RECENSIONE A:
Francesco Luigi Gatta, Il divieto di espulsione collettiva di stranieri nel diritto internazionale e dell’Unione europea, Napoli, Editoriale Scientifica, 2023
di Chiara Scissa*
Secondo l’Autore, il volume ha lo scopo di «fornire un’analisi esaustiva del divieto di espulsione collettiva nel diritto internazionale e nei sistemi regionali di tutela dei diritti umani, scandagliando normativa, giurisprudenza e rilevante prassi degli Stati» (p. XI). A parere di chi scrive, come si vedrà a breve, tale obiettivo è stato raggiunto.
Il lavoro è diviso in due parti principali. La prima guarda l’espulsione collettiva degli stranieri, come concepita, praticata ed interpretata in vari ambiti del diritto: nel diritto internazionale, ripercorrendosi in chiave storico-giuridica le origini del fenomeno, dalle sue prime codificazioni fino ai due conflitti mondiali (Capitolo 1); nel diritto internazionale pattizio in epoca contemporanea, con particolare riferimento al diritto umanitario e ai diritti umani (Capitolo 2); nel diritto internazionale consuetudinario (Capitolo 3). L’elemento che accompagna e guida questi primi capitoli riguarda l’evoluzione del divieto di espulsione collettiva degli stranieri nel corso del tempo. L’Autore coniuga sapientemente lo studio della ratio, del contenuto e della natura della norma nei principali strumenti di diritto internazionale con la prassi degli Stati e la mutevole giurisprudenza che hanno decretato evoluzioni e (contestate) limitazioni di tale divieto. Dalla accurata analisi svolta dall’Autore emergono due chiavi di lettura principali, riguardanti l’attuazione e l’interpretazione della norma a livello internazionale. Con riferimento alla prima, di carattere politico, l’Autore dimostra come il divieto di espulsione collettiva, consolidatosi a seguito delle tragedie del XX secolo, sia stato progressivamente eroso in epoche più recenti dal succedersi di emergenze e crisi di varia natura, sovrastato dalle prerogative di ordine e sicurezza degli Stati a scapito dei diritti fondamentali degli stranieri. Sul piano più strettamente giuridico, riguardante la natura cogente e i limiti applicativi della norma (come intesi dagli organismi di controllo dei principali trattati in materia di diritti umani), l’Autore ravvisa nella distinzione tra l’espulsione di massa di natura discriminatoria e l’espulsione collettiva di natura amministrativo-procedurale un differente contenuto del divieto, a cui si collega un diverso grado di cogenza.
La seconda parte del lavoro si concentra invece su contenuto e applicazione del divieto di espulsione collettiva di stranieri nei sistemi regionali africano (Capitolo 4) e interamericano (Capitolo 5) di tutela dei diritti umani. Qui, l’Autore esamina nel dettaglio il quadro giuridico e istituzionale dei due sistemi regionali e analizza il contenuto della norma e la sua interpretazione ad opera degli organismi giurisdizionali vigenti. Feroci espulsioni di massa nel continente africano hanno portato alla formulazione di un divieto assoluto, che non ammette né deroghe né eccezioni, nemmeno in situazioni di emergenza o di crisi, mentre il sistema interamericano concepisce il divieto di espulsione collettiva in chiave innovativa, arricchendolo di garanzie minime che gli Stati debbono rispettare.
