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Corte di giustizia dell'Unione europea

Artt. 4, par. 1 e par. 5, della direttiva 2004/83 e artt. 23, par. 2, e 39, par. 4, della direttiva 2005/85: obbligo di cooperazione statale nell’esame della domanda di protezione internazionale e ragionevolezza del termine per la decisione dei procedimenti amministrativi e giurisdizionali

La pronuncia X contro International Protection Appeals Tribunal (CGUE, C-756/21, sentenza del 29 giugno 2023) concerne questioni attinenti all’esame dei fatti e delle circostanze nell’ambito di un procedimento sullo status, nonché taluni aspetti procedurali dei giudizi di primo grado e di impugnazione.

Alla causa si applicavano le vecchie direttive 2004/83 e 2005/85, perché la vicenda da dirimere si era verificata in Irlanda; come noto, questo Stato membro non partecipa all’adozione degli atti legislativi di modifica delle due direttive appena accennate. Nel procedimento principale (che a un certo punto era stato sospeso a causa di modifiche legislative interne), il ricorrente era il cittadino pachistano X, che aveva subito il rigetto delle proprie domande di asilo e protezione sussidiaria ad opera delle autorità irlandesi competenti. Tra le altre cose, X inizialmente si era reso protagonista di dichiarazioni mendaci, poi ritrattate e corrette; inoltre, lamentava di non essere stato in grado di dimostrare adeguatamente talune circostanze dirimenti relative al proprio Paese di origine e al proprio stato di salute. La Corte di giustizia, su richiesta dell’Alta Corte di Irlanda, si trovava a dover rispondere a vari quesiti interpretativi sulle disposizioni di diritto UE applicabili. La Corte si concentra dapprima sull’art. 4, par. 1, della direttiva 2004/83, che recita: «Gli Stati membri possono ritenere che il richiedente sia tenuto a produrre quanto prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale. Lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda». L’opinione della Corte è che l’obbligo di cooperazione in capo agli Stati membri sia particolarmente stringente: esso è collegato alla valutazione della questione se le circostanze accertate rappresentino o meno una minaccia tale che la persona interessata possa fondatamente temere, con riferimento alla sua situazione individuale, di essere effettivamente oggetto di atti di persecuzione. Dette questioni si riferiscono all’integrità della persona umana e alle libertà individuali e attengono ai valori fondamentali dell’Unione. Perciò, la rispettiva valutazione deve, in tutti i casi, essere operata con vigilanza e prudenza. L’esame della domanda di protezione internazionale deve allora comprendere una valutazione individuale, tenendo conto, in particolare, di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d’origine dell’interessato al momento di statuire sulla domanda, informazioni e documenti pertinenti, lo status individuale e la situazione personale. Se necessario, l’autorità competente deve inoltre prendere in considerazione le spiegazioni fornite in merito. Tutto ciò comporta che, in un caso come quello di X, l’autorità accertante deve procurarsi informazioni precise e aggiornate su tutti i fatti pertinenti che riguardano la situazione generale esistente nel Paese d’origine del richiedente. In più, occorre disporre una perizia medico-legale sullo stato di salute mentale del richiedente, allorché esistono indizi di problemi di salute mentale che possono derivare da un evento traumatico avvenuto nel Paese d’origine e il ricorso alla perizia risulti necessario o pertinente per valutare le reali esigenze di protezione internazionale; il tutto, fermo restando che le modalità di ricorso a una siffatta perizia devono essere conformi, segnatamente, ai diritti fondamentali garantiti dalla Carta. La Corte quindi aggiunge che se in sede di ricorso in secondo grado viene accertata la violazione dell’obbligo di cooperazione in esame, l’art. 4, par. 1, della direttiva 2004/83 non comporta necessariamente l’annullamento della decisione di rigetto del ricorso proposto contro una precedente decisione che ha respinto una domanda di protezione internazionale. In effetti, gli Stati membri hanno titolo per stabilire norme con cui al richiedente può essere imposto di dimostrare che la decisione di rigetto del ricorso avrebbe potuto essere diversa in assenza di una siffatta violazione. In assenza di norme dell’Unione in materia, trova applicazione il principio di autonomia processuale, ancorché nel rispetto dei principi di equivalenza ed effettività. La Corte si sofferma anche sul rilievo delle dichiarazioni mendaci di X e lo fa focalizzandosi sull’art. 4, par. 5, lett. e), della direttiva 2004/38, che prevede un favor per il richiedente in determinati casi nei quali non vi siano prove a sostegno delle dichiarazioni rese per motivare la domanda. Ebbene, una dichiarazione mendace contenuta nella domanda iniziale di protezione internazionale, non determina automaticamente l’inattendibilità del richiedente se ha chiarito e ritrattato la propria posizione alla prima occasione possibile. Una questione a parte riguarda due disposizioni della direttiva 2005/85, ossia gli artt. 23, par. 2, e 39, par. 4. Queste disposizioni forniscono criteri sui termini per la decisione del procedimento amministrativo e (se previsto) giurisdizionale di impugnazione. Le decisioni dei due procedimenti devono essere adottate entro termini ragionevoli; la ragionevolezza dei termini deve essere valutata in funzione dell’insieme delle circostanze proprie di ciascuna causa e, segnatamente, della rilevanza della controversia per l’interessato, della complessità del procedimento e del comportamento delle parti in causa. Per la Corte, tra tali circostanze non figurano modifiche legislative intervenute in uno Stato membro nel corso delle fasi amministrativa o giurisdizionale della trattazione di una causa. Nondimeno, l’eventuale inosservanza dell’obbligo di trattare le cause entro un termine ragionevole in materia di protezione internazionale, tanto nella fase amministrativa quanto in quella giurisdizionale, non può di per sé determinare l’annullamento di una decisione di rigetto di un ricorso volto all’annullamento di una decisione che non ha accolto una domanda di status, a meno che dal superamento del termine ragionevole sia conseguita una violazione dei diritti della difesa.

