CASSAZIONE, sentenza del 9 luglio 2024 n. 18773/2024
Impugnazione del diniego di visto per il familiare di cittadino italiano emesso dall’autorità consolare estera - competenza territoriale delle Sezioni specializzate - determinazione
Con la sentenza in esame, la Corte di cassazione ha affrontato la questione della competenza territoriale delle Sezioni specializzate nelle controversie aventi ad oggetto il diniego di visto di ingresso di un cittadino straniero per il ricongiungimento con un cittadino italiano, emesso dall’autorità consolare all'estero.
Il caso concreto riguardava una cittadina italiana che aveva impugnato il diniego del visto nazionale per la figlia maggiorenne, cittadina nigeriana, emesso dall’Ambasciata d’Italia a Lagos. La controversia è sorta in seguito alla decisione del Ministero degli affari esteri di negare il visto, ritenendo inattendibili le dichiarazioni formulate circa la vivenza a carico.
La cittadina italiana impugnava il diniego del visto avanti al Tribunale di Bologna, competente sulla base della residenza della ricorrente.
Il Ministero degli affari esteri, nel costituirsi, sollevava eccezione di difetto di competenza, ritenendo competente la Sezione specializzata presso il Tribunale di Roma, sede del Ministero.
Il Tribunale di Bologna, sollecitato il contradditorio tra le parti, disponeva con ordinanza il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c. per chiarire quale fosse la sezione territorialmente competente, dato il conflitto tra l’art. 16 del d.lgs. 150/2011, che prevede la competenza del Tribunale del luogo di dimora del ricorrente, e «l’art. 4, comma 1, del d.l. n. 17/2017 il quale disciplina la competenza territoriale delle diverse sezioni anche nella materia del mancato riconoscimento del diritto di soggiorno in favore dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea e dei loro familiari di cui all’art. 8 d.lgs. n. 30 del 2007, mediante il rinvio al precedente art. 3, comma 1 lett. a), e fissa il criterio di competenza in quello della sede della sezione specializzata nella cui circoscrizione ha sede l’autorità che ha adottato il provvedimento impugnato».
La Cassazione, dopo un’ampia ricognizione delle disposizioni applicabili in materia, ha stabilito che, in seguito alle modifiche apportate dal d.l. 17 febbraio 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla l. 13 aprile 2017, n. 46, nelle controversie relative al diniego del visto per ricongiungimento familiare emesso da un’autorità consolare estera, la competenza territoriale spetta alla Sezione specializzata del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’autorità che ha emesso il provvedimento. Pertanto, nel caso di impugnazione del diniego di visto, la controversia va radicata avanti al Tribunale di Roma, ove ha sede il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale di cui l’autorità consolare costituisce un’articolazione territoriale. Ciò in applicazione del criterio specifico di competenza individuato dall’art. 4 del d.l. n. 13/2017, il quale dispone che per le controversie di cui all’articolo 3, comma 1 (tra cui rientrano i procedimenti disciplinati dall’art. 8 d.lgs. n. 30/2007), è competente territorialmente «la sezione specializzata nella cui circoscrizione ha sede l’autorità che ha adottato il provvedimento impugnato».
Secondo i Giudici di legittimità, la soluzione normativa indicata non si presterebbe ad una correzione ermeneutica in forza di un’interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto non si discuterebbe «della tutela di una posizione strutturalmente svantaggiata del cittadino straniero, vertendo la controversia sul diritto di ingresso e soggiorno di familiare di un cittadino della UE».
Se questo è il principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione, la sentenza di legittimità in esame si segnala anche sotto un diverso profilo.
Infatti, oltre a risolvere la questione di diritto processuale relativa alla competenza giurisdizionale, la Corte di cassazione ribadisce che ai familiari di cittadini italiani non si applicano le norme del Testo unico sull’immigrazione, ma quelle del d.lgs. 30/2007 che disciplina il diritto dei familiari dei cittadini dell’Unione europea a entrare e soggiornare nel territorio degli Stati membri.
