TRIBUNALE DI BOLOGNA, sentenza del 2 ottobre 2024
Carta di soggiorno ex art. 10 d.lgs. n. 30/2007 per familiari di cittadini dell’Unione europea – legame di assistenza con ex coniuge
La sentenza in esame accerta il diritto del ricorrente al rilascio della carta di soggiorno per familiare di cittadino UE nonostante il familiare fosse la ex moglie.
Il caso riguarda un cittadino straniero residente in Italia dal 1989, inizialmente titolare di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, successivamente convertito in un titolo a tempo indeterminato. L’uomo aveva contratto matrimonio con una cittadina dell’Unione europea, dalla quale aveva avuto due figli. Il vincolo matrimoniale era cessato in seguito a divorzio.
Lo straniero si era venuto successivamente a trovare in una situazione di grave difficoltà a causa delle sue condizioni di salute per una serie di patologie gravemente invalidanti. In tale contesto, lo straniero aveva ripreso i contatti con l’ex moglie con la quale aveva ristabilito una relazione basata su un legame affettivo solido e con cui conviveva. La donna del ricorrente era l’unica persona che si prendeva cura di lui sia dal punto di vista economico sia sotto il profilo assistenziale, provvedendo alle sue necessità quotidiane e garantendogli un supporto senza il quale non sarebbe riuscito a sopravvivere. Alla luce di questa situazione, il ricorrente, che era titolare di un titolo di soggiorno che non gli consentiva l’accesso a numerose provvidenze sociali, aveva presentato istanza per il rilascio di una carta di soggiorno ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. 30/2007 ritenendo che il suo rapporto con l’ex moglie, pur non essendo più formalmente riconosciuto come una relazione coniugale, potesse rientrare tra le relazioni familiari tutelate dalla normativa europea e nazionale ma la questura respingeva tuttavia la richiesta, ritenendola irricevibile per insussistenza di un rapporto di coniugio.
Nell’accogliere il ricorso, il Tribunale ha offerto un’interessante ricostruzione del quadro normativo di riferimento richiamando la recente pronuncia della Suprema Corte n. 11022 del 2024 ed evidenziando come la direttiva 2004/38/CE e il d.lgs. n. 30/2007 siano volti a garantire la tutela dell’unità familiare e il diritto al soggiorno dei familiari di cittadini UE, senza limitare tale diritto esclusivamente ai coniugi in senso stretto. In particolare, l’art. 3 della direttiva e del d.lgs. n. 30/2007 stabilisce che lo Stato ospitante deve agevolare il soggiorno di «ogni altro familiare» non definito dall’art. 2, se è a carico o convive con il cittadino dell’Unione o se gravi motivi di salute impongono che quest’ultimo lo assista personalmente.
Il Tribunale ha inoltre richiamato la sentenza della Corte di Giustizia del 15 settembre 2022 (C-22/21, caso SRS) che ha affermato che la nozione di «ogni altro familiare» di cui all’art. 3 sopra menzionato deve essere interpretata in senso ampio, includendo anche le persone che intrattengono con il cittadino dell’Unione «un rapporto di dipendenza, basato su legami personali stretti e stabili, creati all’interno di uno stesso nucleo familiare, nell’ambito di una comunione di vita domestica che va al di là di una mera coabitazione temporanea, determinata da motivi di pura convivenza», e ciò anche alla luce dello scopo della direttiva, indicato nel suo considerando n. 6, di «preservare l’unità della famiglia in senso più ampio».
Sulla base di tali principi, il Tribunale ha accolto il ricorso ordinando il rilascio della carta di soggiorno per familiare di cittadino UE, ritenendo a tal fine sufficiente, per le ragioni sopra indicate, la convivenza con l’ex coniuge e l’assistenza da quest’ultima fornita.
