SOMMARIO.
INGRESSO IN ITALIA. Visto d’ingresso per accompagnatore/caregiver di titolare di permesso per cure mediche (legittimazione attiva – qualità di familiare – rischio migratorio – motivazione postuma - illegittimità - ordine rilascio visto).
REGOLARIZZAZIONE 2020 (carenze non imputabili al lavoratore – diritto al permesso di soggiorno per attesa occupazione – garanzie partecipative al procedimento amministrativo – interesse del lavoratore straniero).
SOGGIORNO. Permesso di soggiorno per lavoro stagionale (conversione – scadenza del titolo originario – mancanza di termini decadenziali – onere della prova); Permesso di soggiorno per protezione speciale (conversione in permesso per motivo di lavoro – irrilevanza del possesso del passaporto); Revoca nulla osta al lavoro (condotta incolpevole del lavoratore – subentro di altro datore di lavoro – permesso di soggiorno per attesa occupazione); Rinnovo (o conversione) del titolo di soggiorno (reati ostativi – rilevanza della sentenza n. 88/2023 Corte cost. - onere della P.A. di bilanciare elementi positivi e negativi – illegittimità di automatismi); Permesso di soggiorno per cure mediche e sua conversione in motivi di lavoro (durata del titolo di soggiorno – contenuto del titolo di soggiorno di cui all’art. 19, co. 2, lett. d-bis, d.lgs. 286/98 – conversione del titolo di soggiorno – regime intertemporale ex art. 7, co. 2 d.l. n. 20/2023 – analogia con il regime previsto per la protezione internazionale); Permesso UE di lungo soggiorno (revoca per pericolosità sociale – denuncia per maltrattamenti familiari – onere della PA di bilanciare elementi positivi e negativi – illegittimità di automatismi).
TITOLO di VIAGGIO (comportamento soprassessorio dell’Amministrazione – silenzio – illegittimità - presupposti per il rilascio).
INGRESSO IN ITALIA
Visto d’ingresso in favore di caregiver/accompagnatore di titolare di permesso per cure mediche
Ai sensi dell’art. 36, co. 1, d.lgs. 286/98 non solo «Lo straniero che intende ricevere cure mediche in Italia» ma anche «l’eventuale accompagnatore possono ottenere uno specifico visto di ingresso ed il relativo permesso di soggiorno» al ricorrere di specifiche condizioni indicate dal successivo periodo della stessa norma (presentazione della dichiarazione della struttura sanitaria italiana prescelta che indichi il tipo di cura, la data di inizio della stessa e la durata presunta del trattamento terapeutico, deposito di una somma a titolo cauzionale, nonché documentare la disponibilità in Italia di vitto e alloggio per l’accompagnatore e per il periodo di convalescenza dell’interessato). Il terzo periodo dell’indicato comma afferma poi che «La domanda di rilascio del visto o di rilascio o rinnovo del permesso può anche essere presentata da un familiare o da chiunque altro vi abbia interesse».
L’allegato A al decreto del Ministero degli affari esteri del 11.5.2011 (Definizione delle tipologie dei visti d’ingresso e dei requisiti per il loro ottenimento), a sua volta, prevede che «Il visto per cure mediche potrà essere rilasciato anche all’eventuale accompagnatore che assista lo straniero infermo, in presenza di adeguati mezzi economici di sostentamento non inferiori all’importo stabilito dal Ministero dell’interno con la direttiva di cui all’art. 4, comma 3, del Testo unico n. 286/1998 e successive modifiche ed integrazioni».
Facendo applicazione delle indicate disposizioni il Tar Lazio, sede di Roma, ordinanza del 12.12.2024, n. 5693 ha chiarito alcuni rilevanti aspetti delle stesse. Essi sono attinenti, in particolare, alla legittimazione attiva del richiedente il visto in favore dell’accompagnatore del cittadino straniero titolare del permesso per cure mediche, alla qualità dello stesso accompagnatore, alla valutazione del cd. “rischio migratorio” effettuata dalla P.A. nel negare il visto di ingresso al caregiver, nonché alla possibile applicazione della condanna cd. satisfattiva da parte del giudice amministrativo.
Sotto il primo punto di vista è affermato che «la richiesta di visto per cure mediche/”caregiver”… può essere azionata sia dal soggetto che deve ricevere le cure sia dall’accompagnatore/caregiver». Affermazione, questa, che trova riscontro sia nella precedente giurisprudenza del medesimo Tribunale (cfr. Tar Lazio, Roma, ordinanza del 24.10.24, n. 4799) sia nella lettera dello stesso art. 36 TUI.
Il Tribunale amministrativo capitolino, inoltre, specifica che non è requisito previsto dalla legge quello per il quale il caregiver abbia la qualità di “familiare” del titolare del permesso di soggiorno per cure mediche, dato che tale ruolo potrebbe essere svolto anche da «una persona estranea all’ambito familiare. La documentazione [comprovante il grado di parentela, NdA] lamentata come insufficiente, dunque, non è richiesta dalla normativa per il rilascio del visto in parola, per cui la mancata legalizzazione della stessa non può divenire motivo di diniego del visto. La relazione familiare non è infatti indefettibilmente richiesta ai fini del rilascio del visto d’ingresso come “caregiver», né dall’art. 36 d.lgs. 286/98 né dall’art. 44 d.p.r. 394/99, né dal citato d.m. n 850 del 2011, All. A, par. 3, ultimo comma.
