Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti
Nel caso M.A. e Z.R. c. Cipro (Corte EDU, sentenza dell’8.10.2024) due cittadini siriani fuggivano in Libano per evitare le conseguenze dei conflitti in corso e, avendo trovato protezione solo attraverso l’UNHCR in campi di rifugiati dalle condizioni materiali molto precarie, decidevano di recarsi a Cipro via mare pagando circa 2.500 dollari ciascuno a uno smuggler. Entrati nelle acque territoriali cipriote, venivano intercettati dalla Guarda costiera e, dopo essere stati trattenuti per quasi due giorni in mare, venivano traferiti in un’altra barca e allontanati verso il Libano nonostante avessero espressamente manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale a Cipro.
Con il ricorso alla Corte EDU, la quale non si era potuta pronunciare sulla richiesta di misure provvisorie ex art. 39 del suo regolamento interno per la rapidità con cui era avvenuta l’operazione di allontanamento, i ricorrenti lamentavano la violazione del divieto di refoulement (art. 3 CEDU) per essere stati rinviati in Libano senza alcun esame della loro situazione personale, del diritto a un ricorso effettivo attraverso cui denunciare i rischi cui sarebbero stati esposti in quel Paese (art. 13 CEDU, letto in combinato con l’art. 3) e, data la natura collettiva dell’allontanamento, del divieto di espulsioni collettive (art. 4, Prot. 4). La Corte EDU, innanzitutto, non ha dubbi che i fatti ricadessero nella giurisdizione dello Stato convenuto (art. 1 CEDU) poiché la barca era stata intercettata nelle sue acque territoriali e i ricorrenti erano stati trasferiti, con l’intervento di propri agenti di polizia, in una imbarcazione battente bandiera cipriota (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 23.2.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XIV, 1, 2012). Essa nota poi come vi fosse disaccordo tra le parti sull’effettiva manifestazione, da parte dei ricorrenti, di chiedere asilo. Nonostante l’assenza di prove a tal fine, la Corte trova inverosimile che i ricorrenti non avessero in qualche modo espresso la loro esigenza di protezione internazionale durante la loro permanenza forzata in mare, caratterizzata dall’impossibilità di avere contatti con il mondo esterno, compreso l’UNHCR con sede a Cipro (Corte EDU, 15.9.2022, O.M. e D.S. c. Ucraina, in questa Rivista, XXV, 1, 2023). Lo stesso tentativo di chiedere, tramite un rappresentante legale, l’indicazione di misure provvisorie alla Corte EDU in ragione dei rischi cui sarebbero stati esposti in Libano ne era la dimostrazione. Tenuto conto dei report disponibili sull’esistenza, all’epoca dei fatti, di una politica di push-back da parte delle autorità cipriote verso il Libano senza alcuna garanzia di accesso alla procedura di asilo nei confronti di tutti coloro che tentavano di giungere via mare (ad es., Human Rights Watch, Cyprus: Asylum Seekers Summarily Returned – Pushbacks against Surge of Arrivals by Boat from Lebanon, 29.9.2020) e che lo Stato convenuto non ha prodotto elementi per confutare il resoconto fornito dai ricorrenti, né ha verificato prima dell’allontanamento se, una volta in Libano, i ricorrenti potessero accedere a un’effettiva procedura di asilo al fine di evitare il rischio di refoulement indiretto, per la Corte EDU vi è stata una violazione dell’art. 3 CEDU, letto sotto il profilo procedurale. Significativamente, per giungere a tale conclusione, la Corte ritiene irrilevante l’argomentazione dello Stato convenuto per cui la misura adottata nei confronti dei ricorrenti fosse basata sull’esistenza di un accordo bilaterale con il Libano. Infatti, né tale accordo prevede garanzie a tutela delle persone interessate, come la necessità di una previa verifica della situazione cui sarebbero esposti in Libano, né uno Stato parte può derogare agli impegni assunti con la ratifica della CEDU attraverso un accordo bilaterale come quello di specie. Nel caso dei ricorrenti, vi è stata altresì una violazione dell’art. 4, Prot. 4, perché sono stati oggetto di un’espulsione che ha assunto carattere collettivo in assenza di elementi da parte dello Stato convenuto volte a dimostrare come avessero ottenuto un esame individualizzato delle loro circostanze o che avessero avuto accesso a basilari garanzie procedurali (notifica di una decisione scritta, assistenza legale, possibilità di ricorso, etc.) prima di essere allontanati (Corte EDU, 12.10.2023, S.S. e altri c. Ungheria, in questa Rivista, XXV, 1, 2024). A tal proposito, la Corte precisa come i ricorrenti, giunti via mare, non fossero responsabili di comportamenti che avrebbero impedito allo Stato convenuto di condurre un esame siffatto o che avessero rifiutato di collaborare con le sue autorità a tal fine (diversamente da Corte EDU, Grande Camera, 13.02.2020, N.D. e N.T. c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 2, 2020). Altrettanto irrilevante è l’argomentazione per cui gli stessi avrebbero potuto chiedere un visto per entrare nel territorio cipriota in modo regolare. Infine, vi è stata una violazione dell’art. 13, letto in combinato con gli art. 3 e 4, Prot. 4 CEDU, data l’indisponibilità di un mezzo di ricorso effettivo avente carattere sospensivo per contestare l’operazione di push-back, e dell’art. 3 poiché i ricorrenti hanno subito un trattamento degradante per essere stati costretti a rimanere per quasi due giorni sulla nave con limitato o nessun accesso a beni e servizi essenziali.