TRIBUNALE DI BOLOGNA, sentenza del 2 ottobre 2024
Non necessità della pregressa regolarità di soggiorno al fine della domanda di rilascio di permesso di soggiorno per coesione familiare, ai sensi dell’art. 30, co. 1, lett. c) d.lgs. 286/1998
L’art. 30, co. 1, lett. c) d.lgs. n. 286/1998 prevede che il permesso per motivi familiari è rilasciabile allo straniero già regolarmente soggiornante entro un anno dalla scadenza del titolo di soggiorno originario.
Con la sentenza del 2 ottobre 2024, il Tribunale di Bologna affronta un caso particolarmente interessante in cui la questura aveva negato il diritto alla coesione familiare perché l’istante – una straniera tunisina giunta in Italia con la figlia minore via mare per ricongiungersi con il marito – risultava «irregolare sul territorio nazionale in quanto munita di passaporto privo di timbri e visto di ingresso» e non qualificabile come richiedente asilo non risultando «avere mai formalizzato domanda per alcun tipo di permesso di soggiorno».
Nel ricorso introduttivo, la difesa della ricorrente aveva contestato la tesi della questura, rilevando che la donna, lungi dall’essere irregolare sul territorio, doveva qualificarsi come «richiedente asilo», avendo manifestato la propria volontà di chiedere la protezione internazionale ed essendo per tale ragione stata accolta con la figlia in una struttura di accoglienza, che aveva abbandonato, prima della formalizzazione della domanda, per ricongiungersi con il marito, dopo avere atteso più di un mese la convocazione. Veniva rilevato come i requisiti fissati dalla legge per la coesione sussistessero tutti, avendo il marito un contratto di lavoro e un contratto di locazione entrambi rientranti nei parametri di legge.
Il Tribunale rileva che, indipendentemente dalla qualificazione della ricorrente come «richiedente asilo», «circostanza non provata ma neppure contestata dal Ministero», la domanda di coesione doveva ritenersi fondata «alla luce della condizione personale e familiare» della donna.
L’Autorità giudiziaria ricorda che quando si debba decidere del diritto all’unità familiare, «occorre tenere in considerazione il complesso della normativa comunitaria e costituzionale in materia di coesione familiare» che esclude che «ragioni meramente formali possano impedire la realizzazione della finalità perseguita» dalla normativa stessa.
Alla luce di tali condivisibili considerazioni, il Tribunale ritiene sussistenti i presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari, con conseguente accertamento del diritto della ricorrente al rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari richiesto.
TRIBUNALE DI ROMA, decreto del 20 gennaio 2025
Ricongiungimento familiare del rifugiato con il proprio coniuge e con la suocera – impugnazione del diniego di visto adottato dall’Autorità consolare estera – prova documentale del legale familiare
Con il decreto del 20 gennaio 2025, il Tribunale di Roma ha affrontato il tema del ricongiungimento familiare dei rifugiati, con particolare riferimento alla nozione di familiare e alle agevolazioni probatorie per la dimostrazione dei requisiti soggettivi per il rilascio del visto.
Il caso riguardava una cittadina afghana, rifugiata in Italia dal 2022 insieme ai figli, che aveva ottenuto il nulla osta al ricongiungimento familiare per il marito e la suocera. Quest’ultimi, tuttavia, non erano riusciti a lasciare l’Afghanistan insieme al resto della famiglia a causa dell’impossibilità della suocera di raggiungere il Pakistan. Solo in un secondo momento erano riusciti a fuggire in Iran, dove si trovavano bloccati al momento del rilascio dei nulla osta e dove avevano presentato domanda di visto.
Nonostante la documentazione allegata e le memorie difensive depositate dalla ricorrente in risposta al preavviso di rigetto, l’Ambasciata italiana a Teheran aveva respinto la richiesta di visto, ritenendo non adeguatamente dimostrato il legame familiare. A tal fine, aveva richiesto l’integrazione della documentazione con atti rilasciati dalle Rappresentanze diplomatico-consolari afghane in Italia o in Iran e, in alternativa, per la sola suocera, «un valido test del DNA».
La cittadina afghana aveva quindi proposto un ricorso d’urgenza, chiedendo al Tribunale che l’Ambasciata venisse condannata a rilasciare il visto d’ingresso tanto a favore del marito quanto della suocera.