Quanto alla valutazione del cd. “rischio migratorio” da parte della P.A., il Tribunale afferma innanzitutto che nel caso specifico essa è errata alla luce dei fatti dimostrati in giudizio e, comunque, che la relativa eccezione, essendo stata portata solo in giudizio e non nel provvedimento amministrativo impugnato «costituisce inammissibile motivazione postuma da parte dell’amministrazione».
La pronuncia, infine, si caratterizza per l’accoglimento della domanda di parte ricorrente – avanzata ai sensi degli artt. 34, lett. c,) e 31 co. 3 c.p.a. –, ovvero al rimedio di ordine generale volto ad ottenere la condanna cd. satisfattiva anche nell’ambito del giudizio cautelare. Al riguardo, accogliendola, i giudici specificano che «presupposti indefettibili a tal fine sono la completezza dell’istruttoria e l’assenza di discrezionalità amministrativa, che può essere assente per volontà del legislatore o perché consunta in quanto l’amministrazione con atti di auto-vincolo o con precedente provvedimento oggetto di impugnazione abbia già esaurito gli spazi di discrezionalità; c) che l’evoluzione ordinamentale in materia di giudizio amministrativo all’insegna del principio di effettività delle tutele ex art. 1 c.p.a. ha introdotto la possibilità, con il codice del processo amministrativo, di una tutela cautelare anticipatoria e piena ex art. 55 c.p.a., la quale si manifesta con l’adozione delle “misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma in via provvisoria, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso”; d) che nel caso di specie, a fronte di un provvedimento che ha già sondato minuziosamente tutti gli aspetti vincolati e discrezionali della vicenda, seguito da analitica relazione istruttoria, ed a fronte di una altrettanto dettagliata censura, non risulta in concreto alcuno spazio di discrezionalità residua in capo all’Amministrazione, essendo il provvedimento sostanzialmente vincolato dalla presenza dei presupposti sopra indicati e dalla rilevata inconsistenza degli indici probatori del cd. “rischio migratorio”; e) che – in particolare – non sono stati rilevati o eccepiti dall’Amministrazione altri possibili profili di ordine pubblico e sicurezza ostativi al rilascio del visto».
REGOLARIZZAZIONE 2020
Due interessanti pronunce del Consiglio di Stato meritano menzione sul tema della regolarizzazione dei lavoratori stranieri prevista e disciplinata dall’art. 103, d.l. n. 34/2020, convertito con modificazioni nella legge 17 luglio 2020, n. 77. Trattasi di pronunce che hanno valorizzato la sussistenza dei presupposti sostanziali della domanda amministrativa di regolarizzazione per giungere all’ottenimento dell’utilità/diritto rivendicato dalla parte, in linea con gli interessi pubblici in materia, qualora le irregolarità ritenute ostative al riconoscimento del diritto della persona straniera non dipendano in alcun modo da suoi comportamenti o da elementi nella sua disponibilità.
Il Consiglio di Stato, sentenza del 22.4.2024, n. 3643 afferma che «fermo restando anche per il legislatore il vincolo della ragionevolezza nel disciplinare in modo diseguale situazioni estremamente affini, ciò che rileva nella fattispecie in esame è che il rigetto della pretesa del ricorrente in ragione di una irregolarità formale non imputabile all’interessato, e senza un accertamento della reale sussistenza sul piano sostanziale dei presupposti per l’accesso all’utilità rivendicata, determina la definitiva ed irreversibile frustrazione dell’interesse pubblico primario – che informa la disciplina in questione – alla regolarizzazione di lavoratori stranieri (obiettivo evidentemente ritenuto dal legislatore necessario anche per fronteggiare le esigenze del mercato del lavoro e del sistema economico nel suo complesso), nonché dell’interesse legittimo fondamentale del ricorrente alla regolarizzazione – sussistendone i presupposti sostanziali – della condizione di permanenza sul territorio dello Stato (il tutto nell’acclarata assenza di elementi, anche presuntivi, di pericolosità sociale, e in presenza di un accertato inserimento sociale e lavorativo, privo di elementi di controindicazione).
Anche il rilevato profilo teleologico, e la connessa esigenza di procedere ad un’interpretazione funzionale (rispetto alla tutela dei richiamati interessi protetti della normativa in questione) e costituzionalmente orientata (onde prevenire l’irragionevole, definitiva frustrazione di tali interessi – anche in conseguenza della segnalata disparità di trattamento normativo di fattispecie analoghe – in assenza dell’accertamento della effettiva e sostanziale mancanza delle condizioni legittimanti l’adozione del provvedimento richiesto) depongono dunque nel senso anzidetto (dal momento che, come si sta anche per specificare ulteriormente, una consapevole applicazione della disciplina generale dell’attività amministrativa può costituire rimedio, nell’ottica dei richiamati canoni esegetici, alla possibile disparità di trattamento tra fattispecie analoghe derivante dalla normativa regolante lo specifico procedimento)».
