Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti
a) Non-refoulement
In A.D. e altri c. Svezia (Corte EDU, sentenza del 7.05.2024), una famiglia di cittadini albanesi (padre, madre e tre figli) rischiava di essere allontanata nel loro Paese di origine dopo il rigetto della loro domanda di asilo, presentata in ragione della temuta persecuzione da parte di attori non statali. Il primo ricorrente era stato poliziotto in Albania e aveva deciso di raggiungere la Svezia dopo il tentato sequestro di sua figlia da parte di persone sconosciute. Data anche la corruzione dilagante tra le autorità albanesi, i ricorrenti sostenevano di non aver denunciato l’accaduto alla polizia perché, in ogni caso, il loro Paese di origine non sarebbe in grado di tutelarli da questo tipo di minaccia. Le autorità svedesi, amministrative e giudiziarie, rigettavano la loro richiesta perché, al di là di alcuni aspetti poco chiari, non si può ritenere che l’Albania non abbia la capacità o la volontà di proteggere i propri cittadini in una situazione siffatta (ad es. United Kingdom Home Office, Country Policy and Information Note – Albania: Background information, including actors of protection and internal relocation, 24.07.2017; European Asylum Support Office, Albania Country Focus, 1.11.2016), protezione che peraltro i ricorrenti non avevano nemmeno chiesto prima di recarsi in Svezia. I successivi tentativi di ottenere il riesame della loro richiesta di protezione, sulla base di presunti nuovi episodi di violenza contro i loro familiari ancora in Albania, venivano egualmente rigettati. Dinanzi la Corte EDU, lamentavano pertanto una possibile violazione dell’art. 3 CEDU nel caso in cui siano allontanati nel loro Paese di origine.
La Corte EDU ricorda come, in ragione del carattere assoluto del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, il pericolo nel Paese di destinazione può emanare sia dalle autorità dello Stato sia da attori non statali, posto che i rischi siano effettivi e non possano essere adeguatamente fronteggiati dalle stesse autorità locali. In questi casi, spetta alla presunta vittima avanzare elementi sufficienti per dimostrare che tali rischi siano reali (Corte EDU, 23.08.2016, J.K. e altri c. Svezia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Nel caso dei ricorrenti, la Corte osserva come, nello Stato convenuto, essi abbiano avuto a disposizione mezzi effettivi per far valere il rischio di refoulement, compresa la garanzia di un supporto legale e di adeguati servizi di interpretariato, nonché la possibilità di esporre sia oralmente sia per iscritto il proprio resoconto dei fatti. Inoltre, le autorità svedesi hanno dato prova di un attento esame di tutta la documentazione rilevante. Infatti, se è vero che, come hanno affermato le stesse autorità interne, possa sussistere un pericolo di subire maltrattamenti da parte di attori non statali in caso di allontanamento, la Corte EDU concorda con la conclusione alla quale è giunto lo Stato convenuto: per quanto sperimenti ancora qualche difficoltà in merito alla corruzione tra i propri agenti di polizia, l’Albania – uno Stato parte della CEDU – ha approvato importanti riforme che la rendono in grado di fornire una protezione adeguata contro la criminalità organizzata. Se ciò è letto alla luce dei dubbi comunque esistenti sull’esatta dinamica dei fatti riportati dai ricorrenti e del fatto che, in assenza di denunce circostanziate, non sia stata data la possibilità alle autorità albanesi di attivarsi efficacemente nei loro confronti, per la Corte EDU l’allontanamento dei ricorrenti non darebbe origine a una violazione dell’art. 3 CEDU.
