SOMMARIO
VISTO d’INGRESSO per ASILO
Diritto di ingresso per registrare la domanda di riconoscimento della protezione internazionale; art. 10, co. 3 Cost. (manifestazione volontà di chiedere protezione internazionale attraverso PEC del difensore - espulsione e rimpatrio nonostante detta volontà - valore del cd. foglio notizie - obblighi dello Stato di registrazione della domanda - tipologia visto ingresso non predeterminata - art. 25 Regol. n. 810/2009 o altra tipologia).
Diritto di ingresso con visto umanitario o altro titolo di figlio di rifugiato in Italia (disciplina di favor per ricongiungimento familiare di rifugiato quanto alla documentazione - categorie di familiari ricongiungibili - figlio maggiorenne deve essere totalmente invalido e a carico; familiari di rifugiati - solido collegamento con lo Stato italiano - diritto di ingresso in Italia anche in assenza di passaporto - visto ex art. 25 Regol. n. 810/2009 o altra tipologia).
PROTEZIONE INTERNAZIONALE.
Il riconoscimento dello status di rifugiato (appartenenza ad un particolare gruppo sociale - tratta di esseri umani - nesso causale - sfruttamento lavorativo - matrimonio forzato - identità di genere - rifugiato sur place - motivi politici - oppositore politico russo - opinioni politiche attribuite - nozione estensiva - religione - diritto di manifestare apertamente il credo religioso). Protezione sussidiaria (rischio di trattamento inumano o degradante - vincolo debitorio - usura - mancato pagamento di un debito - condizioni carcerarie in Egitto - malattia mentale e rischio di trattamento inumano e degradante - approfondimento istruttorio necessario). Questioni procedurali e processuali (procedure accelerate ed effetto sospensivo conseguente alla proposizione del ricorso - ricorrenti provenienti da Paesi designati di origine sicura - rispetto dei termini previsti per tutte le procedure accelerate - superamento della presunzione di sicurezza del Paese per la situazione particolare del ricorrente e richiesta cautelare di sospensione - gravi e circostanziate ragioni per disporre la sospensione - omesso esame di un documento - censurabilità in Cassazione ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. - valutazione di credibilità - necessità di una considerazione complessiva delle dichiarazioni). Regolamento Dublino (obblighi informativi - infungibilità con opuscoli informativi della procedura ordinaria - diritto a ricorso effettivo).
PROTEZIONE SPECIALE
La domanda di protezione speciale diretta al questore dopo la riforma 2023 (rilevanza generale dei divieti di espulsione ex art. 19 TU d.lgs. 286/98 - giurisdizione ordinaria - diritto a presentare la domanda direttamente al questore - modalità affidate alla Pubblica amministrazione - compatibilità tra protezione temporanea e protezione speciale - idoneità della PEC a manifestare la volontà di chiedere protezione speciale). I presupposti della protezione speciale (diritto al rispetto della vita privata - nozione - attività lavorative discontinue ma in progressione - torture subite in Libia: esclusione - attività svolte nel sistema di accoglienza - rilevanza della durata in Italia - conoscenza lingua italiana - bilanciamento tra diritto alla vita privata e esigenze dello Stato secondo l’art. 19 TU d.lgs. 286/98 - vulnerabilità sanitaria). Il valore giuridico della ricevuta di permesso per protezione speciale (unitarietà diritto d’asilo ex art. 10, co. 3 Cost. comprensivo della protezione internazionale e della complementare - equiparazione della condizione - diritto al rilascio di permesso di soggiorno o sua ricevuta nelle more del giudizio ex art. 4 d.lgs. 142/2015 - esercizio di tutti i diritti sociali, compreso il rilascio del codice fiscale). La conversione del permesso da protezione speciale a motivi di lavoro (regime intertemporale di cui all’art. 7 d.l. n. 20/2023 e sua legge di conversione n. 50 - differenze; richiesta di conversione del permesso da protezione speciale a lavoro in mancanza di passaporto - rilascio del Titolo di viaggio scollegata a specifica forma di protezione). I diritti connessi al permesso per protezione speciale: la coesione familiare (permesso asilo compreso nell’elenco dell’art. 28 TU d.lgs. 286/98 - unitarietà del diritto di asilo - diritto all’unità familiare per titolare di protezione speciale - irrilevanza dell’irregolarità di soggiorno del familiare - applicazione art. 5, co. 5 TU d.lgs. 286/98 - sent. n. 202/2013 Corte cost.).
VISTO D’INGRESSO per ASILO o per MOTIVI UMANITARI
Il Tribunale di Roma, con ordinanza cautelare 17.5.2024 RG. 477/2024 ha accertato il diritto di un cittadino della Tunisia, rimpatriato a seguito di espulsione, di ottenere un visto d’ingresso in Italia al fine di formalizzare la richiesta di riconoscimento della protezione internazionale, conseguentemente ordinando l’immediato rilascio del visto con la forma che il Ministero per gli affari esteri riterrà più consone (tra le quali anche il visto umanitario ex art. 25 Regol. n. 810/2009). Nell’interessante pronuncia è stata ricostruita la vicenda del cittadino tunisino, che merita di essere integralmente letta ma che qui si sintetizza: giunto in Italia con imbarcazioni di fortuna una prima volta nel 2022 e respinto, ritornato nel 2023 e arrestato per ingresso illegale (art. 10, co. 2 TU d.lgs. 286/98) è stato destinatario di provvedimento di espulsione, trattenuto nel CPR di Milo-Trapani e dunque nuovamente rimpatriato; in quest’ultima occasione, tuttavia, riusciva attraverso un legale a inviare una PEC alla questura per formalizzare la domanda di protezione internazionale, mai riscontrata dall’autorità di P.S. che provvedeva, come detto, a rimpatriarlo. Egli chiedeva, pertanto, l’accertamento del diritto d’ingresso in Italia per formalizzare la domanda di riconoscimento della protezione internazionale, di cui aveva già manifestato la volontà attraverso il proprio difensore. Domanda giudiziale contestata dall’Avvocatura di Stato che eccepiva, tra le altre, l’incompetenza del Tribunale di Roma a favore di quello di Palermo, l’inammissibilità della domanda di protezione a mezzo PEC e non personalmente (art. 6, co. 1 d.lgs. 25/2008), la mancata impugnazione del decreto di espulsione 2023 e sosteneva, altresì, che nel cd. foglio notizie il ricorrente aveva escluso di presentare domanda d’asilo.
Il giudice romano ha respinto tutte quelle eccezioni affermando, innanzitutto, la competenza territoriale di Roma in quanto oggetto della controversia è l’accertamento del diritto di ingresso per asilo e non la valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.
Nel merito, ha accertato che effettivamente il cittadino tunisino aveva manifestato la volontà di chiedere il riconoscimento della protezione internazionale attraverso il proprio legale, durante i giorni di permanenza in Italia prima di essere rimpatriato e, con riguardo al valore del cd. foglio notizie e alla volontà di essere rimpatriato ritiene che «appare quantomeno incoerente che il ricorrente, tentato un nuovo ingresso sul T.N. a mezzo di una imbarcazione di fortuna, esprima consapevolmente la volontà di essere rimpatriato», richiamando in proposito Cassazione n. 32070/2023. Interessante anche la parte in cui il Tribunale ha rigettato l’eccezione della difesa dello Stato secondo cui il rimpatrio sarebbe avvenuto prima dell’invio della PEC da parte del difensore, poiché l’Amministrazione nulla ha prodotto al riguardo in violazione del “principio della vicinanza alla prova” di cui all’art. 2697 c.c., cioè non documentando l’effettiva data di rimpatrio.
Poiché, dunque, il Tribunale ha ritenuto comprovato che il rimpatrio sia avvenuto successivamente alla manifestazione della volontà di chiedere asilo attraverso la PEC del suo difensore – modalità pienamente idonea (Cass. n. 21920/2020 e n. 11859/2022) –, ha affermato che vi era l’obbligo per lo Stato di formalizzare la domanda ed esaminarla e che l’espulsione è stata illegittima perché disposta ed eseguita ai danni di un richiedente asilo, il quale ha diritto di permanere sul territorio nazionale fino alla conclusione del procedimento, anche nella fase giudiziale, come previsto dal diritto unionale e da quello interno (Cass. n. 13891/2029, n. 21910/2020, n. 11309/2019).
Ha precisato il Tribunale romano che, anche nel caso di richiesta di protezione internazionale presentata successivamente all’espulsione, il richiedente asilo ha diritto di permanere sul territorio nazionale e il provvedimento di allontanamento deve essere annullato (Cass. n. 19819/2018).
Accertato l’illegittimo rimpatrio, il Tribunale ha riconosciuto il diritto d’ingresso in Italia del richiedente asilo poiché «la norma costituzionale di cui all’art 10 comma 3 può nel caso di specie trovare applicazione anche come diritto di accedere al territorio dello Stato al fine di essere ammesso alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale (Cass. sent. n. 25028/2005), in quanto, come affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (sent. 29460/2019), il diritto alla protezione internazionale “è pieno e perfetto” e “il procedimento non incide affatto sull’insorgenza del diritto” che “nelle forme del procedimento è solo accertato…il diritto sorge quando si verifica la situazione di vulnerabilità” (così Tribunale Roma sentenza n. 22917/2019 del 28 novembre 2019 confermata dalla Corte d’appello con sentenza del 11 gennaio 2021).».
Quanto alla tipologia del visto rilasciabile, nell’ordinanza si richiama l’art. 25 Regol. n. 810/2009, cioè il cd. visto umanitario, che già la giurisprudenza ha qualificato strumento adeguato, sottolineando, comunque, che «non può certo ritenersi, in uno stato di diritto, che la possibilità o meno di utilizzare un istituto previsto dall’ordinamento, sebbene non specificamente regolato dalla normativa interna, sia rimesso alla sola discrezionalità della pubblica amministrazione senza che sia possibile alcun sindacato giurisdizionale in merito o alcuna applicazione giurisprudenziale di tale istituto.».