Nell’accogliere il ricorso, il Tribunale ha innanzitutto richiamato l’art. 29-bis del d.lgs. 286/98, evidenziando che le agevolazioni probatorie previste per dimostrare i legami di parentela non devono essere interpretate in senso restrittivo. Inoltre, con riferimento alla posizione della suocera – che non rientra tra i soggetti ricongiungibili in via ordinaria – ha fatto riferimento alla direttiva 2003/86/CE, la quale, al considerando 8, stabilisce che per i rifugiati «occorre prevedere condizioni più favorevoli per l’esercizio del loro diritto al ricongiungimento familiare». Ha altresì richiamato la direttiva 2011/95/UE che, all’art. 23, par. 5, consente agli Stati membri di estendere il ricongiungimento familiare anche ai congiunti che, al momento della partenza dal Paese d’origine, vivevano con il nucleo familiare e risultavano a carico del beneficiario di protezione internazionale.
Nel caso di specie, la suocera della ricorrente conviveva da anni con il nucleo familiare, dipendeva economicamente dalla famiglia e si trovava sotto la tutela del figlio. Proprio in considerazione della condizione di rifugiata della ricorrente e della specificità dei suoi legami familiari, il Tribunale ha accolto il ricorso e ha ordinato all’Ambasciata d’Italia a Teheran il rilascio del visto d’ingresso in favore dei suoi familiari.
TRIBUNALE DI ROMA, decreto dell’11 novembre 2024
Ricongiungimento familiare rifugiati – fissazione urgente dell’appuntamento per formalizzare la domanda di visto in presenza della prova del pregiudizio nel ritardo
Con il decreto dell’11 novembre 2024, il Tribunale di Roma ha esaminato il caso di un cittadino pakistano titolare di protezione internazionale in Italia il quale, dopo aver ottenuto il nulla osta al ricongiungimento per la moglie e i genitori, aveva chiesto la fissazione di un appuntamento per la richiesta di visto presso l’Ambasciata italiana a Islamabad, prima mettendosi in contatto con l’agenzia esterna delegata dall’Ambasciata all’acquisizione delle domande, poi direttamente con l’Ambasciata a Islamabad tramite PEC del difensore. Il ricorrente, in sede di richiesta di appuntamento, aveva sottolineato il proprio status di rifugiato e il pericolo in cui si trovavano i familiari, anch’essi appartenenti alla minoranza religiosa Ahmadi ed esposti al rischio di subire le stesse persecuzioni che avevano giustificato il riconoscimento del suo status di rifugiato. Dopo aver convocato gli interessati, l’Ambasciata a Islamabad si era rifiutata di ricevere le domande di visto dei familiari del ricorrente per la mancanza di alcuni documenti, che gli interessati avevano dichiarato di non poter procurare a causa delle discriminazioni a cui erano esposti. Stante il rifiuto di ricevere le domande di visto, il ricorrente inviava nuove richieste di appuntamento tramite PEC del difensore, nelle quali veniva ribadita la situazione di grave pericolo in cui si trovavano i familiari.
Non avendo ricevuto alcuna risposta dall’Amministrazione, il ricorrente presentava ricorso cautelare chiedendo al Tribunale di Roma che venisse ordinato all’Ambasciata a Islamabad la fissazione di un appuntamento per la formalizzazione della domanda di rilascio del visto di ingresso per ricongiungimento familiare in favore della moglie e dei genitori.