Il caso F.O. e G.H. c. Belgio (Corte EDU, decisione del 16.05.2024) riguarda una coppia di cittadini del El Salvador che, avendo visto rigettata la loro domanda di protezione internazionale in ragione della temuta persecuzione ad opera di una gang, riteneva di non poter essere allontanata nel loro Paese di origine per il rischio di essere esposta a trattamenti inumani o degradanti. La Corte EDU ritiene che, nel loro caso, la lamentata violazione non possa derivare dal semplice rigetto della domanda di protezione internazionale poiché i ricorrenti, tuttora in Belgio, non sono anche destinatari di un ordine di allontanamento. Anche laddove fosse adottata nei loro confronti una misura siffatta, essi avrebbero a disposizione in tale ordinamento mezzi di ricorso interni effettivi per far valere, prima di essere allontanati, eventuali rischi di subire trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU. Per questa ragione, ai sensi dell’art. 34 CEDU, i signori F.O. e G.H. non possono al momento ritenersi “vittime” di una violazione del divieto di refoulement con il conseguente rigetto del loro ricorso da parte della Corte.
b) Condizioni materiali
In W.S. c. Grecia (Corte EDU, sentenza del 23.05.2024) un cittadino afghano di minore età giungeva in Grecia nel 2019 e, tramite una ONG, veniva segnalata alle autorità competenti la sua volontà di chiedere protezione internazionale. Fino al trasferimento in un Centro adeguato alla sua minore età, veniva dapprima abbandonato al suo destino e poi trattenuto nei locali della polizia di Kolonos dove, a causa delle precarie condizioni in cui versava, tentava anche il suicidio. Solo grazie all’intervento della Corte EDU, chiamata a indicare misure provvisorie ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento interno, veniva preso effettivamente in carico dalle autorità con l’attribuzione di un alloggio e l’erogazione delle necessarie cure mediche e psicologiche. Il sig. W.S. lamentava quindi una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU) per la totale privazione dei servizi essenziali subita fino alla sua collocazione nei locali di polizia e per il successivo trattenimento in condizioni ritenute “devastanti”, per via dell’isolamento dal mondo esterno e del conseguente impatto sulla sua salute mentale. Anche sulla base della giurisprudenza precedente (ad es., Corte EDU, 28.02.2019, H.A. e altri c. Grecia, in questa Rivista, XXII, 2, 2019), la Corte ritiene che, nonostante alle autorità fosse nota la situazione del ricorrente, la gravissima condizione materiale e di insicurezza cui è stato esposto risulta incompatibile con l’art. 3 CEDU (v. anche Corte EDU, 23.01.2024, O.R. c. Grecia, in questa Rivista, XXVI, 1, 2024), se si tiene anche conto della mancata nomina di un tutore, della totale assenza di ogni supporto per soddisfare bisogni fisici e psicologici essenziali e della privazione della sua libertà come supposta misura protettiva. Se vi è stata dunque una violazione di tale disposizione, per la Corte EDU non si può invece ritenere, come sosteneva il ricorrente, che vi sia stata anche una violazione dell’art. 34 CEDU generata dal mancato rispetto delle misure provvisorie indicate dalla stessa Corte poiché lo Stato convenuto si era conformato alle sue indicazioni. Infine, relativamente alle doglianze circa presunti ritardi nell’esame della sua domanda di ricongiungimento familiare nel Regno Unito, la Corte EDU non ritrova elementi che possano dimostrare forme di inerzia da parte delle autorità greche. Di conseguenza, questa parte del ricorso sulla presunta violazione dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto per la vita privata e familiare) è stata rigettata come manifestamente infondata.