In riferimento al grave pregiudizio indicato dal richiedente asilo in Tunisia, il Tribunale ha valutato anche la sua peculiare condizione di vulnerabilità, corredandola da specifiche fonti di informazione e conclusivamente ha, dunque, affermato il diritto all’immediato ingresso in Italia per registrare la sua domanda di protezione.
Sempre il Tribunale di Roma, con ordinanza cautelare 14.7.2024 RG. 18757/2024 ha riconosciuto il diritto d’ingresso in Italia per motivi umanitari a figlio maggiorenne di rifugiato politico afghano, al quale l’Ambasciata d’Italia in Iran (ove egli era fuggito nel 2021) ha negato il visto per ricongiungimento familiare (nonostante il rilascio di nulla osta emesso dal SUI di Bologna) ritenendo indimostrato il requisito della vivenza a carico di cui all’art. 29 d.lgs. 286/98.
In fatto, nel giudizio è stato accertato che il figlio del ricorrente non era riuscito a essere evacuato dall’esercito italiano nell’agosto 2021 a seguito della presa di potere dei talebani, a differenza di quanto accaduto agli altri familiari, i quali in Italia sono stati tutti riconosciuti rifugiati. È emerso, inoltre, che il figlio del ricorrente, riparatosi in Iran, è stato qui rapito e vittima di ricatto, al punto che il padre si è dovuto recare in Iran per consegnare il riscatto ma che, a seguito del rapimento al figlio sono stati sottratti tutti i documenti, compreso il passaporto.
Il Tribunale ha esaminato la prima domanda giudiziale proposta, cioè la richiesta di rilascio di un visto per ricongiungimento familiare, evidenziando che essa è informata del favor espresso nell’art. 29-bis TU d.lgs. 286/98, in quanto il provvedimento di diniego di visto familiare non può essere fondato sulla mera assenza di documenti probatori dei requisiti. Tuttavia, poiché l’art. 29 TU immigrazione individua le categorie di familiari ricongiungibili, nell’ordinanza in rassegna si è ritenuta non raggiunta la prova della condizione d’invalidità totale del figlio maggiorenne e pertanto non ha accolto la domanda di rilascio del visto per ricongiungimento familiare.
Il giudice ha esaminato, dunque, la domanda proposta in via subordinata dal ricorrente, di rilascio di visto umanitario, che è stata accolta, con disamina che muove innanzitutto dalla disciplina di favore riconosciuta alle persone rifugiate per garantire il loro diritto all’unità familiare, la cui fonte è già nel diritto unionale e in particolare nella direttiva 2011/95/UE (cd. direttiva qualifiche) e nella direttiva 2023/86/CE sul ricongiungimento familiare, le quali «incentivano un atteggiamento collaborativo delle rappresentanze diplomatiche» a causa delle difficoltà dei rifugiati di acquisire documentazione dallo Stato di appartenenza. In applicazione di tale favor, il Tribunale ha ritenuto comprovata, con l’ampia documentazione prodotta, l’esistenza del vincolo familiare (alla compiuta identificazione, si precisa nell’ordinanza, provvederà il Ministero una volta che il figlio del ricorrente sia giunto in Italia), ma anche un solido criterio di collegamento con lo Stato italiano (i familiari rifugiati in Italia e il lavoro svolto dal padre per un’organizzazione statale italiana in Afghanistan), utile ai fini del rilascio del visto umanitario di cui all’art. 25 Regol. n. 810/2009.
Il Tribunale, pertanto, anche in assenza di passaporto del figlio del ricorrente «dichiara il diritto di figlio del ricorrente, di fare immediato ingresso in territorio italiano, ordinando alle amministrazioni competenti di emanare tutti gli atti ritenuti necessari a tale scopo (rilascio di visto di ingresso per motivi umanitari di cui all’art. 25 Reg. 2009/810/CE, o altro titolo ritenuto idoneo, anche in assenza di passaporto e previo rilascio di un Titolo di viaggio ovvero di lasciapassare o altro documento utile ai fini dell’espatrio).».
PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Lo status di rifugio politico
Appartenenza a un particolare gruppo sociale
Il Tribunale di Firenze, con decreto del 4.9.2024 , ha ravvisato la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato in favore di un cittadino del Bangladesh, vittima di tratta di essere umani, a fini di sfruttamento lavorativo (cfr. altresì decreto del Tribunale di Firenze del 17.7.2024 , che ha deciso negli stessi termini sul ricorso proposto da un altro cittadino del Bangladesh, vittima di sfruttamento lavorativo). Il Tribunale, dopo aver premesso che la tratta di esseri umani rientra a pieno titolo nelle forme di persecuzione rilevanti per il riconoscimento dello status di rifugiato, secondo la definizione contenuta all’art. 7 del d.lgs. n. 251 del 2007, ha precisato che la «tratta di persone è un’impresa commerciale volta a individuare le proprie vittime in base agli elementi di vulnerabilità che li contraddistinguono». Con specifico riferimento agli elementi da prendere in considerazione ai fini della valutazione del rischio di re-trafficking, il Collegio ha indicato: una precaria salute emotiva, una bassa autostima, percezione di estraneità, vergogna e/o stigma a causa del proprio vissuto, la ricattabilità, lo sradicamento, precisando poi che «nella valutazione del rischio di re-trafficking è opportuno considerare se le rappresaglie da parte dei trafficanti possano tradursi in persecuzione, ossia in gravi violazioni di diritti umani o situazioni intollerabili».
In merito all’individuazione del fattore di inclusione, i giudici fiorentini hanno sottolineato come «considerate le esperienze vissute e la situazione di estrema vulnerabilità del ricorrente lo stesso può essere inquadrato in un particolare gruppo sociale trattandosi di persona che ha una storia comune a quella delle vittime di tratta finalizzata allo sfruttamento lavorativo. In tal senso, l’appartenenza al gruppo sociale si è formata in ragione della specifica esperienza di persecuzione subita, ossia l’esperienza di tratta per sfruttamento lavorativo già vissuta». Anche secondo EUAA: «Le ex vittime di tratta possono essere considerate come un gruppo di persone che condividono la comune esperienza passata di essere state oggetto di tratta, che può essere considerata una storia comune che non può essere mutata». Proprio perché, in quanto membro del particolare gruppo sociale delle «ex vittime di tratta», un richiedente può essere esposto a diversi atti di persecuzione, quali rappresaglie, gravi forme di discriminazione, stigma o ostracismo».
Di particolare interesse quanto osservato, infine, in merito al nesso causale che, nei casi in cui vi sia il rischio di essere perseguitati per mano di un attore non statale per ragioni legate a uno dei motivi della Convenzione, è ritenuto riscontrabile, «indipendentemente dal fatto che l’assenza di protezione da parte dello Stato sia o meno legata ai motivi di cui alla Convenzione. Ed al contempo, se il rischio di persecuzione per mano di un attore non statale non è correlato a un motivo considerato dalla Convenzione, ma l’incapacità o la riluttanza dello Stato a offrire protezione è dovuta a un motivo della Convenzione, il nesso causale può esser ugualmente riconosciuto».
Il Tribunale di Torino, con decreto del 17.6.2024 , ha riconosciuto lo status di rifugiata a una cittadina della Costa d’Avorio, vittima di matrimonio forzato. Nella decisione in esame, il Collegio, dopo aver ritenuto credibili le dichiarazioni della ricorrente, costretta all’età di appena 14 anni a sposare un uomo molto più grande di lei ed a subire, per oltre 13 anni, ogni forma di violenza fisica e psicologica – costituenti violenza di genere e violenza domestica –, si è soffermato sul requisito del particolare gruppo sociale. In forza di un attento richiamo alla giurisprudenza della Suprema Corte, il Tribunale ha affermato che tali atti di violenza costituiscono veri e propri atti di persecuzione indirizzati verso un gruppo sociale costituito dall’appartenenza di genere della ricorrente, minore di età, vittima di matrimonio combinato.
Ancora con riferimento all’appartenenza ad un particolare gruppo sociale, rappresentato dall’identità di genere, si è pronunciato il Tribunale di Brescia, con decreto 25.7.2024 . Nel caso portato all’attenzione del Tribunale, il bisogno di protezione della richiedente, cittadina nigeriana, è sorto dopo la fuga dal Paese d’origine (rifugiato “sur place”, art. 4 d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251). Nella decisione si legge che: «l’orientamento sessuale (e più precisamente, si ribadisce, l’identità di genere nel caso di specie) è un connotato identitario e per questo non può che ritenersi appartenente alla persona da sempre; diventa pertanto irrilevante avere effettivamente manifestato la propria identità nel paese d’origine, atteso che la rinuncia a farlo può essere dipesa dalle mille variabili del concreto, che comunque la parte deve allegare, tra cui ostacoli personali oppure legati al contesto familiare o sociale, connotato dalla riprovazione per la peculiare condizione». Il Tribunale, anche alla luce delle più aggiornate ed accreditate fonti di informazione, ha ritenuto integrata una «persecuzione perché, oltre al rischio per la ricorrente di essere perseguita per atti giudicati come omosessuali, quindi reato, è manifesta l’impossibilità (anche legale) di realizzare la necessità di adeguare la propria identità, che, per l’evidente carattere esistenziale, appare quantomeno difficile non assecondare».
Sul tema della tratta a fini di sfruttamento sessuale si sofferma, nel periodo in rassegna, il Tribunale di Venezia, con decreto del 18.7.2024 , per affermare che la sottoposizione a tratta ai fini di sfruttamento sessuale integra i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato. Nella decisione in esame, relativa ad una donna nigeriana, originaria di Benin City, il Collegio si è soffermato sui numerosi indicatori di tratta, per sottolineare come «momento cruciale al fine di riconoscere adeguata protezione alle vittime di tratta è quello della loro identificazione».