Particolare attenzione è poi riservata alla norma come concepita nel sistema europeo. Qui, la trattazione dedica tre capitoli (Capitoli 6-8) alla genesi e allo sviluppo della norma in seno al Consiglio d’Europa, nonché al ruolo preponderante della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) nel dettare i tempi di espansione e di contrazione della portata del divieto, prima e dopo la cd. “crisi dei rifugiati” del 2015. L’Autore identifica una parabola ascendente e una discendente nell’interpretazione del divieto ad opera della Corte EDU. La prima coincide con un’interpretazione espansiva della definizione di “espulsione collettiva” e della sua applicabilità ratione personae e ratione loci, che include ogni straniero, indipendentemente dal suo status giuridico, abbracciando una lettura funzionale della nozione di giurisdizione capace di intercettare anche le “zone grigie” di frontiera. Sentenze come Hirsi Jamaa, Sharifi e Khlaifia (2015) si inscrivono in questo approccio evolutivo, orientato a fornire una tutela effettiva dei diritti sanciti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tale approccio sembra interrompersi bruscamente nel 2015, quando la Corte comincia a proporre una interpretazione restrittiva, con una forte compressione delle garanzie previste contro l’espulsione collettiva. L’Autore propone una disamina dettagliata di sentenze emblematiche, come Khlaifia (2016), in cui la Grande Camera della Corte EDU esclude l’esistenza di un generale diritto a un colloquio individuale; e soprattutto N.D. e N.T., che introduce per la prima volta la cd. eccezione di condotta colposa del migrante in deroga al divieto di espulsione collettiva. Secondo l’Autore, la contrazione delle garanzie associate al divieto di espulsione collettiva non può essere separata dal contesto politico, ostile ai flussi migratori e all’attenzione della Corte EDU alla legittimazione del proprio operato, sebbene ciò non basti a giustificare «un percorso ambiguo e destabilizzate che si caratterizza per l’introduzione di eccezioni, istituite ex novo e ad hoc, con parametri inediti alla luce dei quali condurre test di verifica sulla condotta delle parti in causa. Creazioni giurisprudenziali, basate su criteri equivoci, dettate dall’esigenza di muoversi tra le linee di ‘restrictive tendencies e dynamic promises’» (p. 344).
Negli ultimi due capitoli (Capitoli 9-10), l’Autore indaga il divieto di espulsione collettiva nel diritto dell’UE e nella giurisprudenza della Corte di giustizia. La tesi esposta è che, al contrario della protezione contro l’espulsione offerta allo straniero che si trovi già nel territorio di uno Stato membro, il sistema di tutela giurisdizionale dell’UE per chi è in transito verso l’Unione «risulta debole e sostanzialmente fallimentare nel suo scopo» (p. 413). Ciò spiega perché pratiche di espulsione e di pushback alla frontiera esterna difficilmente passano al vaglio dei giudici di Lussemburgo. A sostegno della sua tesi, l’Autore esamina i ricorsi innanzi alla Corte di Giustizia nell’ambito di pratiche di pushback alle frontiere con la Bielorussia, tra la Serbia e l’Ungheria e, infine, tra la Grecia e la Turchia.
A conclusione del volume, l’Autore si interroga sull’attuale residua rilevanza del divieto di espulsione collettiva: una norma attaccata dall’esterno, da pratiche statali illegittime, e dall’interno, da interpretazioni giurisprudenziali talvolta strumentali, e che tuttavia dovrebbe essere protetta perché preserva e restituisce dignità e diritti a chi migra.
A parere di chi scrive, il valore aggiunto del lavoro recensito sta nel calare sistematicamente l’analisi giuridica del divieto di espulsione collettiva nel contesto storico-politico di riferimento. In questo modo, l’Autore riesce a evidenziare in maniera efficace le asimmetrie tra i sistemi regionali a tutela del divieto di espulsione collettiva e la loro diversa efficacia nel rispondere a pratiche statali illegittime in contesti politici ostili all’immigrazione. Emerge con nitore la maggiore capacità del sistema africano e interamericano, rispetto a quello europeo, nel “resistere” alle pressioni politiche messe in atto dagli Stati. Allo stesso modo, l’analisi attenta e acuta dell’evoluzione della giurisprudenza europea ne evidenzia il mutevole e ambiguo andamento, condizionato, appunto, dal fattore politico. Come ben emerge nel caso della Corte EDU, «sebbene il contesto politico, in astratto, dovrebbe essere irrilevante per un’istituzione giurisdizionale internazionale specializzata nella tutela dei diritti umani, la realtà mostra che la Corte, per poter sopravvivere, necessita di agire utilizzando le proprie ‘antenne politiche’, con cui captare orientamenti, impulsi e spinte provenienti dalla realtà dinamica in cui si trova ad operare» (p. 341).
In conclusione, l’Autore ci impone di riflettere sulla complessità della dialettica tra diritto e politica, nonché tra diritti individuali e sovranità statale, nella gestione delle migrazioni.