Il caso H.L. c. Ungheria (Corte EDU, sentenza del 20.06.2024) è relativo a un cittadino iracheno che, giunto nello Stato convenuto nel 2018, presentava domanda di protezione internazionale nella zona di transito di Tompa. Dopo qualche mese, la sua richiesta veniva respinta e ne veniva ordinato l’allontanamento con contestuale trattenimento in un’area isolata della stessa zona di transito, alla quale nemmeno le NGO e l’UNHCR erano ammessi. Il ricorrente lamentava di aver subito maltrattamenti vietati dall’art. 3 CEDU per via, in particolare, dell’assenza totale di cibo nelle prime settimane di detenzione, dell’impossibilità di muoversi liberamente senza scorta e della stessa durata del trattenimento pari a undici mesi (inizio luglio 2019 – fine maggio 2020). Per la Corte EDU, nella sua composizione di comitato di tre giudici, l’assenza di cibo per oltre una settimana è per se sufficiente per ritenere che il trattamento subito dal ricorrente abbia superato la soglia di gravità prevista dall’art. 3 CEDU (cfr. Corte EDU, 2.03.2021, R.R. e altri c. Ungheria, in questa Rivista, XXIII, 2, 2021), non essendo pertanto necessario valutare le altre circostanze del caso per affermare che vi sia stata una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti. Poiché nel caso del ricorrente si trattava di una privazione della libertà personale de facto, con la conseguente applicazione dell’art. 5, par. 1, CEDU (diritto alla libertà e sicurezza), per i giudici della Corte EDU il sig. H.L. non aveva avuto a disposizione garanzie sufficienti contro l’arbitrarietà di tale trattenimento. Infatti, designando la zona di transito come luogo in cui confinarlo in vista del suo allontanamento, la privazione di libertà subita dal ricorrente era avvenuta in assenza di una decisione formale e circostanziata che comprendesse anche l’indicazione di un preciso limite temporale. Di conseguenza, il sig. H.L. era stato privato del diritto di contestarne la stessa legittimità dinanzi alle autorità competenti così come richiede l’art. 5, par. 4, CEDU. Per queste ragioni, nel caso del ricorrente, vi è stata anche una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 5, par. 1 e 4, CEDU).
Nel caso F.O. e altri c. Ungheria (Corte EDU, sentenza del 20.06.2024) una madre con due figli, rispettivamente di cinque anni e di cinque mesi, provenienti dall’Afghanistan venivano mantenuti nella zona di transito di Röszke per oltre un mese (11 luglio-17 agosto 2017), prima di essere trasferiti in una struttura per persone rientranti nell’ambito di applicazione del Regolamento UE n. 604/2013 (cd. di Dublino). Anche in questo caso, i ricorrenti lamentavano condizioni di trattenimento particolarmente severe date, tra l’altro, dall’insufficienza di cibo, dalla mancata vaccinazione del neonato, dall’assenza di servizi di supporto psicologico. Alla luce di tali condizioni (v. anche Corte EDU, Grande Camera, 21.11.2019, Ilias e Ahmed c. Ungheria, in questa Rivista, XXII, 1, 2020) e per le stesse ragioni già esposte in H.L. c. Ungheria (v. sopra), la Corte EDU (comitato di tre giudici) ritiene che nei confronti dei ricorrenti vi sia stata una violazione dell’art. 3 CEDU. Quanto invece alla lamentata violazione del diritto alla libertà e sicurezza, per la Corte tale disposizione non risulta applicabile nel caso di specie. Infatti, se è vero che la durata del trattenimento non è stata eccessiva rispetto ai tempi necessari per esaminare la loro domanda di protezione internazionale, i ricorrenti erano comunque liberi di uscire dalla zona di transito e recarsi, in ogni momento, verso la Serbia. Per queste ragioni, nonostante il coinvolgimento di persone minori di età (per tutti i riferimenti, cfr. C. Danisi, Il principio del preminente interesse del minore in ambito migratorio: verso una convergenza?, in Migration and International Law: Beyond Emergency?, a cura di G. Nesi, Napoli, 2018), non vi è stata privazione della libertà dei ricorrenti con la conseguenza di veder rigettata questa parte del ricorso.
Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza
Il caso B.A. c. Cipro (Corte EDU, sentenza del 2.07.2024) riguarda un cittadino siriano che giungeva, nel 2019, nello Stato convenuto attraverso la Turchia e le aree occupate dell’isola. Nell’ambito della valutazione della sua domanda di protezione internazionale, nelle autorità competenti emergeva il sospetto che il ricorrente potesse essere un foreign fighter e che avesse combattuto per l’ISIS. Veniva dunque arrestato e trasferito nel Centro di detenzione di Menoyia, dove rimaneva per oltre 31 mesi. I ricorsi volti a contestare la detenzione e la sua durata venivano rigettati, anche sulla base dell’argomento per cui le circostanze del caso non permettevano l’adozione di misure alternative per proteggere la sicurezza nazionale. Ritenendo tale privazione contraria alla CEDU, lamentava una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza. La Corte EDU ribadisce come, nonostante l’art. 5, par. 1, lett. f) permetta una restrizione della libertà personale per prevenire l’ingresso irregolare nel territorio delle Parti (v. Corte EDU, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017; Grande Camera, 21.11.2019, Ilias e Ahmed c. Ungheria, in questa Rivista, XXII, 1, 2020), il trattenimento subito dal ricorrente risulta in realtà in contrasto con questa disposizione perché era motivato da ragioni legate alla tutela della sicurezza nazionale, come riportavano tutte le decisioni adottate nei suoi confronti. Anche supponendo che il ricorrente fosse stato trattenuto per evitarne l’ingresso nello Stato convenuto, la privazione della libertà da lui subita risulta comunque arbitraria a causa della sua eccessiva durata. Non vi erano infatti ragioni, come ad esempio particolari esigenze di identificazione, che potessero giustificarla. Vi è stata pertanto, nei suoi confronti, una violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU, cui si aggiunge la violazione del diritto a un mezzo di ricorso effettivo per l’impossibilità di contestare il trattenimento subito (art. 5, par. 4) data la irragionevole durata dei ricorsi avviati dal ricorrente, pari a oltre due anni, per la quale lo Stato convenuto non ha avanzato adeguate motivazioni.
Anche nel caso K.A. c. Cipro (Corte EDU, sentenza del 2.07.2024) un cittadino proveniente dal Marocco, dopo essere entrato in modo irregolare nello Stato convenuto e aver presentato domanda di asilo, veniva trattenuto nel Centro di detenzione di Menoyia per motivi di sicurezza nazionale legati a presunte attività terroristiche. Gli iniziali ricorsi volti a contestare il trattenimento, ritenendolo contrario all’art. 5 CEDU, venivano rigettati ma, dopo un anno, la Corte Suprema decideva di rilasciare il ricorrente in assenza di elementi sufficienti per ritenere che i supposti pericoli alla sicurezza nazionale continuassero a sussistere. Veniva dunque trasferito, dopo un periodo di quarantena, in un Centro di accoglienza per migranti in attesa che il suo appello contro il rigetto della domanda di protezione internazionale fosse esaminato. Dopo aver rigettato le parti del ricorso rispetto alle quali il ricorrente non aveva esaurito i ricorsi interni disponibili o era ancora in attesa della decisione finale, la Corte EDU si concentra sulla presunta violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza relativamente alla presunta inesistenza di un mezzo rapido per contestare la legittimità del trattenimento (art. 5, par. 4, CEDU). Alla luce dei ritardi con i quali era stato valutato, in particolare, l’appello presentato dal ricorrente contro l’iniziale decisione negativa sulla legittimità della sua detenzione, pari a nove mesi di inattività che lo Stato convenuto non aveva giustificato né erano dipesi dal comportamento dello stesso sig. K.A., per la Corte EDU anche nel suo caso vi è stata una violazione dell’art. 5, par. 4, CEDU.