Appare significativo che, a fondamento di tale affermazione, venga richiamato l’art. 28, comma 2, d.lgs. n. 286/1998, che dispone che «ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea continuano ad applicarsi le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1965, n. 1656, fatte salve quelle più favorevoli della presente legge o del regolamento di attuazione».
La Suprema Corte osserva che «il rinvio, stante l’abrogazione con il d.lgs. 30/2007 […], del d.p.r. n. 1656 del 1965, deve intendersi al d.lgs. 30/2007, che ha sostituito il testo normativo del 1965».
Dal momento che l’art. 28, comma 2, d.lgs. n. 286/1998 è a tutt’oggi in vigore, la soluzione ermeneutica appena richiamata appare rilevante perché suscettibile di definire in modo semplice e condivisibile la questione interpretativa relativa alla possibilità di continuare ad applicare ai familiari dei cittadini italiani che non abbiano esercitato il diritto alla libera circolazione il d.lgs. n. 30/2007, questione che, dopo la modifica dell’art. 23 di tale decreto legislativo ad opera del d.l. 13 giugno 2023, n. 69, convertito con modifiche dalla legge n. 103 del 10 agosto 2023, era diventata controversa.
TRIBUNALE DI BRESCIA, sentenza del 24 luglio 2024
Protezione speciale - diritto all’unità familiare e permesso di soggiorno per motivi familiari
Con la sentenza del 24 luglio 2024, il Tribunale di Brescia ha esaminato il caso di una cittadina albanese, moglie di un titolare di permesso di soggiorno per protezione speciale, che aveva ricevuto un diniego dalla questura di Brescia per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari.
La questura aveva motivato il rigetto sostenendo che l’art. 28 del d.lgs. 286/1998 non prevedesse il ricongiungimento familiare per i titolari di permesso di soggiorno per protezione speciale.
Nell’accogliere il ricorso, il Tribunale ha rilevato la sussistenza in capo alla ricorrente del diritto all’unità familiare affermando che tale diritto, riconosciuto dall’art. 28 d.lgs. n. 286/1998, deve essere interpretato in modo sistematico e costituzionalmente orientato, includendo anche i titolari di permessi per protezione speciale tra coloro che possono invocarlo. Il Tribunale ha ricordato che sebbene l’art. 28 d.lgs. n. 286/1998 «non menzioni specificamente i titolari di un permesso di soggiorno di protezione speciale, tra coloro ai quali è riconosciuto il diritto a mantenere o a riacquistare l’unità familiare nei confronti dei familiari stranieri, vi include genericamente i titolari di permesso di soggiorno per asilo» e che «ritenere che il titolare di un permesso di soggiorno per protezione speciale non possa invocare il diritto all’unità familiare, sarebbe…palesemente irragionevole e condurrebbe a conseguenze discriminatorie». Ha dunque rilevato che l’esclusione automatica dei titolari di protezione speciale dal diritto all’unità familiare risulterebbe irragionevole e contraria ai principi costituzionali di tutela della famiglia e di non discriminazione.
Il giudice ha inoltre ricordato che l’art. 5 co. 5 d.lgs. n. 286/1998, dichiarato parzialmente incostituzionale «ove prevede che la valutazione discrezionale ivi stabilita, si debba applicare solo allo straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o al familiare ricongiunto e non anche allo “straniero che abbia legami familiari nel territorio dello Stato”» deve applicarsi «in tutti i casi in cui lo straniero richiedente presente sul territorio nazionale, pur in mancanza di un regolare titolo di soggiorno, abbia stretti legami familiari nel territorio dello Stato».
In base alla giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, la valutazione dei legami familiari deve considerare l’effettività e la stabilità delle relazioni familiari sul territorio italiano, evitando interpretazioni restrittive che possano ledere i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
TRIBUNALE DI ROMA, sentenza del 25 giugno 2024
Visto di reingresso per motivi familiari - diritto all’unità familiare nonostante il superamento dei termini
La sentenza del Tribunale di Roma ha riguardato la richiesta di visto di reingresso da parte della moglie e dei figli minori nati in Italia di un cittadino straniero, stabilitosi in Italia dal 2003.