In H.T. c. Germania e Malta (Corte EDU, sentenza del 15.10.2024) un cittadino siriano, giunto in Grecia, veniva subito trattenuto nel Centro di accoglienza e identificazione di Leros. Temendo di essere allontanato in Turchia nel quadro dell’accordo Ue-Turchia del 2016, il ricorrente fuggiva in Germania. Qui manifestava subito la volontà di chiedere protezione internazionale ma la polizia non dava seguito alla registrazione della richiesta e, senza fornirgli indicazioni sui suoi diritti, gli notificava un errato ordine di allontanamento verso l’Austria. Poche ore dopo, veniva invece trasferito in Grecia dove, per motivi legati all’ordine pubblico e al rischio di fuga, veniva trattenuto nei locali di polizia di Leros e rilasciato solo dopo essere stato identificato dalle autorità competenti quale “richiedente asilo vulnerabile”. Tutti i tentativi esperiti dal ricorrente per lamentare le condizioni di trattenimento, ritenute contrarie all’art. 3 CEDU, e ottenere di conseguenza il rilascio risultavano vani. Infine, nonostante avesse ottenuto lo status di rifugiato in Grecia, il ricorrente decideva di tornare in Germania dove, avendo presentato una nuova domanda di asilo, otteneva la protezione sussidiaria ai sensi del diritto Ue. Infatti, per le autorità tedesche quest’ultima domanda non poteva essere rigettata come inammissibile come avrebbe richiesto il diritto interno applicabile e ciò perché il ricorrente aveva sollevato il rischio di subire trattamenti inumani e degradanti in caso di allontanamento in Grecia a causa delle precarie condizioni di accoglienza all’epoca dei fatti. La Corte EDU si pronuncia, innanzitutto, in merito alla lamentata violazione dell’art. 3 CEDU originate dalle condizioni materiali di trattenimento in Grecia. A tal fine, ricorda che la Grecia è già stata condannata più volte per non garantire condizioni conformi agli standard convenzionali per i trattenimenti nei locali della polizia (tra le altre, Corte EDU, 21.6.2018, S.Z. c. Grecia, in questa Rivista, XX, 3, 2018). Poiché il ricorrente è stato trattenuto per oltre due mesi e mezzo nei locali di polizia di Leros, ritenuti non adatti per privazioni prolungate della libertà personale, la Corte giunge velocemente a constatare una violazione del divieto di tortura e altri trattamenti inumani o degradanti. Quanto alla lamentata violazione dell’art. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza), la Corte EDU non nutre dubbi sul fatto che il trattenimento subito dal ricorrente rientrasse nell’ipotesi prevista dall’art. 5, par. 1, lett. f), la quale permette alle Parti di restringere la libertà di coloro che devono essere allontanati (v. Corte EDU, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017; Grande Camera, 21.11.2019, Ilias e Ahmed c. Ungheria, in questa Rivista, XXII, 1, 2020), e che fosse previsto dalla legge interna. Tuttavia, tenuto conto che le autorità greche non avevano dimostrato particolare inerzia nel dare esecuzione all’allontanamento del ricorrente e che un periodo di trattenimento di oltre due mesi e mezzo non può essere considerato eccessivo nelle circostanze specifiche del ricorrente (diversamente da Corte EDU, 2.7.2024, B.A. c. Cipro, in questa Rivista, XXVI, 3, 2024), nel suo caso non vi è stata violazione dell’art. 5 CEDU. Invece, vi è stata una violazione dell’art. 5, par. 4, CEDU perché, pur avendo avuto modo di contestare la legittimità della privazione della sua libertà, nel loro esame le autorità competenti non avevano tenuto conto di tutti gli elementi sollevati dal ricorrente, specie in merito alle precarie condizioni materiali cui era stato esposto nei locali della polizia. Infine, relativamente alla lamentata violazione del divieto di refoulement (art. 3 CEDU) da parte della Germania per aver trasferito il ricorrente in Grecia nonostante aver manifestato la volontà di chiedere asilo, la Corte EDU constata che le autorità tedesche non avevano condotto alcun esame della sua situazione individuale al fine di escludere che potesse essere esposto a trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU in Grecia a causa delle condizioni di accoglienza, o allontanato in Siria senza avere in Grecia la possibilità di veder esaminate le ragioni per cui temeva persecuzioni nel suo Paese, nonché il mancato godimento delle necessarie garanzie procedurali (tra le altre, Corte EDU, 23.7.2020, M.K. e altri c. Polonia, in questa Rivista, XXII, 3, 2020; 15.9.2022, O.M. e D.S. c. Ucraina, in questa Rivista, XXV, 1, 2023). Del resto, il ricorrente non aveva nemmeno potuto presentare ricorso contro l’ordine di allontanamento verso la Grecia e ciò non solo perché gli veniva notificato in una lingua a lui non comprensibile e con l’indicazione di un Paese di destinazione sbagliato ma anche per essere stato immediatamente trasferito senza poter accedere ad alcuna assistenza legale. Vi è stata, quindi, una violazione da parte della Germania dell’art. 3 CEDU, letto sotto il profilo procedurale.