S. Zirulia, Il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Tra overcriminalisation e tutela dei diritti fondamentali, Giappichelli, 2023
di Giulia Mentasti
La «tendenza al repressivismo» – ci ricorda Stefano Zirulia richiamando una riflessione di Pulitanò del 1985 – non può che generare una «spirale repressiva autoalimentata dai suoi stessi prevedibili insuccessi»1. Quando ci si imbatte in questa frase si è ormai alle battute conclusive del volume Il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Tra overcriminalisation e tutela dei diritti fondamentali e il lettore è già stato accompagnato attraverso un’approfondita disamina dei profili di sovracriminalizzazione che oggi interessano questa materia. Il richiamo ai fallimenti del repressivismo, dunque, è un’efficace sintesi del pensiero che Zirulia articola nelle oltre quattrocento pagine di questo volume, indagando a fondo una materia – quella della risposta penale nel settore dell’immigrazione – con molte zone d’ombra e più di altre esposta alle suggestioni dei populismi di stampo repressivo e securitario.
Dopo i recenti sviluppi del ‘caso Open Arms’ e a ormai pochi giorni dalla attesa decisione della Corte di giustizia europea sul caso E.K, la monografia di Stefano Zirulia, pubblicata alla fine del 2023, è una lettura imprescindibile per ogni giurista che si interessi del problema della “criminalizzazione della solidarietà” ma anche per chi, disorientato dalla confusa narrazione politica su ‘scafisti’ e ‘trafficanti’ voglia far luce su un tema cruciale di questo secolo.
Il lavoro è suddiviso in sei capitoli e si preoccupa innanzitutto – nel Capitolo I – di far luce sulle definizioni di «traffico di migranti», «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina» e «tratta di persone» elaborate negli anni dal diritto internazionale (il Protocollo di Palermo del 2000), dal diritto europeo (il Facilitators Package del 2002) e dagli strumenti che hanno successivamente trasposto gli obblighi di incriminazione in essi contenuti nelle legislazioni nazionali (per l’Italia, l’art. 12 TU imm.).
Vengono messe in risalto le differenze che ancora intercorrono tra il concetto di «smuggling of migrants» contenuto nel Protocollo di Palermo (inscindibilmente legato al perseguimento di un profitto) e la nozione europea di «favoreggiamento dell’immigrazione irregolare» (idonea conferire rilievo al mero atto di aiutare qualcuno a eludere la disciplina nazionale sull'immigrazione, a prescindere dalla presenza di un tornaconto).
Puntualmente, l’Autore osserva come le difficoltà nel chiarire i contorni della “controversa nozione” di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, in particolare con riguardo alla nozione europea e alle sue trasposizioni nazionali, se da un lato riflettono la complessità del fenomeno, dall’altro sono frutto di «scelte di fondo» a favore di una «criminalizzazione tout court» (o di una overcriminalisation) dell’agevolazione dei flussi migratori irregolari, astratta dalle «molteplici forme di manifestazione concreta» che lo smuggling of migrants assume nella realtà e volta a intercettare le più disparate condotte: il prezzo da pagare, evidentemente, non può che essere l’appianamento di ogni differenza nell’inquadramento giuridico di condotte dotate di ben evidenti livelli eterogenei di disvalore.
Date queste coordinate generali, nel Capitolo II il focus si sposta sugli strumenti messi in campo dal legislatore italiano per fronteggiare il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Inizia, così, un’attenta disamina dell’art. 12 TU imm. e delle fattispecie ivi contenute di agevolazione dell’ingresso irregolare (comma 1) e della permanenza irregolare (comma 5) nonché del più recente sistema di protezione delle frontiere marittime dagli sbarchi indesiderati con strumenti di diritto amministrativo quali ‘regole di condotta’ per le operazioni di ricerca e soccorso e i nuovi poteri del Ministro dell’interno di “chiudere i porti”.
Chiave di volta dell’intero sistema rimane l’art. 12 co. 1 che, con il suo corredo di circostanze aggravanti, oggi reprime praticamente ogni forma di aiuto all’ingresso irregolare di stranieri in Italia o in altro Stato. Le principali e ben argomentante critiche che l’Autore rivolge a questo strumento riguardano la sua «scarsa selettività» o, in altri termini, la sua capacità di attrarre condotte connotate da gradi di disvalore molto diversi, e l’assenza di diversificazione del trattamento sanzionatorio. Come infatti osservato anche da una recente pronuncia della Corte costituzionale (la sent. n. 63/2022), le aggravanti speciali di cui al comma 3 attraggono un ventaglio di situazioni talmente ampio ed eterogeneo sul piano del disvalore, da rendere, nella prassi, praticamente residuale l’ipotesi base del primo comma.