Nella fattispecie, nel 2014 la moglie del ricorrente era arrivata in Italia tramite la procedura di ricongiungimento familiare, e qui erano nati i due figli.
L’intero nucleo familiare era rientrato in Bangladesh alla fine del 2019 per visitare i parenti ed era poi rimasto bloccato a causa della chiusura delle frontiere per l’emergenza sanitaria legata al Covid.
Verso la fine del 2020, quando le restrizioni sui viaggi si sono allentate, i permessi di soggiorno della moglie e dei figli erano scaduti e dunque il ricorrente era dovuto rientrare in Italia da solo. Inoltre la moglie era stata in cura fino ad ottobre 2022 e questo le aveva impedito di viaggiare.
Nel mese di novembre, quando il permesso per motivi familiari era ormai scaduto da oltre due anni, la moglie e i figli formulavano istanza di rilascio di un visto di reingresso all’Ambasciata, istanza che veniva rigettata in assenza di una norma che legittimasse il rilascio dell’autorizzazione all’ingresso.
Il Tribunale, pur rilevando che effettivamente non sussistevano i presupposti per il rilascio di un visto di reingresso ai sensi del d.p.r. 394/99 letto in combinato disposto con il decreto interministeriale 850/2011, neanche tenendo in considerazione la proroga dei permessi fino al luglio 2021 e l’ulteriore semestre previsto dall’art. 8 del d.p.r. 394/99 nel caso di problemi di salute, osserva che l’autorità giudiziaria è legittimata a ordinare il rilascio di un visto per motivi familiari stante il sotteso diritto all’unità del nucleo familiare da anni stabilito in Italia e il superiore interesse dei minori coinvolti.
Nel caso concreto, dal momento che lo straniero soggiornante in Italia era un lavoratore e aveva provato la sussistenza di tutti i requisiti per il ricongiungimento, il Tribunale di Roma, ritenendo che «nonostante il superamento dei termini previsti dalla normativa per l’ottenimento di un visto di reingresso, il diritto all’unità familiare debba trovare tutela attraverso il rilascio di un nuovo visto per motivi familiari ai sensi dell’art. 20 d.lgs. 150/2011, in base al quale la sentenza che accoglie il ricorso nelle controversie ex art. 30 comma 6 TUI può disporre il rilascio del visto anche in assenza del nulla osta», condanna l’Ambasciata al rilascio di un visto per motivi familiari, anche alla luce delle tempistiche che richiederebbe l’avvio di un nuovo procedimento per ricongiungimento familiare.
Il Tribunale ha evidenziato in primo luogo che il diritto all’unità familiare è sancito dalle norme internazionali e sovranazionali, come l’art. 8 CEDU e l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantiscono il rispetto della vita privata e familiare; in secondo luogo ha considerato prioritario il diritto dei due minori nati in Italia a vivere con entrambi i genitori, riconoscendo il principio del «superiore interesse del minore» come principio di ordine pubblico internazionale. Tale diritto deve essere tutelato anche in caso di superamento dei termini per l’ottenimento del visto di reingresso.
TAR CAMPANIA-NAPOLI, sentenza del 6 giugno 2024 n. 3587
Ricorso avverso silenzio-inadempimento sull’istanza di rilascio di permesso di soggiorno per motivi familiari - inammissibilità per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo
Il ricorrente aveva presentato istanza di permesso di soggiorno per motivi familiari a seguito di matrimonio con una cittadina italiana, senza che la questura di Napoli adottasse alcun provvedimento. Il cittadino straniero avviava quindi un ricorso al Tar contro il silenzio-inadempimento dell’Amministrazione.