Art. 14, par. 4, lett. b), della direttiva 2011/95: condizioni e limiti alla revoca dello status di rifugiato a fronte di condanna penale per reati gravi

Nel giudizio XXX contro Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides (CGUE, C-8/22, sentenza del 6 luglio 2023), la Corte ha statuito sui limiti posti alla facoltà di uno Stato membro di disporre la revoca dello status di rifugiato a seguito di condanna per reato grave dell’interessato. Su richiesta di un giudice belga, adito da XXX, cittadino di Stato terzo condannato in Belgio a venticinque anni di reclusione per rapina, la Corte ha interpretato l’art. 14, par. 4, lett. b), della direttiva 2011/95 (direttiva qualifiche). Secondo questa disposizione, tra le altre cose, uno Stato membro può procedere alla revoca dello status di rifugiato se «la persona in questione, essendo stata condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro». La Corte acclara due aspetti. Innanzitutto, le due condizioni indicate nella disposizione da interpretare sono cumulative, non alternative. Secondariamente, considerando il tenore, il contesto e l’obiettivo della disposizione, occorre confermarne l’interpretazione restrittiva: essa si riferisce esclusivamente a un comportamento individuale che rappresenti una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave per un interesse fondamentale della società dello Stato membro interessato. In particolare, è vero che l’accertamento di un pericolo reale, attuale e sufficientemente grave per un interesse fondamentale della società fa presumere la tendenza dell’interessato a persistere nel comportamento che costituisce tale pericolo, ma non è escluso che la sola condotta tenuta in passato costituisca un siffatto pericolo. Significa, in altre parole, che la condanna riportata da XXX ha una certa importanza nell’economia dell’art. 14, par. 4, lett. b), della direttiva qualifica, ma non è sufficiente a integrare in via automatica l’elemento dell’attualità del pericolo. Infatti, più una decisione ai sensi di tale disposizione è adottata in un momento temporale distante rispetto alla condanna definitiva per un reato di particolare gravità, più spetta all’autorità competente prendere in considerazione, in specie, gli sviluppi successivi alla commissione di quel reato siffatto. In aggiunta, la Corte precisa che l’attuazione della revoca dello status deve comunque essere proporzionata e conforme ai diritti fondamentali dell’individuo.