Da tali premesse consegue che, qualora la richiesta di regolarizzazione non possa essere decisa con favore per carenze imputabili esclusivamente al datore di lavoro, il lavoratore straniero che ne abbia fatto richiesta ha diritto, comunque, ad ottenere il permesso di soggiorno per “attesa occupazione”.
Principio, tale ultimo, ribadito di recente da Consiglio di Stato, sentenza del 24.9.2024, n. 7757 che, oltre a richiamare la precedente decisione, afferma altresì che l’interesse alla partecipazione al procedimento amministrativo (e, conseguentemente, le relative comunicazioni di garanzia ai sensi della l. 241/90) spetta certamente al datore di lavoro ma «un interesse di pari rilievo deve essere predicato altresì in capo allo straniero in qualità di beneficiario dell’emersione. Difatti, questi riveste innegabilmente una posizione differenziata e qualificata tutelata dall’ordinamento, bastando porre mente al riguardo alla circostanza che lo Sportello unico, verificata l’ammissibilità dell’istanza e acquisiti i pareri favorevoli della questura e dell’Ispettorato territoriale del lavoro, convoca entrambe le parti – e non già la sola parte datoriale – per la stipula del contratto di soggiorno, per la comunicazione obbligatoria di assunzione e la compilazione della richiesta del permesso di soggiorno per lavoro subordinato (art. 103, co. 15 d.l. 34/2020)».
SOGGIORNO
Permesso di soggiorno stagionale per motivo di lavoro
Il Tar Emilia Romagna, sezione distaccata di Parma, sentenza del 10.10.2024, n. 258, dichiara la possibilità di conversione del permesso di soggiorno per motivo di lavoro stagionale in permesso di soggiorno per motivo di lavoro anche successivamente alla scadenza del titolo di soggiorno. Valorizzando la lettera dell’art. 24, co. 10, d.lgs. 286/98, è specificato che tale norma non stabilisce un termine entro il quale debba essere richiesta la conversione, prevedendo invece – quali sole condizioni a tal fine necessarie – l’avere svolto regolare attività lavorativa sul territorio nazionale per almeno tre mesi, la sussistenza di un’offerta di contratto di “lavoro subordinato” a tempo determinato o indeterminato e il rispetto delle quote di cui al precedente art. 3, comma 4.
Infatti, l’art. 24, co. 10, d.lgs. 286/98 stabilisce che «Il lavoratore stagionale, che ha svolto regolare attività lavorativa sul territorio nazionale per almeno tre mesi, al quale è offerto un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, può chiedere allo Sportello unico per l’immigrazione la conversione del permesso di soggiorno in lavoro subordinato[, nei limiti delle quote di cui all’articolo 3, comma 4]» (si specifica che tale comma è stato modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera f), numero 6), del d.l. 11.10.2024, n. 145, convertito con modificazioni dalla L. 9.12.2024, n. 187 con la soppressione dell’ultimo periodo). Conseguentemente la decisione del Tribunale è nel senso che «la validità del titolo di soggiorno al momento della domanda non è un requisito per la conversione, difettando un termine perentorio del tipo di quelli presenti in altre disposizioni del testo unico del 1998, quale l’art. 6, comma 1». La normativa pertinente, dunque, non stabilisce un termine entro il quale deve essere richiesta la conversione del permesso di soggiorno stagionale per lavoro.
Anche il Tar Lazio, sede di Roma, sentenza del 18.11.2024, n. 20424 interviene su tale annoso tema, dunque sulla convertibilità del permesso di lavoro stagionale, con esiti di fatto identici a quelli su descritti.
Nel caso di specie il titolare di tale titolo di soggiorno aveva richiesto una prima conversione in corso di vigenza del permesso stagionale, che gli era stata rigettata per carenze di quote. Aveva tuttavia reiterato la richiesta in data successiva alla scadenza del titolo di soggiorno e la competente prefettura, nonostante avesse, in un primo momento, concesso il relativo nulla osta al lavoro (verificata la disponibilità di quote residue) decretava la sua revoca poiché la seconda richiesta di conversione era stata avanzata dopo la scadenza del titolo di soggiorno stagionale e, in secondo luogo, in quanto non sarebbe stato considerato al momento del rilascio il parere negativo dell’Ispettorato del lavoro competente per territorio.
Il Tribunale capitolino con la citata sentenza, innanzitutto, ribadisce che la permanenza della validità del permesso di soggiorno stagionale non è requisito previsto dall’art. 24, co. 10, d.lgs. 286/98 per la sua successiva conversione. Deve, invece, considerarsi la rilevanza in materia anche dell’art. 5, co. 5, d.lgs. 286/98 a norma del quale si impone di tenere in considerazione, in favore del rilascio del permesso di soggiorno, gli elementi sopravvenuti e si vieta di considerare preclusive al riconoscimento del vantato diritto della persona le irregolarità amministrative sanabili. Queste disposizioni, invero, implicano che non vi siano termini decadenziali basati esclusivamente sul dato cronologico. La tesi opposta, fondata su un’interpretazione analogica delle norme estensiva alla fattispecie normativa in esame di un’ipotesi di decadenza relativa ad altre ipotesi di conversione, introdurrebbe in modo surrettizio un termine perentorio non espressamente previsto dal legislatore, dovendosi considerare dunque illegittima.