Nel caso M.I. c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 12.11.2024) un cittadino iraniano vedeva rigettata la sua domanda di protezione internazionale in ragione del suo orientamento sessuale. Il ricorrente era riuscito a nascondere alla sua famiglia la propria sessualità fino a quando alcuni familiari, per una serie di circostanze personali, venivano in possesso di foto che lo ritraevano con il suo compagno in una città iraniana ove si era trasferito per evitare un matrimonio combinato. Nonostante non nutrissero dubbi sul suo orientamento sessuale, le autorità svizzere ritenevano la sua storia poco dettagliata e che, in ogni caso, non sarebbe stato esposto in Iran a persecuzione poiché aveva vissuto discretamente la sua omosessualità fino alla fuga in Europa. A loro avviso, al di là della comunità LGBTI, nessuna altra persona in Iran ne era a conoscenza. Ciò lo avrebbe protetto in caso di allontanamento nel suo Paese di origine dove, secondo le autorità svizzere, le persone LGBTI non erano generalmente perseguitate nonostante la criminalizzazione dell’omosessualità e il potenziale rischio di essere condannate a morte. Lamentando l’eventuale esposizione a trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU o a rischi per la sua stessa vita in violazione dell’art. 2 CEDU se rinviato in Iran, il ricorrente chiedeva e otteneva l’indicazione di misure provvisorie ai sensi dell’art. 39 del regolamento interno della Corte EDU, così da prevenire il suo allontanamento. Esaminando il caso sotto il solo profilo dell’art. 3 CEDU, la Corte ricorda che, data la specifica situazione del ricorrente, occorre effettuare un’indagine ex nunc sui potenziali rischi cui sarebbe esposto in Iran. A tal fine, poiché la situazione generale dei diritti umani in Iran non è così grave da esporre qualsiasi persona a una violazione dell’art. 3 CEDU, meritano attenta considerazione le sue circostanze personali. Posto che la sua omosessualità non è in discussione (v., diversamente, Corte EDU, 19.12.2027, I.K. c. Svizzera, in questa Rivista, XX, 1, 2018) e che l’orientamento sessuale è una parte fondamentale dell’identità per cui una persona non può essere costretta a rinunciarvi (cfr. Corte EDU, 17.11.2020, B. e C. c. Svizzera, in questa Rivista, XXIII, 1, 2021), per la Corte è irrilevante che il ricorrente fosse stato capace di vivere in modo discreto senza attirare le attenzioni di attori statali o non statali. Infatti, non è detto che, in futuro, la sua omosessualità possa essere scoperta se allontanato in Iran. Come riportano le fonti disponibili (v. ad esempio UN Human Rights Special Rapporteur, Report on the Situation of Human Rights in the Islamic Republic of Iran, 11 gennaio 2021, UN doc. A/HRC/46/50; UK Home Office, Country Policy and Information Note: Sexual Orientation and Gender Identity or Expression, Iran, giugno 2022), in quel Paese la criminalizzazione non è solamente prevista ma anche applicata e le persone LGBTI sono discriminate dalle autorità statali. Ciò significa che sarebbe difficile anche per le persone esposte al rischio di persecuzione per mano di attori non statali, come la propria famiglia, ottenere protezione nello Stato iraniano (v. C. Danisi e altri, Queering Asylum in Europe, Springer, 2021). L’accesso alla protezione statale contro attori privati diventa, quindi, un elemento fondamentale della valutazione che le autorità interne devono condurre prima di dare esecuzione all’allontanamento. Poiché lo Stato convenuto non ha invece effettuato tale indagine preliminare tenendo conto la specifica situazione del ricorrente, il suo rinvio in Iran darebbe origine a una violazione dell’art. 3 CEDU in assenza di un esame siffatto.
In J.B. e altri c. Malta (Corte EDU, sentenza del 22.10.2024), dopo essere state salvate in mare, sei persone provenienti dal Bangladesh, autoidentificatisi come minori, venivano trattenute nel Centro di prima accoglienza di Ħal Far Initial per adulti, noto anche come China House. Le condizioni risultavano a loro avviso contrarie all’art. 3 CEDU per via, tra l’altro, di: limitate o nessuna disponibilità di acqua potabile e abbigliamento; scarse condizioni igieniche; mancanza di accesso a spazi aperti e luoghi di preghiera; assenza di contatti con il mondo esterno, inclusi avvocati; mancanza di assistenza medica e supporto psicologico. Per le autorità interne, il loro trattenimento era necessario per condurre le verifiche in merito all’età ed evitare il rischio di fuga. Solo dopo l’intervento di alcuni avvocati e della Corte EDU stessa, la quale aveva indicato allo Stato convenuto la necessità di riservare ai ricorrenti un trattamento compatibile con il divieto di tortura e altri trattamenti inumani o degradanti, i ricorrenti venivano trasferiti nel Centro di trattenimento di Safi dove venivano ospitati insieme ad altri minori. Solo in seguito alla procedura per la determinazione della loro età e al successivo appello, venivano allocati in una struttura aperta dedicata appositamente a persone minori d’età. La Corte EDU nota come, se è vero che i ricorrenti siano stati trattenuti insieme a persone adulte per due mesi nella China House, non avessero fornito prove sufficienti rispetto alle precarie condizioni materiali lamentate. Ciononostante, il Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) aveva denunciato le difficili condizioni di vita cui erano costretti i migranti ospitati nella China House nello stesso periodo in cui i ricorrenti erano stati trattenuti, ritenendo che potessero raggiungere un livello di severità per essere qualificate come trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU (v. CPT, Report to the Maltese Government on the Visit to Malta from 17 to 22 September 2020, marzo 2021), soprattutto se a essere trattenuti erano persone minori d’età (Corte EDU, 31.8.2023, M.A. c. Italia, in questa Rivista, XXV, 3, 2023; 7.12.2017, S.F. e altri c. Bulgaria, in questa Rivista, XX, 1, 2018). Tenuto conto che lo Stato convenuto non ha avanzato prove per confutare i riscontri del CPT e che, nonostante i report sullo stato di vulnerabilità dei ricorrenti, le autorità interne avessero prolungato il loro trattenimento in altro luogo egualmente inadatto alla loro età (Safi), per la Corte EDU gran parte dei ricorrenti sono stati esposti a un trattamento inumano e degradante in violazione dell’art. 3 CEDU. Invece, rispetto al caso del primo ricorrente che era stato correttamente identificato come adulto e la cui maggiore età era stata confermata dalla procedura per l’accertamento dell’età, per la Corte EDU non si può affermare che egli fosse più vulnerabile di altri adulti trattenuti negli stessi Centri. Pertanto, malgrado l’estesa durata della privazione della sua libertà e il conseguente impatto psicologico, il primo ricorrente non è stato esposto a una violazione dell’art. 3 CEDU. In linea con la giurisprudenza precedente riguardante l’assenza nell’ordinamento maltese di rimedi efficaci per lamentare condizioni di trattenimento contrarie agli standard convenzionali (v. Corte EDU, 17.10.2023, A.D. c. Malta, in questa Rivista, XXVI, 1, 2024; 20.12.2022, S.H. c. Malta, in questa Rivista, XXV, 1, 2023), la Corte EDU constata altresì la violazione del diritto a un mezzo di ricorso effettivo (art. 13), letto in combinato con l’art. 3 CEDU. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU nei confronti di tutti i ricorrenti poiché il loro iniziale trattenimento de facto, avvenuto subito dopo il salvataggio in mare, non ha alcuna base giuridica nell’ordinamento maltese tanto da privare gli stessi di qualsiasi garanzia procedurale, oltre a un’ulteriore violazione dello stesso articolo per il trattenimento subito da gran parte dei ricorrenti (tutti tranne il primo) nel periodo successivo perché le autorità non avevano verificato l’esistenza di soluzioni alternative alla loro detenzione così da tutelarne la minore età, né avevano proceduto in tempi brevi all’accertamento della stessa (cfr. Corte EDU, 21.07.2022, Darboe e Camara c. Italia, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022). Infine, vi è stata anche una violazione dell’art. 5, par. 4, CEDU relativo al diritto di contestare in tempi brevi la legittimità dell’iniziale trattenimento a causa della natura non indipendente e non professionale dell’organo previsto a tal fine nell’ordinamento maltese – cd. Immigration Appeal Board (IAB) – e dell’esame sommario condotto da quest’ultimo del ricorso presentato dai ricorrenti. Considerate le serie lacune emerse nel suo ordinamento, ai sensi dell’art. 46 CEDU, la Corte EDU ha infine indicato allo Stato convenuto alcune misure di carattere generale volte a modificare la natura dello IAB in modo compatibile agli standard convenzionali e all’introduzione di un mezzo di ricorso effettivo per denunciare le condizioni di trattenimento.