Art. 44, par. 2, lett. d), della direttiva 2013/32: rapporto tra domanda reiterata e rimpatrio del richiedente

Il caso J.B. e al. contro Germania (CGUE, C-364/22, sentenza del 25 maggio 2023) ha ad oggetto l’interpretazione dell’art. 33, par. 2, lett. d), della direttiva 2013/32 (cd. direttiva procedure). Si tratta della disposizione che qualifica come inammissibili le domande reiterate, ossia quelle domande che vengono riproposte dopo una decisione definitiva sulla domanda precedente, e che sono prive di elementi o risultanze nuovi ai fini dell’esame volto ad accertare se al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale. Nello specifico, gli interessati erano cittadini libanesi che negli anni precedenti avevano fatto ingresso più volte in Germania, salvo poi essere allontanati verso il loro Paese di origine, dove avevano fatto ritorno anche in maniera volontaria. Incalzata tramite rinvio pregiudiziale da un Tribunale amministrativo tedesco, la Corte ha chiarito il significato della disposizione in commento da due punti di vista. Posto che occorre distinguere i concetti di “domanda reiterata” ai sensi della direttiva procedure e di “nuova domanda” ai fini del regolamento Dublino III, la Corte specifica dapprima che una domanda ben può essere dichiarata inammissibile, in quanto reiterata, anche se l’interessato era stato rimpatriato verso il proprio Stato di origine a seguito della presentazione di una precedente domanda di protezione internazionale. Allo stesso modo, per l’applicazione del suddetto art. 33, par. 2, lett. d), della direttiva procedure non è rilevante che tale allontanamento sia avvenuto su base volontaria. Secondariamente, la Corte ricorda che la disposizione in analisi si riferisce alle domande presentate dopo l’assunzione, da parte delle autorità nazionali competenti, di decisioni definitive riguardanti la concessione dello status di protezione internazionale. Tuttavia, la stessa disposizione può estendersi anche a domande presentate a seguito di decisioni formalmente diverse (ad esempio, adottate a seguito di un controllo dell’esistenza di motivi ostativi all’allontanamento), ma che, sul piano sostanziale, sono comparabili a quelle appena accennate.

Art. 6 della direttiva 2013/32: ammissibilità o meno di limiti sostanziali e procedurali all’accesso del richiedente alla procedura di protezione internazionale