Opinioni politiche
Il Tribunale di Milano, con decreto del 15.4.2024 , ha riconosciuto lo status di rifugiato, per motivi politici, ad un cittadino russo. In particolare, il Collegio ha precisato che il ricorrente, pur avendo manifestato le proprie idee politiche prima di lasciare per la prima volta il Paese d’origine, aveva poi fatto ivi ritorno più volte, «così elidendo il timore in caso di rimpatrio che, comunque, con riferimento all’attivismo politico iniziale», doveva ritenersi del tutto risalente nel tempo, essendo mutato, nel frattempo, anche quel panorama politico. Per tali ragioni il Tribunale aveva ritenuto non configurabile un rischio attuale in caso di rimpatrio collegato alle originarie persecuzioni, bensì all’attivismo politico espresso in Italia, così esaminando la domanda nel conteso delle domande “sur place”. Il Tribunale ha così osservato che «non vi sono ragioni per dubitare che il ricorrente abbia coltivato in Italia una fervente passione politica di contrasto al regime di Vladimir Putin, manifestandola apertamente tramite interventi online e partecipazione attiva alle manifestazioni di dissenso svoltesi a Milano e, dunque, in caso di rimpatrio, corra un rischio concreto di essere arrestato per le opinioni politiche espresse». In forza di tali elementi, esaminati alla luce delle più aggiornate fonti di informazioni relative al Paese d’origine del ricorrente, il Collegio ha ritenuto fondato «il timore in merito alle possibili conseguenze in caso di rimpatrio atteso che in forza di un giudizio prognostico è del tutto concreto il rischio che egli possa subire atti persecutori da parte del Governo russo, nella forma più grave della restrizione della libertà personale, subendo ingiuste detenzioni in carcere. Egli, dunque, correrebbe il rischio di essere imprigionato in quanto oppositore politico e accusato di essere un agente straniero e quindi oggetto di persecuzione da parte dello Stato senza possibilità alcuna di difesa, per le proprie opinioni politiche ai sensi dell’art 1 lett (A) 2 della Convenzione di Ginevra del 1951».
Il Tribunale di Roma, con due decreti del 12.7.2024 ( 1 e 2 ), ha esaminato le domande di protezione di due cittadini iracheni, marito e moglie, di etnia curda, riconoscendo, in favore degli stessi, la protezione maggiore. Nella vicenda esaminata dai giudici capitolini, la ricorrente, la quale lavorava come avvocato per una compagnia petrolifera (all’interno della quale lavorava altresì, come direttore, anche il marito) aveva riferito di aver ricevuto delle minacce e delle violenze da persone appartenenti al partito PUK, per ottenere informazioni che ella ed il marito si erano rifiutati di dare, così venendo accusati di essere traditori. Di particolare rilievo quanto osservato dal Tribunale in merito al requisito delle opinioni politiche, da interpretare in modo estensivo, così da includervi anche le opinioni solo attribuite da parte dell’agente persecutore (nel caso di specie, il partito al governo), anche laddove il ricorrente non abbia mai espresso apertamente convinzioni politiche.
Religione
Il Tribunale di Firenze, con decreto del 18.6.2024 , ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una cittadina cinese, in ragione del fondato timore di subire persecuzioni per motivi religiosi. La ricorrente, con dichiarazioni ritenute pienamente credibili dal Collegio, ha riferito che, seppur tutta la famiglia di origine era cattolica (in particolare, fedele a Tianzhujiao, detto anche Lord of Heaven), la sua vita è cambiata radicalmente quando il padre, che svolgeva essenzialmente le funzioni di evangelizzazione, era stato arrestato e imprigionato per due anni dalla polizia dove aveva subito pratiche di tortura. Ha poi riferito che aveva svolto attività di proselitismo in Cina e che, durante tale attività, era stata destinataria di atti di controllo, volti alla repressione da parte delle autorità cinesi. Alla luce di tali elementi, i giudici fiorentini hanno ritenuto che, «stante la indivisibilità dei diritti umani e ritenendo che i perduranti ostacoli all’istruzione e all’accesso al lavoro insieme alle pratiche di isolamento sociale che la ricorrente ha subito e a cui ha assistito sin dalla prima infanzia, oltre a violare diritti economici e sociali abbiano inciso negativamente sul godimento del diritto alla vita in maniera dignitosa (art. 6 Patto ONU sui diritti civili e politici del 1966 come interpretato anche dal rispettivo commento generale16)». Per tali elementi, il Tribunale, ribadito che il diritto di religione protetto dalla normativa internazionale riguarda sia il credo che il diritto di manifestarlo apertamente, ha ravvisato la sussistenza di un rischio di persecuzione, atteso che, in caso di rientro in Cina la ricorrente non potrebbe manifestare il forum externum del suo credo religioso. Tale pericolo, inoltre, è stato ritenuto attuale anche in ragione della sua crescente maturazione di percorso religioso nella fede cattolica svolto dalla ricorrente in Italia, comprovato dagli atti di causa, tra cui l’attestazione di partecipazione alle funzioni religiose di una nota Comunità cattolica tra le più conosciute nel mondo.
La protezione sussidiaria
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. a) e b)
La Suprema Corte, con ordinanza n. 11259 del 2024 , ha cassato la decisione del Tribunale di Palermo che, nel rigettare la domanda di protezione spiegate da un cittadino del Bangladesh, il quale aveva riferito di essere fuggito dal Paese d’origine per sfuggire alle minacce dei familiari della ragazza con cui aveva avuto una relazione e perché vittima di usura, aveva omesso di indagare approfonditamente l’esistenza di un vincolo debitorio a tasso usurario. Con riferimento a tale aspetto, la Corte di cassazione ha affermato che «i soggetti che nel paese di origine scontano una particolare condizione di marginalità sociale ed economica sono i più esposti a possibili condizioni di assoggettamento personale derivanti da un vincolo debitorio da cui, in ragione dei tassi usurai, è difficile liberarsi. Pertanto, ove il soggetto deduca siffatta vicenda e sia ritenuto credibile sul punto, il giudice deve assumere aggiornate informazioni sul paese di origine pertinenti alla vicenda dedotta, e valutare se, in caso di rimpatrio, la persona corra il rischio di essere sottoposto a trattamento inumano in ragione del vincolo debitorio, senza protezione da parte dello Stato». Nella decisione in esame è stato poi precisato che, ove all’esito di un rigoroso accertamento in tal senso, da compiere in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria, venga esclusa la sussistenza dei requisiti previsti per il riconoscimento della protezione internazionale, il giudice deve valutare se tali vicende siano indicative di una condizione di vulnerabilità sulla base della quale esaminare i presupposti per il riconoscimento della protezione complementare.
Il Tribunale di Brescia, con decreto dell’8.5.2024 , ha esaminato la domanda di protezione spiegata da un cittadino egiziano il quale aveva riferito di essere fuggito dal Paese d’origine, a causa del timore di essere arrestato per il mancato pagamento di un debito contratto nello svolgimento della sua attività commerciale. Nella decisione in esame, il Collegio, alla luce delle più aggiornate ed accreditate fonti di informazione sulle conseguenze del mancato pagamento dei debiti in Egitto e sulle condizioni delle carceri, ha affermato che «allo stato i prigionieri sono effettivamente sottoposti a torture, vessazioni e limitazione arbitrarie della libertà e che vi è il serio rischio che il richiedente possa essere sottoposto a tali pratiche inumane e degradanti in caso di rimpatrio nel caso in cui, in conseguenza della condanna e nell’impossibilità di pagare i debiti, possa essere arrestato».
Ancora con riferimento alla rilevanza dei fatti allegati dal ricorrente ai fini della valutazione in termini di trattamento inumano e degradante, la Corte di cassazione, con ordinanza n. 13212 del 2024 , si è pronunciata sul ricorso proposto da un cittadino gambiano, il quale aveva allegato che la sua comprovata patologia mentale (condizione psicotica) aveva giustificato un ampliamento delle iniziali domande, tale da giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato o, in via gradata, della protezione sussidiaria, in quanto, in ragione di tale condizione, in caso di rientro nel paese d’origine, egli sarebbe stato sottoposto a trattamenti “terapeutici” violativi della sua libertà e dignità personale, tra cui la detenzione in sedicenti strutture di cura. La Corte, nell’accogliere il ricorso ha affermato che «il Tribunale ha correttamente tenuto conto del nuovo fatto, costituito, per l’appunto, dalla patologia psicotica da cui è affetto il ricorrente, allegato solo in corso di giudizio (cfr. le citate pronunce Cass. 20568/2021 e Corte di Giustizia sentenza C585/16 del 25 luglio 2018, Alheto), e tuttavia lo ha valutato solo ai fini della protezione speciale, che è stata riconosciuta al richiedente al fine di assicurargli cure adeguate, e non anche ai fini del rifugio e della sussidiaria ex art.14 lett. b) citato. I Giudici di merito hanno, infatti, focalizzato l’esame, in relazione alla sussistenza dei presupposti per la concessione delle protezioni maggiori, solo sulla vicenda personale addotta dal richiedente a ragione di fuga dal Gambia, in relazione al suo orientamento omosessuale, e l’hanno ritenuta non credibile, ma non hanno svolto alcun approfondimento istruttorio ufficioso circa la condizione nel suddetto Paese dei malati mentali, affetti da patologie identiche o analoghe a quelle diagnosticate all’odierno ricorrente, nonostante le specifiche allegazioni al riguardo espresse dalla difesa di quest’ultimo nel corso del giudizio. In particolare, è mancato ogni approfondimento, tramite le fonti di conoscenza, rispetto alla percezione, pure sociale, della malattia mentale in Gambia, in relazione al complessivo contesto, anche culturale, di detto Paese, al fine di verificare se fossero integrati i presupposti di cui all’art.7 d.lgs. 251/2007 per il riconoscimento dello status di rifugiato, vale a dire l’appartenenza del richiedente a un determinato gruppo sociale, se del caso perseguitato dalle autorità nazionali, in ragione di eventuali norme discriminatorie in vigore nei confronti dei malati mentali, oppure in ragione di gravi violazioni dei diritti umani, comunque attuate nei confronti dei suddetti soggetti senza adeguata protezione dello Stato, consistenti, ad esempio, nella loro stigmatizzazione, con limitazioni nell’accesso ai servizi e nell’esercizio dei diritti civili e politici. È mancato, altresì, da parte del Tribunale ogni approfondimento istruttorio al fine di accertare se in Gambia sussista il rischio per i malati mentali di essere sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, per quanto di rilevanza ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria ex art.14 lett. b) citato».
