministrativa bensì al petitum sostanziale del giudizio «il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (cfr. Cass., S.U. 31 luglio 2018 n. 20350; Cass. S.U. 16 maggio 2008 n. 12378).».
Interessanti i passaggi nei quali la Cassazione evidenzia l’importanza dell’applicazione, da parte della PA, dell’art. 5, commi 4 e 9 TU d.lgs. 286/98, che prescrivono il dovere del questore di rilasciare un permesso di soggiorno per il motivo richiesto dall’interessato o da altro previsto dal TU immigrazione stesso. Obiter importantissimo, spesso dimenticato, che invece consente un’ampia flessibilità dell’intero sistema regolatorio dei titoli di soggiorno.
Art. 8 CEDU: nozione e presupposti - genitori e figli adulti
Con sentenza 9.1.2025, RG. 6843/2024, il Tribunale di Bologna ha riconosciuto il diritto alla protezione speciale a donna albanese, trasferitasi in Italia nel 2021 per sostenere la figlia, cittadina greca, qui iscritta all’Università, annullando il provvedimento con cui il questore di Forlì aveva negato il permesso di soggiorno ex art. 19 TU d.lgs. 286/98 in forza di parere negativo espresso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Forlì.
Ricostruita in fatto la vicenda (la donna viveva in Grecia con il marito da 24 anni, nel 2002 è nata l’unica figlia che, alla maggiore età, si è trasferita in Italia per studio nonostante la contrarietà del padre, da cui la ricorrente ha divorziato, trasferendosi anch’ella in Italia per sostenere economicamente e affettivamente la figlia), il Tribunale, esclusa la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 19, commi 1 e 1.1. prima parte, vi ha rinvenuto i presupposti per il riconoscimento della protezione speciale in applicazione dei principi giurisprudenziali espressi dalla Corte di Strasburgo in relazione all’art. 8 CEDU, ampiamente riportati in motivazione, nonché in adesione a quelli espressi dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite nella nota pronuncia n. 24413/2021 e confermati, di recente da Cassazione n. 7861/2022. Ribadita la distinzione e l’autonomia del diritto al rispetto della vita privata e di quello alla vita familiare, quanto alla prima ricorda il Tribunale che «la nozione di vita privata, conformemente a quanto elaborato dalla giurisprudenza della Corte EDU, è ampia e insuscettibile di esatta delimitazione e ricomprende una pluralità di proiezioni dell’identità fisica e psichica dell’individuo fra le quali possono annoverarsi: il diritto allo sviluppo della personalità mediante intreccio di relazioni con altri (cfr. sentenza del 16.12.1992, n. 13710/88, Niemetz c. Germania, § 29), incluse quelle di natura professionale o lavorativa (cfr. sentenza del 28.01.2003, n. 44647/1998, Peck c. Regno Unito, § 57; cfr. sentenza del 05.09.2017, n. 61496/2008, Bărbulescu v. Romania, § 71); il diritto all’identità sociale ed alla stabilità dei riferimenti del singolo presso una data collettività (cfr. sentenza del 29.04.2002, n. 2346/2002, Pretty c. Regno Unito, § 61). Considerato, peraltro, che è proprio nel corso della vita lavorativa che la maggior parte delle persone ha una significativa, se non la più grande, opportunità di sviluppare relazioni con il mondo esterno (Corte EDU sentenza 16 dicembre 1992, Niemietz c. Germania: […]».
Quanto alla vita familiare «assume nella giurisprudenza della Corte EDU un significato più ampio di quello tradizionale e viene essenzialmente definito come il diritto di vivere insieme affinché i rapporti familiari possano svilupparsi normalmente (cfr. sentenza del 13.06.1979, n. 6833/74, Marckx c. Belgio, § 31), sul presupposto dell’esistenza reale di stretti legami personali vantati dallo straniero sul territorio nazionale, anche di fatto, purché dimostrabili da evidenze concrete (tra le altre, cfr. sentenza del 22.4.1997, n. 21839/1993, X, Y and Z c. Regno Unito, § 36; sentenza del 24.01.2017, n. 25358/2012, Paradiso e Campanelli c. Italia § 140; sentenza del 21.10.2015, cause riunite n. 18766/2011 e 36030/2011, Oliari e altri c. Italia, § 130).”, precisando altresì che “può ricomprendere anche le relazioni esistenti tra genitori e figli adulti o tra fratelli adulti, in taluni casi richiedendo la dimostrazione di elementi di dipendenza tra i familiari diversi e ulteriori rispetto ai naturali legami emotivi (cfr. sentenza del 14.02.2019, n. 57433/2015, Narjis c. Italia, § 37; sentenza dell’11.12.2018, n. 65550/13, Belli and Arquier-Martinez c. Svizzera, § 65; sentenza 7.12.2021, Savran c. Danimarca, § 174) in altri escludendola, in particolare in fattispecie relative a giovani adulti non ancora legati ad una famiglia propria e diversa da quella di origine (cfr. sentenza del 23.06.2008, n. 1638/2003, Maslov c. Austria, §§ 62 e 64; sentenza del 15.01.2019, n. 37115/2011, Yeshtla v. Paesi Bassi § 32).».