Nel caso Y e altri c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 22.10.2024) un cittadino albanese e la sua famiglia temevano di essere esposti, in caso di allontanamento nel loro Paese, a trattamenti vietati dall’art. 2 e/o 3 CEDU per mano di politici albanesi a causa della precedente attività lavorativa del primo ricorrente come Presidente dell’Institute for the Study of Communist Crimes and their Consequences (ICCC). Per le autorità svizzere, chiamate a esaminare le loro domande di protezione internazionale, il primo ricorrente aveva attratto, quale figura pubblica, essenzialmente attacchi verbali e azioni ostili che potevano essere definitive come iniziative private e non come atti di persecuzione ad opera dello Stato albanese. In ogni caso, né i ricorrenti avevano sufficientemente dimostrato il timore di persecuzione, né si poteva affermare che l’Albania non fosse in grado o non volesse offrire loro protezione contro eventuali rischi emananti da agenti privati. Esaminando il caso sotto il profilo procedurale, la Corte EDU ritiene che lo Stato convenuto abbia effettuato un’analisi rigorosa delle circostanze dei ricorrenti e, anche in occasione delle interviste e dei ricorsi giudiziari, abbia dato loro l’effettiva possibilità di avanzare argomentazioni contro l’assunto per cui l’Albania sia un Paese sicuro e sia in grado di proteggerli in caso di pericolo (v. Corte EDU, 7.5.2024, A.D. e altri c. Svezia, in questa Rivista, XXVI, 3, 2024 e i report Paese ivi citati). Dopo aver anche verificato che i ricorrenti avessero avuto a disposizione un’assistenza legale e servizi di interpretariato appropriati durante le varie procedure interne e che le autorità svizzere non abbiano trascurato alcun elemento utile e che si siano fondate su fonti adeguate, per la Corte l’allontanamento dei ricorrenti non darebbe origine a una violazione dell’art. 2 o 3 CEDU.
Art. 4: Divieto di schiavitù o lavoro forzato
Il caso B.B. c. Slovacchia (Corte EDU, sentenza del 24.10.2024) riguarda una cittadina slovacca di origine Rom che, dopo essere stata presa in carico alla nascita dallo Stato convenuto, veniva collocata in una famiglia della stessa origine etnica in cui lavorava come domestica. Divenuta persona senza fissa dimora, si trasferiva nel Regno Unito con uomo che la sfruttava come prostituta. Rientrata in Slovacchia grazie a un programma dell’IOM per il supporto e la protezione delle vittime di traffico di esseri umani, denunciava l’uomo che l’aveva sfruttata nel Regno Unito. Date le lacune nell’attività investigativa e nei procedimenti interni di cui si riteneva vittima, la sig.ra B.B. ricorreva alla Corte EDU per lamentare una violazione dell’art. 4 CEDU, disposizione che vieta la schiavitù e il lavoro forzato. La Corte ricorda che anche il traffico di esseri umani rientra nell’ambito di questa disposizione e che essa impone obblighi di natura positiva alle Parti affinché conducano indagini effettive, eventualmente di propria iniziativa non appena siano a conoscenza di una potenziale situazione di trafficking, per stabilire i fatti e identificare e punire eventuali responsabili (Corte EDU, 18.07.2019, T.I. e altri c. Grecia, in questa Rivista, XXI, 3, 2019). Per essere in linea con gli standard convenzionali, le indagini devono essere indipendenti e tempestive, coinvolgere la vittima e i familiari affinché possano salvaguardare i loro interessi legittimi e portare all’adozione di tutte le misure necessarie per rimuovere la vittima dalla situazione di pericolo (cfr. anche Corte EDU, 21.1.2016, L.E. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Le autorità interne devono, quindi, adottare tutte le misure possibili per raccogliere le prove e garantire che le conclusioni del caso siano basate su un’analisi approfondita, oggettiva e imparziale di tutti gli elementi rilevanti. Per la Corte EDU, nel caso di specie, le autorità interne erano in possesso di sufficienti informazioni per sospettare che la ricorrente fosse vittima di traffico di esseri umani, anche alla luce della particolare situazione di vulnerabilità dovuta agli abusi subiti e al contesto svantaggiato da cui proveniva. Poiché non sono invece state condotte indagini tempestive con il coinvolgendo della vittima e della eccessiva e immotivata lunghezza dei procedimenti interni, per la Corte EDU nel caso della ricorrente vi è stata violazione dell’art. 4 CEDU. Significativamente, il fatto che la persona responsabile fosse stata condannata per sfruttamento della prostituzione non può condurre a una diversa conclusione perché, per osservare gli standard convenzionali, avrebbe dovuto essere perseguito specificamente per traffico di essere umani.