Le questioni procedurali e processuali
Provvedimenti di manifesta infondatezza nei confronti di ricorrenti provenienti da Paesi sicuri e sospensione automatica dell’efficacia degli stessi
Nella rassegna contenuta nel n. 2 del 2024, si è dato conto della sentenza n. 11399 del 29.4.2024 con cui le Sezioni Unite, decidendo sul rinvio pregiudiziale, ex art. 363 bis c.p.c. proposto dal Tribunale di Bologna, hanno affermato che in caso di ricorso giurisdizionale avente ad oggetto il provvedimento di manifesta infondatezza emesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale nei confronti di soggetto proveniente da Paese designato di origine sicura, vi è deroga al principio generale di sospensione automatica del provvedimento impugnato solo nel caso in cui la Commissione territoriale abbia correttamente applicato la procedura accelerata, utilizzabile nell’ipotesi di manifesta infondatezza della richiesta protezione.
Dopo la decisione delle Sezioni Unite, numerose le decisioni dei Tribunali di merito che, nell’osservare i principi di diritto affermati nella citata pronuncia, hanno accolto le istanze di sospensione spiegate dai ricorrenti, provenienti da Paesi designati di origine sicura, nei confronti di provvedimenti di manifesta infondatezza, adottati senza l’osservanza dei termini previsti per le procedure accelerate: in tal senso, cfr. decreto del 19.7.2024 del Tribunale di Perugia ; decreto del 19.6.2024 del Tribunale di Milano .
Nel solco dei medesimi principi, altri Tribunali hanno ritenuto che, ove la Commissione territoriale, nell’esaminare la domanda di protezione spiegata da un cittadino proveniente da un Paese designato d’origine sicura, non abbia correttamente applicato la procedura accelerata (non rispettando i termini di legge previsti), in tal caso, verificandosi un’ipotesi di sospensione automatica dell’efficacia esecutiva, non vi è necessità di un provvedimento espresso di sospensione. In tali casi, i Tribunali aditi hanno pertanto dichiarato non luogo a provvedere sulle istanze di sospensione. Si sono orientati in tal senso, il Tribunale di Torino, con decreto dell’8.8.2024 e il Tribunale di Perugia, con decreto del 23.7.2024 .
Provvedimenti di manifesta infondatezza all’esito delle procedure accelerate e sospensione automatica dell’efficacia degli stessi
Il Tribunale di Bologna, con decreto dell’11.7.2024 , si è pronunciato sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento di manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 28-ter, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 25/2008, adottato nei confronti di un ricorrente che non proveniva da un Paese designato di origine sicura. Nella decisione in esame, il Collegio, dopo aver richiamato i principi affermati nella sentenza n. 11399/2024 delle Sezioni Unite, ha precisato che nel dispositivo la decisione della Suprema Corte si riferiva soltanto all’ipotesi di manifesta infondatezza pronunciata per soggetti provenienti dai Paesi di origine sicuri, ma nella motivazione si riferiva in modo chiaro e univoco a tutte le ipotesi di manifesta infondatezza e di inammissibilità (come peraltro richiesto espressamente dalla Procura Generale nelle sue conclusioni richiamate nella sentenza), evidenziando in modo chiaro al § 31 che «la ratio comune alle ipotesi contenute nell’art. 28-bis, ovvero la immediata presenza o acquisibilità degli elementi da valutare, e la stretta connessione tra ristrettezza dei tempi, decisione e deroga al principio della sospensione, evidenzia la necessitata coesistenza dei tre fattori e, dunque, il venir meno dell’intero impianto in caso del venir meno di uno di essi (tempi dati)» e al § 33 che «deve essere quindi ritenuto che, al fine di poter ritenere derogato il principio generale di sospensione del provvedimento della Commissione, principio, ricordiamolo, posto a presidio della effettività delle tutele riconosciute per la protezione internazionale, deve essere stata svolta e rigorosamente osservata la procedura accelerata, con i termini suoi propri nei casi, espressamente previsti, di manifesta infondatezza (o inammissibilità)». Da tali premesse, il Tribunale ha tratto la conseguenza che «per tutte le ipotesi di manifesta infondatezza e di inammissibilità vale la regola della sospensione automatica qualora non sia stata seguita una corretta procedura accelerata». In particolare, è stato chiarito che «la deroga d’ogni articolazione della procedura accelerata comporti la sospensione automatica, dunque non solo un eventuale superamento dei termini, ma anche la mancata comunicazione da parte della Commissione territoriale della decisione del suo Presidente all’esito dell’esame preliminare, come peraltro richiesto espressamente dalla Procura Generale nelle sue conclusioni richiamate nella sentenza».
A medesime conclusioni è giunto anche il Tribunale di Catania – con decreto dell’11.7.2024 – che, decidendo sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza, adottato senza il rispetto dei termini di cui all’art. 26 comma 2-bis del d.lgs. 25 del 2008 per la registrazione della domanda di protezione internazionale, nei confronti di un richiedente (non proveniente da Paese designato d’origine sicura), ha dichiarato il provvedimento automaticamente sospeso.
Superamento della presunzione di sicurezza del Paese per la situazione particolare del ricorrente e richiesta cautelare di sospensione
Il Tribunale di Bologna, con decreto dell’8.8.2024 , ha accolto l’istanza cautelare di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza, emesso dalla Commissione territoriale nei confronti di un ricorrente, proveniente dal Bangladesh, designato Paese di origine sicura, sul rilievo che la vicenda rappresentata – relativa al debito contratto per l’espatrio ed al lavoro forzato in Libia senza retribuzione – alla luce delle COI sul Paese di provenienza doveva essere approfondita, non potendosi escludere che il ricorrente fosse stato vittima di tratta.
Sospensione dell’efficacia esecutiva per “gravi e circostanziate ragioni” (art. 35-bis, comma 4, d.lgs. n. 25 del 2008)
Il Tribunale di Salerno, con decreto del 30.1.2024 , nell’esaminare l’istanza di sospensione proposta da un cittadino della Tunisia, il quale aveva dichiarato di aver lasciato il proprio Paese d’origine a causa di problemi legati a questioni ereditarie, ha ritenuto sussistenti le gravi e circostanziate ragioni per sospendere il provvedimento impugnato, alla luce del percorso di integrazione socio lavorativa intrapreso in Italia. In particolare, il Collegio ha osservato che, anche in seguito alle modifiche introdotte dal d.l. n. 20 del 2023 (convertito con modif. nella l. n. 50 del 2023), il diritto al rispetto alla vita familiare «continua ad essere tutelato nell’art. 8 CEDU e rientra in quel “catalogo aperto” dei diritti fondamentali connessi alla dignità della persona ed al diritto di svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, tutelati dagli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost., trovando dunque il suo fondamento in fonti sovraordinate rispetto alla legislazione ordinaria (cfr. Cassazione n. 28162/2023)».
Censurabilità in Cassazione del mancato esame di un documento
La Suprema Corte, con ordinanza n. 16583 del 2024 , ha accolto il ricorso proposto da un cittadino nigeriano avverso la decisione del Tribunale che, decidendo sulla sua domanda reiterata, non aveva esaminato le prove documentali dallo stesso prodotte, dalle quali sarebbe emersa la prova della sua omosessualità (in particolare, le relazioni descrittive del percorso di consulenza e sostegno psicologico, nonché relazione si presa in carico da parte di un’associazione volta a combattere le discriminazioni contro le persone LGBT). Nella decisione in esame, la Corte ha affermato che il mancato esame di un documento può essere denunciato per Cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento.
Valutazione di credibilità delle dichiarazioni del ricorrente
La Suprema Corte, con ordinanza n. 12954 del 2024 , nell’esaminare un ricorso proposto da una cittadina pakistana – la quale aveva riferito di essere stata costretta a lasciare il Paese d’origine, insieme alla famiglia del marito, per paura delle ritorsioni conseguenti alla scelta di sposare un uomo che la propria famiglia non aveva approvato – si è soffermata sulla questione relativa alla valutazione di credibilità. Nella decisione in esame, la Corte ha affermato che, «il Tribunale ha escluso in parte la credibilità delle vicende narrate dalla richiedente a cagione della sua fuga dal Pakistan riportandosi a quanto osservato dalla Commissione territoriale ed evidenziando delle contraddizioni, senza dare conto di fare applicazione dei criteri di cui al d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3 mediante una valutazione autonoma sull’attendibilità della narrazione del ricorrente, nonostante la delicatezza e, soprattutto, la complessità delle vicende narrata, intersecantesi con quelle di altri familiari, dalle quali astrattamente potrebbe conseguire il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 14, lett. a e b), per essere l’allegazione del ricorrente riferita a condotte violente e persecutorie poste in essere per motivi politici e religiosi, incidenti sul libero esercizio delle manifestazioni del pensiero e del credo religioso nel Paese di origine. Il Tribunale, pur non essendosi limitato a trascrivere nel decreto le considerazioni espresse dalla Commissione territoriale, ed avendo riconosciuto una certa attendibilità al narrato – tanto da accogliere per tutti i componenti del nucleo familiare, odierni ricorrenti, la domanda di protezione speciale ex art.19, comma 1.2. del d.lgs. n.286/1998, non ha tuttavia approfondito, a conforto del proprio convincimento ed a confutazione delle contestazioni sollevate al riguardo nel ricorso di primo grado, le circostanze relative all’espatrio della ricorrente; ha svolto una valutazione atomistica ed ignorato i riscontri documentali non esaminati perché ritenuti superati da contraddizioni relative alle modalità di denuncia dell’aggressione subìta dal padre e dalla madre del marito della ricorrente».
