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Fascicolo 3, Novembre 2023


«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà:
se ce n’è uno è quello che è già qui,
l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. 

Due modi ci sono per non soffrirne.

Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.

Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui:
cercare e saper riconoscere chi e cosa,
in mezzo all’inferno,
non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Italo CalvinoLe città invisibili

 

Rassegna di giurisprudenza europea: Corte europea dei diritti umani

Corte europea dei diritti umani

Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti

Il caso A.A. c. Svezia (Corte EDU, sentenza del 13.07.2023) riguarda un cittadino libico che, giunto in Svezia, chiedeva protezione internazionale per le minacce ricevute da parte di una presunta mafia libica. Le autorità svedesi ne ordinavano l’allontanamento in Spagna, quale Paese di primo ingresso ai sensi del Regolamento UE n. 604/2013 (c.d. Dublino III), ma il ricorrente ne impediva l’esecuzione dandosi alla fuga.

Pochi anni dopo, sempre in Svezia, il sig. A.A. presentava una nuova domanda di protezione internazionale sostenendo che, in Libia, temeva per la sua vita in ragione dei suoi legami con il regime di Gheddafi. L’autorità svedese chiamata a valutare se riconoscere la protezione richiesta riteneva che il ricorrente non fosse credibile. Infatti, oltre all’incoerenza con quanto era stato affermato in occasione della precedente domanda di asilo, il suo resoconto dei fatti appariva nel complesso vago e non suffragato da prove ritenute autentiche. Inoltre, per le autorità svedesi non sembrava plausibile che, alla luce della temuta persecuzione da parte delle attuali autorità libiche, il ricorrente avesse potuto ottenere un visto per entrare in Spagna e fosse stato libero di lasciare il suo Paese. Nonostante il rigetto della protezione internazionale venisse confermata nei ricorsi interni intentati dal ricorrente, lo Stato convenuto non dava esecuzione al suo allontanamento per via dell’indicazione di misure provvisorie da parte della Corte EDU, ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento interno. Nel suo esame della presunta violazione degli artt. 2 e 3 CEDU, rispettivamente diritto alla vita e divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, la Corte EDU ricorda in via preliminare che, ove la persona interessata non sia stata allontanata, essa è chiamata a effettuare una valutazione ex nunc delle conseguenze cui sarebbe esposta alla luce delle situazione attuale del Paese di destinazione (Corte EDU, Grande Camera, 23.08.2016, J.K. e altri c. Svezia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017). A tal fine, la Corte osserva che, in seguito al cessate il fuoco del 2020, la sicurezza generale in Libia è in fase di miglioramento, come dimostra il rientro di molti sfollati interni nelle loro aree di origine (cfr. United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs Libya, Humanitarian Bulletin, 31 agosto 2021) e la presenza dell’UN Support Mission, il cui mandato è stato esteso fino al 31 ottobre 2023. Ciò significa che, nonostante non siano tuttora cessate varie violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e umanitario, per la Corte EDU la situazione generale in Libia è più caratterizzata da una violenza indiscriminata tale per cui ogni allontanamento sarebbe incompatibile con la CEDU. Quanto alle circostanze personali del ricorrente, la Corte nota come le autorità, amministrative e giudiziarie, interne abbiano esaminato approfonditamente il suo caso e, sulla base di tale valutazione, è stato ritenuto non credibile. Non emergendo ragioni per mettere in dubbio la correttezza di tale valutazione e tenendo conto dell’assenza di prove attendibili, la Corte EDU non ritiene che l’allontanamento del sig. A.A. darebbe luogo a una violazione dell’art. 2 e/o dell’art. 3 CEDU.

In M.A. c. Italia (Corte EDU, sentenza del 31.08.2023) una cittadina del Ghana, giunta in Italia via mare all’età di 16 anni, lamentava diverse violazioni della CEDU per non aver avuto accesso a condizioni di accoglienza adatte alla sua specifica condizione di minore e vittima di abusi sessuali. Per quanto venisse inizialmente collocata in una struttura per minori in Calabria, la ricorrente decideva di partire per il Nord Italia trovando accoglienza nel centro per adulti “Osvaldo Cappelletti” a Como. Qui presentava, non senza difficoltà, domanda di protezione internazionale in ragione del matrimonio forzato cui era stata costretta nel suo Paese. Intanto, il suo avvocato ne chiedeva ripetutamente il trasferimento in un centro per minori non accompagnati, data anche l’inerzia del tutore nel frattempo nominato. Questo trasferimento avveniva dopo otto mesi e solo in seguito all’indicazione di misure provvisorie da parte della Corte EDU, ex art. 39 del suo Regolamento interno. Dopo aver ritenuto inammissibile la parte del ricorso relativa alla compatibilità delle condizioni materiali del centro Osvaldo Cappelletti con l’art. 3 CEDU per mancanza di prove, la Corte EDU valuta nel merito la lamentata violazione del divieto di tortura a causa del collocamento della ricorrente, caratterizzata da una particolare condizione di vulnerabilità, in un centro per adulti. Tenuto conto della particolare diligenza che le Parti devono dimostrare quando sono coinvolti minori (ad es., Corte EDU, 21.07.2022, Darboe e Camara c. Italia, in questa Rivista, XXIV, n. 2, 2022; per tutti i riferimenti, cfr. C. Danisi, Il principio del preminente interesse del minore in ambito migratorio: verso una convergenza?, in Migration and International Law: Beyond Emergency?, a cura di G. Nesi, Napoli, 2018), specie se non accompagnati e con traumi legati ad abusi subiti nel Paese di origine e/o durante il viaggio verso l’Europa, la Corte EDU ritiene che il trattamento riservato alla ricorrente abbia raggiunto un livello di severità tale da poter essere considerato inumano ai sensi dell’art. 3 CEDU. Infatti, nonostante le autorità italiane fossero a conoscenza della sua specifica situazione, emersa non solo nei colloqui con gli psicologi presenti nella struttura ma anche attraverso le richieste presentate dal suo avvocato, lo Stato convenuto non le ha garantito accesso a una struttura o a servizi appropriati per un periodo eccessivamente lungo. Pertanto, nel caso della ricorrente, vi è stata violazione dell’art. 3 CEDU.