Anche il caso Commissione c. Ungheria (CGUE, C-823/21, sentenza del 22 giugno 2023) ruota attorno alla direttiva 2013/32. Nella fattispecie, la Commissione si era rivolta alla Corte nell’ambito di una procedura di infrazione attivata per contestare una legge ungherese adottata, almeno in apparenza, per conciliare la gestione dei flussi migratori con esigenze sanitarie durante le prime ondate della pandemia di COVID-19. Essenzialmente, nel 2020 l’Ungheria aveva adottato una legge che toccava i cittadini di Paesi terzi o gli apolidi che intendevano chiedere il beneficio della protezione internazionale trovandosi in territorio ungherese o alle rispettive frontiere. Costoro, in via di principio, sarebbero stati tenuti a recarsi anzitutto presso l’Ambasciata ungherese a Belgrado o a Kiev; lì avrebbero dovuto depositare personalmente una dichiarazione d’intenti. Solo dopo aver esaminato tale dichiarazione, le autorità ungheresi competenti avrebbero potuto decidere di rilasciare agli interessati un documento di viaggio che gli consentisse di entrare in Ungheria per presentare una domanda di protezione internazionale. Ebbene, la Commissione riteneva che la legge ungherese fosse una misura in grado di paralizzare l’effetto utile dell’art. 6 della direttiva 2013/32, cioè l’articolo principale in tema di accesso del richiedente alla procedura di protezione internazionale. Dal suo canto, l’Ungheria argomentava che la normativa contestata fosse in linea con il diritto UE. La Corte accoglie la tesi della Commissione. I giudici affermano che l’art. 6 della direttiva 2013/32 garantisce all’interessato il diritto di presentare una domanda di protezione internazionale nel territorio di uno Stato membro o alla frontiera, senza che la manifestazione di tale volontà possa essere sottoposta a formalità amministrative. Ciò anche qualora egli si trovi in una situazione di soggiorno irregolare nel territorio dello Stato membro di riferimento e indipendentemente dalle possibilità di successo della domanda. Le tutele ex art. 6 sono essenziali in quanto precondizioni per l’affermazione della qualità di richiedente protezione internazionale. Perciò, l’accesso alla procedura di protezione internazionale deve avvenire in modo effettivo, facile e rapido. La normativa ungherese, invece, si pone in contrasto con queste esigenze; poiché prevede eccezioni limitate alla regola (che a sua volta è una deroga), finisce per alterare in negativo anche il diritto, sancito dall’art. 18 della Carta, di chiedere asilo in uno Stato membro. È vero che in forza del diritto UE gli Stati membri possono la presentazione di una domanda di protezione internazionale a modalità particolari, se ciò serve a limitare la propagazione di una malattia contagiosa nel loro territorio; tuttavia, tali modalità devono essere idonee a garantire un siffatto obiettivo e non possono rivelarsi sproporzionate rispetto a quest’ultimo. Per la Corte, la misura ungherese non soddisfa questi accorgimenti. Anzi, la direttiva procedure contiene disposizioni che consentono la presentazione delle domande di protezione internazionale in varie modalità. E comunque, dai fatti di causa e dall’evoluzione del giudizio è emerso che l’Ungheria non aveva mai vagliato alcuna alternativa alla misura stabilita. Discorso analogo per quanto attiene a eventuali esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza interna.

Art. 6, par. 2, della direttiva 2008/115: effetto diretto e limiti al rimpatrio del cittadino di Stato terzo irregolare nel caso in cui questi sia soggiornante regolare in altro Stato membro

La causa A.L. contro Migrationsverket (CGUE, C-629/22, ordinanza del 26 aprile 2023) verte sull’art. 6, par. 2, della direttiva 2008/115 (direttiva rimpatri). Questa disposizione si riferisce ai cittadini di un paese terzo in posizione di soggiorno irregolare nel territorio di uno Stato membro, inclusi coloro che hanno titolo per soggiornare regolarmente in un altro Stato membro. In tal caso, l’interessato deve recarsi immediatamente nel territorio del secondo Stato membro; nei suoi confronti potrà essere adottata una decisione di rimpatrio soltanto se l’allontanamento volontario non avviene in via immediata o se sussistono motivi di ordine pubblico o di sicurezza nazionale. La vicenda alla base della causa A.L. riguardava un cittadino di un Paese terzo che soggiornava in maniera irregolare in Svezia. Contro questa persona veniva emessa una decisione di rimpatrio dalle autorità svedesi. Sennonché, A.L. al momento dei fatti era soggiornante regolare in Croazia, ma le autorità svedesi non gli avevano chiesto di recarsi in Croazia volontariamente, poiché ritenevano probabile che detta richiesta non sarebbe stata osservata. Chiamata a interpretare l’art. 6, par. 2, dal giudice svedese adito da A.L., la Corte si pronuncia con ordinanza, dato che, a suo giudizio, le risposta alle questioni pregiudiziali possono essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o non danno adito a nessun ragionevole dubbio. I punti chiave dell’ordinanza sono i seguenti. Primo: l’art. 6, par. 2, della direttiva 2008/115 non consente che siano adottate decisioni di rimpatrio in ragione della suddetta probabilità, poiché ciò priverebbe di effetto utile la disposizione interpretata. Secondo; l’art. 6, par. 2, della direttiva rimpatri ha effetto diretto e può essere invocata dall’interessato di fronte al giudice nazionale. Terzo: in forza del principio di leale cooperazione sancito all’art. 4, par. 3, TUE, gli Stati membri sono tenuti a eliminare le conseguenze illegittime di una violazione del diritto dell’Unione, e pertanto le autorità svedesi competenti, compreso il giudice del rinvio, devono prendere tutti i provvedimenti necessari per rimediare alla mancata osservanza del precitato art. 6, par. 2, della direttiva 2008/115. In altre parole, occorre rilevare la nullità della decisione di rimpatrio contro A.L., nonché delle eventuali decisioni ad essa accessorie.

