1) Espulsione come misura alternativa alla detenzione e rispetto della vita privata e familiare ex art. 8 CEDU (anche dopo il d.l. 20/2023)
Annullando un’ordinanza del Tribunale di Catania che aveva disposto l’espulsione – a titolo di misura alternativa della pena detentiva – di un cittadino tunisino, la Prima Sezione penale della Corte di cassazione ha avuto modo di chiarire i parametri rispetto ai quali, dopo l’intervento abrogativo che ha interessato il comma 1.1 dell’art. 19 TUI, devono essere interpretati gli attuali limiti alle ipotesi espulsive.
Innanzitutto, la Corte richiama la ratio della misura alternativa ‘atipica’ prevista dall’art. 16 co. 5 TUI, volta unicamente a «ridurre la popolazione carceraria» e dunque riservata ai soli cittadini stranieri condannati e «non reintegrabili nella comunità nazionale […] non avviati a percorsi proficui di risocializzazione e per i quali non sussistano prevalenti esigenze di asilo, umanitarie ovvero di tutela della loro persona o delle loro relazioni familiari» (in questo senso già Cass. n. 9425/2019 e n. 915/2020).
Ad avviso della Corte, tale lettura trova fondamento proprio nell’art. 19 TUI laddove si trova(va) – nonostante i ripetuti interventi del legislatore – un’elencazione non tassativa di ipotesi preclusive, fortemente impregnate dei valori costituzionali e convenzionali. Sul punto la Cassazione ricorda, infatti, che già prima che il legislatore provvedesse a una loro cristallizzazione normativa nel comma 1.1. dell’art. 19, erano già «immanenti nel sistema» alcuni limiti, che la giurisprudenza di legittimità aveva in più occasioni indicato. Così, l’espulsione trovava già un limite nel rischio di un «irreparabile pregiudizio per la salute dell’individuo», nel serio pericolo di sottoposizione a pena di morte, tortura o altri trattamenti inumani e degradanti, ovvero nel rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art. 8 della CEDU. Proprio quest’ultimo, secondo la Corte, costituisce un «principio consolidato» che impone al giudice penale che intende disporre l’espulsione dello straniero la necessaria verifica che «l’allontanamento non comporti una violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, procedendo all’esame comparativo della condizione dell’interessato […] con gli altri criteri di valutazione indicati dall’art. 133 c.p., tra cui la sua capacità a delinquere, in una prospettiva di bilanciamento tra l’interesse generale alla sicurezza sociale e l’interesse del singolo alla protezione della sua sfera domestica», anche qualora gli altri componenti del nucleo familiare non siano cittadini italiani (così anche: Cass. nn. 50379/2014, 52137/2017, 10749/2023). Come noto, il d.l. n. 130/2020, conv. dalla l. n. 173/2020, aveva interpolato il citato comma 1.1 dell’art. 19 TUI., vietando espressamente il respingimento o l’espulsione in presenza di fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale potesse comportare una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dello straniero, fatte salve le ragioni imperative di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica o di protezione della salute dei residenti ni Italia. Ai fini della valutazione di tale rischio, il comma 1.1 richiamava la natura e l’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, il suo effettivo inserimento sociale in Italia, la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine. Orbene, secondo la Corte, dal momento che l’abrogazione dei precetti normativi contenuti nel comma 1.1. (avvenuta ad opera del d.l. n. 20/2023, conv. dalla l. n. 50/2023) era espressamente volta a una complessiva «rivisitazione della disciplina della protezione speciale» deve potersi escludere che la stessa «abbia la forza e rivesta il significato di scongiurare l’applicazione di norme e principi di valore sovraordinato – che, come osservato, avevano cittadinanza nell’ordinamento a prescindere dalla formale vigenza delle norme soppresse – e quindi di limitare l’incondizionata osservanza, nel diritto interno, degli obblighi nascenti dall’art. 8 CEDU». Lettura avvalorata dalla considerazione che la parte superstite del comma 1.1. continua a vietare il respingimento, l’espulsione o l’estradizione «qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6» del TUI, ossia proprio gli obblighi «costituzionali o internazionali dello Stato italiano».
La portata abrogatrice del d.l. n. 20/2023 viene dunque ridimensionata: essa incide solo sulla selezione dei criteri di valutazione che presiedono al bilanciamento chiamando l’interprete, d’ora innanzi, a fare diretto riferimento ai criteri – largamente sovrapponibili – elaborati dalla giurisprudenza sovranazionale, già richiamati e fatti propri dagli arresti della Cassazione.
Da questo ragionamento, si ricava il principio di diritto per cui «anche a seguito dell’intervenuta abrogazione del terzo e quarto periodo del comma 1.1 dell’art. 19 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, l’espulsione dello straniero a titolo di sanzione alternativa alla detenzione, prevista dall’art. 16, comma 5, d.lgs. citato, non può essere disposta quando la misura si risolva in un’ingerenza nella vita privata e familiare dell’interessato, vietata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla Corte EDU».