Il caso A.C. e M.C. c. Francia (Corte EDU, sentenza del 4.05.2023) riguarda il trattenimento amministrativo, per un periodo totale di nove giorni, nel Centro di Metz-Queuleu di una cittadina della Guinea e del figlio di circa sette mesi e mezzo in vista del loro allontanamento in Spagna, quale Paese competente a esaminare la loro richiesta di protezione internazionale (ex Regolamento Dublino III). Se il trattenimento era stato ordinato inizialmente solo per 48 ore in ragione del rischio di fuga, il giudice competente ne autorizzava il prolungamento per un periodo di 28 giorni. Tale decisione veniva confermata dopo che la prima ricorrente si rifiutava di salire a bordo dell’aereo che l’avrebbe condotta in Spagna. Ricondotti al Centro di trattenimento, vi rimanevano fino all’indicazione di misure provvisorie da parte della Corte EDU ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento interno con le quali se ne richiedeva la liberazione. Rigettate le obiezioni dello Stato convenuto sul mancato esaurimento dei ricorsi interni, la Corte EDU esamina innanzitutto la lamentata violazione dell’art. 3 CEDU a causa del loro trattenimento amministrativo. A tal fine, la Corte ricorda che, se è vero che l’esigenza di tutela del minore non risulta attenuata dalla presenza dei genitori in caso di trattenimento (Corte EDU, 12.07.2016, A.B. e altri c. Francia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017), tre fattori devono essere valutati per stabilirne l’eventuale incompatibilità con l’art. 3 CEDU: l’età dei minori interessati, le condizioni materiali del Centro di trattenimento rispetto ai loro bisogni specifici e la durata in cui sono stati privati della loro libertà (ad es. Corte EDU, 7.12.2017, S.F. e altri c. Bulgaria, in questa Rivista, XX, n. 1, 2018). Rispetto al caso in esame, la Corte nota la piccolissima età del minore (la quale è stata talora sufficiente per ritenere che vi fosse stata violazione dell’art. 3 CEDU, cfr. Corte EDU, 12.07.2016, A.M. e altri c. Francia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017) e il fatto che il Centro di trattenimento di Metz-Queuleu è già stato identificato come non adatto a ospitare minori (cfr. Corte EDU, 31.03.2022, N.B., N.G. e K.G. c. Francia, in questa Rivista, XXIV, n. 2, 2022) per via di un ambiente sostanzialmente detentivo i cui effetti, sia fisici che psicologici, sulla vita di un minore possono essere nefasti, specie se prolungati nel tempo. Se a ciò si aggiunge che il trattenimento ha avuto una durata significativa, pari cioè a nove giorni, per la Corte EDU la soglia di gravità prevista dall’art. 3 CEDU è stata raggiunta nei confronti non solo del minore ma anche della madre, tenuto conto del legame inseparabile che legava la prima ricorrente al figlio di così tenera età. Nel loro caso, vi è stata dunque violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti. In merito alla lamentata violazione dell’art. 5 CEDU, relativo al diritto alla libertà e alla sicurezza, la Corte EDU ricorda come, nei casi di trattenimento che coinvolgono minori, le autorità nazionali agiscono in conformità al diritto alla libertà e alla sicurezza, sotto il profilo dell’art. 5, par. 1, lett. f) CEDU, solo se dimostrano che non ci esistano misure meno restrittive (da ultimo, Corte EDU, 3.03.2022, Nikoghosyan e altri c. Polonia, in questa Rivista, XXIV, n. 2, 2022). A tal proposito, per la Corte, il giudice chiamato a estendere il trattenimento iniziale per un periodo di 28 giorni non aveva verificato a sufficienza se tale misura costituisse l’unica veramente possibile in vista dell’allontanamento dei ricorrenti. Ciò fa dirle che, nei confronti del solo ricorrente minore, vi è stata una violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU, cui si aggiunge una violazione dell’art. 5, par. 4, CEDU perché lo stesso minore non ha avuto accesso a un mezzo effettivo attraverso cui contestare la legalità del suo trattenimento (cfr. Corte EDU, 17.01.2023, Minasian e altri c. Repubblica di Moldova, in questa Rivista, XXV, n. 2, 2023) in ragione del discutibile operato della magistratura francese sul suo mantenimento nel centro di Metz-Queuleu.

 