Anche nel caso T.V. c. Spagna (Corte EDU, sentenza del 10.10.2024) la Corte EDU è chiamata a esaminare una violazione dell’art. 4 CEDU originata dal mancato rispetto degli obblighi procedurali ai danni di una cittadina nigeriana che aveva denunciato di essere stata vittima di traffico di essere umani e di sfruttamento sessuale tra il 2003 e il 2007. Proveniente da Benin City, a 14 anni veniva portata nello Stato convenuto da una conoscente di famiglia che, successivamente, la abusava e la costringeva, anche sotto minaccia, a prostituirsi. Riuscita a fuggire, dopo qualche anno si rivolgeva alle autorità di polizia ma, nonostante l’avvio di alcuni procedimenti, non otteneva giustizia. Dopo aver ricapitolato i principi applicabili ai sensi dell’art. 4 CEDU al traffico di essere umani (v. sopra), la Corte EDU constata che la ricorrente aveva fornito alle autorità competenti sufficienti informazioni e prove, seppur parzialmente discordanti, che provavano il suo status di vittima di traffico di umani e di sfruttamento della prostituzione. Le modalità del suo reclutamento (ad es., rito vodoo, contatto tramite parente, etc.) erano coerenti con quanto conosciuto in matria con riferimento alla Nigeria e, in particolare, a Benin City. Aveva anche abbondantemente provato l’uso della coercizione e delle minacce nei confronti suoi e dei suoi parenti, il controllo costante delle sue azioni e il prelievo forzoso dei suoi guadagni da parte dei presunti responsabili. Ciononostante, anche se lo Stato convenuto aveva avviato indagini immediate e alla vittima erano state riconosciute le garanzie previste per le vittime di traffico di umani (ad es., permesso di soggiorno, protezione dei testimoni), per la Corte EDU l’attività investigativa non poteva ritenersi compatibile con gli standard convenzionali. Infatti, per anni le autorità interne non avevano condotto alcun serio tentativo di identificare i responsabili, né avevano utilizzato le informazioni rilevanti e dettagliate fornite dalla vittima o tantomeno avevano richiesto la collaborazione degli altri Stati coinvolti nel caso. Tenuto conto anche delle carenze riscontrate nell’esame del ricorso da parte della Audencia Provincial che aveva sommariamente rigettato il caso ritenendo implausibile il racconto della ricorrente nonostante tutti gli elementi deponessero in senso contrario, per la Corte EDU nel caso della ricorrente vi è stata violazione dell’art. 4 CEDU.
Art. 8: Diritto al rispetto per la vita privata e familiare
In P.J. e R.J. c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 17.9.2024) una coppia formata da una cittadina serba, nata e residente nello Stato convenuto, e da un cittadino bosniaco, il quale si era trasferito in Svizzera dopo il matrimonio, lamentava una violazione del diritto al rispetto per la vita privata e familiare (art. 8 CEDU). Il sig. R.J. era stato arrestato mentre trasportava una quantità significativa di droga e condannato a un anno di detenzione con contestuale ordine di espulsione per cinque anni. Per le autorità interne, l’interesse al suo allontanamento prevaleva rispetto a quelli personali del ricorrente, tenuto conto della gravità del reato commesso, della sua scarsa integrazione in Svizzera, del limitato impatto sulla situazione finanziaria della moglie e delle figlie e della possibilità che queste potessero facilmente trasferirsi in Bosnia o mantenere i rapporti a distanza per il periodo necessario. Esauriti i ricorsi interni, il sig. R.J veniva effettivamente allontanato in Bosnia dove attualmente risiede. Posto che è pacifico tra le parti che i ricorrenti abbiano subito un’interferenza nella loro vita familiare, la quale era prevista dalla legge e era volta a prevenire il crimine, la Corte EDU concentra il suo esame sulla necessità di una siffatta interferenza in una società democratica ai sensi dell’art. 8, par. 2, CEDU. A tal fine, essa concorda con lo Stato convenuto sulla serietà degli atti commessi dal ricorrente ma nota, al contempo, come la sua pena fosse stata sospesa e che non avesse una storia criminale al momento della sua condanna. Inoltre, dopo essere stato condannato, il sig. R.J. aveva dimostrato di non essere un pericolo per la sicurezza pubblica poiché non aveva commesso altri reati e aveva trovato un lavoro stabile. Oltre a non tenere conto di questi elementi, le autorità interne non avevano nemmeno effettivamente valutato le reali conseguenze della separazione, per una durata di cinque anni, tra lo stesso e la sua famiglia, sulla base dell’assunto per cui tali conseguenze fossero unicamente da imputare alla moglie che non intendeva seguire il marito in Bosnia con le figlie. Di conseguenza, per la Corte nel caso dei ricorrenti vi è stata una violazione dell’art. 8 CEDU.