In secondo luogo, si afferma che alcuna prova la prefettura aveva fornito in merito alla sussistenza del parere negativo dell’Ispettorato territoriale del lavoro, questione specificamente contestata dal ricorrente e sulla quale nulla aveva replicato l’Amministrazione resistente, non assolvendo così al suo onere di controdeduzione e di prova.
Le indicate pronunce non sono isolate e trovano precedenti specifici in altre decisioni della giustizia amministrativa tra cui si segnalano: Tar Lazio, Roma, sez. I, 30.1.2024 n. 1840; Tar Calabria, Reggio Calabria, 24.6.2024, n. 420; Tar Lombardia, Brescia, sez. II, 23.9.2024, n. 753; Tar Lombardia, sentenza n. 1502/2023 e Tar Lazio, sentenza 1840/2024.
Revoca nulla osta al lavoro
È nota la difficoltà che il complesso sistema normativo vigente in materia di ingresso dei cittadini stranieri in Italia per motivi di lavoro pone a tali persone allorquando, per motivi non dipendenti dalla volontà del lavoratore, bensì del datore di lavoro, non sia possibile acquisire il permesso di soggiorno. Ciò accade nonostante il lavoratore straniero abbia fatto ingresso in Italia a seguito di rilascio, da parte delle competenti autorità, del nulla osta alla assunzione del lavoratore da parte del datore di lavoro e del visto per motivo di lavoro (talvolta di natura stagionale) in favore del lavoratore.
Accade non di rado, tuttavia, che, pur avendo ottenuto il nulla osta al lavoro (stagionale o meno) subordinato i cittadini stranieri che hanno fatto ingresso nel territorio nazionale, sono successivamente destinatari della revoca del provvedimento per omessa sottoscrizione del contratto di lavoro da parte del datore di lavoro. Ovvero di un fatto relativamente al quale non possono essere ritenuti responsabili. Si pone dunque il tema della possibilità di rilascio di un titolo di soggiorno “per attesa occupazione”, ovvero quello della possibilità di subentro di altro datore di lavoro a fronte di quello originario e inadempiente.
Come vedremo, nella giurisprudenza che si sta formando su tali aspetti assumono rilevanza le riflessioni maturate in tema di regolarizzazione ex art. 103, art. 103, co. 1, d.l. 34/2020, convertito con l. 17 luglio 2020, n. 77, e la giurisprudenza su segnalata del Consiglio di Stato che ha spesso ritenuto che eventuali mancanze imputabili al datore di lavoro non sono preclusive della possibilità di regolarizzare la posizione giuridica del cittadino straniero irregolarmente presente in Italia. Ciò emerge, in particolare, dalla lettura di Consiglio di Stato, sentenza del 13.11.2024, n. 9131 che si è occupato del tema del subentro di una ditta (nel caso di specie avente il medesimo titolare della prima richiedente) nell’assunzione di un lavoratore e nel procedimento amministrativo relativamente al quale la domanda di nulla osta al lavoro era stata avanzata da altra azienda. Richiesta rigettata dalla localmente competente prefettura.
Il richiamo ai precedenti su indicati porta, da un lato, a confermare che le garanzie procedimentali di partecipazione vanno rispettate non solo nei confronti del datore di lavoro, bensì anche del lavoratore (conformemente a quanto statuito da Consiglio di Stato, sentenza del 24.9.2024, n. 7757) e, in secondo luogo, a valorizzare aspetti sostanziali che garantiscano l’ottenimento dell’utilità giuridica sottesa alla domanda amministrativa di subentro di un nuovo datore di lavoro nel procedimento precedentemente iniziato ad istanza di altra azienda tenendo conto che il diniego motivato in relazione a circostanze estranee alla sfera di responsabilità del lavoratore/ricorrente possono dare luogo ad una carenza di istruttoria denunciabile dinanzi alla competente autorità giudiziaria.
Principi similari sono argomentati dal Tar Veneto, ord. del 11.12.2024, n. 512, con riferimento ad un ricorrente, entrato in Italia con regolare visto per lavoro subordinato, il quale si è trovato impossibilitato a sottoscrivere il contratto di soggiorno per fatti imputabili al datore di lavoro e, quindi, è stato di fatto penalizzato senza colpa da un fattore sopravvenuto durante la procedura di emersione. Il Collegio ha «ritenuto, pertanto, sussistente il requisito del fumus boni iuris, alla luce della giurisprudenza secondo cui, in casi come quello di cui trattasi, l’Amministrazione è tenuta a valutare la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso per attesa occupazione, così da consentire al ricorrente di trovare un nuovo datore di lavoro (Tar Liguria, sez. I, 17 giugno 2024, n.444)».