Art. 6: Diritto a un equo processo 

Il caso Camara c. Belgio (Corte EDU, sentenza del 18.07.2023) riguarda un cittadino della Guinea che, giunto in Belgio nel 2021, chiedeva protezione internazionale. Pur avendo diritto all’accesso a servizi essenziali previsti per tale categoria di persone, il sig. Camara era costretto per 122 giorni a vivere per strada a Bruxelles in condizioni particolarmente precarie a causa della saturazione del sistema di accoglienza. Nonostante lo Stato convenuto fosse stato chiamato dal giudice competente, cui aveva fatto ricorso lo stesso sig. Camara, ad assicurargli l’alloggio e gli altri benefici previsti per i richiedenti asilo, solo l’intervento della Corte EDU ex art. 39 del suo Regolamento interno ne permetteva l’inserimento nel sistema di accoglienza belga. Proprio per la non esecuzione dell’ordine di designazione di un alloggio d’urgenza in favore del ricorrente, la Corte EDU ritiene di dover esaminare il caso del sig. Camara sotto il profilo dell’art. 6 CEDU, relativo al diritto a un equo processo. Come già affermato in M.K. e altri c. Francia (Corte EDU, 8.12.2022, in questa Rivista, XXV, n. 1, 2023), questo diritto risulta applicabile poiché il ricorso non riguarda decisioni relative all’entrata, al soggiorno e all’allontanamento degli stranieri ma, più semplicemente, l’esecuzione di una decisione riguardante un diritto previsto dalla normativa interna e che riveste un carattere civile, in linea con la giurisprudenza consolidata della Corte EDU sull’art. 6 CEDU. Se questo è vero, nell’affermare il diritto di accesso a un giudice, l’art. 6, par. 1, CEDU garantisce anche l’esecuzione delle decisioni giudiziarie in un tempo ragionevole, salvo eventuali ritardi giustificati in situazioni del tutto particolari ma non tali da mettere in discussione l’essenza del diritto stesso (cfr. Corte EDU, 15.01.2009, Bourdov c. Russia (n. 2)). Nel caso del sig. Camara, la Corte EDU tiene conto del fatto che il suo diritto all’accoglienza non era stato contestato dalle autorità belghe e che queste non si erano attivate prima dell’indicazione di misure provvisorie. Per quanto lo Stato convenuto stesse affrontando una situazione di emergenza dovuta a una crescita significativa del numero di richiedenti asilo e non si possa mettere in discussione la sua decisione di dare priorità ai fini dell’accoglienza a talune categorie di richiedenti asilo ritenuti vulnerabili in una situazione in cui il sistema appariva al collasso, per la Corte EDU vi è stato un ritardo eccessivo nell’esecuzione della decisione volta a tutelare la dignità del sig. Camara. Non potendosi attribuire a quest’ultimo alcuna responsabilità per un ritardo siffatto, nel suo caso vi è stata violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU. La Corte EDU non si pronuncia, invece, sulle presunte violazioni degli artt. 3 e 8 CEDU, lamentate come conseguenza delle precarie condizioni di vita cui era stato costretto nell’impossibilità di beneficiare dell’accoglienza prevista, né dell’art. 13 letto in combinato con l’art. 8 CEDU, per l’assenza di un mezzo di ricorso effettivo attraverso cui contestare l’inosservanza dell’obbligo di tutelare la sua integrità fisica e morale. Infatti, rispetto a entrambe queste parti del ricorso, non è stato soddisfatto il requisito del previo esaurimento dei ricorsi interni con la conseguenza di essere dichiarati inammissibili dalla Corte EDU.

 

Art. 8: Diritto al rispetto per la vita privata e familiare

Con il caso Azzaqui c. Paesi Bassi (Corte EDU, sentenza del 30.05.2023) un cittadino marocchino lamentava una violazione del diritto al rispetto per la vita privata e familiare che sarebbe stata generata dalla revoca del suo permesso di soggiorno permanente nello Stato convenuto e dal contestuale divieto di re-ingresso per ragioni di ordine pubblico. Tali misure erano state adottate dopo la commissione di una serie di reati, anche di natura sessuale, che avevano condotto le autorità olandesi a collocare il ricorrente in una clinica per persone condannate con problemi di salute mentale per un periodo che, cumulativamente, raggiungeva oramai i venti anni. Subito dopo la decisione degli psicologi di permettere al sig. Azzaqui di vivere al di fuori della struttura indicata rispettando alcune precise condizioni, le autorità interne informavano il ricorrente la loro intenzione di revocargli il permesso di soggiorno e di allontanarlo in Marocco. Questa comunicazione generava serie conseguenze a livello di salute mentale del sig. Azzaqui, portandolo a violare le condizioni con cui era stato rilasciato e a essere nuovamente collocato in una struttura apposita. Per la Corte EDU, non vi sono dubbi che il ricorrente abbia subito un’interferenza nella sua vita privata, su cui concorda lo stesso Stato convenuto, che tale interferenza sia prevista per legge nell’ordinamento olandese e che persegua interessi legittimi previsti al par. 2 dell’art. 8 CEDU, ossia la tutela dell’ordine pubblico e la prevenzione del crimine. Quanto alla necessità di una siffatta misura in una società democratica, la Corte EDU applica i criteri oramai consolidati nella sua giurisprudenza in materia di allontanamenti per persone lungo soggiornanti (tra le altre, Corte EDU, Grande Camera, 18.10.2006, Üner c. Paesi Bassi; 1.02.2022, Johansen c. Danimarca, in questa Rivista, XXIV, n. 2, 2022; 11.04.2023, Loukili c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XXV, n. 2, 2023) segnalando, in particolare, come il criterio relativo alla serietà dei reati commessi nel territorio della Parte interessata deve essere valutato anche alla luce dello stato di salute mentale della persona interessata all’epoca dei fatti (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 7.12.2021, Savran c. Danimarca, in questa Rivista, XXIV, n. 1, 2022). In tal senso, la Corte riconosce che il sig. Azzaqui sia una persona più vulnerabile di un qualsiasi migrante di lungo periodo destinatario di un ordine di allontanamento. Pur avendo effettuato una valutazione sul rischio di violazione dell’art. 8 CEDU alla luce dei criteri stabiliti dalla stessa Corte, le autorità interne non avevano considerato il suo stato di salute nel bilanciamento tra interessi collettivi e interessi individuali, né avevano verificato la disponibilità di trattamenti medici adatti alla sua situazione in Marocco o se il sig. Azzaqui potesse effettivamente accedervi. Infatti, per la Corte EDU, un corretto bilanciamento ai sensi dell’art. 8 CEDU richiede di tenere adeguatamente conto di tutte le circostanze personali: in particolare, il fatto che al momento della commissione dei reati per cui era stato condannato il ricorrente soffriva di seri disturbi della personalità; la circostanza per cui, dopo un lungo collocamento in una struttura apposita, il ricorrente non aveva più infranto la legge e aveva fatto progressi significativi, cioè tali da portar tentare la sua reintegrazione nel tessuto sociale; il fatto che il mancato rispetto delle condizioni previste per il suo collocamento al di fuori della struttura era avvenuto subito dopo la notifica in merito al suo possibile allontanamento in Marocco. In assenza di un bilanciamento siffatto, nel caso del sig. Azzaqui vi è stata violazione del diritto di cui all’art. 8 CEDU, relativamente alla sua componente privata.