Con la sentenza in esame, il Tribunale ha dichiarato il ricorso inammissibile, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Il Tribunale ricorda che «l’azione contro il silenzio-inadempimento ex art. 31 e 117 c.p.a. non è esperibile avverso qualsiasi tipologia di inerzia dell’Amministrazione ma solo quando l’obbligo di provvedere implichi l’esercizio di una potestà autoritativa». Viene in proposito precisato che «la possibilità di contestare davanti al giudice amministrativo il silenzio serbato dall’Amministrazione costituisce, infatti, uno strumento processuale che non determina un’ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dovendosi avere riguardo invece, in ordine al riparto, alla pretesa sostanziale cui si riferisce la dedotta inerzia amministrativa (cfr., tra le altre, Cons. St., sent. n. 987 e 860 del 2016; n. 4689 del 2018; Tar Campania, Napoli, sent. n. 3031 del 2018, n. 5999 del 2018, n. 5127 del 2015)».
Alla luce di tali principi, rilevato che l’art. 30 d.lgs. n. 286/1998 attribuisce all’autorità giudiziaria ordinaria la giurisdizione in materia di diritto all’unità familiare, il Tribunale amministrativo afferma la giurisdizione del Tribunale ordinario anche in relazione alla contestata inerzia dell’Amministrazione.
MINORI STRANIERI NON ACCOMPAGNATI
CASSAZIONE, sentenza del 4 settembre 2024, n. 23731
Legittimazione attiva del Console a impugnare il provvedimento di nomina di un tutore a minore non accompagnato - normativa applicabile
Dopo l’inizio del conflitto russo-ucraino, molti minori ucraini sono giunti in Italia.
Laddove tali minori risultassero privi di un rappresentante legale, i Tribunali per i minorenni italiani hanno proceduto alla nomina di un tutore italiano, ai sensi della legge n. 47/2017 in materia di minori non accompagnati. In alcuni casi, tali nomine sono state contestate dall’autorità consolare ucraina; ciò in particolare laddove ai minori l’autorità consolare avesse nominato un tutore, in applicazione della normativa ucraina.
È proprio di questa fattispecie che si è trovata ad occuparsi la Corte di cassazione, nella sentenza del 4 settembre 2024, n. 23731.
Nel caso concreto, il Tribunale per i minorenni di Catania aveva nominato ad un minore ucraino un tutore nella persona di un avvocato italiano, disponendone altresì l’affidamento.
Il Console generale dello Stato ucraino si era costituito in giudizio contestando la legittimità di tale nomina, dovendo escludersi che il minore potesse considerarsi “non accompagnato”, avendo lo stesso già un tutore nominato dallo stesso Console ucraino.
Il Tribunale per i minorenni di Catania non aveva considerato le argomentazioni spiegate dal Console, ritenendo che da un punto di vista processuale l’autorità consolare fosse priva di legittimazione ad agire nel procedimento a tutela di un minore non accompagnato in Italia.
Avverso tale statuizione, l’autorità consolare aveva proposto reclamo alla Corte d’appello, ma l’impugnazione era stata rigettata: secondo il giudice di appello, il provvedimento del Tribunale per i minorenni avrebbe dovuto essere oggetto di ricorso per cassazione, non essendo reclamabile avanti alla Corte d’appello.
L’autorità consolare proponeva allora ricorso per cassazione e la Suprema Corte accoglieva due dei motivi di ricorso.
In primo luogo, la Corte affermava che, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale per i minorenni, il Console dello Stato di provenienza del minore è legittimato ad intervenire in un giudizio per far accertare che il minore che le autorità italiane intendono sottoporre a tutela non può considerarsi non accompagnato, avendo lo stesso già un tutore internazionale.
Secondo la Corte tale legittimazione si fonda, da un lato, sull’art. 5, lett. i), della Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari, che prevede che rientra tra le funzioni consolari anche rappresentare i cittadini del proprio Stato o prendere disposizioni allo scopo di assicurare loro una rappresentanza appropriata qualora gli stessi non possano difendere in tempo utile i loro diritti e interessi, dall’altro, sull’art. 37, lett. b) della medesima Convenzione che prevede che le autorità competenti dello Stato di residenza abbiano l’obbligo di notificare al posto consolare tutti i casi in cui si sarebbe da provvedere alla nomina di un tutore o di un curatore per un dipendente dallo Stato di invio, minore o incapace. Tali disposizioni attribuiscono alle autorità consolari il compito di tutelare gli interessi dei connazionali, in modo particolare quando si tratta di adottare misure a tutela di minori, con la conseguenza che l’interesse dell’istituzione consolare a far valere in giudizio l’efficacia della nomina consolare di un tutore è da ritenersi ex lege derivante dalle stesse attribuzioni consolari sopra richiamate.