Sulla base di tali premesse, il Tribunale afferma che, nonostante “solitamente” non rilevino i vincoli tra genitori e figli adulti se non caratterizzati da elementi di dipendenza, tuttavia, nel caso oggetto di giudizio, i legami tra la ricorrente e la figlia maggiorenne vanno al di là della mera affettività, poiché la madre si è trasferita per supportare la figlia dopo la sua rottura con il padre a causa della scelta di vita che aveva fatto, con la conseguenza che da un lato la madre è oggi l’unica figura familiare di riferimento, dall’altra la ricorrente/madre ha posto fine alla sua vita coniugale proprio nell’interesse della figlia, pur se già maggiorenne.
Il Tribunale ha valutato anche la capacità della ricorrente di inserimento nella società italiana, avendo reperito varie attività lavorative, dimostrato un’autonomia abitativa e l’acquisizione della lingua italiana, irrilevante che non conviva più con la figlia poiché non è requisito richiesto per l’accertamento del diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU.
In conclusione, il giudice felsineo riconosce il diritto della ricorrente alla protezione speciale, con regime giuridico precedente la riforma di cui al d.l. n. 20/2023, in quanto la domanda ex art. 19 TU d.lgs. 286/98 è stata proposta precedentemente a detto intervento normativo.
Competenza territoriale del Tribunale - procedura di notifica della decisione - art. 8 CEDU - vita privata
Il Tribunale di Roma, decreto 9.10.2024 RG. 22188/2021 , ha esaminato un ricorso ex art. 35-bis d.lgs. 25/2008 escludendo innanzitutto il riconoscimento dello status di rifugio politico a richiedente asilo della Costa d’Avorio che aveva motivato la sua domanda in ragione della condizione omosessuale e del rischio persecutorio nel Paese di origine. Il Tribunale ha negato il riconoscimento dello status ritenendo che il richiedente abbia genericamente motivato la presa di coscienza della sua condizione, senza offrire molti dettagli del suo vissuto, riferendo (ritenute dal giudice) improbabili richieste di aiuto all’imam (nonostante l’islam non tolleri la condizione LGBTQ) e ritenendo che «anche la mancata iscrizione del ricorrente ad un’associazione LGBTI, nonostante i molteplici anni di permanenza nel nostro Paese, getta ombre sul vissuto riferito.».
Valutazione di credibilità che lascia perplessi sotto vari profili, ma i punti di interesse della pronuncia da evidenziare in questa Rassegna sono altri.
Innanzitutto il Tribunale afferma la propria competenza territoriale, nonostante il provvedimento di diniego sia stato emesso dalla Commissione territoriale di Cagliari, valorizzando il domicilio effettivo del ricorrente, ospite a Roma presso il Centro Emergenza Freddo della capitale e dunque con applicazione costituzionalmente orientata dell’art. 4, co. 3 d.l. n. 13/2017, che radica la competenza nel luogo ove il richiedente asilo è accolto in strutture governative o in un Centro di accoglienza e dunque introducendo un criterio di prossimità per il richiedente stesso che lo agevoli processualmente nell’esercizio del diritto di difesa. Secondo il Tribunale, infatti, «Un’interpretazione diversa da quella offerta verrebbe quindi a pregiudicare il diritto di ogni persona a che le sia garantito un ricorso effettivo al sistema giudiziario, nel senso previsto dall’art. 13 CEDU e dall’art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. Un’interpretazione costituzionalmente orientata del d.l. n. 13 del 2007, art. 4, comma 3 non può dunque non tener conto della posizione strutturalmente svantaggiata del cittadino straniero in relazione all’esercizio del diritto di difesa sancito dall’art. 24, nonché dell’obbligo, imposto dall’art. 13 CEDU e dall’art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., di garantire un ricorso effettivo “ad ogni persona”.».
Un secondo profilo di interesse del decreto riguarda la tempestività del ricorso, in quanto l’Amministrazione dell’interno aveva eccepito, in giudizio, che il ricorrente era a conoscenza della decisione negativa della Commissione territoriale di Cagliari, perché consegnatole personalmente, anche se non ancora ritualmente notificata. In realtà, nel giudizio è stato accertato che della suddetta decisione il richiedente è venuto formalmente a conoscenza solo a seguito di accesso agli atti e dunque che la tesi prospettata dall’Amministrazione dell’interno «si ponga in netto contrasto sia con il principio di economia processuale, improntato dunque ad una concentrazione ovvero ad un risparmio delle attività giudiziarie, al fine di evitare un’inutile moltiplicarsi delle stesse, sai con il principio della certezza del diritto e più nello specifico delle situazioni giuridiche soggettive.».
Infine, il Tribunale, dopo avere escluso, come detto, il riconoscimento della protezione internazionale, ha riconosciuto al richiedente asilo la protezione speciale, valorizzando il positivo percorso di integrazione sociale, dimostrato attraverso l’attività lavorativa svolta («elemento cardine è l’integrazione lavorativa, che, valutata unitamente a significative relazioni a livello personale e sociale, rivela un legame effettivo con il territorio del Paese di accoglienza.»), l’acquisizione della lingua italiana, il conseguimento della patente di guida e tenuto conto che la sua emigrazione dal Paese di origine è avvenuta da minorenne e, pertanto, «un eventuale rimpatrio costituirebbe uno sconvolgimento radicale della sua vita privata, nel significato di nuova identità e stabilità che di tale nozione ha offerto la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche in considerazione della sua giovane età al momento dell’espatrio, ancora minorenne (Corte EDU, 14 febbraio 2019, Narjis c. Italia, n. 57433/15; Corte EDU, Grande Camera, Üner c. Paesi Bassi, n. 46410/99; si veda anche Corte EDU, Grande Camera, 23 giugno 2008, Maslov c. Austria, n. 1638/03).».