Nel caso Ghadamian c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 9.05.2023) un cittadino iraniano, residente regolarmente in Svizzera da più di 33 anni e destinatario di un ordine di allontanamento divenuto definitivo il 1° gennaio 2002, vedeva rigettate tutte le sue richieste volte a ottenere un permesso di soggiorno che, nello Stato convenuto, è previsto per coloro che, a partire da un certa età, non vogliono esercitare alcuna attività professionale se non gestire il proprio patrimonio (c.d. “séjour pour rentiers”). Per le autorità svizzere, alla luce delle condanne subite dal ricorrente e della sua permanenza irregolare in Svizzera dal 2002, l’interesse pubblico al suo allontanamento prevaleva su altre considerazioni, incluse quelle legate al rispetto per la sua vita privata e familiare, diritto di cui il ricorrente lamentava la violazione dinanzi la Corte EDU. Nell’esaminare il caso, quest’ultima affronta alcune questioni preliminari. In primo luogo, nonostante il suo iniziale soggiorno in Svizzera, a causa della sua lunga permanenza irregolare nello Stato convenuto il ricorrente non può essere considerato un migrante di lungo periodo con le conseguenze, in sostanza positive, emerse nella giurisprudenza della Corte (cfr., tra le altre, Corte EDU, 30.06.2015, A.S. c. Svizzera, in questa Rivista, XVII, n. 3-4, 2015). In secondo luogo, la richiesta di un permesso di soggiorno come formulata dal ricorrente pone l’intera questione sotto il profilo degli obblighi positivi di cui all’art. 8 CEDU (tra le altre, Corte EDU, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014). Esaminando tutti gli elementi del caso alla luce di queste considerazioni, la Corte EDU concorda con le autorità interne che vi sia un certo interesse pubblico all’allontanamento del ricorrente, specialmente per il fatto che il sig. Ghadamian si sia sottratto per oltre venti anni all’esecuzione del relativo provvedimento. Tuttavia, la Corte evidenzia egualmente come il ricorrente abbia oramai vissuto cumulativamente per quasi 50 anni in Svizzera, che qui vi abitano figli e nipoti con i quali ha legami stretti, e che risulta sostanzialmente integrato come dimostrano la sua precedente attività professionale e la pensione di cui beneficia. Al contempo, nonostante sia economicamente indipendente e non abbia particolari problemi di salute, il ricorrente è oggi una persona di 83 anni che sperimenterebbe non poche difficoltà a reintegrarsi nel Paese di destinazione, l’Iran. Sulla base di tutti questi motivi, valutati congiuntamente al fatto che il ricorrente non abbia più commesso reati per un lungo periodo di tempo e che lo Stato convenuto non abbia realmente cercato di dare esecuzione al suo allontanamento in circa venti anni, la Corte EDU afferma che le autorità interne non hanno effettuato un corretto bilanciamento di tutti gli elementi rilevanti per il caso, attribuendo così un peso eccessivo all’interesse pubblico. Date le particolari circostanze del sig. Ghadamian, nei suoi confronti il rigetto delle sue domande volte a ottenere un permesso di soggiorno “pour rentiers” ha dato origine a una violazione dell’art. 8 CEDU.

