Rilievo ai fini dell’estradizione dell’interessato verso uno Stato terzo, del previo riconoscimento di status effettuato da altro Stato membro, art. 21, par. 1, direttiva 2011/95
Con la pronuncia A. (CGUE, C-352/22, sentenza del 18 giugno 2024), la Corte ha contribuito a chiarire, nel quadro della direttiva 2011/95 (direttiva qualifiche), il valore del riconoscimento dello status di rifugiato da parte di uno Stato membro, rispetto all’obbligo dello Stato membro di residenza dell’interessato di estradare quest’ultimo verso uno Stato terzo che ne faccia richiesta. La CGUE era stata chiamata a pronunciarsi da un Tribunale tedesco che, a sua volta, doveva decidere, tra le altre cose, se il cittadino turco A., residente in Germania ma beneficiario dello status di rifugiato in forza di un provvedimento adottato in Italia tempo addietro, potesse essere estradato o meno in Turchia, alla luce della richiesta pervenuta successivamente alla sentenza di condanna emessa dall’autorità giudiziaria turca. La Corte di giustizia osserva innanzitutto l’assenza di una convenzione internazionale di estradizione tra Unione e Turchia; in tal caso, le norme in materia rientrano nella competenza statale, col vincolo del rispetto del rispetto del diritto unionale. In particolare, e tenendo a mente che lo status di rifugiato non è la conseguenza di un provvedimento costitutivo, non si può dar corso all’estradizione di cittadini di Stati terzi se esposti al rischio di pena di morte, tortura o altre pene inumane e degradanti (divieto di refoulement), nel pieno rispetto dell’art. 21, par. 1, della direttiva qualifiche, nonché degli artt. 18 e 19, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali.
Secondariamente, rileva il principio di mutua fiducia, sul quale si fonda il Sistema europeo comune di asilo e che può essere derogato solo in circostanze eccezionali. In specie, lo Stato membro richiesto (nello specifico, la Germania) di regola non può estradare l’interessato verso lo Stato terzo richiedente finché non siano stati avviati scambi di informazioni con l’autorità dello Stato membro che ha riconosciuto lo status di rifugiato (nello specifico, l’Italia) e fino a quando questo status non sia stato revocato da tale ultimo Stato membro (sempre l’Italia).
Limiti alla possibilità di dichiarare inammissibile la domanda di protezione internazionale del cittadino di Paese terzo che benefici di protezione internazionale in altro Stato membro, art. 3, par. 1, regolamento 604/2013, art. 4, par. 1, e art. 13 direttiva 2011/95, art. 10, par. 2 e 3, e l’art. 33, par. 1 e par. 2, lett. a), direttiva 2013/32
La procedura pregiudiziale ha origine da un contenzioso tra QY e la Germania (CGUE, C-753/22, sentenza del 18 giugno 2024) e riguarda i limiti alla possibilità per le autorità statali di respingere una domanda di asilo, in quanto inammissibile, a causa del previo riconoscimento dello status di rifugiato in un altro Stato membro, sulla base di quanto previsto dal regolamento 2013/604 (Dublino III), dalla direttiva 2011/95 (direttiva qualifiche) e dalla direttiva 2013/32 (direttiva procedure). Il caso di specie riguardava una cittadina siriana che era stata inizialmente riconosciuta come rifugiata in Grecia e che, in un secondo momento, aveva proposto una domanda di protezione internazionale in Germania: l’interessata riteneva che avrebbe corso un grave rischio di subire un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali, se fosse stata costretta a tornare in Grecia. Il punto è capire se la Germania può ritenersi vincolata al riconoscimento dello status di rifugiato come determinato dalle autorità greche o se avrebbe dovuto (potuto) dichiarare inammissibile la domanda di protezione internazionale. Il ragionamento della Corte inizia dall’art. 33, par. 2, della direttiva 2013/32, che presenta un elenco tassativo di ipotesi per le quali uno Stato membro può dichiarare inammissibile una domanda di protezione internazionale: tra di essi, quando un altro Stato membro ha concesso la protezione internazionale (lett. a). Tale