In definitiva, così concepita, l’attuale configurazione delle fattispecie incriminatrici contenute nell’art. 12, sommata alla «modestissima utilità pratica» della scriminante umanitaria contenuta nel secondo comma, non può che dar luogo a una pericolosa overcriminalisation caratterizzata, altresì, da una risposta sanzionatoria sproporzionata per eccesso.
Ma dove si possono cogliere i segni e gli effetti di questa overcriminalisation? Senza dubbio, la più evidente – almeno sul piano mediatico – manifestazione degli effetti sovra-criminalizzanti dell’art. 12 TU imm. riguarda le condotte di soccorso ai migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo; tuttavia, vi sono anche altri ambiti, approfonditi nel Capitolo III, in cui la bassissima selettività dell’art. 12 TU imm. attrae nell’area del penalmente rilevante condotte connotate da «evidenti profili di eseguità». Tra questi, l’Autore porta gli esempi – tutt’altro che infrequenti nella prassi – della incriminazione delle condotte di favoreggiamento dell’ingresso di richiedenti asilo, di famigliari ovvero di altri stranieri coinvolti, insieme all’autore del reato, nella medesima vicenda migratoria. Non bastano a compensare gli effetti di questa overcriminalisation i notevoli sforzi ermeneutici compiuti dalla giurisprudenza, tanto sul terreno della tipicità, quanto su quello dell'antigiuridicità, poiché, come efficacemente osservato, «anche laddove l'interpretazione restrittiva della fattispecie, o viceversa quella estensiva di cause esimenti, conducano a esiti assolutori o ancora prima all’archiviazione, si tratta, comunque, di sbocchi tutt’altro che scontati e in ogni caso filtrati dal procedimento penale (e dunque non immuni dalla componente “sanzionatoria” che lo caratterizza)». Già in questi ambiti, dunque, si prospetta la necessità di ricercare soluzioni ispirate ad un più rigoroso accertamento della responsabilità penale nonché di pensare, de jure condendo, alla riscrittura della scriminante umanitaria e alla revisione dell’impianto sanzionatorio.
Tali esigenze non possono che trovare conferma nell’altro macroscopico ambito in cui gli effetti sovra-criminalizzanti dell’art. 12 si manifestano: quello dei soccorsi in mare. A questo tema – cui peraltro l’Autore ha già dedicato ampie riflessioni in passato – è dedicato il Capitolo IV. Come negli altri esempi già richiamati, anche in questo caso si tratta di condotte facilmente distinguibili da quelle realizzate dai membri delle organizzazioni criminali dedite al traffico di migranti che, tuttavia, vengono attratte nell’orbita applicativa della medesima norma incriminatrice e delle medesime circostanze aggravanti speciali. Ancora una volta, la povertà selettiva dell’art. 12 (che dà rilevanza a qualunque contributo causalmente rilevante all’ingresso irregolare sul territorio), unita alla irragionevolezza del sistema delle aggravanti (ancorate ad elementi non univocamente rivelatori di un incremento di disvalore proporzionato al delta sanzionatorio), determina una evidente «over-breadth punitiva». Come uscirne?
La via non può essere quella dell’applicazione delle cause di giustificazione che, pur avendo evitato sino ad oggi che venissero pronunciate sentenze di condanna nei confronti dei soccorritori, è ontologicamente caratterizzata dalla valenza limitata alla singola vicenda alla quale si riferiscono. In altri termini, l’applicazione in giudizio delle cause di giustificazione – cui è dedicata un’ampia rassegna nel capitolo – non elimina il chilling effect rispetto ai successivi soccorsi e, anzi, il ripetuto riconoscimento della sussistenza di tali scriminanti (esercizio di un dovere, stato di necessità) è un’ulteriore conferma dell’eccessiva vaghezza dell’articolo 12 e della scarsa avvedutezza di un sistema che continua ad avviare indagini e procedimenti destinati, sino ad oggi, a non produrre nessun accertamento di responsabilità.