Con il caso B.F. e altri c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 4.07.2023) la Corte EDU riunisce quattro ricorsi relativi a richiedenti asilo eritrei e cinesi che, pur essendo stati riconosciuti come rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra, ottenevano un particolare titolo di soggiorno destinato a coloro che, per le autorità accertanti, erano in sostanza rifugiati sur place. In virtù di tale specifico permesso di soggiorno, venivano loro applicate condizioni più restrittive per il ricongiungimento familiare, cioè un periodo di attesa di tre anni e il requisito di non pesare sul sistema di assistenza sociale, se comparate con quelle previste per coloro che ottenevano un titolo di soggiorno per rifugiati non sur place. Poiché, in estrema sintesi, tutti i ricorrenti non potevano soddisfare il secondo requisito, le loro richieste di ricongiungimento familiare venivano rigettate senza che venissero riscontrate ragioni legate al rispetto dell’art. 8 CEDU per cui potesse raggiungersi una diversa conclusione. Per esaminare la lamentata violazione del diritto al rispetto per la vita privata e familiare, la Corte EDU reitera innanzitutto i principi applicabili in materia (cfr. da ultimo, Corte EDU, Grande Camera, 9.07.2021, M.A. c. Danimarca, in questa Rivista, XXIII, n. 3, 2021). In particolare, essa ricorda come l’art. 8 CEDU non imponga alle Parti un obbligo generale di accogliere richieste di ricongiungimento familiare ma di valutarle tenendo conto delle specifiche circostanze del caso e sulla base di un bilanciamento tra tutti gli interessi in gioco (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014). La Corte ribadisce anche come, nella sua giurisprudenza, sia stata propensa a affermare un obbligo positivo in materia di ricongiungimento quando la persona interessata aveva già stabilito forti legami con il Paese ospitante, quando la vita familiare era stata formata alla luce di ragionevoli prospettive di rimanere nel Paese ospitante, quando tutte le persone interessate dal ricongiungimento erano già presenti nel Paese ospitante, quando occorreva tenere conto del preminente interesse dei minori coinvolti nel caso o quando vi erano insormontabili difficoltà per i ricorrenti di condurre la loro vita familiare nel Paese di origine o in un Paese terzo. A ciò occorre aggiungere che la protezione offerta dall’art. 8 CEDU impone anche obblighi a carattere procedurale, ossia un meccanismo di valutazione delle richieste di ricongiungimento che sia rapido, effettivo, sufficientemente flessibile (cfr. Corte EDU, 10.7.2014, Senigo Longue e altri c. Francia, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014) e, sulla base di un consensus internazionale in materia, anche tendenzialmente più favorevole quando sono coinvolti rifugiati. Infine, se è vero che le Parti godono di un ampio margine di apprezzamento in merito all’introduzione di un periodo di attesa ai fini del ricongiungimento familiare per tutti gli stranieri non titolari dello status di rifugiato (come emerso in Corte EDU, Grande Camera, M.A. c. Danimarca, cit.), non può affermarsi un margine della stessa portata rispetto alla possibilità di prevedere criteri più restrittivi, come il non ricorso a misure di assistenza sociale, ai fini del ricongiungimento sulla base di una distinzione tra categorie di rifugiati. Del resto, per quanto non possa ritenersi del tutto irragionevole per se, per la Corte EDU l’approccio svizzero è comunque difficilmente giustificabile e, in ogni caso, isolato, nonché già criticato a livello internazionale (es. Report del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, 17.10.2017, doc. CommDH(2017)26; Comitato per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale – CERD, Osservazioni conclusive sulla Svizzera, 13.03.2014, doc. CERD/C/CHE/CO/7-9). Di conseguenza, secondo la Corte, il margine di apprezzamento dello Stato convenuto risulta ridimensionato e il requisito richiesto ai soli rifugiati sur place deve necessariamente essere applicato in modo flessibile nel quadro di una valutazione individualizzata di tutte le circostanze del caso. Applicando tutti questi principi ai ricorsi in esame, la Corte EDU verifica se lo Stato convenuto, nel rigettare le richieste di ricongiungimento familiare, abbia effettuato un corretto bilanciamento tra gli interessi dei ricorrenti e quello generale relativo al controllo dell’immigrazione. A tal fine, la Corte nota come, nonostante sia stato concesso loro solo un permesso temporaneo e pur sperimentando difficoltà a integrarsi, i ricorrenti oramai risiedano in Svizzera di fatto in modo permanente. Inoltre, per quanto i familiari con cui i ricorrenti vorrebbero ricongiungersi non siano mai stati nello Stato convenuto, tra loro esistono legami di lungo periodo che, a causa della persecuzione temuta, non possono essere vissuti nel loro Paese di origine o in Stati terzi. Se tutti questi elementi, insieme a considerazioni basate sul preminente interesse dei minori da ricongiungere, depongono in favore dell’esistenza di un obbligo positivo per la Svizzera di concedere i ricongiungimenti familiari richiesti dai ricorrenti, la Corte verifica altresì se il requisito del non ricorso a misure di assistenza sociale sia stato valutato dalle autorità interne in modo sufficientemente flessibile. Significativamente, nei tre casi in cui la Corte EDU ha ritenuto che i ricorrenti abbiano dimostrato di aver fatto tutto quanto possibile per non pesare sulle risorse pubbliche (talora anche non riuscendovi parzialmente, nel caso di una madre single con tre figli, o del tutto, per ragioni di salute) ma le autorità non hanno applicato il requisito richiesto con flessibilità vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU, perché lo Stato convenuto non ha effettuato un bilanciamento corretto tra tutti gli interessi rilevanti nel caso concreto. Con riferimento al solo ricorso in cui la Corte EDU ha, invece, ritenuto che le autorità interne hanno applicato il requisito richiesto tenendo conto dei problemi di salute della ricorrente, la quale però non aveva dimostrato di volersi integrare professionalmente e di voler ridimensionare la sua dipendenza dall’assistenza sociale, essa ha concluso che non vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU, letto sia in senso sostanziale che procedurale.

In Emin Huseynov c. Azerbaijan (no. 2) (Corte EDU, sentenza del 13.07.2023) un giornalista indipendente impegnato, attraverso l’NGO Institute for Reporters’ Freedom and Safety, nella difesa dei diritti dei giornalisti, lamentava varie violazioni della CEDU poiché sarebbe stato costretto a rinunciare alla sua cittadinanza azera in seguito a un procedimento giudiziario, avviato nel 2014, contro la sua NGO per attività finanziarie sospette. Temendo di essere arrestato, come accaduto ad altri difensori dei diritti umani, il ricorrente tentava la fuga all’estero senza successo. Si recava quindi presso l’Ambasciata svizzera dove trovava rifugio per molti mesi prima di essere trasferito, con l’aereo del Ministro degli affari esteri elvetico, in Svizzera. Qui, poco dopo, gli veniva riconosciuto lo status di rifugiato. Secondo lo Stato convenuto, mentre si trovava nell’Ambasciata, il ricorrente aveva presentato una domanda indirizzata al Presidente dell’Azerbaijan con la quale chiedeva di voler rinunciare alla sua cittadinanza azera. Tale richiesta era stata poi accolta con ordine dello stesso Presidente, anche se nessuna copia veniva mai stata notificata al sig. Huseynov. Considerato che tale decisione lo aveva reso apolide, quest’ultimo lamentava dinanzi la Corte EDU una violazione dell’art. 8 CEDU. Dopo aver rigettato le obiezioni dello Stato convenuto per il mancato esaurimento dei ricorsi interni, condizione resa peraltro impossibile da soddisfare per la mancata notifica dell’ordine del Presidente che avrebbe potuto essere contestato dinanzi un giudice azero, la Corte EDU ricorda innanzitutto che la nozione di “vita privata” è un concetto molto ampio che comprende molti aspetti dell’identità fisica e sociale di una persona (tra le altre, Corte EDU, 13.10.2016, B.A.C. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017). Tra questi rientra anche la cittadinanza, ove privazioni arbitrarie della stessa abbiano la conseguenza di interferire con il godimento del diritto di cui all’art. 8 CEDU (cfr. Corte EDU, 22.12.2020, Usmanov c. Russia, in questa Rivista, n. 1, XXIII, 2021; 21.06.2016, Ramadan c. Malta, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017). A tal fine, secondo la Corte, occorre valutare quali sono le conseguenze di una misura privativa della cittadinanza e se tale misura possa definirsi arbitraria. Sotto il primo aspetto, la Corte EDU osserva come il ricorrente sia diventato apolide e abbia vissuto in una situazione di incertezza giuridica con un serio impatto anche sulla sua identità sociale. In tal senso, il trattamento riservato al sig. Huseynov costituisce un’interferenza nel godimento del diritto al rispetto per la vita privata. Sotto il secondo profilo, siffatta interferenza è anche arbitraria poiché non è prevista dalla legge interna. Infatti, non solo la normativa azera in materia di cittadinanza prevede che una persona accusata non possa rinunciare alla propria cittadinanza. La privazione della cittadinanza, ove renda apolide la persona interessata perché non è in possesso o non ha garanzie di acquisire un’altra cittadinanza, è anche contraria alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status delle persone apolidi, alla quale l’Azerbaijan ha aderito nel 1996 e che è parte integrante dell’ordinamento interno azero (v. anche interpretazione dell’UNHCR, Guidelines on Statelessness No. 5 (Loss and Deprivation of Nationality under Articles 5-9 of the 1961 Convention on the Reduction of Statelessness), maggio 2020, doc. HCR/GS/20/05; Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, Recommendation No. R (99) 18 on the avoidance and reduction of statelessness, 15 settembre 1999). Considerato infine che la decisione dello Stato convenuto non è stata nemmeno accompagnata da adeguate garanzie procedurali, nel caso del sig. Huseynov vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU. Quanto alle altre violazioni lamentate dal ricorrente, la Corte EDU ritiene opportuno esaminare solo quelle relative agli art. 34 (diritto a presentare ricorso individuale) e 38 (esame in contraddittorio della causa) CEDU concludendo per la non violazione perché lo Stato convenuto non ha, in sostanza, ostacolato il ricorrente nel presentare un ricorso dinanzi la Corte EDU né ha impedito alla Corte di esaminarne il caso per non aver fornito i documenti richiesti. Infine, nonostante la richiesta del sig. Huseynov volta a ottenere dalla Corte EDU l’annullamento della decisione presidenziale con cui era stata revocata la sua cittadinanza, i giudici di Strasburgo non hanno ritenuto opportuno indicare all’Azerbaijan, ai sensi dell’art. 46 CEDU, misure a carattere generale o individuale per porre rimedio alla violazione constatata.