Nel caso Sharafane c. Danimarca (Corte EDU, sentenza del 12.11.2024), un cittadino iracheno nato e vissuto in Danimarca per 23 anni veniva condannato a due anni e dieci mesi di detenzione per possesso di sostanze stupefacenti destinate alla vendita. In appello, veniva anche ordinato il suo allontanamento con divieto di re-ingresso nello Stato convenuto per un periodo di sei anni. Diversamente dai giudici di primo grado, l’Alta Corte della Danimarca occidentale riteneva che tale misura non entrasse in contrasto con gli obblighi internazionali dello Stato convenuto, in particolare con l’art. 8 CEDU. Infatti, la gravità del reato commesso costituiva una ragione particolarmente seria che giustificava un bilanciamento di interessi a favore della comunità nonostante la lunga permanenza del ricorrente in Danimarca e la quasi assenza di legami con l’Iraq. In tale bilanciamento, per la l’Alta Corte, risultava dirimente il fatto che il divieto di re-ingresso non avesse carattere permanente ma fosse stato limitato a soli sei anni proprio per tenere conto della specifica situazione del sig. Sharafane. Chiamata a decidere se via sia stata una violazione dell’art. 8 CEDU, come sosteneva il ricorrente, la Corte EDU ricorda innanzitutto i principali elementi che, per consolidata giurisprudenza (tra le altre, Corte EDU, 5.9.2023, Sharifi c. Danimarca, in questa Rivista, XXVI, 1, 2024), devono essere considerate nel caso di persone che hanno vissuto gran parte della loro vita nello Stato convenuto: la gravità dei reati commessi; la durata del soggiorno nel Paese ospitante; il tempo trascorso dalla commissione dei reati e il comportamento durante il medesimo periodo; la solidità dei legami sociali, culturali e familiari sia con il Paese ospitante sia con il Paese di destinazione; l’eventuale divieto di re-ingresso e la sua durata. Nella situazione del sig. Sharafane, che non aveva ancora stabilito una propria famiglia, per la Corte non vi sono dubbi che abbia subito un’interferenza nella sua vita privata, che tale interferenza fosse prevista dalla legge e che perseguisse lo scopo di prevenire il disordine e il crimine, ai sensi dell’art. 8, par. 2, CEDU. Per quanto riguarda il requisito della necessità di tale interferenza in una società democratica, la Corte EDU nota come i giudici interni abbiano tenuto conto dei criteri emersi nella sua giurisprudenza per l’adozione delle loro decisioni e che gli stessi si siano soffermati sull’esistenza di “ragioni particolarmente serie” volte a giustificare l’allontanamento di una persona lungo soggiornate. Ciononostante, per la Corte EDU le autorità interne hanno attribuito un peso eccessivo alla gravità del crimine commesso dal ricorrente e, soprattutto, alla durata del divieto di re-ingresso nel bilanciamento tra interessi collettivi e individuali. Proprio sul divieto di re-ingresso, in assenza di elementi di segno contrario avanzati dallo Stato convenuto, la Corte EDU condivide quanto sostenuto dal sig. Sharafane per il quale la possibilità di fare rientro in Danimarca è puramente illusoria. Infatti, per via della normativa interna sul rilascio di visti a persone provenienti dall’Iraq e dell’impossibilità di avvalersi del ricongiungimento familiare in assenza di legami a tal fine rilevanti, il ricorrente è di fatto permanentemente impossibilitato a rientrare in Danimarca. Per questi motivi, secondo la Corte EDU, l’interferenza subita dal ricorrente risulta sproporzionata rispetto al fine perseguito dallo Stato convenuto, dando origine a una violazione dell’art. 8 CEDU.
Sulla base del medesimo ragionamento, la Corte EDU si pronuncia lo stesso giorno in altri tre ricorsi presentati sempre contro la Danimarca. Il caso Al-Habeeb c. Danimarca (Corte EDU, sentenza del 12.11.2024) riguarda un cittadino iracheno giunto nello Stato convenuto all’età di sette anni e qui residente per altri 21, il quale veniva condannato per furti e atti ripetuti e gravi di violenza e, di conseguenza, all’allontanamento con divieto di re-ingresso per 12 anni. Questa decisione era motivata soprattutto dalla serietà dei reati commessi e, più in generale, dalla storia criminale del ricorrente, nonostante i legami familiari instaurati in Danimarca (moglie e figlia), i quali avrebbero potuto essere mantenuti temporaneamente a distanza, e gli scarsi legami con il Paese di destinazione. Per la Corte EDU, tutte le condizioni previste dall’art. 8, par. 2, CEDU per giustificare un’interferenza del diritto al rispetto per la vita privata e familiare del ricorrente sono soddisfatte. In particolare, rispetto allo specifico criterio della necessità dell’interferenza subita in una società democratica, la Corte ritiene che le autorità interne abbiano avanzato ragioni particolarmente serie per allontanare il sig. Al-Habeeb, giungendo a un corretto bilanciamento tra gli interessi in gioco dopo aver esaminato in modo dettagliato le sue circostanze personali e applicato i criteri previsti nella sua giurisprudenza sugli allontanamenti delle persone lungo soggiornanti (cfr. anche Corte EDU, 9.4.2024, Wangthan c. Danimarca, in questa Rivista, XXVI, 3, 2024). Data anche la possibilità non illusoria che il ricorrente possa fare re-ingresso nello Stato convenuto attraverso il ricongiungimento familiare, nel suo caso non vi è stata alcuna violazione dell’art. 8 CEDU. Allo stesso modo, in Savuran c. Danimarca (Corte EDU, sentenza del 12.11.2024), riguardante un cittadino turco nato in Danimarca e condannato all’età di 30 anni per possesso di sostanze stupefacenti destinate alla vendita, per la Corte EDU l’interferenza nel diritto al rispetto per la sua vita privata originata dalla decisione di allontanarlo in Turchia con contestuale divieto di re-ingresso per sei anni, nonostante l’assenza di legami significativi in quel Paese, risulta compatibile con l’art. 8 CEDU. Infatti, tale decisione è stata adottata sulla base di un esame indipendente e imparziale delle circostanze specifiche del ricorrente quale persona senza legami familiari protetti dall’art. 8 CEDU ma con una storia criminale particolarmente grave che ne giustifica l’allontanamento (cfr. diversamente Corte EDU, 9.4.2024, Nguyen c. Danimarca, in questa Rivista, XXVI, 2, 2024). Nel suo caso, non vi è stata dunque una violazione del diritto al rispetto per la vita privata. Infine, la Corte raggiunge la medesima conclusione in Winther c. Danimarca (Corte EDU, sentenza del 12.11.2024), ricorso presentato da un cittadino siriano che aveva ottenuto un permesso da richiedente asilo nello Stato convenuto all’età di 21 anni e che veniva condannato per reati legati a violenze, spaccio di sostanze stupefacenti e riciclaggio di denaro falso. Anche in questo caso, visto l’esame approfondito e in linea con i principi derivanti dalla giurisprudenza della Corte EDU che era stato condotto dalle autorità interne, la Corte EDU concorda con esse nel ritenere che la misura dell’allontanamento e il divieto di re-ingresso di sei anni adottati nei confronti del ricorrente fossero proporzionali al fine perseguito, alla luce della gravità dei reati commessi, degli scarsi legami con la Danimarca, della limitata durata del divieto di re-ingresso e della possibilità, nel frattempo, di mantenere a distanza le sue relazioni familiari con la sua partner, cittadina danese, e i suoi figli. Pertanto, nel suo caso, non vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU.