In questo scenario, dinanzi ai problemi evidenziati e alla insufficienza degli sforzi ermeneutici profusi dalla giurisprudenza e della dottrina, l’Autore avanza un sospetto circa le norme incriminatrici in questione: «e se, di fondo, vi fossero uno o più vizi di illegittimità al metro della Costituzione e/o di fonti sovranazionali?».
Questo ‘sospetto’ prende forma nel Capitolo V dove l’Autore svolge un’articolata riflessione sui possibili profili di illegittimità tanto del Facilitators Package, rispetto alla Carta dei diritti fondamentali (v. Cap. V, parr. 7.1 ss.), quanto delle scelte di incriminazione dell’art. 12 TU imm., al metro della Carta dei diritti fondamentali e della Costituzione italiana (v. Cap. V, parr. 7.2 ss.).
In particolare, partendo dalla ormai cospicua giurisprudenza delle giurisdizioni superiori sulla «sproporzione punitiva» delle norme penali per il contrasto del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (sia in termini di irragionevole ampiezza dello spettro applicativo della norma penale che di irragionevole severità del trattamento sanzionatorio2), si giunge a dimostrare come «analoghi vizi» affliggano anche gli strumenti europei e le norme penali italiane.
Brevemente, per il Facilitators Package, viene individuata una violazione del principio di proporzionalità alla luce dell’art. 52(1) della Carta dei diritti fondamentali a fronte di una sproporzione delle scelte di incriminazione sia nel caso in cui il Facilitators package venga inteso come una disciplina di contrasto del solo smuggling of migrants sia nell’ipotesi in cui lo si ritenga uno strumento di protezione delle frontiere. Che fare, quindi? Con un efficace sguardo pratico – che poi riguarderà anche i profili di illegittimità della normativa italiana – Zirulia traccia le coordinate del possibile rinvio pregiudiziale con cui il giudice comune potrebbe portare la questione di legittimità del Facilitators Package all’attenzione della Corte di giustizia dell’Unione europea, interrogando i giudici di Lussemburgo in ordine alla validità, dell’art. 1, par. 1 della direttiva 2002/90/CE, in combinato disposto con l’art. 1, par. 1 della decisione quadro 2002/946/GAI, nella parte in cui «obbligano gli Stati membri ad adottare sanzioni di natura penale nei confronti di chiunque intenzionalmente aiuti uno straniero a entrare o transitare irregolarmente sul territorio di uno Stato membro, limitandosi a prevedere la facoltà, anziché l'obbligo, di non adottare sanzioni nei confronti di coloro che abbiano agito allo scopo di prestare soccorso o assistenza umanitaria alla persona interessata».
Sul versante italiano, ogni valutazione dei profili di illegittimità dell’art. 12 muove dall’avvertimento che un eventuale intervento della Corte costituzionale – di tipo ablatorio o manipolativo – su tale fattispecie incriminatrice rischierebbe di esporre l’Italia a una procedura di infrazione per inadempimento degli obblighi di incriminazione sanciti dal diritto europeo. La strada suggerita, dunque, è quella della previa sottoposizione alla Corte di giustizia della questione di legittimità del Facilitators Package (nei termini sopra visti) seguita, laddove i giudici di Lussemburgo dovessero giungere alla conclusione che gli obblighi di incriminazione ivi sanciti sono incompatibili con la tutela dei diritti fondamentali, dalla trasposizione di tali conclusioni sulla normativa nazionale. Quest’ultima operazione, potrebbe essere raggiunta con strumenti diversi: in primo luogo, il giudice comune italiano (o la stessa Corte costituzionale italiana, sollecitata dal giudice nazionale) potrebbe rivolgersi alla Corte di giustizia per vagliare, tramite un rinvio pregiudiziale, il carattere ‘ostativo’ della Carta rispetto a una norma nazionale come quella dell’art. 12 TU imm; in secondo luogo, si potrebbe prospettare la via della questione di legittimità costituzionale, al metro del principio di proporzionalità declinabile, osserva l’Autore, «tanto nella sua veste europea (ex art. 52, par. 1, CDF), quanto nella sua veste nazionale». Così ragionando la Consulta potrebbe giungere a dichiarare l’art. 12 illegittimo nella parte in cui non esclude dal proprio ambito di applicazione le condotte di soccorso (volte a tutelare la vita e l'integrità fisica dei migranti), quelle di assistenza a coloro che intendono chiedere protezione internazionale (che tutelano proprio il diritto d'asilo), nonché le condotte animate da spirito di solidarietà verso i famigliari (che, evidentemente, tutelano la vita privata e famigliare).