Si ricorda, infine, che proprio in merito all’art. 16 co. 5 TUI risultano attualmente pendenti due questioni di legittimità costituzionale sollevate, rispettivamente, dal Tribunale di Pesaro (ord. 316 del 30 ottobre 2024) e dal Tribunale di Sorveglianza di Palermo (ord. 192 del 17 giugno 2024).
2) La Cassazione si pronuncia sulla corretta individuazione del soggetto autore del reato ‘proprio’ di reingresso non autorizzato di cui all’art. 13 co. 13-bis TUI
Nel febbraio 2024, la Corte d’appello di Bologna, confermando la decisione del Tribunale di Ferrara, ha condannato a otto mesi di reclusione un cittadino rumeno per il reato di reingresso non autorizzato nel territorio dello Stato di cui all’art. 13 co. 13-bis TUI.
Nel 2020, quando ancora l’imputato era un cittadino moldavo, il Giudice di Sorveglianza di Bologna aveva disposto nei suoi confronti l’espulsione a titolo di misura alternativa, a fronte di un residuo di pena di un anno e sei mesi di reclusione; ma nel giugno del 2023, ottenuta la cittadinanza rumena (e dunque europea), egli si era trasferito in Italia, facendo domanda per i documenti per la residenza. Proprio in tale occasione, veniva arrestato in flagranza e successivamente condannato per il reato di cui all’art. 13 co. 13-bis, dal momento che era stato trovato Italia senza l’apposita autorizzazione al reingresso rilasciata dal Ministro dell’interno (così come previsto dall’art. 13 co. 13).
Contro questa decisione l’imputato ha proposto ricorso in Cassazione deducendo la carenza del requisito soggettivo dalla fattispecie incriminatrice – ossia la condizione di “straniero” – dal momento che al momento della commissione del reato egli era già divenuto cittadino europeo. Secondo la difesa, dunque, la violazione commessa doveva essere equiparata a quella di un cittadino italiano e, dunque, inquadrata nella fattispecie di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, ai sensi dell’art. 388 c.p.
La Corte ha ritenuto il ricorso infondato. Con un breve ragionamento la Cassazione ha ricordato come le fattispecie descritte agli artt. 10 co. 2-ter e 13 co. 13 TUI siano indubbiamente reati propri dello straniero; lo stesso, tuttavia, per la Corte non può dirsi dell’art. 13 co. 13-bis il quale risulta essere una «norma speciale rispetto alla fattispecie contenuta nel precedente comma 13» trattandosi di «un reato proprio che può essere commesso solo dal “trasgressore” dell’espulsione disposta dal giudice». Secondo questo ragionamento, l’autore della condotta può essere “qualunque trasgressore del divieto di reingresso”, a nulla rilevando il permanere o meno dello status di “straniero”, ovviamente necessario nel momento in cui è stata disposta l’espulsione.
Tale posizione della Corte risulta in linea con la sua precedente giurisprudenza che, già in passato, aveva ribadito che la condotta di trasgressione di un provvedimento di espulsione non può essere scriminata dal mutare della situazione di fatto originaria, come ad esempio a seguito di un matrimonio con un cittadino dell’Unione europea, permanendo anche in tali casi la necessità di richiedere e ottenere l’autorizzazione ministeriale al reingresso (così Cass. 27918/2020).
3) Ancora sul reato di reingresso non autorizzato ex art. 13 co. 13-bis: precisazioni della Cassazione sulla irrilevanza delle modalità con cui è avvenuta l’espulsione
Sempre in tema di violazione del divieto di reingresso ai sensi dell’art. 13 co. 13-bis TUI, la Corte di cassazione ha avuto modo di pronunciarsi anche su un altro profilo relativo a questa fattispecie, ossia la (ir)rilevanza delle modalità con cui l’espulsione del cittadino straniero è avvenuta.
Il caso riguardava un cittadino albanese destinatario, nel 2016, di un provvedimento espulsivo disposto dal GIP di Cuneo in sostituzione della pena detentiva di due anni di reclusione e mille euro di multa. Nel 2019 veniva constatata la sua presenza in Italia in violazione del divieto di reingresso e, di conseguenza, il Tribunale di Genova ne affermava la responsabilità penale ai sensi dell’art. 13 co. 13-bis, con sentenza poi confermata dalla Corte d’appello.
Ricorrendo in Cassazione, il ricorrente deduceva l’erronea applicazione della fattispecie incriminatrice osservando che nei suoi confronti l’espulsione disposta dal GIP non era mai stata eseguita dal momento che egli si era volontariamente allontanato dal territorio italiano – imbarcandosi alla frontiera di Brindisi – in risposta a una concomitante espulsione amministrativa disposta nel settembre del 2011 dal prefetto di Torino. A suo avviso, dunque, non essendo mai stata eseguita l’espulsione disposta dal GIP di Cuneo, non poteva sussistere il reato contestatogli.