In secondo luogo, trattando dell’ammissibilità del reclamo, la Suprema Corte afferma che l’autorità consolare aveva correttamente impugnato il provvedimento del Tribunale per i minorenni con reclamo alla Corte d’appello, dal momento che questa era l’impugnazione prevista dalla legge per il provvedimento collegiale adottato dal Tribunale per i minorenni a chiusura del procedimento, con il quale era stata confermata la nomina del tutore. I Giudici di legittimità in proposito ricordano che per risolvere le questioni relative al mezzo impugnatorio, deve farsi riferimento alle forme previste dalla legge per la domanda così come era stata qualificata dal giudice, ciò per tutelare l’affidamento delle parti e in base alla consolidata giurisprudenza.
Secondo la Corte di cassazione, il Console di un Paese straniero che chieda, in caso di contestazioni, il riconoscimento della nomina di un tutore dallo stesso effettuata può farlo, come previsto dall’art. 67, comma 3, l. n. 218 del 1995, anche nell’ambito di un procedimento già pendente – come quello avviato a tutela di un minore non accompagnato – senza che tale intervento determini la modifica delle norme applicabili al procedimento giurisdizionale, comprese le impugnazioni, in cui l’intervento è operato.
CONSIGLIO DI STATO, sentenza del 6 giugno 2024 n. 7449
Conversione del permesso per minore età al compimento dei diciotto anni - rilievo delle prove di integrazione anche successivamente al raggiungimento della maggiore età
Nel caso in esame, un minore non accompagnato aveva ricevuto un diniego di conversione del permesso di soggiorno al compimento della maggiore età, sulla base del parere negativo della Direzione del Ministero del lavoro, ove si osservava che il minore non aveva seguito se non parzialmente il percorso integrativo.
Il giovane straniero, che aveva ottenuto il prosieguo amministrativo ai sensi dell’art. 13 l. n. 47/2017 e, pertanto, aveva potuto proseguire il proprio percorso anche dopo il compimento dei 18 anni, lamentava che la questura avesse rigettato la richiesta di conversione sulla base della sola scorta del parere, senza «valorizzare gli elementi, indicativi del percorso di integrazione sociale, lavorativa e professionale svolto anche successivamente al compimento della maggiore età, sopravvenuti nelle more dell’adozione del diniego».
A differenza del Tribunale amministrativo che riteneva corretto il provvedimento dell’Amministrazione, il Consiglio di Stato rileva che la questura ha l’obbligo di tenere in considerazione tutti gli elementi alla stessa presentati, anche se relativi ad un percorso di integrazione svolto nel periodo successivo al compimento della maggiore età.
Ciò sia in forza della giurisprudenza amministrativa che riconosce valore alle cd. «sopravvenienze» e cioè ai fatti realizzatisi dopo l’adozione del provvedimento impugnato, soprattutto quando vengano in rilievo diritti fondamentali (Consiglio di Stato, 9 novembre 2022, n. 7875), sia in forza del «disposto dell’art. 14-bis, comma 2, lett. c), del d.p.r. n. 394/1999, ai sensi del quale la richiesta di parere … è corredata da… documentazione attestante il percorso di integrazione sociale svolto dall’interessato durante la minore età e quello eventualmente da realizzare successivamente, a dimostrazione della rilevanza riconosciuta dall’ordinamento all’intero percorso di integrazione compiuto dallo straniero, prescindendo da artificiose segmentazioni connesse al compimento della maggiore età».
Per tali ragioni, il Supremo Collegio amministrativo accoglieva il ricorso con annullamento del provvedimento con lo stesso impugnato «salve le ulteriori determinazioni dell’Amministrazione».