Art. 8: Diritto al rispetto per la vita privata e familiare
In D.H. e altri c. Svezia (Corte EDU, sentenza del 25.07.2024) la Corte EDU è chiamata a valutare la presunta violazione dell’art. 8 CEDU lamentata da una famiglia di cittadini eritrei, composta dalla prima ricorrente, alla quale era stato riconosciuto lo status di rifugiata, i suoi due figli e sua madre. Questi ultimi erano domiciliati in Sudan e intendevano ottenere il ricongiungimento familiare nello Stato convenuto. La sig.ra D.H. affermava, tra le altre cose, che aveva ottenuto il consenso del padre dei figli per il loro trasferimento in Svezia e che il ricongiungimento della madre era necessario poiché, come persona disabile, aveva bisogno di assistenza con i figli. La domanda di ricongiungimento veniva però rigettata perché, secondo i requisiti interni, la prima ricorrente non riusciva a soddisfare sufficienti risorse economiche e un alloggio adeguato per l’intero nucleo familiare. Nel suo caso specifico, non poteva essere applicata la deroga prevista per i rifugiati poiché la domanda di ricongiungimento era stata presentata oltre tre mesi dopo l’avvenuto riconoscimento. La Corte EDU esamina, innanzitutto, l’obiezione preliminare dello Stato convenuto, secondo il quale l’oggetto della controversia era venuto meno per l’adozione di una normativa che oggi permette ai ricorrenti di presentare domanda di ricongiungimento e, soddisfatte specifiche circostanze, ottenere una deroga rispetto ai requisiti materiali previsti al di là del momento di presentazione della stessa domanda. Tale obiezione viene rigettata dalla Corte poiché l’intervento legislativo menzionato dal Governo non ha cancellato gli effetti della possibile violazione lamentata dai ricorrenti, i quali risultano separati da oltre quattro anni per via del rigetto iniziale della loro richiesta di ricongiungimento. Ritenendo il ricorso ammissibile, la Corte EDU si interroga innanzitutto sulla nozione di “famiglia” tenendo conto che, nella sua giurisprudenza, le relazioni tra adulti non rientrano nell’ambito di applicazione di questa parte dell’art. 8 CEDU salvo l’esistenza di specifici rapporti di dipendenza (v. Corte EDU, Grande Camera, 7.12.2021, Savran c. Danimarca, in questa Rivista, XXIV, 1, 2022). Poiché la sig.ra D.H. e sua madre non hanno mai vissuto assieme in Sudan, né la prima aveva avuto bisogno del suo aiuto con i figli prima di cercare rifugio in Svezia, per la Corte non si può affermare che il loro rapporto possa essere qualificato quale “familiare” ai sensi dell’art. 8 CEDU. Rigettata pertanto la parte del ricorso riguardante la madre della sig.ra D.H., la Corte EDU esamina la presunta violazione del diritto al rispetto per la vita familiare sofferta dalla prima ricorrente e i suoi figli. A tal fine, essa ritiene opportuno esaminare il caso sotto la lente degli obblighi positivi imposti dallo stesso articolo 8 CEDU e, specificamente, se nell’adottare la decisione controversa le autorità svedesi abbiano correttamente bilanciato gli interessi generali dello Stato convenuto e quelli specifici dei ricorrenti (cfr. Corte EDU, 18.01.2024, Dabo c. Svezia, in questa Rivista, XXVI, 2, 2024). Si ricorda, a tal proposito, che l’art. 8 CEDU non impone un obbligo generale alle Parti di autorizzare il ricongiungimento familiare, le cui richieste devono tuttavia essere sempre valutate rispetto alle particolari circostanze del caso concreto (su tutte, Corte EDU, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, 3-4, 2014). Nel caso dei ricorrenti, la Corte evidenzia come la sig.ra D.H. fosse stata informata dei requisiti di legge e del limite dei tre mesi dopo il riconoscimento dello status di rifugiata entro i quali poteva ottenere la deroga prevista per non soddisfare specifiche condizioni economiche e abitative. La stessa non era stata ostacolata nell’accedere a un’adeguata assistenza legale per presentare domanda entro i tempi previsti. Inoltre, se è vero che fosse comunque possibile per i ricorrenti presentare una nuova domanda di ricongiungimento e vederla valutata secondo la nuova legge in materia, per la Corte EDU non vi sono indizi che le autorità svedesi non avessero proceduto a un esame individualizzato della loro iniziale richiesta, compresa la particolare condizione di disabilità della sig.ra D.H. Infine, non risultando impossibile per i ricorrenti mantenere vivi i loro contatti, ad esempio con visite della sig.ra D.H. in Sudan, e data l’assenza di particolari legami tra i figli e la Svezia, secondo la Corte il bilanciamento tra gli interessi in gioco operato dallo Stato convenuto risulta conforme agli obblighi derivanti dalla CEDU. Nel loro caso, non vi è quindi stata violazione dell’art. 8 CEDU. Quanto alla presunta violazione del divieto di discriminazione (art. 14 CEDU), letto in combinato con l’art. 8, che sarebbe stata generata dal diverso trattamento riservato alla prima ricorrente e ai suoi figli per via della disabilità della stessa sig.ra D.H., la Corte EDU la ritiene manifestamente infondata. Infatti, dopo aver ricordato i principi generali applicabili all’art. 14 CEDU (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 24.05.2016, Biao c. Danimarca, in questa Rivista, XIX, 1, 2017), la Corte osserva come la prima ricorrente non abbia mai sostenuto di essere inabile al lavoro con la conseguenza di non poter comunque soddisfare i requisiti controversi. Ciononostante, lo Stato convenuto ha supportata la stessa sia materialmente sia nella ricerca di un impiego che potesse, in futuro, permetterle di ottenere il ricongiungimento familiare. Alla luce di queste circostanze, non sussistono prove sufficienti per ritenere che la sig.ra D.H. sia stata trattata diversamente da altre persone richiedenti il ricongiungimento in Svezia in ragione della sua disabilità. Pertanto, questa parte del ricorso è stata rigettata.