Il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso, rilevando innanzitutto che il ricorrente aveva adempiuto a tutti gli obblighi previsti dalla legge, presentando la domanda entro il periodo di validità dei nulla osta. Inoltre, ha riconosciuto il suo diritto a beneficiare di un regime probatorio più favorevole in materia di ricongiungimento familiare, come previsto dalle direttive UE 2011/95 e 2003/86/CE e dall’art. 29-bis, co. 2, del d.lgs. 286/98. L’Autorità giudiziaria ha ricordato come quest’ultima disposizione stabilisca espressamente che, qualora un rifugiato non possa fornire documenti ufficiali attestanti i propri legami familiari a causa del suo status, le Rappresentanze diplomatiche o consolari devono provvedere al rilascio di certificazioni sulla base delle verifiche ritenute necessarie, effettuate a spese degli interessati. La norma consente, inoltre, il ricorso a mezzi di prova alternativi, tra cui documenti rilasciati da organismi internazionali riconosciuti idonei dal Ministero degli affari esteri, specificando che il rigetto della domanda non può essere motivato esclusivamente dall’assenza di documentazione probatoria. Sulla base di queste considerazioni, il Tribunale ha evidenziato che la normativa promuove un approccio collaborativo da parte delle Rappresentanze diplomatiche, garantendo strumenti adeguati per accertare l’esistenza del vincolo familiare anche in assenza di documenti ufficiali. Il provvedimento si segnala anche per la puntuale descrizione dell’attuale situazione in Pakistan. Il Tribunale sottolinea, infatti, che in Pakistan le minoranze religiose subiscono discriminazioni anche da parte dello Stato e della Costituzione, precisando come siano ben note «le discriminazioni e le violazioni dei diritti umani ricorrenti in Pakistan nei confronti degli appartenenti alla minoranza religiosa Ahmadi, quali riportate dalle fonti. È noto in particolare come tale trattamento discriminatorio e potenzialmente persecutorio abbia radici nello stesso ordinamento normativo pakistano, laddove la Costituzione del Paese stabilisce che l’Islam è la religione di Stato e che tutte le disposizioni di legge siano coerenti con l’Islam. Sebbene la Costituzione stabilisca che “nel rispetto della legge, dell’ordine pubblico e della morale, ogni cittadino ha il diritto di professare, praticare e diffondere la propria religione”, il codice penale stabilisce pene per la blasfemia che vanno da 10 anni di carcere alla pena di morte e che “una persona del gruppo Qadiani o del gruppo Lahori (che si definiscono Ahmadi) è un non musulmano”. La costituzione e il codice penale vietano agli ahmadi di agire o rappresentarsi come musulmani […]». Avendo ritenuto che il ritardo dell’Amministrazione non fosse giustificabile e che la situazione dei familiari del ricorrente in Pakistan imponesse un intervento urgente, il Tribunale accoglieva il ricorso inaudita altera parte ed ordinava all’Ambasciata italiana di Islamabad di fissare con urgenza, entro cinque giorni dalla pubblicazione del provvedimento, un appuntamento per la formalizzazione della domanda di visto per i familiari del ricorrente.
TRIBUNALE DI ROMA, sentenze del 2 dicembre 2024 e del 19 dicembre 2024
Ricongiungimento familiare – interruzione del termine decadenziale tramite PEC del difensore – condanna al risarcimento per il ritardo nel rilascio del visto
Con due decisioni del dicembre 2024, il Tribunale di Roma ha affrontato la questione dei ritardi ingiustificati della Pubblica amministrazione nei procedimenti di ricongiungimento familiare con rifugiati, evidenziando nella prima sentenza che la PEC del difensore di richiesta del visto è sufficiente ad interrompere il termine semestrale decandenziale di validità del nulla osta, nella seconda che la responsabilità per inadempimento della Pubblica amministrazione può portare al risarcimento del danno.
Con la prima decisione del 2 dicembre 2024, il Tribunale si è pronunciato sul caso di una cittadina dello Sri Lanka regolarmente soggiornante in Italia, che dopo aver ottenuto il nulla osta al ricongiungimento con il padre aveva incontrato notevoli difficoltà nella prenotazione dell’appuntamento per la formalizzazione della domanda di visto, sia tramite l’agenzia delegata dall’Ambasciata d’Italia a Colombo che tramite l’Ambasciata stessa.