La buona fede del lavoratore straniero costituisce la base motivazionale, altresì, di Tar Campania, Napoli, ordinanza del 23.1.2025, n. 157, ove, ancora una volta, a fronte del nulla osta all’ingresso per lavoro rilasciato al datore di lavoro, all’ingresso del lavoratore in Italia e della indisponibilità dell’azienda di portare a termine la procedura amministrativa, la prova dell’avere altro rapporto di lavoro in corso con altra ditta deve ritenersi elemento legittimante il subingresso del nuovo datore di lavoro nel rapporto e il rilascio del permesso di soggiorno in favore del lavoratore.
Permesso di soggiorno per protezione speciale e conversione in permesso per lavoro
Si segnala per le comuni problematiche riscontrate presso differenti questure italiane, la rilevante Tar Veneto, sentenza del 28.10.2024, n. 2508 secondo la quale viola l’art. 9, co. 3, d.p.r. 394/1999, l’Amministrazione che nega la conversione del permesso di soggiorno rilasciato per protezione speciale in quello per motivo di lavoro in assenza di passaporto del richiedente. Difatti l’indicata norma stabilisce il dovere di accettazione di documenti equipollenti al passaporto (come, ad esempio, la dichiarazione dell’Ambasciata), laddove siano forniti elementi idonei a dimostrare l’identità del richiedente e la sua impossibilità o difficoltà nel procurarsi il passaporto.
Nel richiamare giurisprudenza conforme intervenuta sul punto (cfr. Tar Emilia Romagna, Bologna, sentenza del 21.2.2024, n. 134; Tar Lazio, Roma, sentenza del 5.10.2017, n. 10072), si afferma che «l’impossibilità di ottenere un passaporto non può costituire un ostacolo insormontabile alla conversione del permesso di soggiorno, qualora siano presenti attestazioni consolari valide».
Permesso di soggiorno per cure mediche e sua convertibilità in permesso per lavoro
Il permesso di soggiorno per cure mediche è principalmente disciplinato dall’art. 36, d.lgs. 286/98, in favore della persona straniera che richieda il corrispondente visto di ingresso dall’estero, e dall’art. 19, co. 2, lett. d-bis), d.lgs. 286/98 quale conseguenza della valutata inespellibilità del cittadino straniero. Le seguenti segnalazioni attengono, principalmente, la seconda delle due ipotesi su indicate.
Ai sensi dell’art. 19, co. 2, lett. d-bis), d.lgs. 286/98 non è consentita l’espulsione, salvo che nei casi previsti dall’art. 13, co. 1, del medesimo decreto legislativo, nei confronti «degli stranieri che versano in condizioni di salute derivanti da patologie di particolare gravità, non adeguatamente curabili nel Paese di origine, accertate mediante idonea documentazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, tali da determinare un rilevante pregiudizio alla salute degli stessi, in caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza. In tali ipotesi, il questore rilascia un permesso di soggiorno per cure mediche, per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, comunque non superiore ad un anno, rinnovabile finchè persistono le condizioni di cui al periodo precedente debitamente certificate, valido solo nel territorio nazionale».
In merito a tale titolo di soggiorno si segnala Tribunale di Torino, sentenza n. 4.12.2024, proc. n. 14676/24 r.g. , pronuncia che interviene sia sulla durata del citato permesso di soggiorno sia sul suo contenuto.
Relativamente alla durata del titolo sottolineiamo innanzitutto l’importanza della relativa questione anche ai fini dell’accesso alle misure di assistenza sociale in favore delle persone invalidi (argomento trattato in questa Rassegna Ammissione e Soggiorno della Rivista n. 2.2024 con la segnalazione, in particolare, di Tribunale di Roma, ord. del 19.4.2024 e Tribunale di Civitavecchia, sez. lavoro, sent. del 18.4.2024 resa nel proc. n. 2371/2023).
La su indicata sentenza torinese, innanzitutto, stigmatizza la mancata motivazione della locale questura in merito al rilascio del titolo di soggiorno per soli 6 mesi e non per la durata annuale pur prevista dalla legge, ordinando così la rettifica del permesso di soggiorno. Si specifica, sempre sul punto, che il dies a quo della durata del titolo di soggiorno dovrà partire dalla data del deposito della sentenza.