Anche il caso Okubamichael Debru c. Svezia (Corte EDU, sentenza del 25.07.2024) riguarda una presunta violazione del diritto al rispetto per la vita familiare e del divieto di discriminazione originata dal rigetto delle prime due domande di ricongiungimento tra il ricorrente, rifugiato etiope, e sua moglie e i suoi due figli. Il ricorrente non era riuscito a dimostrare di possedere i requisiti materiali (salariali e abitativi) imposti dalla legge per provvedere alle necessità di tutta la famiglia se accolta in Svezia. In particolare, nell’ambito della seconda domanda di ricongiungimento, era stato evidenziato alle autorità interne come il ricorrente fosse oramai pensionato con problemi di salute e non avrebbe mai potuto soddisfare i requisiti previsti dalla legge. Proprio per queste ragioni, dopo l’entrata in vigore di una nuova legge che prevede una deroga in circostanze specifiche, una terza domanda di ricongiungimento veniva accolta con il conseguente trasferimento di moglie e figli in Svezia a partire dal settembre 2022. Dopo aver rigettato l’obiezione dello Stato convenuto, per il quale l’avvenuto ricongiungimento avrebbe rimediato alla violazione lamentata dal ricorrente con la conseguente perdita dello status di “vittima” ai sensi della Convenzione, la Corte EDU valuta anche questo caso sotto il profilo degli obblighi positivi (v. anche Corte EDU, Grande Camera, 9.7.2021, M.A. c. Danimarca, in questa Rivista, XXIII, 3, 2021). Per verificare se il bilanciamento operato dallo Stato convenuto fosse corretto, la Corte nota come il ricorrente non presentasse circostanze obiettive per non aver presentato domanda di ricongiungimento entro i tre mesi dal riconoscimento dello status di rifugiato in modo da ottenere la deroga dai requisiti salariali ed abitativi previsti dalla legge al tempo in vigore. Inoltre, posto che per il ricorrente e la sua famiglia era possibile ripresentare una nuova domanda di ricongiungimento e che la legge non impediva alle autorità svedesi di condurre un esame individualizzato della sua situazione, per la Corte il ricorrente non ha dimostrato di aver fatto tutto quanto possibile per soddisfare le condizioni richieste per il mantenimento della sua famiglia in Svezia. Inoltre, non esistevano particolari legami di dipendenza con la moglie e i figli o tra questi e lo Stato convenuto che avrebbero giustificato un diverso bilanciamento degli interessi in gioco (v. anche cfr. Corte EDU, 4.07.2023, B.F. e altri c. Svizzera, in questa Rivista, XXIII, 3, 2023). Su tali basi, la Corte EDU conclude che, nella valutazione della richiesta presentata dal ricorrente, la Svezia non è andata oltre il margine di apprezzamento riconosciuto alle Parti in materia di ricongiungimento e, di conseguenza, nel suo caso non vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU. Per la Corte, infine, la parte del ricorso relativa alla presunta violazione del divieto di discriminazione in ragione del suo stato di salute e della sua età è inammissibile poiché, sulla base delle informazioni disponibili, non vi sono elementi da cui possa desumersi un qualsiasi trattamento differenziato ai danni del ricorrente.