 

Art. 14: Divieto di discriminazione

Il caso X e altri c. Irlanda (Corte EDU, sentenza del 22.06.2023) riunisce due ricorsi attraverso cui i rispettivi ricorrenti lamentavano una violazione del divieto di discriminazione, letto in combinato con il diritto al rispetto per la vita familiare (art. 8 CEDU) o con il diritto alla tutela della proprietà (art. 1, Prot. 1), in seguito al rigetto delle loro domande volte a ottenere un beneficio a sostegno dell’infanzia in quanto non godevano di un titolo per soggiornare in modo regolare nello Stato convenuto. In particolare, il primo ricorso riguardava una cittadina nigeriana (X), richiedente asilo, e la figlia (E), cittadina irlandese, entrambe prese in carico dal sistema di accoglienza previsto per i richiedenti asilo. Nell’ottobre 2015, quando ancora non aveva diritto di risiedere nello Stato convenuto, X chiedeva un beneficio a sostegno della figlia che veniva negato fino a quando, nel gennaio 2016, otteneva un permesso di soggiorno. L’altro ricorso era relativo a una cittadina afghana (Y), anch’essa richiedente asilo e madre di un bambino (M) cui veniva riconosciuto lo status di rifugiato. Anche in quel caso, il beneficio richiesto era stato negato perché Y non risiedeva abitualmente in Irlanda, venendo concesso solo dal momento in cui le autorità irlandesi accoglievano la domanda di ricongiungimento di Y con M. Tutti i ricorrenti ritenevano che il requisito della residenza abituale per ottenere il beneficio richiesto fosse discriminatorio. Per il giudice interno di primo grado, invece, tale criterio non era arbitrario venendo applicato non solo agli stranieri ma anche agli stessi cittadini irlandesi. Tale ragionamento veniva, in sostanza, confermato dalla Corte Suprema, la quale puntualizzava che, per quanto il beneficio fosse destinato alla cura del minore, ne era titolare il genitore e solo a esso/a occorreva far riferimento per verificarne il diritto di soggiorno. Inoltre, sempre per la Corte Suprema, per una scelta discrezionale del legislatore ritenuta del tutto legittima, tale diritto non può essere confuso con il possesso della cittadinanza (caso di E), né con la permanenza nello Stato convenuto in attesa della valutazione della domanda di protezione internazionale (caso di M). La Corte EDU verifica, innanzitutto, l’ammissibilità dei ricorsi, specie se la violazione abbia comportato uno svantaggio significativo per i ricorrenti tale da meritare l’esame del loro caso dinanzi una corte internazionale ai sensi dell’art. 35, par. 3, lett. b). Per la Corte EDU, è evidente che nel caso di specie si tratti di uno svantaggio di natura monetaria, relativo alla parte di beneficio non pagato nel periodo in cui i ricorrenti non avevano ancora soddisfatto il requisito del titolo di soggiorno. Vista la lieve entità di tale importo e il fatto che i ricorrenti non fossero stati esposti a privazioni materiali poiché comunque sostenuti dallo Stato convenuto, per la Corte i ricorrenti non avevano subito uno svantaggio significativo come richiesto dalla CEDU. Tuttavia, per la stessa, il rispetto dei diritti umani ne impone l’esame non solo perché questo solleva una questione di carattere generale che può chiarire l’osservanza della Convenzione ma anche per ragioni di buona amministrazione della giustizia, tenuto conto di un buon numero di ricorsi della stessa natura tuttora pendenti a Strasburgo. Appurato ciò, alla luce del carattere non autonomo dell’art. 14 CEDU, ossia che trova applicazione solo ove la situazione in esame ricada nell’ambito di applicazione di uno degli altri diritti o libertà enunciati nella Convenzione o nei suoi Protocolli (v. M. Balboni (a cura di), The European Convention on Human Rights and the Principle of Non-Discrimination, Napoli, 2017), la Corte EDU verifica preliminarmente anche se il caso dei ricorrenti rientri nella portata del diritto alla tutela della proprietà (art. 1, Prot. 1) o del diritto al rispetto per la vita privata o familiare (art. 8 CEDU). Posto che la ragione per cui sarebbero stati discriminati nell’accesso al beneficio – la residenza o status migratorio – costituisce uno dei motivi di discriminazione coperti dall’art. 14 CEDU (tra le altre, Corte EDU, 28.11.2011, Ponomaryovi c. Bulgaria), la risposta in merito al diritto alla tutela della proprietà è positiva nei confronti dei soli genitori. Infatti, nell’introdurre autonomamente un beneficio per i minori a carattere universale, lo Stato convenuto ha generato nei ricorrenti adulti un interesse proprietario che rientra nell’ambito dell’art. 1, Prot. 1. Non risulta, invece, applicabile l’art. 8 CEDU al caso dei ricorrenti, sia adulti sia minori, poiché il beneficio richiesto mira unicamente ad aiutare i genitori ad affrontare i costi della crescita dei loro figli e, pur avendo un effetto sulla loro vita familiare, non può dirsi che ne possa determinare l’organizzazione di aspetti centrali della loro quotidianità familiare, anche alla luce del breve periodo durante il quale era stato loro negato. Ritenendo pertanto ammissibile solo la parte del ricorso relativo al divieto di discriminazione letto in combinato con l’art. 1, Prot. 1, la Corte EDU si concentra sul primo elemento del test sviluppato affinché si possa affermare che vi sia una discriminazione contraria all’art. 14 CEDU (v. anche C. Danisi, How Far Can the European Court of Human Rights Go in the Fight against Discrimination, in International Journal of Constitutional Law, n. 3-4, 2011, p. 793 ss.): l’esistenza di una situazione analoga tra i ricorrenti adulti, gli unici cui spetterebbe la titolarità del beneficio, e coloro che, avendo il diritto di soggiornare nello