La Corte ha ritenuto il ricorso infondato. In particolare, la Cassazione osserva che, all’interno dell’art. 13 TUI, il comma 13 e il comma 13-bis sanzionano con la medesima pena due distinte fattispecie di reato, in quanto diversa è la fonte (amministrativa nel comma 13 e giudiziale nel comma 13-bis) dell’ordine di espulsione che viene posto a fondamento della trasgressione al divieto di reingresso, conseguente all’adozione dell’atto autoritativo.
In particolare, il reato permanente previsto dal comma 13-bis si applica alle espulsioni giudizialmente disposte (ai sensi degli artt. 15, 16, commi 1, 1-bis e 5) e vede quali elementi materiali del delitto: un ordine giudiziale di espulsione emesso in applicazione delle disposizioni contenute nel TU e il reingresso in Italia, non specificamente autorizzato dal Ministro dell’interno. Di conseguenza, non ha nessun rilievo – ad avviso della Corte – la circostanza che il cittadino straniero – una volta colpito dal provvedimento di espulsione e dal successivo ordine di allontanamento – sia volontariamente tornato nel proprio Paese d’origine, senza che se ne sia resa necessaria la coattiva conduzione alla frontiera. Ciò, infatti, «non vale certamente a elidere la natura antigiuridica del suo comportamento, consistito nel rientro arbitrario il Italia».
4) La condanna dei migranti-scafisti ai sensi dell’art. 12-bis TUI: una sentenza del GUP di Agrigento
In tema di responsabilità penale ai sensi dell’art. 12-bis TUI segnaliamo, infine, una sentenza del GUP di Agrigento che all’esito di un giudizio abbreviato ha condannato alla pena della reclusione di dodici anni, due mesi e venti giorni un cittadino sudanese, ritenuto responsabile – in concorso con altri – della morte di due persone avvenuta come diretta conseguenza della condotta di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, integrata mediante la conduzione di un barcone proveniente dalle coste libiche e diretto in Italia.
Si segnalano, in particolare, tre profili. In primo luogo, la particolarità dell’impianto probatorio, unicamente costituito dalle testimonianze di alcuni dei migranti presenti a bordo del barcone. Dalla piena attendibilità, concordanza e reciproca convergenza delle testimonianze – che hanno portato al riconoscimento del cittadino sudanese quale uno degli uomini che ‘gestivano’ il viaggio e conducevano materialmente il natante sin dalla sua partenza – secondo il GUP è stato possibile affermare oltre ogni ragionevole dubbio la responsabilità penale dell’imputato. Si legge nella motivazione che l’imputato «a prescindere dalla sua appartenenza o meno all’organizzazione di trafficanti, ha consapevolmente realizzato […] la contestata condotta di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ponendosi materialmente alla guida dell’imbarcazione diretta verso le acque italiane sin dalle fasi iniziali della traversata». In secondo luogo, l’esclusione dello stato di necessità ex art. 54 c.p. per assenza del requisito della non volontarietà del pericolo. Contrariamente a quanto richiesto dalla difesa, per il GUP, la condotta non può essere scriminata dall’applicazione dell’art. 54 c.p. dal momento che l’imputato – pur avendo fatto richiesta di protezione internazionale – non ha mai raccontato di aver subito pressioni, minacce o aggressioni fisiche e ha dunque «consapevolmente accettato il rischio di esporre a pericolo la propria e altrui incolumità» all’esito di un «volontario e libero accordo raggiunto con il gruppo criminale allo scopo di risparmiare quantomeno il prezzo della traversata». Infine, merita attenzione la riqualificazione giuridica operata dal giudice. Inizialmente, infatti, il capo di imputazione comprendeva le fattispecie di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12 TUI) e morte come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.); come proposto dal Pubblico ministero – al quale spetta tale potere anche nel giudizio abbreviato non condizionato, rimanendo immutati gli episodi di reato ascritti – il GUP ha ritenuto di riqualificate tali condotte nella nuova fattispecie di Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina, ora prevista all’art. 12-bis TUI, essendo la stessa già vigente al momento dei fatti contestati. In particolare, il GUP, operando la riqualificazione, ha ritenuto sussistente il nesso di causalità tra la condotta di favoreggiamento e il decesso per asfissia di due migranti, dovuto all’inalazione dei fumi del carburante conservato sottocoperta. Si legge, infatti, che «il decesso dei due migranti […] non può che essere attribuito, tenuto conto delle circostanze spazio-temporali delle morti, alla responsabilità dell’odierno imputato il quale, nella veste di conducente dell’imbarcazione, ha colposamente omesso di assicurare le condizioni di trasporto marittimo indispensabili per garantire la sicurezza del viaggio dei migranti, apparendo assolutamente prevedibile la morte per asfissia dei passeggeri costretti a viaggiare sottocoperta».