disposizione concretizza il principio di mutua fiducia e può essere derogata in via eccezionale, solo se nello Stato membro che ha effettuato il riconoscimento di status sono accertate carenze particolarmente gravi in base all’insieme delle circostanze del caso da analizzare. Occorre però capire cosa possa fare lo Stato membro in questione, laddove non abbia modo di invocare questa opzione. La Corte argomenta che, nessuno dei tre atti legislativi precedentemente richiamati, impedisce formalmente agli Stati membri di subordinare il riconoscimento di tutti i diritti connessi allo status di rifugiato nel loro territorio all’adozione, da parte delle autorità competenti, di una nuova decisione di concessione di tale status. La circostanza non è che la conseguenza di una lacuna normativa del processo di completamento del Sistema europeo comune di asilo; resta il fatto che, in una situazione come quella descritta, le competenti autorità dello Stato membro che non preveda il riconoscimento automatico dello status riconosciuto da altro Stato membro, dovranno procedere a un esame individuale, completo ed aggiornato delle condizioni ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato dell’interessato; nell’economia della valutazione da compiere, la decisione emessa in un altro Stato membro, nonché gli elementi a suo sostegno, dovranno essere tenuti in conto. Ancora una volta, assumono rilievo i principi di mutua fiducia e leale cooperazione: per questo, prima di assumere una decisione, l’autorità competente dello Stato membro presso cui è stata presentata la nuova domanda dovrà avviare, nel più breve tempo possibile, uno scambio di informazioni con l’autorità competente dello Stato membro che aveva precedentemente riconosciuto lo status di rifugiato alla stessa richiedente.
Concetto di “gruppo sociale” e progressiva assimilazione dei valori dello Stato membro in cui l’interessato ha soggiornato, art. 10 direttiva 2011/95
La pronuncia K, L contro Staatssecretaris van Justitie an Veiligheid (CGUE, C-646/21, sentenza dell’11 giugno 2024), si riferisce al concetto di “gruppo sociale” nell’ambito dei motivi di persecuzione di cui all’art. 10 della direttiva 2011/95 (direttiva qualifiche). La questione centrale è rappresentata dalla possibilità o meno di ricondurre a questo concetto una situazione di assimilazione all’interno di uno Stato membro, in questo caso i Paesi Bassi, di norme, valori e comportamenti diversi da quelli del Paese d’origine. In specie, due sorelle irachene minori di età ritenevano che avrebbero subito pregiudizi una volta tornate in Iraq, dal momento che ormai si identificavano nel valore fondamentale della parità tra uomini e donne. Tale questione diventava ancora più urgente in ragione del fatto che, la domanda di protezione internazionale dalle stesse presentata, era stata dichiarata manifestamente infondata, in quanto reiterata. Attivata dal Tribunale dell’Aia, la CGUE conclude che l’art. 10, par. 1, lett. d), e par. 2, della direttiva 2011/95 è applicabile a tale ipotesi. Muovendo dalla centralità del divieto di discriminazione ex art. 21, par. 1, della Carta, e mantenendo come parametro di riferimento anche la Convenzione di Istanbul, la Corte ricorda come – ai fini della direttiva qualifiche – un gruppo possa essere considerato un “determinato gruppo sociale” quando sono soddisfatte due condizioni cumulative: la prima è che le persone facenti parte di tale gruppo condividono almeno uno dei tre aspetti identificativi seguenti, ossia una “caratteristica innata”, una “storia comune che non può essere mutata”, oppure una “caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi”. Secondo i giudici, il fatto che le interessate siano di sesso femminile, soggiornanti in uno Stato membro proprio nella fase della vita in cui si forgia l’identità di una persona, e che durante tale soggiorno esse si siano effettivamente identificate nel valore fondamentale della parità tra donne e uomini, sono tutti elementi che contribuiscono a soddisfare questa prima condizione. Quanto alla seconda