Il REGOLAMENTO n. 604/2013 (Dublino)
Gli obblighi informativi
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 20451/2024 ha esaminato un ricorso avverso il provvedimento di rinvio di richiedente asilo turco in Austria alla luce della recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 30.11.2023 n. 228, che, all’esito di rinvio pregiudiziale dell’Italia, ha affermato l’obbligo per lo Stato di fornire gli opuscoli informativi, previsti dal Regol. n. 604/2013, cd. Dublino, anche qualora il richiedente asilo, per il quale dovrebbe essere disposto il rinvio nel Paese di primo arrivo, abbia già presentato domanda in altro Stato membro, qualificandone l’inderogabilità e dunque il potere del richiedente asilo di chiedere all’Autorità giudiziaria un esame completo del proprio ricorso avverso la decisione di trasferimento, che comprenda anche la violazione delle garanzie procedurali.
Nell’ordinanza in rassegna la Cassazione richiama la propria giurisprudenza successiva alla pronuncia della CGUE (si veda in questa Rivista n. 2/2024 la Rassegna asilo e protezione internazionale) e arriva alla medesima conclusione, ovverosia che quegli obblighi informativi non sono fungibili con quelli afferenti alla ordinaria presentazione della domanda d’asilo, previsti dall’art. 10 d.lgs. 25/2008, «con la conseguenza che, ove questi specifici adempimenti non risultino assolti, alla luce della audizione effettuata e delle informazioni risultanti dalle allegazioni e produzioni dell’autorità amministrativa, onerata della prova, la decisione di trasferimento deve essere senz’altro annullata (v., tra le tante, v. Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 10331 del 17/04/2024 e Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 12170 del 06/05/2024).».
Il Tribunale di Bologna, con decreto 13.9.2024 RG. 9172/2022 ha annullato il provvedimento di rinvio in Svezia di richiedente asilo dell’Iraq, in applicazione della sentenza della Corte di giustizia del 30.11.2023 n. 228 e della pronuncia della Corte di cassazione n. 12162/2024, secondo le quali gli obblighi informativi previsti dal Regolamento n. 604/2013 (artt. 4 e 5) devono essere rigorosamente rispettati e non sono fungibili né sostituibili con quelli previsti dall’art. 10 d.lgs. 25/2008 afferenti alla protezione internazionale (cita anche Cass. n. 22947/2024). L’omissione degli obblighi informativi “Dublino” comporta, secondo la CGUE, l’annullamento della decisione di trasferimento a meno che nell’ambito dell’impugnazione avverso la decisione di rinvio Dublino il richiedente asilo non abbia la possibilità di esporre personalmente, davanti al giudice, tutte le ragioni che militano contro la decisione stessa, con tutte le garanzie previste. Rapportati quei principi al caso esaminato, il Tribunale bolognese ha rilevato che dall’inizio del giudizio sono decorsi 5 anni (iniziato a Bologna, rinviato per competenza territoriale a Roma rinviato nuovamente a Bologna dopo la pronuncia di Cassazione n. 31127/2019) e nel frattempo il richiedente asilo può essersi allontanato dal territorio, rendendo impossibile «il recupero della garanzia procedurale non assicurata in fase amministrativa dal Ministero.», conseguentemente annullando la decisione di rinvio dell’Unità Dublino.
PROTEZIONE SPECIALE
La domanda diretta al questore dopo la riforma 2023
Dopo l’abrogazione (disposta dalla legge n. 50/2023 di conversione del d.l. n. 20/2023) dell’art. 19, co. 1.2 TU d.lgs. 286/98, che consentiva di presentare domanda di protezione speciale direttamente al questore, si è posta la questione della possibilità di continuare a chiedere la protezione speciale al di fuori della protezione internazionale. Sul punto continuiamo la pubblicazione dei provvedimenti giudiziali iniziata nel numero precedente della Rivista, n. 2.2024, pubblicando quelli i quali offrono importanti spunti di approfondimento.
La sentenza 28.6.2024, RG. 4443/2024, del Tribunale di Bologna è una delle prime pronunce che affronta in profondità la questione della possibilità di presentare domanda di protezione speciale direttamente al questore dopo la riforma abrogatrice del 2023 e l’occasione è data dall’impugnazione del rifiuto della questura di Parma di dare un appuntamento per la sua formalizzazione, poiché non sarebbe più prevista dopo il d.l. n. 20/2023 e sua legge di conversione n. 50/2023. Il ricorrente ha, dunque, chiesto l’accertamento del suo diritto alla presentazione della domanda in via autonoma, cioè al di fuori della procedura di protezione internazionale.
In via preliminare il giudice bolognese ritiene irrilevante la qualificazione di irricevibilità o inammissibilità del rifiuto questorile, in quanto il comportamento della PA, che ha rifiutato l’appuntamento per la presentazione della domanda, è «una univoca manifestazione di volontà dell’ente amministrativo di impedire la presentazione della domanda e come tale legittima il cittadino straniero a convenire la PA in giudizio al fine di vedere accertato il proprio diritto soggettivo di presentare la domanda», con giurisdizione ordinaria.
Precisa, altresì, il Tribunale felsineo che l’azione giudiziale sottende, in realtà, due differenti domande: l’una finalizzata ad accertare il diritto alla presentazione della domanda di protezione speciale direttamente al questore e le modalità di sua trattazione in sede amministrativa, cioè se debba essere valutata in via autonoma o mediante procedura di protezione internazionale; l’altra per accertare il diritto alla protezione speciale con conseguente ordine al questore di rilasciare il titolo di soggiorno.
Con riguardo alla prima, la sentenza qui in rassegna censura la tesi della questura secondo cui dopo la riforma dell’art. 19 TU d.lgs. 286/98 avvenuta nel 2023 sarebbe oggi abrogata la protezione speciale, in quanto l’eliminazione del terzo e quarto periodo del comma 1.1. di detta norma ha lasciato in vigore la parte residua di esso e il comma 1, con la conseguenza che «non può dubitarsi che abbia diritto alla protezione speciale chi possa essere oggetto di persecuzione nel paese di origine, chi rischi d’essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, e, dal combinato disposto fra l’art. 19, primo comma e l’art. 5, sesto comma, chi sia esposto a rischio di lesione di diritti riconosciuti dalla Costituzione italiana e dai Trattati e le Convenzioni sottoscritte dal nostro paese, fra cui la Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che riconosce fra gli altri, all’art. 8, il diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare in forme analoghe, per quanto non sovrapponibili con riguardo ai controlimiti, alla previsione delle abrogate parti terza e quinta del primo comma dell’art. 19 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.».
Ricorda, altresì, il Tribunale che la protezione speciale «non potrebbe mai essere abrogata posto che è diretta espressione dell’art. 10, terzo comma della Cost. il quale non riceve sufficiente applicazione con la disciplina di derivazione internazionale concernente il rifugio e la protezione sussidiaria, avendo pacificamente una portata assai più ampia.», sottolineando che neppure l’art. 10, co. 3 Cost. potrebbe essere soggetto a revisione costituzionale e dunque l’abrogazione della protezione speciale ritenuta dalla questura «appare, ancor più, manifestamente fallace».
Affermata, dunque, l’imprescindibile “sopravvivenza” della protezione speciale dopo la riforma 2023, il giudice ritiene che l’esistenza di un diritto soggettivo presuppone necessariamente una modalità di suo accertamento, cui consegua, nel caso, il rilascio di un titolo di soggiorno e dunque afferma il diritto del ricorrente di ricevere un appuntamento per formalizzare la sua domanda di protezione speciale, con ordine in tal senso alla questura.
Quanto, invece, alle modalità di trattazione della domanda presentata al questore, ad avviso del Tribunale di Bologna «è di natura eminentemente organizzativa e, pur avendo evidenti riflessi sulla posizione soggettiva del ricorrente (solo nel caso di trattazione in sede di protezione internazionale vi è difatti: l’obbligo di audizione del ricorrente; il medesimo ha diritto all’accoglienza; in caso di ricorso al giudice la decisione della Commissione è automaticamente sospesa, salvo corretta procedura accelerata nei casi previsti dalla legge) non appare attinente, secondo le deduzioni svolte nella presente controversia, ad allegati diritti soggettivi del medesimo, atteso che dall’attenta lettura del ricorso non si rileva la segnalazione di alcun diritto soggettivo leso in caso di trattazione nell’ambito della protezione internazionale, sicché, seguendo le allegazioni della parte, la domanda non appare rientrare nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario.».
Affermazione a cui il Tribunale perviene dopo la ricostruzione dell’istituto giuridico della protezione speciale come delineata fino alla riforma 2023, che consentiva il duplice percorso per il riconoscimento della protezione speciale: all’interno della procedura di protezione internazionale, oppure con domanda diretta al questore con onere, a suo carico, di acquisire obbligatoriamente il parere della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. In entrambi i percorsi, l’accertamento del diritto era devoluto alla valutazione tecnica della Commissione territoriale e l’esito positivo era il rilascio di un permesso di soggiorno, il cui regime giuridico era identico. Possibilità procedurale alternativa di cui la sentenza indica la ratio ma che la legge n. 50/2023, di conversione con modifiche del d.l. n. 20/2023, ha inteso eliminare determinando un quadro normativo “non lineare”, con prassi diversificate a seconda della questura. Tuttavia, secondo il Tribunale di Bologna, poiché rimangono i divieti di espulsione di cui all’art. 19, commi 1 e 1.1. TU d.lgs. 286/98, anche se non è prevista espressamente la possibilità di domanda autonoma al questore (come prima della riforma) la sua verifica è imposta dall’art. 5, co. 6 TU immigrazione e pertanto «le Questure investite di una qualsiasi richiesta di permesso di soggiorno da parte di un soggetto irregolare restano tenute, quando abbiano sentore della sussistenza dei presupposti della protezione speciale, a richiedere il parere obbligatorio e vincolante della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, adeguandosi allo stesso.». Aggiunge il Tribunale che è, altresì, certo che la domanda di protezione speciale possa essere proposta nell’ambito della protezione internazionale in via del tutto autonoma rispetto a quest’ultima, cioè anche senza allegare alcunché con riguardo al rifugio o alla protezione sussidiaria, richiamando in proposito la pronuncia di Cassazione n. 37275/2022.