A causa di queste difficoltà, si era rivolta ai difensori che prima della scadenza del nulla osta avevano inviato una PEC all’Ambasciata chiedendo un appuntamento per la formalizzazione della domanda di visto ed esprimendo la volontà di interrompere il termine di scadenza del nulla osta. Solo successivamente la ricorrente era riuscita a prenotare un appuntamento presso l’agenzia esterna. Tuttavia, dopo la formalizzazione della domanda l’Ambasciata aveva comunicato un preavviso di rigetto in cui si evidenziava la scadenza del nulla osta al momento della domanda di visto e della mancanza del certificato di stato di famiglia tradotto e legalizzato. Nonostante le osservazioni difensive, al preavviso seguiva un provvedimento di rigetto dell’Amministrazione basato sulle stesse motivazioni.
La ricorrente agiva in giudizio evidenziando il proprio diritto all’unità familiare e l’illegittimità del provvedimento di diniego che non aveva tenuto conto della PEC interruttiva del decorso del termine semestrale di validità del nulla osta ed aveva fondato il diniego sul mancato deposito di un documento, nonostante l’attenuazione dell’onere probatorio in materia di ricongiungimento familiare dei rifugiati.
Il Tribunale, pur dichiarando la cessazione della materia del contendere a seguito del rilascio del visto in autotutela intervenuto nelle more del giudizio, ha ribadito che, ai sensi dell’art. 29-bis d.lgs. 286/98, i rifugiati beneficiano di un onere probatorio attenuato per quanto riguarda la produzione documentale e che la PEC inviata dal difensore all’Ambasciata è sufficiente ad interrompere il termine di validità del nulla osta.
Diversamente, nella seconda decisione del 19 dicembre 2024 il Tribunale di Roma si è pronunciato sul caso di un cittadino gambiano residente in Italia che aveva ottenuto il nulla osta al ricongiungimento con la moglie rimasta in Senegal e che era poi riuscito, dopo moltissimi tentativi e solo grazie all’intervento del difensore, a prendere un appuntamento per la formalizzazione della domanda di visto entro il termine semestrale di validità del nulla osta. Sebbene la moglie del ricorrente avesse depositato tutta la documentazione necessaria per il rilascio del visto, questo veniva rilasciato solo più di sei mesi dopo la formalizzazione della domanda, dunque ben oltre il termine di trenta giorni previsto dall’art. 6 co. 5 del d.p.r. 394/1999 – durante il quale nessuna richiesta integrativa era stata formulata – dopo mesi di ingiustificata attesa durante i quali la signora si era dovuta recare più volte in Senegal, a Dakar, sede dell’Ambasciata competente, su richiesta della stessa Ambasciata per richieste documentali e appuntamenti poi annullati, dovendo affrontare viaggi molto onerosi, sia in termini di tempo che dal punto di vista economico, oltre che pericolosi per una donna sola.
In questa occasione il Tribunale di Roma, pur dichiarando la cessazione della materia del contendere relativamente al rilascio del visto poi ottenuto, nell’accertare la condotta illegittima dell’Amministrazione in quanto lesiva del diritto fondamentale all’unità familiare sancito dall’art. 8 CEDU e dall’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ha altresì ritenuto provato il danno subito dal ricorrente, il quale nei sei mesi di ritardo nel rilascio del visto, dalla formazione del silenzio inadempimento fino all’effettivo rilascio, non ha potuto godere della vita familiare per un periodo ingiustificatamente lungo. Ha pertanto riconosciuto il diritto al risarcimento del danno subito e condannato il Ministero al pagamento della somma di 1.500 euro.
CORTE DI CASSAZIONE, ordinanza del 19 novembre 2024 n. 29688
Vincoli familiari e inespellibilità dello straniero
Con l’ordinanza n. 29688 del 19 novembre 2024, la Corte di cassazione si pronuncia sull’espellibilità di un cittadino straniero in presenza di un radicato inserimento familiare e sociale nel territorio italiano. La decisione conferma l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, anche quando lo straniero non rientri nelle categorie previste dalla normativa per il mantenimento del soggiorno, l’allontanamento non può essere disposto qualora tale misura si traduca in una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In particolare, il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava una cittadina albanese residente stabilmente in Italia da oltre vent’anni, convivente da più di dieci con il proprio compagno, che la supportava economicamente. La donna aveva una figlia residente in Italia, risultava iscritta all’ufficio per l’impiego e aveva instaurato relazioni significative sul territorio.