condizione, il gruppo di cui trattasi deve possedere una “identità distinta” nel Paese d’origine, sì da essere percepito come diverso dalla società circostante; ebbene, la situazione in cui si trovano le due cittadine irachene può certamente integrare detto requisito: la valutazione delle autorità nazionali competenti guarderà a che i fatti e le circostanze accertati rappresentino una minaccia tale da ingenerare il fondato timore, alla luce della situazione individuale, di essere effettivamente oggetto di atti di persecuzione. Quanto alla dimensione probatoria, i giudici ricordano che l’art. 4 della direttiva qualifiche attenua in buona misura il peso specifico dell’onere probatorio a carico del richiedente, specie con riguardo alle dichiarazioni rese. Per questo, sarà fondamentale il contributo fornito anche dagli altri Stati membri per raccogliere tutte le informazioni rilevanti per la valutazione delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato: allo scopo, la Corte enuncia alcuni esempi quali «la posizione delle donne davanti alla legge, i loro diritti politici, sociali ed economici, i costumi culturali e sociali del Paese e le conseguenze nel caso non vi aderiscano, la frequenza di pratiche tradizionali dannose, l’incidenza e le forme di violenza segnalate contro le donne, la protezione disponibile per loro, la pena imposta agli autori della violenza e i rischi che una donna potrebbe dover affrontare al suo ritorno nel Paese d’origine dopo aver inoltrato una siffatta domanda». Oltre a ciò, la valutazione della domanda dipenderà anche da elementi specifici, come ad esempio l’età del richiedente. In specie, al momento della loro istanza le interessate non erano ancora maggiorenni e, quindi, l’esame delle domande dovrà tenere conto anche e soprattutto dell’interesse superiore del minore, conformemente all’art. 24, par. 2, della Carta. Pur avendo lo Stato membro un certo margine di manovra nel fissare le regole di base dell’esame da condurre, non potrà essere consentito all’autorità nazionale competente di statuire su di una domanda di protezione internazionale senza avere determinato tale interesse, e ciò anche nel caso di domanda reiterata.
Rapporto tra cessazione dello status di rifugiato e missione dell’UNRWA, art. 40 direttiva 2013/32 e Art. 12 direttiva 2011/95
In SN, LN, contro Zamestnik-predsedatel na Darzhavna agentsia za bezhantsite (C-563/22, sentenza del 13 giugno 2024), un Tribunale amministrativo bulgaro ha chiesto alla CGUE lumi sull’interpretazione di disposizioni contenute nelle direttive 2011/95 e 2013/32 al fine di chiarire, in particolare, quando possa dirsi ancora sussistente lo status di rifugiato a favore di una persona registrata presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente - UNRWA) e, in tale contesto, come debba essere condotto l’esame di una domanda reiterata. Il giudizio interno riguardava due apolidi di origini palestinesi, SN e sua figlia minore LN, che erano entrate illegalmente in Bulgaria. La loro domanda di protezione internazionale era stata respinta con decisione definitiva, ma ne avevano presentata una successiva facendo valere circostanze ritenute nuove. Segnatamente, in questa seconda occasione le ricorrenti avevano dichiarato di essere registrate presso l’UNRWA, ma ritenevano di non potersi più avvalere della relativa protezione a causa dell’escalation delle violenze nel territorio in cui si trovavano; in sostanza, tale protezione sarebbe cessata per cause indipendenti dalla loro volontà e in questo scenario, non vi sarebbe stato modo di provvedere nemmeno alle esigenze essenziali. I punti principali della sentenza sono due. Il primo riguarda l’art. 40 della direttiva 2013/32, in tema di domanda reiterata, letto in combinato disposto con l’art. 12, par. 1, lett. a), seconda frase, della direttiva 2011/95, il quale, a sua volta, stabilisce che un cittadino di un Paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato se rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 1D della convenzione di Ginevra, relativo alla