Nel caso Mirzoyan c. Repubblica Ceca (Corte EDU, sentenza del 16.05.2024) riguarda un cittadino russo che, dopo aver vissuto per alcuni anni nello Stato convenuto con un permesso di soggiorno di lungo periodo per motivi lavorativi, non ne otteneva il rinnovo. Il rifiuto era dovuto a ragioni di sicurezza nazionale secondo quanto avrebbero dimostrato informazioni riservate, mai rese accessibili al ricorrente né, se non per una limitata parte, al suo avvocato. Nonostante nell’ambito dei ricorsi interni alcuni giudici avessero accolto le doglianze del sig. Mirzoyan anche rispetto all’impatto del mancato rinnovo sulla sua vita familiare, il Ministero competente continuava a rigettare le sue diverse richieste. Tali decisioni venivano, infine, confermate a tutti i livelli dai giudici interni. Per questi, la misura presa nei confronti del ricorrente risultava proporzionata ai sensi dell’art. 8, par. 2, CEDU poiché non vi erano ostacoli al suo trasferimento in Russia e la sua famiglia risultava finanziariamente indipendente. Ritenendo che lo Stato convenuto non avesse condotto un corretto bilanciamento degli interessi collettivi e individuali implicati nel suo caso e che non sia stata effettuata una valutazione puntuale di tutte le circostanze relative alla sua famiglia e all’interesse dei suoi figli minori, il ricorrente lamentava una violazione del diritto al rispetto per la vita familiare. Per la Corte EDU, non vi sono dubbi che il ricorrente abbia subito un’interferenza nella sua vita familiare, che tale interferenza fosse prevista dalla legge e che perseguisse almeno uno tra gli interessi legittimi previsti dall’art. 8, par. 2, CEDU, ossia la tutela della sicurezza nazionale. In questi casi, per giustificare tale interferenza, è necessario che sia stata data alla persona interessata la possibilità di conoscere i fatti da cui si desume l’esistenza di una minaccia alla sicurezza nazionale, così da rendere effettivo il diritto di difesa. Laddove invece l’accesso alle informazioni risulta limitato, devono comunque essere previsti aggiustamenti procedurali in modo da rendere comunque possibile avanzare le necessarie argomentazioni a propria difesa, come ad esempio l’accesso indiretto ai documenti secretati attraverso il proprio rappresentante legale (v. Corte EDU, Grande Camera, 15.10.2020, Muhammad e Muhammad c. Romania, in questa Rivista, XXIII, 1, 2021). Per la Corte EDU, nonostante il ricorrente non abbia avuto sostanziale accesso – diretto o indiretto – ai documenti su cui erano basate le accuse utilizzate per negargli la possibilità di rimanere nello Stato convenuto, è vero che il suo caso è stato esaminato da corti indipendenti che, secondo quanto infine affermato dalla Suprema Corte Amministrativa, sono state effettivamente in grado di accedere al materiale secretato, ne hanno verificato l’autenticità e la credibilità e, al contempo, sintetizzato nel complesso le ragioni per il rifiuto opposto al ricorrente. Se a ciò si aggiunge che le autorità interne hanno tenuto conto degli obblighi derivanti dall’art. 8 CEDU nel considerare l’impatto delle decisioni controverse sulla sua vita familiare, giungendo alla conclusione che non vi fossero serie ragioni per dubitare che il ricorrente potesse mantenere un rapporto con la sua famiglia anche dalla Russia, nel caso del sig. Mirzoyan, il quale risiede tuttora nello Stato convenuto non potendo essere allontanato fino alla conclusione dei procedimenti nel frattempo avviati, non vi è stata violazione del diritto al rispetto per la vita privata e familiare.