S.F. c. Finlandia (Corte EDU, sentenza del 8.10.2024) è relativo a una cittadina eritrea, riconosciuta come rifugiata assieme ai suoi tre figli nello Stato convenuto, che lamentava una violazione dell’art. 8 CEDU per via del mancato ricongiungimento con il marito. Per la ricorrente era stato impossibile soddisfare i requisiti economici previsti dalla legge interna affinché la persona da ricongiungere e la sua famiglia non pesassero sulle finanze pubbliche. Nonostante alla ricorrente fossero state fornite tutte le informazioni necessarie su come potere usufruire di una deroga rispetto a tali requisiti, introdotta a beneficio dei soli rifugiati i cui familiari avessero presentato domanda di permesso di soggiorno entro tre messi dal riconoscimento del loro status, il marito della sig.ra S.F. forniva la dovuta documentazione all’Ambasciata finlandese in Kenya solo due anni dopo. Per lo Stato convenuto, anche al di là della deroga prevista per i rifugiati, non sussistevano motivi eccezionali per non applicare i requisiti economici. Infatti, tutte le persone interessate godevano di buona salute e il marito era già stato riconosciuto come rifugiato in Uganda, mentre la sua relazione con i figli era quasi inesistente non avendo più vissuto con la sua famiglia dal suo trasferimento in quel Paese. Come in altri casi di questo genere in cui la persona da ricongiungere non ha vissuto nello Stato convenuto, la Corte EDU esamina la presunta violazione del diritto al rispetto per la vita familiare sotto la lente degli obblighi positivi ricordando come l’art. 8 CEDU non impone alle Parti un obbligo generale di autorizzare il ricongiungimento familiare (v. Corte EDU, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, 3-4, 2014). Tuttavia, le richieste devono essere sempre valutate tenendo conto delle particolari circostanze del caso concreto in modo da procedere a un corretto bilanciamento tra gli interessi generali dello Stato e quelli specifici delle persone interessate (Corte EDU, 18.1.2024, Dabo c. Svezia, in questa Rivista, XXVI, 2, 2024). Nelle circostanze della ricorrente, la Corte EDU nota come lo Stato convenuto, da un lato, le avesse fornito la dovuta assistenza e tutte le informazioni per poter usufruire della deroga ai requisiti economici previsti ai fini del ricongiungimento familiare e, dall’altro, avesse esaminato le sue circostanze specifiche per verificare l’eventuale possibilità di ammettere deroghe ulteriori per motivi eccezionali. Tali ragioni non sussistono nemmeno per la Corte EDU, la quale non constata particolari ragioni per cui il marito della ricorrente non avesse presentato domanda entro i tre mesi dal riconoscimento dello status di rifugiato della ricorrente (in senso analogo, Corte EDU, 25.7.2024, D.H. e altri c. Svezia, in questa Rivista, XXVI, 3, 2024). Inoltre, per la Corte non vi sono motivi per ritenere che la ricorrente non possa, a un certo punto, soddisfare i requisiti previsti dalla legge o che dipenda dal marito, né l’interesse dei figli richiede la presenza dell’uomo in Finlandia. Quest’ultimo può, infatti, ripresentare domanda in futuro e vederla anche accolta sulla base di nuove circostanze. Pertanto, per la Corte EDU, lo Stato convenuto ha operato un bilanciamento tra gli interessi in gioco conforme agli obblighi derivanti dalla CEDU e non è andato al di là del margine di apprezzamento riconosciuto alle Parti in questa materia (anche Corte EDU, 4.7.2023, B.F. e altri c. Svizzera, in questa Rivista, XXIII, 3, 2023). Di conseguenza, nel caso della sig.ra S.F. non vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU.
Con il caso El Aroud e Soughi c. Belgio (Corte EDU, sentenza del 5.12.2024) la Corte EDU riunisce due diversi ricorsi presentati, rispettivamente, da una cittadina marocchina e un cittadino tunisino che lamentavano una violazione dell’art. 8 in ragione della revoca della cittadinanza belga conseguente a condanne per attività legate al terrorismo internazionale. Dopo aver vissuto in Belgio per oltre 40 anni, dove viveva tutta la famiglia, la sig.ra El Aroud acquisiva la cittadinanza belga. Dopo una condanna a otto anni di prigione per aver diretto, insieme al marito, una cellula terroristica avente lo scopo di reclutare persone per Al-Qaeda, veniva privata della stessa cittadinanza. Per i giudici interni, la ricorrente era responsabile di azioni estremamente gravi poiché contrarie ai valori fondamentali della società belga e, anche se privata della cittadinanza, non avrebbe corso il rischio di apolidia essendo ancora cittadina marocchina. Anche il sig. Soughi, divenuto cittadino belga dopo 25 anni dal suo arrivo nello Stato convenuto, veniva condannato a cinque anni di prigione per affiliazione a un gruppo terroristico legato alla jihad armata in Iraq. Anche nel suo caso, i giudici interni chiamati a confermare la revoca della cittadinanza belga evidenziavano la gravità dei fatti commessi a dimostrazione dello scarso legame con la società di accoglienza e l’assenza del rischio di apolidia avendo mantenuto la cittadinanza tunisina. La Corte EDU ricorda, innanzitutto, che la Convenzione e i suoi Protocolli non garantiscono un diritto alla cittadinanza in quanto tale ma, attraverso l’art. 8 CEDU, ogni individuo trova protezione contro privazioni arbitrarie della stessa e le relative conseguenze (Corte EDU, 21.6.2016, Ramadan c. Malta, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Per verificare l’arbitrarietà di una revoca della cittadinanza, occorre esaminare se una misura siffatta sia prevista dalla legge e sia accompagnata da adeguate garanzie procedurali e se le autorità competenti abbiano agito in modo rapido e diligente (v. anche Corte EDU, 22.12.2020, Usmanov c. Russia, in questa Rivista, XXIII, 1, 2021). Nel caso dei ricorrenti, i quali hanno subito un’ingerenza nella sola vita privata date l’assenza di legami familiari rientranti nell’ambito dell’art. 8 e le conseguenze sulla loro identità personale, la Corte EDU non rileva che la privazione della cittadinanza sia stata arbitraria. Infatti, nonostante la legge interna su cui essa era fondata non facesse riferimento esplicito al terrorismo, era evidente la contraddizione tra i doveri che il cittadino belga deve rispettare richiamati dalla stessa legge e l’adesione dei ricorrenti al terrorismo internazionale. Pertanto, per la Corte, oltre a essere prevista dalla legge e a perseguire la tutela della sicurezza nazionale, l’interferenza subita dai ricorrenti è stata oggetto di un esame approfondito a livello interno e gli stessi avevano goduto di sufficienti garanzie procedurali. Tenuto conto delle limitate conseguenze originate dalla privazione della cittadinanza belga, in particolare in termini di apolidia o allontanamento automatico dal Paese, nonché del margine di apprezzamento di cui godono le Parti in materia, in questo caso per la Corte EDU non vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU.