Ma non solo, le censure di illegittimità per sproporzione potrebbero essere estese ai sopra richiamati illeciti amministrativi rivolti alle navi soccorritrici che non rispettano i provvedimenti ministeriali di interdizione navale o altre regole di condotta previste dal medesimo decreto nonché – si prospetta – anche alla c.d. “scriminante umanitaria” di cui all'art. 12 co. 2, data la sua irragionevole limitazione alle condotte realizzate a beneficio dei migranti già presenti sul territorio nazionale.
Sempre sul versante nazionale, infine, Zirulia prospetta l’auspicata dichiarazione di illegittimità per sproporzione dell’art. 12 anche con riferimento al trattamento sanzionatorio in esso previsto tanto per la fattispecie base di favoreggiamento dell’ingresso irregolare (dove, in primis, la cornice del comma 1 risulta illegittima per sproporzione «alla luce di un giudizio triadico di manifesta irragionevolezza, che assume l’art. 10-bis TU imm. a tertium comparationis») quanto per le circostanze aggravanti speciali del comma 3 (in particolare quelle relative al numero di concorrenti e al numero di migranti trasportati, «in ragione della loro monoffensività e inidoneità […] a selezionare condotte integranti vero e proprio smuggling of migrants»).
Dopo questa ricchissima riflessione – qui solo sommariamente richiamata – nell’ultima parte del volume (Capitolo VI) inizia la pars construens con alcune concrete proposte de jure condendo per ripensare la nozione di favoreggiamento con l’inserimento di criteri selettivi, alla luce di un ragionevole contemperamento tra i diritti fondamentali in gioco. Così, l’Autore immagina che un primo passo potrebbe (o, meglio dovrebbe) essere mosso dal legislatore europeo dato che nell’attuale contesto politico europeo sarebbe inverosimile pensare che uno Stato membro spontaneamente allenti le maglie della tutela penale dei propri confini; piuttosto, l’iniziativa dovrebbe provenire dalle istituzioni europee e prendere le forme di una complessiva riscrittura del Facilitators Package finalmente connotata da: un riferimento alla finalità di ottenere un vantaggio economico o materiale dalla condotta di favoreggiamento; dalla limitazione dell’intervento penale alle sole condotte tenute da attività organizzate; nonché dalla esplicita esclusione – già nella norma definitoria – delle condotte di natura solidaristica. Sul piano nazionale, Zirulia propone l’eliminazione (visto il suo contrasto tanto con la Carta dei diritti fondamentali quanto con la Costituzione) della fattispecie base di favoreggiamento di cui all’art. 12 co. 1 TU imm. e la sua contestuale sostituzione con una nuova fattispecie di ‘traffico di migranti’, concepita come un reato d’evento e ancorata alla presenza di un’attività organizzata e allo sfruttamento della condizione di debolezza dello straniero irregolare, nonché dotata di una proporzionata cornice sanzionatoria.
*Assegnista di ricerca in Diritto dell’UE presso l’Università di Bologna – Alma Mater Studiorum. Questo scritto è parte del progetto di ricerca ERC 2022-STG Gatekeepers to International Refugee Law. – The Role of Courts in Shaping Access to Asylum (Grant Agreement n. 101078683).
1 Il richiamo – fatto dall’A. a p. 419 del volume – è a D. Pulitanò. Politica criminale, in G. Marinucci, E. Dolcini (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano, Giuffré, 1985, p. 25.
2 Il riferimento è a Corte di giustizia UE, Commissione c. Ungheria; Conseil Constitutionnel, caso Herrou; Supreme Court of Canada, caso Appulonappa nonché a Corte costituzionale n. 63/2022, caso E.K.