In secondo luogo, la pronuncia si individua di particolare interesse in quanto afferma chiaramente che il permesso di soggiorno per cure mediche (rilasciato con la specifica dicitura “Non valido per lavoro”) consente al titolare lo svolgimento di attività di lavoro subordinato o autonomo. Il Tribunale rileva che non è possibile alcuna differenziazione del permesso per cure mediche rilasciato ai sensi dell’art. 36, d.lgs. 286/98 (norma che, al terzo comma, autorizza esplicitamente il titolare allo svolgimento di attività lavorativa) con quello recante la medesima dicitura di cui all’art. 19, co. 2, lett. d-bis), d.lgs. 286/98. Pur notando che alcuna disposizione normativa afferma esplicitamente la possibilità di esercitare attività lavorativa qualora in possesso del titolo di cui al citato art. 19 TUI, il Tribunale considera che, egualmente, alcuna disposizione nega tale diritto. L’interpretazione costituzionalmente orientata delle pertinenti norme, tenendo conto della rilevanza in materia della clausola generale di cui all’art. 2 TUI (a norma del quale «Lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l’Italia e il presente testo unico dispongano diversamente. Nei casi in cui il presente Testo unico o le Convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità, essa è accertata secondo i criteri e le modalità previste dal regolamento di attuazione») non può prescindere dalla valutazione del diritto costituzionalmente garantito al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e impone, differentemente da quanto ritenuto dall’Amministrazione, il rilascio del titolo di soggiorno privo della dicitura “Non valido per lavoro”. Alcuna rilevanza può invece avere la circostanza che tale permesso di soggiorno non possa essere invece convertito in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Di pari interesse in materia si presenta anche la pronuncia del Tribunale di Bologna, ordinanza del 10.11.2024, proc. n. 2774/2023 r.g. Essa riguarda la domanda di rinnovo di un permesso di soggiorno per cure mediche in favore di un cittadino marocchino affetto da diverse problematiche di salute, ristretto in carcere e in attesa di potere espiare la pena residua in regime di affidamento in prova terapeutico al servizio sociale in struttura comunitaria. Non sfuggirà al lettore, dunque, la rilevanza della decisione per la tutela di tutte le persone straniere che sono detenute e che, in ogni caso, hanno diritto di ottenere un permesso di soggiorno.
Il provvedimento di rigetto dell’istanza amministrativa, motivato dalla inespellibilità del richiedente proprio in quanto ristretto, è stato ritenuto illegittimo innanzitutto in quanto «in ipotesi, al ricorrente potrebbe essere applicata proprio la misura “alternativa” dell’espulsione di cui all’art. 16, co. 5, del TUI ed inoltre la pena espianda potrebbe subire ulteriori ridimensionamenti per effetto di istituti quali la liberazione anticipata».
L’ordinanza, inoltre, restituisce un prezioso approfondimento e un quadro aggiornato della situazione del sistema sanitario marocchino, rilevante al fine della dimostrazione della impossibilità di cura nel Paese di origine del richiedente il rilascio/rinnovo del titolo di soggiorno. In particolare, sono approfondite la normativa del Regno di Marocco in materia di salute mentale, il sistema di finanziamento del sistema sanitario, la disponibilità di strutture e barriere geografiche, la disponibilità di personale medico e di trattamenti da ciò derivanti, insieme alle barriere economiche e sociali (anche attinenti la stigmatizzazione del malato, in particolare quello “di mente”).
All’esito di tale quadro il giudice monocratico afferma «come in Marocco il trattamento e la cura delle patologie psichiche e delle dipendenze patologiche risulti tutt’ora alquanto deficitario, per la carenza di strutture, l’obsolescenza di quelle presenti, la mancanza di terapie adeguate, l’esiguità del personale dedicato al settore, oltre che per il rilevante stigma ed il pregiudizio che ancora circonda, anche tra il personale sanitario, l’approccio alla patologia psichiatrica». La pronuncia si dimostra di interesse anche perché prende in debita considerazione gli effetti (su cui si veda infra) della recente abrogazione della norma relativa alla convertibilità del permesso di soggiorno per cure mediche in permesso di soggiorno per motivi di lavoro affermando che «in considerazione del fatto che la relativa domanda è stata dal medesimo presenta in data 27.1.2023, prima, pertanto, dell’entrata in vigore della modifica apportata alla predetta norma dall’art. 7, co. 1, lett. c), del d.l. n. 50/2023 convertito, con modificazioni, nella L. n. 20/2023, potrà essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro».
Questa decisione del Tribunale di Bologna si inserisce, dunque, anche nell’ambito del dibattito giurisprudenziale in materia di conversione del permesso di soggiorno per cure mediche in permesso di soggiorno per motivo di lavoro. La questione, già affrontata nelle precedenti Rassegne Ammissione e Soggiorno della Rivista n. 2.2024 e n. 3.2024, ha assunto specifico rilievo con la l. n. 50/2023, di conversione del d.l. 20/2023, entrata in vigore il 6 maggio 2023, che ha abrogato l’art. 6, co. 1-bis), lett. h-bis), d.lgs. 286/98. È stata, così, eliminata la possibilità di convertire il permesso di soggiorno per cure mediche in un permesso di soggiorno per motivo di lavoro. Fermi alcuni dubbi di costituzionalità della norma su cui non entriamo in questa sede, occorre dare atto di diverse pronunce degne di segnalazione che sono recentemente intervenute in materia, in particolare modo in merito alla interpretazione dell’art. 7, co. 2 e 3, d.l. 20/2023, come convertito in l. 50/2023, che stabilisce un regime intertemporale la cui formulazione ha fatto sorgere differenti dubbi interpretativi.