Stato convenuto, possono soddisfare i requisiti richiesti dalla normativa interna per accedere al beneficio. A tal proposito, la Corte ricorda come la comparabilità delle situazioni debba essere ricercata tenendo conto di tutte le circostanze rilevanti per il caso concreto e che il fatto di legare una prestazione sociale al diritto di risiedere regolarmente nello Stato interessato è essenzialmente dovuto al carattere statale del sistema di sicurezza sociale. Sotto il primo punto, la Corte ricorda che il contesto generale è quello del controllo dell’immigrazione rispetto al quale le Parti godono di un ampio margine di apprezzamento, specie quando, come nel caso dei ricorrenti, il diritto a risiedere nel loro territorio non è ancora stato accertato. Sotto il secondo punto, essa concorda con la Corte Suprema irlandese nel qualificare il criterio della residenza abituale come neutro e finanche inclusivo, dato che esso amplia la platea di possibili beneficiari oltre, ad esempio, ai soli cittadini residenti. Sulla base di tali considerazioni, del fatto che tutti i ricorrenti avevano comunque ricevuto assistenza dallo Stato convenuto e della relativa rapidità con cui il loro status migratorio è stato definito, tanto da permettere a tutti i ricorrenti di ricevere il contributo previsto per i minori in pochi mesi, per la Corte EDU non esiste comparabilità tra le situazioni indicate con la conseguenza che il trattamento riservato ai ricorrenti non ha dato origine a una violazione dell’art. 14 CEDU, letto in combinato con il diritto alla tutela della proprietà. 

 

Art. 2, Protocollo 4: Libertà di circolazione 

Il caso S.E. c. Serbia (Corte EDU, sentenza dell’11.07.2023) riguarda un richiedente asilo siriano che, nel 2015, otteneva lo status di rifugiato in Serbia, dove trovava un impiego e costituiva una famiglia. Poiché il suo passaporto siriano era scaduto, nello stesso anno chiedeva alle autorità competenti serbe un documento che gli permettesse di viaggiare all’estero. Questo documento era previsto dalla normativa interna appositamente per i rifugiati, ma non erano mai stati adottati i regolamenti applicativi. Pertanto, la richiesta del ricorrente veniva rigettata senza che, però, le autorità competenti specificassero quali procedure alternative egli avrebbe potuto avviare per ottenere il documento richiesto. Se tutti i ricorsi interni risultavano vani, solo dopo molti anni il sig. S.E. decideva di rivolgersi alle autorità diplomatiche del suo Paese di origine ottenendo un passaporto. Poco dopo, si trasferiva in Germania con un regolare permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Dinanzi la Corte EDU, egli lamentava una violazione del suo diritto a lasciare la Serbia contrariamente a quanto previsto dal par. 2 dell’art. 2, Prot. 4 («Ognuno è libero di lasciare qualsiasi Paese, compreso il proprio») (cfr. Corte EDU, 14.06.2022, L.B. c Lituania, in questa Rivista, XXIV, n. 3, 2022). La Corte EDU rigetta innanzitutto le obiezioni dello Stato convenuto, in particolare quella per cui tale disposizione non si potesse applicare al ricorrente poiché rifugiato. Infatti, come precisato dalla Corte, il testo convenzionale utilizza espressamente il termine “ognuno” nell’affermare il diritto di lasciare qualsiasi Paese, comprendendo quindi nel suo campo di applicazione chiunque, anche i rifugiati. Inoltre, se è vero che le Parti possono condizionarne l’esercizio imponendo requisiti formali, come ad esempio il possesso di un regolare documento di viaggio, tali requisiti devono comunque poter essere soddisfatti. Sulla base di tali considerazioni, non essendovi dubbi che il ricorrente, rifugiato, non abbia potuto lasciare la Serbia per sette anni a causa dell’impossibilità di ottenere un titolo di viaggio, la disposizione richiamata si applica al suo caso. Quanto al merito, per la Corte EDU non vi sono dubbi che, nonostante non sia stata intenzionale, il ricorrente abbia subito un’interferenza sostanziale nel godimento di tale diritto. In effetti, per quanto sia stato poi costretto a fare, il rilascio di un documento da parte dello Stato convenuto era sostanzialmente l’unica alternativa a sua disposizione se si considera che non era libero di rivolgersi alle autorità del suo Paese proprio perché, quale rifugiato, nutriva un fondato timore di persecuzione. Per verificare se tale interferenza sia giustificata, cioè, sia conforme alla legge, persegua un fine legittimo e sia necessaria in una società democratica, ai sensi del par. 3 dell’art. 2, Prot. 4, alla Corte EDU basta esaminare il primo criterio per affermare che vi sia stata una violazione del diritto del ricorrente a lasciare la Serbia. Infatti, per quanto l’interferenza subita fosse prevista dalla legge interna, essa non può comunque ritenersi conforme a essa poiché quest’ultima disponeva anche l’emanazione di regolamenti esecutivi che disciplinassero le modalità di rilascio di un documento di viaggio ai rifugiati residenti in Serbia, resa impossibile dalla lunga inazione delle autorità competenti. Non trovando alcuna giustificazione in ragioni legate alla mancanza di risorse economiche o tecniche, come pur sostenuto nello Stato convenuto, l’inerzia della autorità interne ha reso il diritto di cui al par. 2 dell’art. 2, Prot. 4, del tutto illusorio. Pertanto, nel caso del sig. S.E., vi è stata una violazione di tale disposizione e, dato il suo carattere strutturale, per la Corte EDU spetta allo Stato convenuto porvi rimedio ai sensi dell’art. 46 CEDU, attraverso misure generali e individuali che rendano effettivo il diritto dei rifugiati di ottenere un documento di viaggio al fine di lasciare il suo territorio.