Istanza reiterata di protezione internazionale - procedura di notifica della decisione - nuovo art. 19 TU d.lgs. 286/98 post riforma d.l. n. 20/2023 - vita privata
Con decreto 14.11.2024 il Tribunale di Catania, RG. 5763/2024 , ha esaminato un ricorso ex art. 35-bis d.lgs. 25/2008 presentato da richiedente asilo dell’Egitto, il quale aveva reiterato la domanda di protezione internazionale dopo avere avuto un precedente rigetto, anche in fase giudiziale.
Pronuncia con cui, dopo avere escluso il riconoscimento della protezione internazionale, è stato riconosciuta al ricorrente la protezione speciale in relazione al diritto al rispetto della sua vita privata, secondo la nuova declinazione dell’art. 19 TU d.lgs. 286/98, successiva alla riforma recata dal d.l. n. 20/2023 e sua legge di conversione n. 50/2023. Il giudice catanese ha dato conto della disciplina dell’art. 19 TU immigrazione precedente la suddetta riforma, che, in riferimento al diritto alla vita privata e familiare, indicava compiutamente i criteri per la sua valutazione, i quali, dunque, escludevano la necessità di effettuare una comparazione, neppure nella forma attenuata, tra la vita pregressa nel Paese di origine e il rischio di violazione dei diritti umani in caso di rimpatrio (Cass. n. 18455/2022 e n. 9080/2023). Criteri espunti dal testo normativo dalla riforma 2023. Tuttavia, il Tribunale evidenzia che la norma ancora oggi impone il divieto di espulsione o respingimento non solo se sussistente il rischio di tortura o di trattamenti inumani e degradanti ma anche in presenza di obblighi costituzionali o internazionali ex art. 5, co. 6 TU d.lgs. 286/98, il quale rimane immutato e «Pertanto, continuano a trovare tutela nell’alveo della prima parte dell’art. 19 comma 1.1. TUI tutte le situazioni di vulnerabilità ed i diritti che trovavano tutela in precedenza, in quanto rientranti vuoi nel divieto di refoulement (pericolo di tortura, di trattamenti inumani o degradanti, violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani nel Paese di origine), vuoi più in generale nel rispetto degli obblighi costituzionali (diritto di asilo, art. 10; alla salute art. 32; alla parità, art. 3; alle relazioni familiari, artt. 29-31, ecc.) ed internazionali, tra i quali ultimi i diritti alla vita privata ed alla vita familiare.». Diritto al rispetto dell’art. 8 CEDU confermato di recente anche dalla Cassazione, sia pur in materia espulsiva (Cass. n. 28162/2023).
Secondo il decreto in esame, al fine di accertare la sussistenza del diritto alla protezione speciale è necessario tenere conto dei principi elaborati dalla giurisprudenza a partire dalla nota sentenza di Cassazione n. 4455/2018 (che ha declinato in maniera ampia il concetto di vulnerabilità, richiedendo una valutazione caso per caso della vita privata e familiare in Italia del richiedente comparata alla vita vissuta nel Paese di origine e alle conseguenze del rimpatrio), nonché di quella formatasi successivamente e di cui il Tribunale fornisce un elenco riepilogativo, dovendo tenersi conto: «delle violenze subite nel Paese di transito (13096/19, 13565/20, 3583/21, 89920/21, 12649/21, 25734/21, 3768/23 ); degli eventi calamitosi, causa dell’emigrazione, verificatisi nel paese di origine (2563/20); del rischio di una lesione del diritto alla salute (2558/20; 27544/22), ivi compreso un accertato disturbo post-traumatico da stress a causa delle sevizie subite (8990/21); della situazione oggettiva del paese di origine (ai fini del giudizio di ‘comparazione attenuata’ (11912/20, 26671/22); del diritto alla vita privata e familiare (9304/19, SS.UU. 24413/21, 41778/21) e, a tali fini, dell'esistenza e della consistenza dei legami familiari e affettivi del richiedente in Italia (23720/20, 32237/21, 34096/21) e del suo percorso di integrazione in Italia, non solo sotto il profilo lavorativo, ma anche culturale e sociale (ad es., con riferimento alla conoscenza della lingua italiana ed alle attività di volontariato svolte con continuità, 16716/23, 14370/23) e valutando il livello di integrazione raggiunto “non come necessità di un pieno, irreversibile e radicale inserimento nel contesto sociale e culturale del Paese, ma come ogni apprezzabile sforzo di inserimento nella realtà locale di riferimento”; dello sfruttamento lavorativo quale elemento in grado di incidere gravemente sul quadro psicologico dello straniero che richiede protezione (17204/21); della situazione esistente nel Paese di transito, allorché l'esperienza vissuta in quest'ultimo presenti un certo grado di significatività in relazione ad indici specifici quali la durata in concreto del soggiorno, in comparazione con il tempo trascorso nel paese di origine (13758/20); del considerevole periodo di ingiusta detenzione sofferta in Italia dal ricorrente, con sottoposizione ad un regime carcerario che gli aveva procurato problemi di natura psicopatologica (4369/23).»