Ne è certamente indice Tar Veneto, sentenza del 14.10.2024, n. 2417 che si riferisce al caso del titolare di un permesso di soggiorno per cure mediche, il quale ha avanzato domanda di conversione dello stesso successivamente al 10.3.2023, data di entrata in vigore della novella normativa su citata. Ricostruito il quadro normativo – con riferimento, in particolare, alla valenza dell’art. 7 d.l. 20/2023, convertito con la l. 50/2023, in materia di regime intertemporale – il Collegio di merito afferma, in primo luogo, che, ai sensi della disposizione transitoria dell’art. 7, comma 2, del decreto legge cit. la disciplina previgente (legittimante la conversione del permesso di soggiorno) si applica soltanto laddove «lo straniero abbia presentato l’istanza di conversione del permesso di soggiorno per cure mediche prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legge (10 marzo 2023) e che, trattandosi di una norma eccezionale, non è possibile superare il dato letterale, chiaramente indirizzato a circoscrivere l’ambito della deroga, dilatandolo fino a ricomprendere fattispecie in essa non previste». Egualmente non suscettibile di applicazione analogica sarebbe l’art. 7, co. 3, d.l. 20/2023, come convertito in legge, perché «trattandosi di una norma eccezionale, la stessa non è suscettibile di applicazioni analogiche e, quindi, trova applicazione solo per i permessi di soggiorno per protezione speciale, attribuiti sulla base della disciplina pregressa e in presenza delle condizioni di cui all’art. 19, comma 1.1, del d.lgs. n. 286/1998».
L’indicata pronuncia è stata però oggetto di impugnazione innanzi al Consiglio di Stato il quale con ordinanza del 13.1.2025, n. 118, richiamando suoi precedenti (cfr. in particolare, le ordd. nn. 3313/2024, 3314/2024 e 3747/2024), ha invece sospeso l’esecutività della su commentata sentenza del giudice di merito, ritenendo sussistenti apprezzabili motivi di fondatezza del ricorso.
Deve darsi atto che Consiglio di Stato, ord. nn. 3313/2024 e 3314/2024 attengono alla fattispecie (parzialmente diversa) del regime intertemporale di cui al citato art. 7 in relazione alla convertibilità del permesso di soggiorno per protezione speciale in permesso di soggiorno per motivo di lavoro; al contempo, però, Consiglio di Stato, ord. n. 3747 del 11.10.2024 ha, invece, affrontato esattamente la questione della convertibilità in permesso di soggiorno per motivo di lavoro del permesso di soggiorno per cure mediche affermando, da un lato, che «il permesso per protezione internazionale ed il permesso per cure mediche hanno – per espressa previsione contenuta nella rubrica del citato art. 7 del d. l. 20/2023 – il medesimo regime di conversione» e, d’altro che «La legge ha posto come sbarramento temporale, ai fini della convertibilità del titolo, unicamente quello della data di presentazione dell’istanza di protezione speciale, e non altri, sicché il dato letterale del citato comma 2 non consente di inserire una ulteriore condizione ostativa (implicita), limitativa di un così rilevante diritto (…..)». Tale pronuncia era stata segnalata in questa Rassegna Ammissione e Soggiorno nel fascicolo 3.2024 della Rivista.
Conferma di tale mutato indirizzo si ha, indirettamente, dalla successiva Tar Veneto, ord. del 23.1.2025, n. 24 la quale, richiamando esattamente l’ultima pronuncia del Consiglio di Stato su segnalata, ha ritenuto di valorizzare quale sbarramento temporale alla convertibilità del permesso di soggiorno per cure mediche non già la data di presentazione dell’istanza di conversione del titolo quanto, piuttosto, la data di rilascio del primo permesso di soggiorno per cure mediche. Ne discende, utilizzando le parole del Collegio veneto, che «il provvedimento impugnato si fonda sul non condivisibile assunto che la conversione chiesta dal ricorrente non sia prevista dalla normativa vigente, senza tuttavia considerare che l’art. 7 d.l. n. 20/2023, convertito con modificazioni dalla l. n. 50/2023, nell’eliminare, al comma 1, la possibilità di convertire i permessi per cure mediche in permessi per motivi di lavoro, ha introdotto però, al comma 2, una disposizione transitoria, secondo la quale “Per le istanze presentate fino alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero nei casi in cui lo straniero abbia già ricevuto l’invito alla presentazione dell’istanza da parte della Questura competente, continua ad applicarsi la disciplina previgente». L’ordinanza in rassegna continua affermando che «tale disposizione è da intendersi nel senso che per i possessori di permessi per cure mediche rilasciati in forza di domanda presentata prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 20/2023 e del tutto equiparabili ai fini della conversione al permesso di protezione internazionale (Cons. St., sez. III, ord. n. 3747/2024), si applica in toto il regime previgente al d.l. n. 20/2023, compresa la disciplina sulla convertibilità del permesso di soggiorno di lavoro subordinato».
Rinnovo (o conversione) del permesso di soggiorno e rilevanza della sentenza n. 88/2023 Corte Cost.
Abbiamo avuto modo di segnalare nella Rassegna Ammissione e Soggiorno in questa Rivista, n. 2.2023 la sentenza n. 88/2023 della Corte costituzionale, con la quale il Giudice delle leggi ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui ricomprende, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle, pur non definitive, per il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.p.r. n. 309 del 1990 e quelle definitive per il reato di cui all’art. 474, secondo comma, cod. pen., senza prevedere che l’autorità competente verifichi in concreto la pericolosità sociale del richiedente».