protezione o assistenza di un organo o di un’agenzia delle Nazioni Unite diversi dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. Il quesito consiste nello stabilire se, sulla base di queste disposizioni, l’autorità che si pronuncia sul merito di una domanda reiterata di protezione internazionale, sia tenuta ad esaminare gli elementi di fatto presentati a sostegno della stessa, anche qualora siano già stati valutati dall’autorità che ha respinto in via definitiva una prima domanda di protezione internazionale. La risposta della Corte è affermativa. Ricordando che anche una domanda reiterata è una domanda di protezione internazionale, i giudici di Lussemburgo ribadiscono la necessità di rispettare i requisiti fissati all’art. 4 della direttiva qualifiche, dovendosi prendere in considerazione tutti gli elementi prodotti dal richiedente, se del caso anche quelli già in possesso dell’autorità che si era pronunciata in precedenza. Il secondo punto di attenzione ha ad oggetto l’art. 12, par. 1, lett. a), seconda frase, della direttiva 2011/95. La CGUE sviluppa un ragionamento basato su un approccio di garanzia, concludendo che la cessazione della protezione offerta dall’UNRWA dipende prevalentemente da circostanze fattuali indipendenti dal controllo e dalla volontà dei beneficiari. Allo scopo, rileva la possibilità o meno per l’agenzia di svolgere in concreto la propria missione, al di là delle ragioni che abbiano determinato il deterioramento della situazione di riferimento; più precisamente, ciò che rileva è che gli interessati si vengano a trovare in condizioni di grave insicurezza (anche in ragione delle loro eventuali vulnerabilità, come ad esempio l’età) nel settore della zona operativa dell’UNRWA in questione e che la logica conseguenza sia la mancanza di alternative all’allontanamento dal luogo in cui si trova la loro dimora abituale. Le suddette condizioni pregiudizievoli implicano, segnatamente, il rischio reale di essere esposti all’assenza di garanzie quanto ai bisogni essenziali in materia di sanità, istruzione e sussistenza; tutti fattori che l’autorità competente dovrà considerare al momento della decisione sulla domanda dei richiedenti.
Discriminazioni indirette a svantaggio dei soggiornanti di lungo periodo in tema di prestazioni sociali, assistenza sociale o protezione sociale basate sull’obbligo di residenza, art. 11 direttiva 2003/109
Col caso CU e ND (CGUE, cause riunite C-112/22 e C-223/22, sentenza del 29 luglio 2024) è stata precisata la portata dell’art. 11 della direttiva 2003/109, che fissa la cornice per il regime di parità di trattamento tra soggiornanti di lungo periodo e cittadini dello Stato membro di riferimento. Al centro della vicenda, sviluppatasi in Italia, vi sono talune condizioni che i cittadini di Stati terzi devono soddisfare per percepire il c.d. “reddito di cittadinanza”: in particolare, l’avere risieduto nel territorio della Repubblica italiana per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo. CU e ND, due cittadine di Stati terzi, erano state sanzionate poiché avevano ottenuto risorse riconducibili al reddito di cittadinanza sulla base di false attestazioni; tuttavia, nel corso del procedimento penale instaurato contro di esse, il tribunale competente riteneva che non vi fosse conformità tra la norma che stabilisce tali requisiti e l’art. 11 della direttiva 2003/109, oltre che con varie disposizioni di diritto primario. Interrogata sul punto, la Corte analizza il rapporto tra diritto interno e diritto derivato UE, anche alla luce della Carta dei diritti fondamentali, segnatamente dell’art. 34. La Corte riconosce l’assenza di una definizione autonoma ed uniforme, ai sensi del diritto dell’Unione, delle nozioni di prestazioni sociali, di assistenza sociale e di protezione sociale, visto che la direttiva 2003/109 opera sul punto un rinvio al diritto nazionale. Constato altresì che il giudice del rinvio e il governo italiano non hanno la stessa visione in merito alla natura del reddito di cittadinanza, i giudici rilevano che, da un