Art. 4, Protocollo 4: Divieto di espulsioni collettive
Il caso M.D. e altri c. Ungheria (Corte EDU, sentenza del 19.9.2024) riguarda una famiglia afghana, composta da madre, padre e quattro figli minori che, dopo aver vissuto in Iran per lungo periodo, decideva di raggiungere l’Europa attraverso la rotta balcanica. Giunti in Ungheria, nella zona di transito di Röszke al confine con la Serbia, presentavano domanda di protezione internazionale. Le autorità competenti rigettavano la richiesta come inammissibile in ragione del fatto che la Serbia doveva essere considerata un Paese terzo sicuro e ordinavano l’allontanamento dei ricorrenti. Dinanzi al rifiuto della Serbia di riammettere il sig. M.D. e la sua famiglia, le stesse autorità modificavano il Paese di destinazione con l’Afghanistan. Tutti i ricorsi, volti a ottenere un esame specifico del loro caso, venivano rigettati. Nel giorno in cui era previsto l’allontanamento in Afghanistan, la polizia costringeva di fatto uno dei figli a scrivere una dichiarazione con cui manifestava, a nome della famiglia, la volontà di tornare in Serbia. Venivano così caricati su un bus e lasciati vicino al confine con la richiesta di camminare, nel buio, fino ad attraversarlo. Nessuna indicazione precisa veniva loro fornita, né erano presenti autorità serbe al confine pronte ad accoglierli. I ricorrenti lamentavano, dinanzi la Corte EDU, una violazione del divieto di espulsioni collettive (Art. 4, Prot. 4) e del diritto a un ricorso effettivo (Art. 13) (cfr,, tra le altre, Corte EDU, 5.4.2022, A.A. e altri c. Macedonia del Nord, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022). Nel ricordare i principi generali relativi all’art. 4, Prot. 4, unico profilo del ricorso su cui si pronuncia, la Corte si sofferma sul significato del termine “espulsione”, dovendo essere inteso in senso ampio, come qualsiasi allontanamento forzato dal territorio di uno Stato parte indipendentemente dallo status migratorio della persona interessata o dal suo ingresso – regolare o irregolare – in quello stesso territorio (anche Corte EDU, Grande Camera, 13.2.2020, N.D. e N.T. c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 2, 2020; Corte EDU, 23.7.2020, M.K. e altri c. Polonia, in questa Rivista, XXII, 3, 2020). Anche laddove sia adottata una decisione formale e lo Stato convenuto ritiene che le persone interessate si siano avvalse della possibilità di allontanamento volontario, le circostanze specifiche possono comunque dare luogo a un’espulsione se volontà individuale non appare liberamente determinata (Corte EDU, Grande Camera, 21.11.2019, Ilias e Ahmed c. Ungheria, in questa Rivista, XXII, 1, 2020). Nel caso dei ricorrenti, la Corte nota innanzitutto come essi abbiano fornito un resoconto dettagliato dei fatti. Il governo ungherese, invece, non solo non ha avanzato elementi sufficienti per contestare la loro versione ma non ha nemmeno fornito una copia della dichiarazione con la quale i ricorrenti si sarebbero avvalsi, tramite il figlio, della facoltà di allontanamento volontario. Date le specifiche circostanze con cui è avvenuto l’allontanamento, non è possibile ritenere che tale documento fosse effettivamente basato su una libera e inequivocabile scelta del sig. M.D. e della sua famiglia. Inoltre, è irrilevante ai fini della qualificazione dell’allontanamento in termini di espulsione che lo Stato convenuto avesse abbandonato i ricorrenti nella zona cuscinetto al confine con la Serbia, cioè tecnicamente all’interno del suo stesso territorio e non in quello serbo (v. Corte EDU, 8.7.2021, Shahzad c. Ungheria, in questa Rivista, XXIII, 3, 2021). Se è quindi vero che l’art. 4 del quarto Protocollo addizionale alla CEDU è applicabile al caso dei ricorrenti, per la Corte EDU vi è stata una violazione di questa disposizione poiché il sig. M.D. e la sua famiglia sono stati espulsi quando i procedimenti relativi al loro allontanamento verso l’Afghanistan erano ancora in corso, dopo che la stessa Serbia aveva rifiutato di riammetterli nel proprio territorio e, soprattutto, in assenza di un esame dettagliato della loro situazione personale e della possibilità effettiva per gli stessi di avanzare ragioni contro l’allontanamento.
1 La Rassegna relativa all’art. 3 è di M. Balboni; la Rassegna relativa agli artt. 4-4, Prot. 4 è di C. Danisi.