Art. 20 TFUE: diritto di soggiorno di cittadino di Stato terzo familiare di cittadino dell’Unione che ha sempre soggiornato al di fuori del territorio UE

Nel caso X contro Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid  (CGUE, C-459/20, sentenza del 22 giugno 2023) la Corte ha interpretato l’art. 20 TFUE su richiesta di un giudice olandese. L’obiettivo di fondo era capire se e fino a che punto questo articolo potesse rilevare ai fini della tutela di una cittadina thailandese, la Sig.ra X, originariamente residente nei Paesi Bassi. Più nel dettaglio, l’interessata era stata oggetto di un provvedimento di espulsione in quanto divenuta irregolare. La donna aveva divorziato dal cittadino olandese sposato tempo prima ed era madre di un minore avente la cittadinanza olandese, del quale aveva l’affidamento esclusivo; sennonché, pur essendo dipendente dalla madre, il figlio aveva trascorso tutta la sua vita in Thailandia, senza essersi mai recato nei Paesi Bassi. La Corte stabilisce anzitutto che un cittadino di Stato terzo nelle condizioni della Sig.ra X può teoricamente beneficiare di un diritto di soggiorno derivato in uno Stato membro in forza dell’art. 20 TFUE. In linea di principio, la situazione di X è infatti particolare, perché presuppone una relazione intrinseca con la libertà di circolazione e di soggiorno (in questo caso potenziale) di un cittadino dell’Unione e, se interrotta, determinerebbe la privazione dell’effetto utile di questo status. In particolare, un simile regime condizionato trova applicazione anche laddove un divieto d’ingresso nel territorio dell’Unione imposto a un cittadino di un Paese terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, può condurre a privare il cittadino dell’Unione del godimento effettivo del contenuto essenziale dei diritti conferiti dal suo status; e ciò può verificarsi qualora, a causa del rapporto di dipendenza esistente tra i due interessati, il divieto d’ingresso del primo costringa di fatto il secondo a soggiornare fuori dal territorio dell’Unione. Tuttavia, affinché il suddetto diritto derivato possa essere validamente invocato, occorre anzitutto verificare il reale rapporto di dipendenza tra genitore e figlio, prendendo in considerazione l’insieme delle circostanze pertinenti: per concludere sull’assenza di tale rapporto non basta, ad esempio, limitarsi a osservare che il genitore cittadino di un paese terzo non si sia sempre assunto la cura quotidiana di tale figlio, oppure che l’altro genitore, cittadino dell’Unione, possa assumersi l’onere quotidiano ed effettivo di detto figlio. In secondo luogo, l’art. 20 TFUE può trovare attuazione concreta nel caso in esame solo se è accertato che il figlio, cittadino dell’Unione, entrerà e soggiornerà nel territorio dello Stato membro di cui possiede la cittadinanza in compagnia del genitore cittadino di Stato terzo che ne ha l’affidamento esclusivo e rispetto al quale dipende (nella fattispecie, appunto, la Sig.re X). Allo scopo, è irrilevante che ciò sia nell’interesse, reale o plausibile, del figlio.

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Rubrica di Questione Giustizia & Diritto, Immigrazione e Cittadinanza

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