Le due decisioni che seguono sono sintomatiche della importanza della indicata decisione e, per converso, della necessità da parte dell’Amministrazione pubblica di adeguarsi alla stessa.
Proprio facendo richiamo alla decisione della Corte costituzionale il Consiglio di Stato, sentenza del 22.2.2024, n. 1759 afferma che, pur essendovi stata a carico del richiedente la conversione del permesso di soggiorno per motivi familiari in motivi di lavoro autonomo una condanna per il reato di commercio e detenzione di sostanze stupefacenti, nell’ipotesi più lieve, di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, stante incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, occorre sempre «valutare in concreto la sua pericolosità sociale tenendo conto, da un lato, del tipo di reato commesso e, dall’altro, della sua condizione familiare e lavorativa in base agli elementi di fatto forniti dall’interessato ed operando, quindi, il necessario bilanciamento tra gli opposti interessi, fornendo un’adeguata motivazione sulla scelta operata che, allo stato, risulta affetta da irragionevolezza sproporzione».
Gli effetti della decisione del Giudice costituzionale riverberano altresì nei giudizi innanzi ai Tribunali, come dimostra Tar Puglia, Bari, sentenza del 19.7.2024, n. 881 che valorizza la «posizione di integrazione sociale ed economica meritevole di riconsiderazione» proprio in applicazione dell’intervenuta sentenza della Corte costituzionale dell’8 maggio 2023, n. 88. Si puntualizza che «l’autorità competente è tenuta a verificare in concreto la pericolosità sociale del richiedente» così annullando per difetto di motivazione e di carenza istruttoria la pregressa decisione amministrativa.
Permesso UE di lungo soggiorno e maltrattamenti in famiglia
Con sentenza n. 890/2024 il Tar Emilia Romagna, Bologna, affronta il caso di un provvedimento di revoca di un permesso UE di lungo soggiorno motivato sulla base di una pregressa condanna penale del 2001 e di una denuncia per maltrattamenti familiari del 2023. Nel corso del giudizio è emerso che erroneamente la questura aveva indicato l’esistenza della pregressa condanna, mentre era reale la recente denuncia ex art. 572 c.p. Tuttavia, il giudice regionale ritiene illegittimo il provvedimento di revoca poiché la questura non ha effettuato un bilanciamento tra elementi negativi (la denuncia) e gli elementi positivi (durata della presenza in Italia, attività lavorativa svolta, percorso terapeutico presso il SERT e il Centro per uomini maltrattanti) e richiamando principi giurisprudenziali già espressi (Cons. Stt. n. 4574/2024 e n. 4606/2024) ribadisce la necessità di una verifica della pericolosità sociale concreta e attuale, priva di automatismi, ai fini della revoca del permesso UE di lungo soggiorno di cui all’art. 9 TU d.lgs. 286/98.
TITOLO DI VIAGGIO
La già citata sentenza del Tar Veneto del 28.10.2024, n. 2508, afferma un principio di rilevante importanza con riferimento al silenzio serbato dall’Amministrazione competente (la questura) in materia di rilascio del titolo di viaggio a cittadini stranieri sprovvisti di passaporto e impossibilitati ad ottenerlo.
Innanzitutto, il Collegio ricorda che, come già statuito da altra giurisprudenza amministrativa (tra cui si cita Tar Puglia, Bari, 26.9.2016, n. 1130) «il provvedimento amministrativo che rinvia sine die una decisione senza motivazioni adeguate configura un comportamento soprassessorio, contrario al principio di certezza del diritto e all’obbligo di conclusione del procedimento amministrativo.
Per tale ragione, il ricorrente ha diritto alla conclusione del procedimento nei tempi previsti dalla legge, sicché si può già anticipare che deve trovare accoglimento la domanda contra silentium proposta in via subordinata e nei limiti di seguito esposti».
Prosegue la pronuncia specificando che il titolo di viaggio deve essere rilasciato in favore di cittadini stranieri che non possono ottenere un passaporto dalle autorità del loro Paese, in quanto configurerebbe una violazione dei diritti riconosciuti dall’ordinamento italiano impedire loro di uscire o viaggiare (si cita, al riguardo, anche Tar Campania Napoli, sez. VI, 19 febbraio 2021 n. 1069), e d’altra parte «la pretesa del ricorrente trova fondamento nelle disposizioni impartite dall’amministrazione con le circolari del Ministero degli affari esteri del 31 ottobre 1961 e del Ministero dell’interno del 24 febbraio 2003». Ciononostante nel caso specifico, l’Amministrazione non avrebbe fornito alcuna valida motivazione in merito alla mancata applicazione, nei confronti del ricorrente, della circolare del Ministero dell’interno del 24 febbraio 2003, «la quale, certo, non è idonea ad attribuire allo straniero tutelato da protezione speciale un diritto soggettivo ad ottenere il titolo di viaggio; essa, tuttavia, prevede espressamente la possibilità delle autorità italiane di rilasciare il titolo nel caso in cui lo straniero si trovi nell’impossibilità di ottenere il passaporto da parte dell’autorità dello Stato di origine».