Alla luce di detti principi giurisprudenziali, il Tribunale, accertato l’ottimo percorso sociale intrapreso dal ricorrente (attività lavorativa) e l’esistenza di legami familiari in Italia (un fratello minorenne, accolto in una comunità minorile), gli riconosce la protezione speciale di cui all’art. 19, commi 1, 1.1. e 1.2. TU d.lgs. 286/98 come modificato dal d.l. n. 20/2023 e sua legge di conversione n. 50.
La pronuncia, però, è di interesse anche sotto ulteriori profili, esaminati dal Tribunale in via preliminare. Innanzitutto viene esaminata la tempestività del ricorso analizzando la procedura di notifica della decisione della Commissione territoriale, inviata al richiedente a mezzo del servizio postale ma di cui l’Amministrazione dell’interno, in giudizio, non ha fornito prova dell’avvenuta consegna. Il giudice premette che è onere del ricorrente provare la tempestività del ricorso depositando la copia notificata del provvedimento (Cass., sez. I, 23.12.2022, n. 37672; Cass., sez. II, 2.10.2020, n. 21133), ma rileva che «nel fare applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha precisato che la mancata produzione da parte dell’Amministrazione della copia del provvedimento impugnato, recante la relata di notifica, non impedisce al richiedente di fornire la prova della tempestività dell’impugnazione, procurandosi la documentazione necessaria, oppure provando che l’istanza di acquisizione della stessa è rimasta senza esito (Cass. 10/07/2024, n. 18925).». Nel caso oggetto di giudizio l’Amministrazione non ha provato l’avvenuta consegna in quanto ha prodotto la sola schermata VESTANET recante la data di spedizione della raccomandata, non idonea, tuttavia, a provare il perfezionamento della procedura di notifica prevista dall’art. 11, co. 3-bis d.lgs. 142/2015, poiché solo il timbro postale fa fede della regolarità di notifica (Cass. 36900/2022). Pertanto «Posto che la schermata Vestanet è priva di alcuna valenza dimostrativa dell’esito di una notificazione compiuta a mezzo posta, da provare invece mediante la produzione degli atti del procedimento notificatorio ossia dell’avviso di ricevimento restituito al mittente, la notifica del decreto impugnato non può ritenersi valida e il ricorso va dichiarato tempestivo considerando come dies a quo il 20.05.2024 giorno in cui il richiedente ha ricevuto in questura la consegna a mano del decreto impugnato.».
Un secondo profilo di interesse della pronuncia riguarda la disamina dell’istituto della domanda reiterata di protezione internazionale che, ai sensi dell’art. 29 d.lgs. 25/2008, è ammissibile se siano addotti elementi nuovi non allegati e dunque non esaminati nel precedente primo procedimento.
Nuovi elementi che possono consistere in: fatti nuovi di persecuzione o costitutivi del diritto alla protezione, oppure prove nuove dei fatti costitutivi del diritto, purché il richiedente dimostri di non averle potute produrre precedentemente (Cass. n. 5089/2013 e n. 18440/2019). Nel caso oggetto di giudizio i fatti nuovi narrati dal richiedente sono stati dal Tribunale ritenuti irrilevanti rispetto alla nuova richiesta di protezione internazionale, sia perché non rientranti tra i cinque motivi persecutori di cui all’art. 2 lett. e) d.lgs. 251/2007, sia escludendo la sussistenza del danno grave ex art. 14 del medesimo d.lgs., in tutte le sue declinazioni, compresa quella di cui alla lett. c), rispetto alla quale nel decreto vi è un’amplissima indicazione delle COI sull’Egitto ma tali da non integrare il concetto di violenza indiscriminata.
Protezione speciale e pregressa grave condanna
Con sentenza n. 2291/2024, RG. 579/2024, il Tribunale di Bologna ha riconosciuto la protezione speciale, richiesta dall’interessato direttamente al questore nel regime previgente la riforma 2023, rigettata sulla base del parere negativo reso dalla Commissione territoriale di Bologna a causa della condanna per un grave reato commesso e la cui pena è stata interamente scontata. Il Tribunale, dopo avere richiamato i principi espressi sull’istituto dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite n. 24413/2021 ed esaminato, alla luce di essi, la condizione del ricorrente in Italia (vive con la zia ma in autonomia, seguito un positivo percorso di rieducazione in carcere, svolto attività lavorativa, seguito un percorso di istruzione scolastica e frequentato corsi di formazione), ha affrontato la questione della pericolosità sociale del ricorrente in dipendenza della condanna subita per un grave reato, tenuto conto che i criteri di accertamento del diritto al rispetto della vita privata e familiare devono trovare bilanciamento con le esigenze dello Stato di salvaguardare l’ordine e la sicurezza pubblica. Nell’operare detto bilanciamento, il Tribunale ha affermato che «non si può affermare che la pericolosità del ricorrente sia cessata attesa la gravità dei fatti e il relativamente recente fine pena, ma si tratta di pericolosità certamente affievolita, tale da non sopravanzare il diritto alla vita privata e familiare del ricorrente, che vive in Italia da lunghissimo tempo (13 anni), sostanzialmente sempre lavorando anche durante la detenzione (fatta eccezione per i primi anni, quando aveva appena fatto ingresso in Italia con tutte le relative difficoltà), avendo stabilito qui la sua vita personale e lavorativa, ed avendo bene appreso la lingua italiana.».