Conclusivamente, il Tribunale, posto che è tuttora oggetto di dibattito se, ricevuta una domanda di sola protezione speciale, la questura debba seguire l’iter procedimentale della protezione internazionale o debba trattarla autonomamente, ma sempre chiedendo il parere obbligatorio e vincolante alla Commissione territoriale, nel caso oggetto di ricorso non si pronuncia su quale percorso debba essere seguito perché, a suo dire, non sarebbero stati dimostrati in giudizio pregiudizi ai diritti del ricorrente nel seguire un unico procedimento amministrativo.
Infine, quanto alla domanda giudiziale finalizzata al riconoscimento della protezione speciale, il giudice felsineo la ritiene inammissibile perché non preceduta da valutazione in sede amministrativa (in analogia a quanto avviene per la protezione internazionale, o in materia di permesso per motivi di famiglia), richiamando al riguardo quanto previsto dall’art. 3, co. 1 lett. d) d.l. n. 13/2017 che attribuisce la giurisdizione ordinaria alle sezioni specializzate in materia di rifiuto di rilascio o rinnovo o revoca del titolo di soggiorno per protezione speciale, che presuppone un provvedimento della PA.
La sentenza 10.7.2024 del Tribunale di Roma, RG. 40613/2023 , affronta il caso, per certi aspetti particolare, in cui la questura di Roma si è rifiutata di formalizzare la domanda di protezione speciale presentata nel luglio 2023 da cittadina ucraina già titolare di protezione temporanea. Rifiuto motivato per l’intervenuta abrogazione dell’art. 19, co. 1.2 TU d.lgs. 286/98 e dunque per asserita impossibilità di presentare la domanda direttamente al questore.
Nel giudizio, non costituita nessuna delle Amministrazioni dello Stato, il Tribunale romano ha, innanzitutto, affermato la propria giurisdizione poiché la richiesta della ricorrente «risulta finalizzata all’esercizio del suo diritto assoluto, costituzionalmente garantito dall’art. 10, co. 3 della Costituzione, di avanzare domanda di protezione» e pertanto «la situazione giuridica soggettiva del cittadino straniero ha natura di diritto soggettivo, con conseguente radicamento della giurisdizione del giudice ordinario in tutte le controversie che lo riguardano (cfr. SS.UU. ordinanza n. 5059 del 28.02.2017 […]».
Nella sentenza si chiarisce anche che una delle domande giudiziali proposte, quella diretta all’accertamento della protezione speciale, è improcedibile perché non preceduta dal necessario vaglio amministrativo, in quanto, non accettando la formalizzazione della domanda, la questura non ha trasmesso alla Commissione territoriale la richiesta di parere.
Chiarisce, altresì, la piena compatibilità tra titolarità della protezione temporanea (riconosciuta ai/alle cittadini/e ucraini/e dopo lo scoppio della guerra nel 2022, giusta d.m. 28.3.2022 e prorogata, da ultimo con legge di bilancio n. 213/2023) e protezione speciale, sia perché la prima non ha natura di diritto soggettivo, divenendo tale solo dopo un atto normativo, sia perché la Direttiva 2001/55/CE e il d.lgs. 85/2003, di sua attuazione, prevedono un meccanismo di sospensione dell’eventuale domanda di protezione internazionale una volta terminata quella temporanea. «L’ordinamento non prevede dunque alcuna preclusione alla presentazione di una domanda di protezione speciale da parte di chi sia già titolare di un permesso di soggiorno per protezione temporanea, emergendo anzi dalla lettura delle norme la piena compatibilità tra le due forme di protezione, con l’unico limite costituito dall’esame differito della domanda di altra forma di protezione internazionale al momento della cessazione della protezione temporanea».
Sulla diversità tra protezione temporanea e protezione speciale si rinvia anche alla Rassegna asilo, in questa Rivista n. 2.2024.
Tanto chiarito, nel merito del diritto alla formalizzazione della domanda di protezione speciale il Tribunale di Roma accoglie la domanda della cittadina ucraina affermando, in primo luogo, che l’intervenuta abrogazione, ad opera del d.l. n. 20/2023, del terzo e quarto periodo dell’art. 19, co. 1.1. TU immigrazione ha lasciato inalterati il comma 1 (persecuzioni per plurimi fattori) e la prima parte del comma 1.1. (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti e obbligo di rispetto obblighi costituzionali o internazionali ex art. 5, co. 6 TU, tra i quali rientra anche l’art. 8 CEDU), i quali, dunque, continuano a prevedere specifiche cause di inespellibilità «utili ai fini del riconoscimento della protezione speciale e del rilascio del relativo permesso di soggiorno».
Infatti, si legge nella pronuncia in rassegna che «La permanenza nel Testo unico immigrazione della previsione di inespellibilità per i casi in cui il rimpatrio comporti una lesione di diritti fondamentali della persona tutelati dall'ordinamento costituzionale e internazionale necessariamente comporta il corrispettivo obbligo per l’Amministrazione di rilascio di un titolo di soggiorno al realizzarsi di questi casi, che garantisca la regolarità della presenza dell’individuo inespellibile sul territorio nazionale e il godimento di tutti i diritti connessi, da individuare nel permesso di soggiorno per protezione speciale secondo quanto espressamente previsto, nell’ambito della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, ai sensi dell’art. 19, comma 1.2 del d.lgs. 286/1998, che dispone che “ove ricorrano i requisiti di cui ai commi I e I.I., la Commissione territoriale trasmette ai sensi dell’articolo 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008. n. 25 gli atti al Questore per il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale”.». Richiama, in proposito, anche la decisione del Tribunale di Bologna 28.6.2024 (sopra in rassegna) e afferma l’obbligo della PA di ricevere la domanda, sia perché l’art. 5, co. 9 TU d.lgs. 286/98 impone di valutare la sussistenza di requisiti anche diversi dal titolo di soggiorno richiesto (ove la questura ritenga che per esso non vi siano), sia perché vi è un obbligo generale di verificare l’inesistenza di un rischio di refoulement; verifiche che devono necessariamente confluire in provvedimento espresso e motivato.
Riconosciuto l’obbligo per la questura di ricevere la domanda, il Tribunale di Roma affronta la questione delle modalità di presentazione e, dopo avere richiamato il d.lgs. 142/2015 e il d.lgs. 25/2008, afferma che vi è libertà di forma della manifestazione di volontà di chiedere protezione, che non può essere «disseminata di inutili ostacoli burocratici» ma, quanto alle concrete modalità di svolgimento della procedura, dopo la formalizzazione, il Tribunale precisa non essere oggetto di specifica domanda della ricorrente e pertanto «potendosi la scelta in materia organizzativa rimettersi alla valutazione dell’autorità amministrativa, purché la procedura rispetti i tempi di legge e garantisca standard di effettività, serietà ed adeguatezza dell’esame, compreso l’intervento in ogni caso della specializzata Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, mediante rilascio di parere obbligatorio ovvero mediante trattazione della procedura intera.»
Sempre in tema di diritto alla formalizzazione della domanda di protezione speciale, al di fuori della procedura di protezione internazionale, va segnalato anche il decreto cautelare provvisorio del Tribunale di Milano 27.9.2024, RG. 28674/2024 , con cui viene ordinato alla questura di registrare la domanda di protezione speciale richiesta via PEC il 7 giugno 2024 da ricorrente figlio di madre affetta da grave patologia, alla quale era stato già rilasciato un permesso di soggiorno per cure mediche.
I presupposti della protezione speciale
Art. 8 CEDU - diritto al rispetto della vita privata
Attività lavorativa
L’ordinanza n. 21956/2024 della Corte di cassazione ha riguardato il caso di richiedente asilo del Ghana al quale la Commissione territoriale prima e il Tribunale di Palermo poi hanno negato il riconoscimento della protezione internazionale e anche di quella speciale, per quest’ultima ritenendo non esistenti indici di integrazione sociale. Il ricorso, presentato in relazione alla sola protezione complementare, è stato accolto dalla Corte, che ha censurato la decisione siciliana nella parte in cui non ha ritenuto le comunicazioni UNILAV idonee a dimostrare lo svolgimento dell’attività lavorativa e insufficiente il reddito conseguito per il lavoro di bracciante.
Premette la Cassazione che «In tema di protezione speciale o complementare, questa Corte ha infatti affermato ripetutamente che, ai sensi della disciplina introdotta dal d.l. n. 130 del 2020, il raggiungimento da parte del richiedente di un adeguato livello di integrazione sul territorio nazionale presuppone non già la realizzazione di un pieno, radicale ed irreversibile inserimento nel contesto sociale e culturale del Paese, ma il compimento di un apprezzabile sforzo d’integrazione nella realtà locale di riferimento, desumibile non solo dal reperimento di un’occupazione a tempo indeterminato, sia pure pochi mesi prima della decisione (cfr. Cass., sez. I, 11/11/2022, n. 33315), ma anche dalla stipulazione di una pluralità contratti di lavoro a tempo determinato, idonei a comprovare lo svolgimento continuativo dell'attività lavorativa (cfr. Cass., sez. I, 27/09/2023, n. 27475), nonché dalla partecipazione ad attività di formazione professionale e volontariato, anche nell’ambito del sistema di accoglienza, e dall'apprendimento della lingua italiana (cfr. Cass., sez. I, 13/06/2023, n. 16716; 11/03/2022, n. 7938; 2/10/2020, n. 21240).».