lato, l’effetto utile della direttiva non può essere compromesso e che la stessa debba essere interpretata alla luce della Carta dei diritti fondamentali; dall’altro lato, ai fini del giudizio devono essere considerati i rilievi del giudice a quo, il quale qualifica il reddito di cittadinanza come “prestazione di assistenza sociale volta a garantire un livello minimo di sussistenza”. Stanti queste premesse, la Corte precisa che questo tipo di prestazioni riguardano i bisogni essenziali dell’individuo e che il fine della direttiva è di riavvicinare il più possibile la situazione di cittadini europei e soggiornanti di lungo periodo. Poiché questo status corrisponde al livello più avanzato di integrazione per i cittadini di paesi terzi, la parità di trattamento dovrà a maggior ragione essere garantita quando le esigenze da soddisfare sono di particolare rilievo come quelle oggetto del reddito di cittadinanza, eliminando tutte le discriminazioni, aperte o mascherate; ciò, anche e soprattutto in considerazione del fatto che l’art. 11 della direttiva individua un numero preciso e limitato di eccezioni alla regola. Il requisito della residenza previsto dalla normativa italiana costituisce una discriminazione indiretta, perché pone i soggiornanti di lungo periodo in condizioni di svantaggio effettivo rispetto ai cittadini italiani, e ingiustificata, proprio sulla scorta del testo e del fine di tale art. 11. Un contrasto che rende illegittimo anche il sistema sanzionatorio ad essi collegato e, dunque, anche le sanzioni inflitte a CU e ND.
Limiti all’accoglimento di una domanda di soggiorno per motivi di studio presentata sulla base di una condotta fraudolenta, art. 3, par. 3, e art. 34, par. 5, direttiva 2016/801
Il caso XXX contro État belge (CGUE, C-14/23, sentenza del 29 luglio 2024) verte sull’interpretazione della direttiva 2016/801, relativa alle condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi per – tra gli altri – motivi di ricerca e studio, con particolare riferimento alle disposizioni che consentono il diniego del visto da parte di uno Stato membro e ai conseguenti rimedi a disposizione dell’interessato. La CGUE si è pronunciata su richiesta del Consiglio di Stato belga, chiamato a sua volta a valutare la legittimità del rigetto di una domanda volta a ottenere il rilascio di un visto per studentessa proposta alle autorità competenti da una cittadina non europea che, stando alle informazioni disponibili, non aveva in realtà intenzione di recarsi in Belgio per studiare. In effetti, l’art. 20, par. 2, lett. f), della direttiva consente agli Stati membri di rifiutare una domanda laddove vi siano prove o motivi seri e oggettivi per stabilire che il cittadino di Paese terzo intenda soggiornare per fini diversi da quelli per cui chiede di essere ammesso; tuttavia, il Belgio non aveva trasposto tale disposizione all’epoca dei fatti. La Corte però ritiene quest’ultima circostanza irrilevante: facendo leva sul principio generale di divieto di pratiche abusive, uno Stato membro non potrebbe comunque concedere all’interessata un beneficio derivante dal diritto UE nel caso in cui le condizioni da rispettare vengano osservate soltanto in via formale. Ciò che dovrà essere valutato a livello interno è la sussistenza o meno della condotta fraudolenta, sulla base di un esame condotto caso per caso: qualora questa dovesse essere effettivamente rilevata, la richiesta non potrà essere accolta, anche se il diniego resterà impugnabile. Al riguardo, uno Stato membro potrà prevedere come unico rimedio un ricorso di annullamento che non consenta al giudice di sostituire, se del caso, la propria valutazione a quella delle autorità competenti o di adottare una nuova decisione (proprio come prevedeva la normativa belga). Questo, purché venga riconosciuta la possibilità di adottare una eventuale nuova decisione, che recepisca il contenuto della pronuncia giudiziaria sì che «il cittadino di Paese terzo sufficientemente diligente possa giovarsi della piena efficacia dei diritti conferitigli dalla direttiva 2016/801».