Affievolimento della pericolosità sociale bilanciato, dunque, con la durata della presenza in Italia, dell’ottimo percorso di rieducazione seguito durante lo stato di detenzione e degli altri elementi di integrazione sociale dimostrati, «fattori tutti che portano a ritenere non sussistente la necessità ad oggi di rimpatriare il ricorrente per ragioni di sicurezza pubblica, che appaiono subvalenti se parametrate al rispetto della vita privata del ricorrente.», con prevalenza pertanto del diritto al rispetto della vita privata e familiare, che subirebbe una compromissione in caso di rientro nel Paese di origine dopo molti anni dall’emigrazione.
PERMESSO DI SOGGIORNO ex art. 5, co. 6 e art. 19 TU d.lgs. 286/98
Prosegue anche in questo numero della Rivista la pubblicazione di decisioni con le quali l’autorità giudiziaria affronta la questione del diritto di presentare direttamente al questore la domanda di rilascio di un permesso ai sensi dell’art. 5, co. 6 e/o dell’art. 19, commi 1, 1.1. e 1.2. TU d.lgs. 286/98 dopo l’abrogazione disposta dalla legge n. 50/2023, di conversione del d.l. n. 20/2023, del co. 1.2. dell’art. 19 nella parte in cui prevedeva il diritto in questione al di fuori della procedura di protezione internazionale. Dopo la riforma 2023, infatti, il Ministero dell’interno e le sue diramazioni periferiche (questure) non accettano la domanda diretta di permesso di soggiorno ex art. 5, co. 6, dichiarandole inammissibili e/o pretendendo che la persona faccia richiesta (nuova o reiterata) di protezione internazionale all’interno della quale può essere riconosciuta la protezione speciale.
Alcune pronunce relative a questa specifica questione sono state pubblicate nei nn. 2 e 3 del 2024.
In particolare, nel n. 3/2024 si è rassegnata la sentenza 28.6.2024 RG. 4443/2024 del Tribunale di Bologna secondo cui l’intervento riformatore non ha affatto abrogato la protezione speciale, essendo espressione diretta dell’art. 10, co. 3 della Costituzione, le cui modalità di accertamento in sede amministrativa sono, tuttavia, lasciate alla libertà organizzativa delle questure, tenendo conto che la domanda di protezione speciale può essere oggetto di richiesta di protezione internazionale anche in via del tutto autonoma, cioè senza necessità di allegare motivi afferenti al rifugio o alla protezione sussidiaria. In termini analoghi anche Tribunale di Roma 10.7.2024 ivi pubblicato.
Tesi che, tuttavia, non convince, poiché sono ben differenti i presupposti e le procedure, amministrative e giudiziali, nel caso la persona chieda il permesso di soggiorno ai sensi del “solo” art. 5, co. 6 TU immigrazione (soggetto unicamente alla disciplina dell’art. 5), rispetto a quelli afferenti la procedura d’asilo (soggetto alla regolamentazione di cui ai d.lgs. n. 251/2007, n. 25/2008 e n. 142/2015).
Diritto alla presentazione diretta al questore di permesso ex art. 19 TU d.lgs. 286/98
Sulla questione è intervenuto il Tribunale di Firenze, con ordinanza 10.10.2024 RG. 2024/7460 , che offre un’interpretazione diversa da quella bolognese e romana, affermando il diritto a presentare una domanda autonoma di permesso per protezione speciale ex art. 19 TU d.lgs. 286/98, a cui la PA ha il dovere di rispondere, poiché «Se il diritto soggettivo, secondo l’opinione comune e condivisa in dottrina e giurisprudenza, è quella situazione di vantaggio attiva che si sostanzia nell’agire lecito (agere licere) e nella facoltà di agire per il soddisfacimento di un interesse del soggetto ritenuto dall’ordinamento meritevole di tutela (facultas agendi), allora la facoltà di presentare un’autonoma domanda di protezione speciale alla questura è manifestazione diretta di quel diritto alla protezione speciale, è esercizio di quel diritto, è anch’essa quel diritto, senza bisogno di immaginare, per negarlo, alcun eccentrico diritto procedurale o “diritto alla procedura”».
Conclusione a cui il giudice fiorentino è pervenuto partendo dalla considerazione che la protezione speciale è attuazione del diritto costituzionale di cui all’art. 10, co. 3 Cost., che protegge la persona straniera alla quale nel Paese di origine sia impedito il concreto esercizio delle libertà costituzionali, tra le quali – pur nella «instabilità ermeneutica tra un contenuto minimo che comprende tutti i diritti inviolabili (artt. 2 e 3; art. da 13 a 27) ed un contenuto massimo che ritiene estensibile la tutela anche alle libertà economiche, al diritto al lavoro in condizioni non discriminati ed alla tutela prevista dall’art. 26 Cost.» – vi rientrano certamente, quale contenuto minimo, l’art. 8 CEDU e l’art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Dunque, l’attuazione dell’asilo costituzionale si realizzava interamente, nel regime previgente la riforma 2023, attraverso il riconoscimento della protezione internazionale e di quella speciale, la quale, tuttavia, dopo la recente riforma «può considerarsi non più interamente esaustiva dell’asilo costituzionale ex art. 10 Cost. ed eventualmente di nuovo integrabile quale protezione complementare dall’applicazione diretta dell’asilo costituzionale e degli obblighi internazionali richiamati nell’attuale disposizione».