Quanto alle comunicazioni UNILAV precisa la Corte che costituiscono precisi obblighi previsti da varie disposizioni di legge e pertanto idonee a comprovare l’effettività del rapporto di lavoro, a prescindere dalla produzione delle buste paga che riguardano la sola retribuzione. Con riguardo, inoltre, all’entità del reddito conseguito dal cittadino ghanese, il Giudice di legittimità ha ribadito quanto già espresso in precedenti pronunce ovverosia che «l’esiguità della retribuzione non costituisca di per sé un elemento dirimente, ai fini dell’esclusione del consolidamento del processo d’integrazione sociale in Italia, dovendo la consistenza del reddito essere apprezzata tenendo conto del graduale incremento della retribuzione nel tempo, che può fornire utili indicazioni in ordine alla possibilità di condurre un’esistenza libera e dignitosa (cfr. Cass., sez. I, 15/03/2022, n. 8373): in quest’ottica, occorre anzi rilevare che il decreto impugnato non ha preso in alcun modo in considerazione il contratto di locazione di un alloggio prodotto in giudizio dal ricorrente, la cui valutazione avrebbe consentito di verificare il possesso delle risorse necessarie per procurarsi un’adeguata sistemazione abitativa.».
Nell’ordinanza in rassegna la Cassazione rigetta, invece, il motivo di ricorso in cui si lamentava che il Tribunale di Palermo non abbia tenuto conto della rilevanza delle torture subite in Libia e la loro ripercussione sulla salute del ricorrente, sia perché prive di dimostrazione, sia perché «la protezione speciale non può essere accordata automaticamente per il solo fatto che il richiedente abbia subito violenze o maltrattamenti nel paese di transito, dal momento che, dovendo il rimpatrio essere disposto verso il Paese di origine (o verso quello di dimora abituale, ove si tratti di un apolide), è in riferimento a quest’ultimo che occorre accertare l’esposizione del richiedente al rischio di persecuzioni o danni gravi (cfr. Cass., sez. III, 5/06/2020, n. 10835; Cass., sez. VI, 20/11/2018, n. 29875).».
Con sentenza 5.4.2024 RG. 14870/2023 il Tribunale di Bologna ha riconosciuto a cittadino del Bangladesh, in Italia da anni e al quale era stata negata in precedenza la protezione internazionale, il diritto al rinnovo del permesso per protezione speciale, negatogli dal questore per effetto del parere negativo espresso dalla Commissione territoriale di Bologna. Decisione a cui il Tribunale è giunto dopo avere ricordato i principi giurisprudenziali della Corte di cassazione in occasione della riforma dell’art. 19 TU d.lgs. 286/98 attuata con il d.l. n. 130/2020 che ha esteso il divieto di espulsione anche all’art. 8 CEDU (Cass. SU n. 24413/2021, ribaditi con ordinanza n. 7861/2022) e pertanto assumendo rilevanza il diritto al rispetto della vita privata, anche distinta dalla vita familiare. In particolare, secondo la pronuncia in rassegna, «la vita privata – intesa come manifestazione dell’individualità ampia ed insuscettibile di esatta delimitazione – è connotata da una pluralità di proiezioni, comprendenti certamente: il diritto allo sviluppo della personalità mediante intreccio di relazioni con altri (Corte EDU sentenza 16 dicembre 1992, Niemetz c. Germania); il diritto all’identità sociale e alla stabilità dei riferimenti del singolo presso una data collettività (Corte EDU sentenza 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito); il domicilio, che designa lo spazio fisico in cui si svolge la vita privata e familiare del singolo (Corte EDU sentenza 2 novembre 2006, Giacomelli c. Italia).». Tra gli indici di radicamento il lavoro rappresenta un importante elemento di valutazione poiché consente di sviluppare relazioni con il mondo esterno.
In applicazione di tali principi e accertati attraverso la documentazione prodotta vari elementi di integrazione, tra i quali la partecipazione a corsi di formazione e di lingua e attività lavorative progredite nel corso degli anni di permanenza in Italia pur con contratti a tempo determinato, il Tribunale ha riconosciuto al cittadino del Bangladesh la protezione speciale, secondo il regime precedente la riforma di cui al d.l. n. 20/2023 e sua legge di conversione n. 50/2023, poiché un suo rimpatrio vanificherebbe gli sforzi compiuti in Italia e lo esporrebbe a rischio di emarginazione, dunque in violazione di diritti fondamentali.
Importante passaggio motivazionale della sentenza qui esaminata è la parte in cui il Tribunale evidenzia che «Nel bilanciamento fra tali interessi e le esigenze pubblicistiche che – anche sulla scorta dell’art. 8 C.e.d.u. – deve essere svolto per valutare la ragionevolezza di una compressione dei primi, va certamente tenuto in primario rilievo il principio di proporzionalità, che legittima l’interferenza statuale nelle prerogative individuali solo ove detta interferenza risponda ad un “bisogno sociale imperativo” (sentenze 13.02.2003, Odievre c. Francia; n. 13441/1987, Olsson c. Svezia): tale bilanciamento nel caso del novellato art. 19 è stato disciplinato consentendo l’interferenza statale nella vita privata “per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea”».
Attività nel sistema di accoglienza
La Corte di cassazione, ordinanza n. 21958/2024 , ha accolto il ricorso di un richiedente asilo della Nigeria avverso la decisione del Tribunale di Reggio Calabria che gli aveva negato ogni forma di protezione, sia internazionale che complementare. La Corte, richiamando il principio della comparazione attenuata declinato dalle Sezioni Unite n. 24413/2021 («riferibile alle ipotesi in cui lo straniero abbia raggiunto un apprezzabile livello d’integrazione socio-lavorativa in Italia, e consistente nel ridimensionamento del ruolo assegnato, nell’ambito della predetta valutazione comparativa, alla situazione in cui il richiedente versava prima dell’abbandono del Paese di origine, in favore di una più ampia considerazione del peggioramento che le sue condizioni di vita subirebbero in dipendenza del rimpatrio, sotto l’aspetto non solo del godimento dei diritti fondamentali, ma anche della situazione occupazionale (cfr. Cass., sez. I, 10/01/2022, n. 465; 12/11/2021, n. 34095) e delle relazioni sociali e familiari (cfr. Cass., sez. I, 12/01/2022, n. 677; 12/11/2021, n. 34096)») ha censurato la decisione impugnata poiché ha ritenuto irrilevanti sia la durata della presenza del richiedente in Italia, nonostante implichi un inevitabilmente allentamento dei legami familiari e sociali del Paese di origine e una conseguente difficoltà di reinserimento nel Paese di origine, sia lo svolgimento di tirocini formativi e di lingua, i quali invece vanno apprezzati anche se svolti all’interno del sistema di accoglienza pubblico (Cass., sez. I, 28.7.2022, n. 23571; 11.3.2022, n. 7938; Cass., sez. II, 16.3.2021, n. 7396).
Lavoro e salute
Con decreto 12.2.2024, RG. 4122/ 2021, il Tribunale di Perugia , negata a richiedente asilo della Guinea la protezione internazionale condividendo motivatamente il giudizio di non credibilità espresso dalla Commissione territoriale, ha riconosciuto a richiedente asilo del Ghana – in Italia da quattro anni – la protezione speciale, ex art. 19, co. 1.1. TU d.lgs. 286/98 (pre-riforma 2023) in ragione della sua vulnerabilità sanitaria (affetto da stress post-traumatico, con terapie in corso) e tenuto conto dell’attività lavorativa svolta in agricoltura come bracciante e con contratti periodici. È stato, dunque, riconosciuto, il diritto al rispetto della sua vita privata, di cui all’art. 8 CEDU, che verrebbe leso in caso di rimpatrio in Guinea.
Durata della presenza in Italia e complessiva integrazione
Con ordinanza n. 12955/2024 la Corte di cassazione ha censurato la decisione del Tribunale di Cagliari che aveva negato a cittadino della Tunisia la protezione speciale per ritenuto difetto di integrazione sociale. In realtà, attraverso gli atti processuali, la Corte ha ritenuto che il giudice di 1^ grado abbia erroneamente omesso di operare il bilanciamento affermato dalla Cassazione a SU n. 24413/2021 escludendo la rilevanza della risalente presenza del ricorrente in Italia (dal 2000), l’attività autonoma svolta dal 2001 al 2012 e di recente ripresa, nonché la perfetta padronanza della lingua italiana, nonostante la mancata frequentazione (che il Tribunale pretendeva essere dimostrata) di corsi di lingua.
Valore giuridico della ricevuta di permesso per protezione speciale
Il Tribunale di Milano, con decreto 10.8.2024 RG. 2023/22461 , ha sospeso in via cautelare il provvedimento con cui il questore di Lecco ha negato a cittadino del Senegal la protezione speciale il 7.3.2023. Dopo la proposizione dell’impugnazione ex art. 19-ter d.lgs. 150/2011 nel 2023, nel maggio 2024 il ricorrente ha chiesto la sospensione cautelare del provvedimento con rilascio di provvisorio permesso di soggiorno. Richiesta accolta dal giudice meneghino che ha valutato, sia pur in sede cautelare, i presupposti per il riconoscimento della protezione speciale (sostanzialmente requisiti lavorativi e durata presenza in Italia dal 2018) e affermato, dunque, il diritto del ricorrente di ottenere il rilascio di un «permesso di soggiorno provvisorio (quale conseguenza dell’autorizzazione alla regolare permanenza sul territorio richiesta dalla difesa)».