 

Art. 1, Protocollo 7: Diritto a garanzie procedurali in caso di allontanamento

Nel caso Poklikayew c. Polonia (Corte EDU, sentenza del 22.06.2023) un cittadino bielorusso, dal 2006 risiedente con un regolare permesso di soggiorno nello Stato convenuto, nel 2012 veniva accusato dai servizi segreti polacchi di costituire un pericolo per la sicurezza nazionale in ragione di una sua presunta collaborazione con i servizi segreti del suo Paese di origine. Veniva aperto un procedimento nei suoi confronti, i documenti relativi venivano secretati e, infine, ne veniva ordinata l’espulsione con divieto di re-ingresso per cinque anni. I ricorsi avviati contro tale decisione venivano tutti rigettati. In particolare, per la Corte suprema amministrativa polacca l’operato delle autorità era stato esaminato in modo rigoroso dalle corti di grado inferiore e le stesse avevano verificato le ragioni per l’espulsione del ricorrente avendo accesso a tutti i documenti relativi al suo caso. I documenti secretati non erano, invece, accessibili all’avvocato del ricorrente perché non in possesso di un’apposita certificazione rilasciata dalle autorità polacche, anche se le richieste presentate a tal fine dinanzi al competente giudice amministrativo venivano tutte rigettate senza alcuna spiegazione. Per via del trattamento subito, il ricorrente lamentava varie violazioni della CEDU. Ritenendo opportuno esaminare il ricorso sotto il profilo del diritto a garanzie procedurali in caso di allontanamento (art. 1 del settimo Protocollo addizionale alla CEDU, ratificato dalla Polonia), applicabile agli stranieri soggiornanti regolari come il ricorrente, la Corte EDU ne elenca in via preliminare i principi. In particolare, secondo quanto emerso già nella sua giurisprudenza (cfr. Corte EDU, 9.03.2021, Hassine c. Romania, in questa Rivista, XXIII, n. 2, 2021; Corte EDU, Grande Camera, 15.10.2020, Muhammad e Muhammad c. Romania, in questa Rivista, XXIII, n. 1, 2021), le persone regolarmente soggiornanti destinatarie di un ordine di allontanamento devono essere pienamente informate dei motivi alla base di tale decisione, anche quando sono ritenute pericolose per la sicurezza nazionale. Qualora l’accesso alle informazioni e ai documenti rilevanti subisca una restrizione per tutelare l’interesse pubblico, sono comunque necessarie misure che permettano le persone interessate di difendersi in modo effettivo, come ad esempio l’accesso indiretto ai documenti secretati attraverso il loro avvocato. Nel caso del sig. Poklikayew, la Corte EDU si concentra proprio sull’esistenza di tali misure poiché, sin dall’avvio del procedimento a suo carico, il ricorrente aveva subito limitazioni significative al suo diritto di essere informato sulle ragioni per cui era ritenuto una minaccia alla sicurezza nazionale. Tenuto conto che le autorità interne non avevano nemmeno spiegato il motivo per cui i documenti relativi al suo caso dovessero essere secretati, al di là del vago riferimento a esigenze di tutela della sicurezza nazionale, la Corte EDU ritiene opportuno effettuare uno scrutinio particolarmente severo sull’adozione e sull’adeguatezza di misure volte a bilanciare le restrizioni subite dal ricorrente. A tal fine, la Corte EDU nota, in particolare, come i giudici interni non abbiano sostanzialmente fornito informazioni utili al sig. Poklikayew, se non reiterare le lacunose ragioni già sollevate dalle autorità amministrative, e che nemmeno al suo avvocato non era stato permesso di visionare i documenti secretati. In sintesi, nessuna misura era stata quindi adottata per bilanciare le limitazioni imposte al ricorrente con la conseguenza che quest’ultimo non ha potuto difendersi efficacemente contro il suo allontanamento. Nel suo caso, vi è stata quindi una violazione dell’art. 1, Prot. 7 CEDU.

Sito realizzato con il contributo della Fondazione "Carlo Maria Verardi"

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