Il Tribunale di Firenze è esplicitamente consapevole del diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui è lasciata alla libertà organizzativa della PA la scelta della procedura in difetto di indicazione legislativa (poiché soppressa dalla riforma 2023), ma da esso si discosta in quanto «[…] si dissente essenzialmente dall’idea che l’assenza di un’indicazione normativa relativa alla presentazione di un’istanza amministrativa all’autorità ed alla procedura per trattarla possa determinarne l’irricevibilità amministrativa e l’insindacabilità da parte del giudice ordinario in materia di diritti soggettivi di rango costituzionale e sovranazionale».
Con riguardo ai provvedimenti di irricevibilità delle questura, il giudice evidenzia che il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi non elimina il dovere della PA di concludere il procedimento ai sensi degli artt. 1 e 2 legge n. 241/90, riportando vari esempi afferenti ad altre materie, e concludendo che la mancata previsione normativa di una procedura «non può considerarsi di assoluto impedimento a che la pubblica autorità si esprima sulle istanze rivoltole e, trattandosi di diritti soggettivi riconosciuti dalla Costituzione e dai trattati internazionali che vincolato l’Italia, il contenzioso derivante al rifiuto di ricevere o dal silenzio serbato investe il giudice ordinario».
Proprio perché la protezione speciale afferisce a un diritto costituzionale, la conclusione del Tribunale di Firenze è molto chiara e netta: è «difficile ipotizzare che il potere pubblico possa vanificarne il contenuto e renderne l’esercizio eccessivamente e sproporzionatamente complicato ai suoi titolari, come avverrebbe se si ritenesse che la richiesta di protezione speciale debba sempre ricondursi nell’alveo dell’art. 32 comma 3 d.lgs. 25/2008, nell’ambito e all’“interno” di una domanda di protezione internazionale, in chiara sproporzione e diseconomia dei mezzi e dei possibili, o comunque non escluse, conseguenze negative qualora la domanda di protezione internazionale potesse essere considerata come petito fictia, frutto di abuso».
In termini analoghi (pur sintetici) si pone il Tribunale di Palermo – ordinanza 10.2.2025 RG. 13955/2024 – , che ha accolto il ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., avverso il provvedimento della questura palermitana di irricevibilità della presentazione dell’istanza di rilascio di permesso per protezione speciale, a suo dire non più prevista dopo la riforma di cui al d.l. n. 20/2023 e sua legge di conversione n. 50/2023. Da precisare che, come si legge nella pronuncia, la ricorrente aveva chiesto l’applicazione della procedura ordinaria di cui all’art. 5, commi 6 e 9 TU d.lgs. 286/98.
All’esito del giudizio cautelare, il Tribunale afferma che è obbligo della PA ricevere ogni istanza proposta da soggetto che vanti una posizione giuridica qualificata, riconoscendo pertanto il pieno diritto alla formalizzazione della domanda di un autonomo permesso di soggiorno per protezione speciale, fatto salvo il merito dell’istanza a conclusione della procedura amministrativa avviata. Quanto al periculum in mora, l’ordinanza in rassegna lo individua nel rischio espulsivo della ricorrente «a causa del proprio attuale stato di irregolarità sul territorio nazionale».
Orientamenti, dunque, ben diversi da quello, ad oggi, dei Tribunali di Bologna e di Roma, che pur muovendo dai medesimi presupposti sulla natura giuridica della protezione speciale, si sono arrestati di fronte alla “procedura”, anzi prospettando che sostanzialmente non vi sia alcun pregiudizio nell’accettare quella di protezione internazionale, dimenticando, tra le altre, gli effetti e le conseguenze, ad esempio, di domande reiterate di protezione internazionale e il restrittivo regime giuridico che le caratterizza sempre di più.
L’ACCOGLIENZA DI RICHIEDENTI ASILO
Misure di accoglienza di richiedente asilo destinatario d decisione di rinvio “Dublino”
L’ordinanza del Tar Friuli Venezia Giulia, n. 111/2024 RG. 418/2024, riguarda il caso del richiedente asilo destinatario di una decisione dell’Unità Dublino, di rinvio in Romania, esaminato anche dal Tribunale di Trieste con riguardo al decorso del termine per il trasferimento e la determinazione dell’irreperibilità, di cui alla decisione sopra rassegnata. Il giudizio amministrativo oggetto dell’ordinanza qui commentata riguarda la revoca delle misure di accoglienza disposta dalla prefettura triestina a seguito della mancata presentazione del richiedente in questura per l’esecuzione materiale del trasferimento “Dublino”.