Il Tribunale richiama la pronuncia del Tribunale di Bologna 9.3.2023, secondo cui la sospensione non può limitarsi a paralizzare gli effetti del provvedimento impugnato ma deve consentire anche il temporaneo ripristino della condizione precedente al provvedimento impugnato. Ricorda anche che la protezione speciale o complementare afferisce al complessivo diritto d’asilo di cui all’art. 10, co. 3 della Costituzione, di cui l’art. 19 TU d.lgs. 286/98 fa pienamente parte, oltre a essere prevista dal diritto dell’Unione europea e riconosciuto da giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza B. e D. c. Germania, cause riunite C-57/09, C-101/09 del 9 novembre 2010), che ha altresì precisato il concetto di “humanitarian grounds” ritenendo che non possano esaurirsi nei motivi sanitari (causa C-638/16 c. PPU del 7 marzo 2017 e causa C-646/16 Jafari del 26 luglio 2017).
In applicazione di tali principi, il Tribunale ha affermato che la ricevuta di permesso di soggiorno ha il valore giuridico indicato dall’art. 4 d.lgs. 142/2015, «norma direttamente applicabile proprio per la matrice costituzionale comune tra le protezioni maggiori e quella complementare», e dunque consente l’esercizio di tutti i diritti previsti dalla vigente normativa di protezione internazionale (accesso al lavoro, iscrizione al SSN, rilascio di codice fiscale, ecc.).
Nell’occasione, il Tribunale di Milano chiarisce anche che è stato da tempo superato in giurisprudenza il dubbio che il doppio percorso per il riconoscimento della protezione speciale possa dare adito a due differenti regimi giuridici, poiché si tratterebbe di interpretazione irragionevole se non incostituzionale, stante l’unitarietà dell’istituto (Tar Veneto sent. n. 1812/2022). Anche per tale ragione va riconosciuto il diritto del richiedente protezione speciale direttamente al questore di avere, nelle more del giudizio, il permesso di cui all’art. 4 d.lgs. 142/2015.
La conversione del permesso da protezione speciale a motivi di lavoro
Anche in questo numero della Rivista prosegue la pubblicazione della giurisprudenza che affronta la questione della convertibilità del permesso per protezione speciale in permesso per lavoro, a seguito dell’abrogazione dell’art. 6, co. 1-bis lett. a) TU d.lgs. 286/98 operato dalla legge n. 50/2023 di conversione del d.l. n. 20/2023. Questione che per ora si è posta con riguardo al regime transitorio previsto dall’art. 7 d.l. n. 20/2023.
Regime intertemporale ex art. 7 d.l. n. 20/2023 e sula legge di conversione n. 50/2023
Il Consiglio di Stato, con ordinanza cautelare n. 3314/2024 RG. 6131/2024, ha esaminato l’appello proposto da un cittadino straniero al quale la questura di Verona aveva dichiarato irricevibile la domanda di conversione in lavoro del suo permesso per protezione speciale, ritenendola abrogata dal d.l. n. 20/2024 e, impugnato il provvedimento davanti al Tar Veneto, era stata negata la sospensiva. Secondo il giudice regionale, infatti, il permesso per protezione speciale era stato rilasciato successivamente al 6 maggio 2023, data di entrata in vigore della legge n. 50 di conversione del d.l. n. 20/2023, il cui art. 7, co. 2 disciplina il diritto intertemporale con riguardo alle domande di protezione speciale già presentate, le quali, ad avviso del Tar sono tutte quelle precedenti l’11 marzo 2023 (data di entrata in vigore del d.l.) ma secondo cui «non pare corretto (avuto riguardo ai rapporti tra il comma 2 ed il comma 3 dell’art. 7) interpretare la locuzione “disciplina previgente” nel senso che essa comprende anche la possibilità di ottenere la conversione del permesso di soggiorno per protezione speciale rilasciato dopo la data del 6 maggio 2023, perché tale locuzione pare da riferire solo alla disciplina delle istanze di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale presentate fino alla data del 11 marzo 2023» (motivazione riportata testualmente nell’ordinanza qui in rassegna). In sostanza, secondo il Tar Veneto le istanze che rientrerebbero nell’ambito di applicazione dell’art. 7, co. 2 d.l. 20 sarebbero solo quelle per le quali il permesso per protezione speciale sia stato rilasciato prima del 6 maggio 2023.
Tesi che il Consiglio di Stato non ha condiviso rilevando innanzitutto che la domanda di protezione speciale era risalente all’ottobre 2022 e, dopo avere precisato che «La legge ha posto come sbarramento temporale, ai fini della convertibilità del titolo, unicamente quello della data di presentazione dell’istanza di protezione speciale, e non altri, sicché il dato letterale del citato comma 2 non consente di inserire una ulteriore condizione ostativa (implicita), limitativa di un così rilevante diritto.» afferma l’importante statuizione secondo cui «Proprio il raffronto con il comma 3 (che il primo giudice evoca quale termine di confronto sul piano sistematico) dimostra che in un caso si ha riguardo alla presentazione dell’istanza (essendo evidentemente irrilevante il momento del rilascio del permesso per protezione internazionale): e in tal caso la conseguenza è l’applicazione della disciplina previgente (dunque, la possibilità di conversione); mentre nel secondo caso (comma 3) il già intervenuto rilascio del permesso per protezione internazionale ne consente sia il rinnovo che la conversione.».
In sintesi: le istanze di protezione speciale presentate fino all’11 marzo 2023 sono soggette al regime giuridico precedente la riforma 2023 (sia per i presupposti che per il rinnovo, che per la convertibilità del permesso) anche se il permesso sia rilasciato successivamente e senza alcun limite temporale, mentre i permessi per protezione speciale già rilasciati al 6 maggio 2023 sono convertibili in presenza dei requisiti di legge. Per effetto dell’accoglimento dell’appello il Consiglio di Stato concede la cd. sospensiva.
Conversione del permesso da protezione speciale a lavoro in mancanza del passaporto
Il Tar per il Veneto, con ordinanza n. 244/2024 RG. 583/2024, ha concesso la sospensiva di un provvedimento con cui la questura ha negato al cittadino straniero titolare di permesso di soggiorno per protezione speciale la conversione in motivi di lavoro, nonché il rilascio di un nuovo Titolo di viaggio (necessario perché la Rappresentanza diplomatica del Paese di appartenenza non lo rilascia in Italia). Rifiuto motivato per l’assenza di un passaporto e in quanto il rinnovo della protezione speciale era in istruttoria per l’acquisizione del parere della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.
Il Tar riconosce, come detto, la sospensiva perché il provvedimento questorile non è stato preceduto da obbligatoria comunicazione dei motivi ostativi (art. 10-bis legge n. 241/90) nonostante l’assenza di ragioni di urgenza e, inoltre, perché in assenza di passaporto la questura avrebbe dovuto prendere in considerazione l’attestazione di identità rilasciata dall’Ambasciata del Paese di appartenenza del richiedente, che presenta tutti i requisiti indicati dall’art. 9, co. 3, d.p.r. n. 394/99 «ovverosia l’indicazione de “la nazionalità, la data, anche solo con l'indicazione dell’anno, e il luogo di nascita” del cittadino straniero, evidenziando, altrimenti, le ragioni per cui tale attestazione non può essere considerata idonea ai fini del rilascio del permesso di soggiorno».
Precisa, altresì, il Tar che il Titolo di viaggio può essere rilasciato a tutti gli stranieri che non possano ottenere il passaporto dalle proprie autorità e non solo a coloro che sono titolari di una specifica forma di protezione, richiamando, in proposito, il precedente del Tar Campania, Napoli, n. 1069/2021.
I diritti connessi al permesso per protezione speciale
La coesione familiare
Con sentenza 24.7.2024 RG. 12892/2023 il Tribunale di Brescia ha accolto il ricorso proposto da cittadina albanese alla quale la questura ha opposto l’inammissibilità della richiesta di permesso per famiglia in coesione con il coniuge titolare di permesso per protezione speciale, in quanto, secondo l’Amministrazione dello Stato, l’art. 28 TU d.lgs. 286/98 non contempla il ricongiungimento familiare per i titolari di permesso per protezione speciale.
Il Tribunale ha ritenuto, invece, che nonostante l’art. 28 TU immigrazione non richiami tra i permessi in relazione ai quali potersi effettuare il ricongiungimento familiare anche quello per protezione speciale, tuttavia comprende quello per asilo, e dunque in esso va ricompreso anche quello di protezione complementare, che insieme alla protezione internazionale attua l’art. 10, co. 3 della Costituzione, come da tempo precisato dalla Corte di cassazione (Cass. 19176/2020 e n. 10686/2012). Precisa il Tribunale che «un’interpretazione sistematica costituzionalmente orientata condotta anche alla luce della disciplina sovranazionale che regola il diritto degli stranieri, conduce a disattendere la tesi della Questura di Brescia. Invero, ritenere che il titolare di un permesso di soggiorno per protezione speciale non possa invocare il diritto all’unità familiare, sarebbe non solo in contrasto con il dato testuale dell’art. 28 cit. ma anche palesemente irragionevole e condurrebbe a conseguenze discriminatorie (v. già nel senso di un’applicazione estensiva v. Cass. 7 febbraio 2001 n. 1714, nonché Cass. 3 aprile 2008 n. 8582).».
Ulteriore importante precisazione contenuta nella sentenza in rassegna riguarda l’irrilevanza dell’art. 30 TU d.lgs. 286/98 (che prevede la cd. coesione familiare solo per i familiari regolarmente soggiornanti ad altro titolo), dando invece rilievo all’art. 5, co. 5 TU immigrazione come interpretato dalla sentenza n. 202/2013 della Corte costituzionale, che consente, invece, la coesione familiare anche per coloro che siano irregolarmente soggiornanti, in presenza sul territorio nazionale di vincoli familiari. Requisiti che il giudice bresciano accerta sussistenti nel caso oggetto di giudizio, sia per la condizione del coniuge della ricorrente (lavoratore, titolare di abitazione), sia in ossequio al superiore interesse del fanciullo di cui alla Convenzione di New York del 1989, richiamato anche dall’art. 28, co. 3 TU d.lgs. 286/98.