Il Giudice di pace di Aosta aveva emesso un provvedimento di espulsione nei confronti della ricorrente per il solo fatto di non aver rinnovato il permesso di soggiorno nel termine di legge, ritenendo che la situazione di vita della ricorrente non rientrasse in una delle ipotesi regolate dall’art. 13, co. 2-bis, del d.lgs. 286/98 e fosse, dunque, irrilevante.
In riferimento all’applicabilità al caso di specie dell’art. 13, co. 2-bis sopra menzionato, la Suprema Corte ha ricordato che l’art. 8 della CEDU, gli artt. 5 co. 6 e 19 co. 1 del d.lgs. 286/98 e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo «danno indicazioni significative sull’importanza da attribuire alla situazione familiare e di vita e alle relazioni affettive dello straniero in Italia, a prescindere dalla posizione di soggetto formalmente richiedente o suscettibile di ricongiungimento familiare e dalla sussistenza dei presupposti a tal fine necessari» ed ha inoltre richiamato il consolidato orientamento interpretativo della stessa Corte di legittimità secondo cui «il diritto vivente ha, quindi, individuato il profilo dei legami familiari come elemento ostativo all’espulsione, che consente allo straniero privo del permesso di soggiorno di poter comunque permanere nel territorio nazionale con una permesso di soggiorno rilasciato a norma dell’art. 28 lett. b) d.p.r. 394 del 1999».
Sulla base di queste premesse, la Corte di cassazione ha annullato l’ordinanza del Giudice di pace di Aosta, ritenendo che il provvedimento di espulsione fosse stato adottato sulla base di un’interpretazione eccessivamente restrittiva delle disposizioni normative e della giurisprudenza di riferimento, senza tenere in considerazione la natura e l’effettività dei vincoli familiari della ricorrente ed il radicamento nel territorio e nel contesto sociale.
MINORI
CORTE D’APPELLO DI TORINO, decreto 2 ottobre 2024 e CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA, decreto 18 ottobre 2024
Minore straniero non accompagnato – ammissibilità dell’istanza di prosieguo amministrativo presentata dopo il compimento della maggiore età
Con i due decreti in esame, la Corte d’appello di Bologna e la Corte d’appello di Torino hanno accolto i reclami avverso il diniego del Tribunale per i minorenni che aveva ritenuto tardivi e per questo inammissibili le richieste di prosieguo amministrativo presentate dopo il compimento della maggiore età dei giovani, prendendo una chiara posizione sulla questione.
Nell’accogliere i reclami le Corti d’appello hanno affermato che l’art. 13, co. 2, l. 47/2017, prevedendo che «Quando un minore straniero non accompagnato, al compimento della maggiore età, pur avendo intrapreso un percorso di inserimento sociale, necessita di un supporto prolungato volto al buon esito di tale percorso finalizzato all’autonomia, il Tribunale per i minorenni può disporre, anche su richiesta dei servizi sociali, con decreto motivato, l’affidamento ai servizi sociali, comunque non oltre il compimento del ventunesimo anno di età» prevede espressamente un termine massimo per la durata dell’affidamento del neomaggiorenne che non può superare i ventuno anni, ma non indica un termine di ammissibilità della domanda di prosieguo amministrativo, che può dunque essere presentata anche dopo il raggiungimento dei diciotto anni. Ancora, le Corti hanno evidenziato come lo stesso tenore letterale della normativa di riferimento, prevedendo che la prosecuzione possa essere richiesta anche dai Servizi sociali, intesi dunque come in alternativa alla domanda presentabile dall’interessato, stabilisce che la richiesta possa provenire anche direttamente dal giovane una volta raggiunta la maggiore età.