Il Tar giuliano premette che la revoca di cui all’art. 23 d.lgs. 142/2015 riguarda sia la mancata presentazione presso il Centro di accoglienza assegnato o il suo abbandono senza autorizzazione prefettizia, sia il caso in cui il richiedente rifiuti di essere trasferito presso un altro Centro di accoglienza (Tar Lombardia, ord 625/2024, che, peraltro, ha rinviato la questione alla Corte di giustizia sulla compatibilità con la direttiva accoglienza). Premette, altresì, che il diritto europeo prevede che le misure di accoglienza debbano essere garantite anche al destinatario di un ordine di trasferimento Dubbino le quali cessano solo a seguito di trasferimento (CGUE 27.9.2012, causa C 179/11, oltre a Tar Lombardia, n. 401/2024 e Cons. St, n. 3903/2023).
Con riguardo al caso oggetto di giudizio, è stato accertato che il richiedente asilo non era affatto irreperibile, essendo accolto in un CAS pubblico, e dunque, nonostante la definitività della decisione Dublino (non impugnata), afferma il Tar che «allo stato della normativa vigente sia doveroso approntare tutte le possibili misure emergenziali atte a garantire interinalmente la dignità, la sicurezza e la salute della persona che richiede la protezione internazionale» e pertanto accoglie «l’istanza cautelare, al solo fine e per il limitato effetto di garantire interinalmente al ricorrente – in ossequio all’attuale orientamento del Consiglio di Stato – il soddisfacimento di “diritti fondamentali della persona umana, quali l’accesso al cibo, ad una dimora ed al vestiario, che rappresentano bisogni primari”, salvi, per il resto, gli ulteriori provvedimenti che la PA riterrà di adottare per la prosecuzione del procedimento tuttora in corso».
Revoca delle misure - distinzione tra abbandono e assenza dal Centro - diritto al giusto contraddittorio
Sempre con riguardo alla revoca delle misure di accoglienza, si segnalano due pronunce del Tar Marche, l’una di tipo cautelare, l’altra di merito. Nella prima, ordinanza n. 223/2024 RG. 470/2024, il Tar sospende il provvedimento di revoca delle misure di accoglienza perché «le circostanze poste a base del decreto impugnato non paiono integrare l’ipotesi di abbandono del Centro che legittimerebbe la revoca contestata, in assenza peraltro di elementi da cui possa desumersi la volontà dell’istante di rifiutare l’accoglienza o di lasciare definitivamente la struttura (cfr. Tar Marche sez. II, 4.03.2024 n.208)», con conseguente «onere dell’Amministrazione, in esecuzione della presente pronuncia, di ricollocare la ricorrente in un Centro di accoglienza diverso da quello di provenienza».
Nella sentenza n. 963/2024 il Tar Marche affronta, invece, il caso di una richiedente asilo alla quale erano state revocate le misure di accoglienza in CAS perché non rinvenuta nel Centro durante un’ispezione notturna, pur con rientro la mattina successiva. Il Tar premette che «ai sensi dell’art. 23, co. 1, lett. a) del d.lgs. n. 142/2015, occorre tener distinta la fattispecie di “abbandono” da quella di “allontanamento ingiustificato” dalla struttura da parte del soggetto ospitato, atteso che solo nella prima è insito il riferimento implicito a un coefficiente di tipo soggettivo implicante l’intenzionalità della scelta dello straniero di fare a meno in modo definitivo delle misure di accoglienza potendo la seconda ipotesi essere ricondotta a situazioni di tipo contingente da verificare (Cons. St., III, 13 luglio 2022, n. 5942)» e ritiene illegittimo il provvedimento per mancata instaurazione del procedimento interlocutorio, di cui alla legge n. 241/90, prima dell’adozione della revoca. Omissione che, ad avviso del Tar, non ha consentito all’interessata di esercitare il diritto al contraddittorio giustificando la ragione dell’unica assenza e rientro il mattino dopo, al fine di consentire alla prefettura di adottare un giusto provvedimento.
DIRITTI CIVILI
Ritardo nel rilascio del permesso di soggiorno per asilo - fatto illecito della questura - risarcimento dei danni patrimoniale e non patrimoniale - requisiti
Di particolare interesse la sentenza 13.12.2024, RG. 9806/2024, del Tribunale di Roma che, accertato sia in sede cautelare che di merito la responsabilità della questura di Roma per il ritardo di un anno e mezzo per il rilascio del permesso di soggiorno per asilo a donna rifugiata e alla figlia minorenne affetta da grave patologia, condanna l’Amministrazione al risarcimento dei danni, sia patrimoniali che morali. Controversia nella cui fase cautelare già il Tribunale aveva ordinato alla questura il rilascio dei permessi di soggiorno, tenuto conto che, come ricostruito anche nella sentenza, alla donna congolese la Commissione territoriale aveva riconosciuto lo status nel settembre 2022, ella aveva chiesto il rilascio del permesso per il cui appuntamento la questura aveva fissato il 13 gennaio 2023, rinviando, tuttavia, in successivi appuntamenti chiedendo la produzione di passaporto della minore (per il quale, invero, era stato chiesto il Titolo di viaggio, stante l’assenza di autorizzazione paterna) e suo certificato di nascita tradotto e legalizzato dalla rappresentanza diplomatica italiana. Controversia conclusasi con riguardo al rilascio dei titoli di soggiorno, avvenuto l’8 giugno 2024 a seguito di ordine giudiziario, ma proseguita per l’accertamento del diritto al risarcimento per il ritardo.
I punti salienti della pronuncia sono i seguenti:
- con riguardo alla documentazione integrativa richiesta dalla questura (certificato di nascita della minore): trattasi di richiesta ineseguibile, in quanto la persona rifugiata non può rivolgersi alle proprie autorità e l’art. 29-bis TU d.lgs. 286/98 prevede che il ricongiungimento familiare non possa essere impedito dalla mancanza di certificazioni, valendo qualsiasi altro mezzo di prova; ma richiesta anche infondata perché l’art. 23 d.lgs. 251/2007 non richiede, per il rilascio del permesso di soggiorno per asilo, nulla di più che la qualifica dello status «così ponendo in diretta e automatica connessione la “titolarità” dello status, una volta accertata dall’autorità competente, con il “rilascio” del relativo permesso.»;
- il ritardo di un anno e mezzo dalla richiesta di rilascio del permesso di soggiorno «non appare in alcun modo giustificato né giustificabile, e deve ritenersi illegittimo in quanto in gravissima violazione del termine espressamente previsto dal legislatore per il rilascio del permesso di soggiorno, di sessanta giorni dalla richiesta in caso di sussistenza dei relativi requisiti (accertati nel caso di specie) ai sensi dell’art. 5, comma 9 del d.lgs. 286/1998. Il ritardo deve ritenersi a maggior ragione grave e inescusabile trattandosi di una procedura – quale quella di riconoscimento della protezione internazionale – che appare nella sua interezza informata a principi di celerità e certezza dei tempi secondo il diritto nazionale e sovranazionale.»;
- gli ordinamenti nazionali non possono pretendere adempimenti che rendano impossibile o eccessivamente gravoso l’esercizio dei diritti previsti dal diritto europeo (CGUE sentenza Evelyn Danqua causa C-420/15 e art. 6, par. 6 direttiva 2013/33/UE);
- la rapidità della procedura di asilo, come delineata dal diritto europeo e da quello nazionale, è finalizzata a garantire che la persona titolare dello status eserciti effettivamente i diritti ad esso connessi e possa goderli al più presto, tenuto conto della condizione di grande vulnerabilità che la caratterizza;
- la discrezionalità organizzativa della PA non può pregiudicare l’effettività del diritto all’asilo, stante la sua natura fondamentale.
Quanto al risarcimento del danno, il Tribunale richiama i principi giurisprudenziali afferenti alla domanda di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. nei riguardi della Pubblica amministrazione per esercizio illegittimo della funzione pubblica, ovverosia: «a) in primo luogo, dovrà accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) dovrà, poi, stabilire se l’accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l’ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo); c) dovrà, inoltre, accertare, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta della PA; d) infine, se detto evento dannoso sia imputabile a responsabilità della PA tale imputazione non potrà avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo – in relazione al cui accertamento, peraltro, non è ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento davanti al giudice amministrativo, potendo, al contrario, detto accertamento essere svolto dal giudice ordinario nell’ambito dell’esame della riconducibilità della fattispecie sottoposta al suo esame alla nozione di fatto illecito delineata dall'art. 2043 cod. civ., – richiedendo, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa, che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana.» (Cass. SU n. 500/1999 e Cass. n. 23170/2014).
Precisa il Tribunale che il risarcimento non è una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento amministrativo illegittimo, in quanto la prova deve essere fornita in applicazione dell’art. 2697 c.c., dovendo pertanto dimostrazione il nesso causale tra la condotta (provvedimento illegittimo) e l’evento (il danno), nonché la colpa o il dolo della PA, che dovrebbe sempre agire nel rispetto dei principi di imparzialità, correttezza e buona amministrazione.
Sotto il profilo soggettivo, in giudizio è stato dimostrato che la questura di Roma ha ingiustificatamente dilatato i tempi di rilascio dei permessi di soggiorno alla donna rifugiata e alla figlia, determinando una compromissione dei loro diritti, tra i quali l’impossibilità, in assenza di permesso per asilo, di beneficiare dell’indennità INPS di accompagnamento per la figlia affetta da grave patologia, la lesione del diritto all’istruzione della minore (priva di adeguato sostegno scolastico) e del suo diritto alla salute (impossibilitata a beneficiare di un adeguato percorso sanitario e di riabilitazione), l’impossibilità per la donna rifugiata di reperire un’abitazione e un’attività lavorativa che le consentisse di vivere non più precariamente ma in piena autonomia. Diritti tutti l’esercizio effettivo dei quali è stato rallentato o impedito a causa dell’ingiustificato ritardo della questura nel rilascio dei permessi di soggiorno.
Il Tribunale, dunque, ravvisato il collegamento tra il comportamento della questura e la lesione di diritti soggettivi (nesso causale) ha riconosciuto alla donna il risarcimento del danno patrimoniale (quantificato in € 6.325,92 corrispondente all’indennità per accompagnamento che avrebbe potuto percepire dall’INPS) e di quello non patrimoniale nella sua declinazione di danno morale e dunque quantificabile in via equitativa, che il giudice ha indicato in € 10.000 relativamente al periodo di un anno di ritardo (decorrente dal termine di scadenza dei 60 gg. previsti dall’art. 5, co. 9 TU immigrazione al marzo 2024 epoca in cui il Tribunale ha emesso l’ordine di rilascio dei permessi di soggiorno). Danni al pagamento dei quali è stata condanna l’Amministrazione dell’interno.