Art. 3, par. 2, regolamento 2013/604: presupposti per derogare al principio di mutua fiducia
La decisione Tudmur (CGUE, cause riunite C-185/24 e C-189/24, sentenza del 19 dicembre 2024) è l’esito di un rinvio pregiudiziale esperito dal Tribunale amministrativo superiore di un Land tedesco, attraverso il quale si chiedeva alla Corte di interpretare l’art. 3, par. 2, del regolamento 2013/604 (“Dublino III”). Nel dettaglio, il giudice del rinvio voleva sapere se quella disposizione ammette che uno Stato membro (in specie la Germania) possa stabilire che, nello Stato membro designato come competente per la domanda di un richiedente protezione internazionale (nello specifico, l’Italia), vi siano carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza, tali da implicare il rischio violazione dell’4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta), per il solo motivo che questo secondo Stato ha sospeso unilateralmente le prese e le riprese in carico di richiedenti.
La Corte conclude che una simile interpretazione non è consentita. Sulla base del principio di mutua fiducia, si deve presumere che il trattamento riservato ai richiedenti protezione internazionale in ciascuno Stato membro sia conforme a quanto prescritto dalla Carta, dalla Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati (integrata dal Protocollo relativo allo status dei rifugiati del 1967) e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU). È vero che in situazioni limite tale presunzione è passibile di deroghe, ma unicamente previa valutazione fondata su elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati; la medesima comporta un aspetto prospettico, ma al tempo stesso non può essere puramente ipotetica. Solo a seguito di una valutazione così approfondita, e che dunque va ben al di là della constatazione dell’omissione avvenuta nel caso di specie, si potrà eventualmente giungere alla conclusione che paventava il giudice a quo.
Artt. 9 e 4della direttiva 2011/95: concetto di “atti di persecuzione” in rapporto alla situazione della popolazione femminile afghana e relativa valutazione del fondato timore
Femmes afghanes (CGUE, cause riunite C‑608/22 e C‑609/22, sentenza del 4 ottobre 2024) è un giudizio nel quale si toccano alcuni aspetti del diritto UE in materia di asilo applicato agli effetti del regime talebano sulla popolazione femminile afghana. La Corte amministrativa austriaca doveva decidere le sorti dei ricorsi di due donne afghane che si erano viste rigettare le rispettive domande di protezione internazionale in Austria e che temevano di subire persecuzioni in caso di ritorno nel loro Paese di origine. Tale giudice sceglieva di rivolgersi alla Corte di giustizia per avere maggiori indicazioni su come utilizzare specifici elementi di contesto nell’economia della direttiva 2011/95 (direttiva Qualifiche). In primis, veniva considerato l’art. 9, par. 1, lett. b), della direttiva, che illustra in concetto di “atti di persecuzione”. La Corte conferma che esso va interpretato alla luce della Carta dei diritti fondamentali, della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna e della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Ricorda poi che gli atti di persecuzione enunciati all’art. 9 sono tali se, per la loro natura o frequenza, risultano essere sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali. Con riferimento alle circostanze emerse nel caso di specie e lamentate dalle ricorrenti di fronte alla Corte amministrativa austriaca, la CGUE conclude che alcune integrano di per sé la fattispecie degli atti persecutori: ad esempio, il matrimonio forzato (che è assimilabile a una forma di schiavitù) e l’assenza di protezione contro le violenze fondate sul sesso e le violenze domestiche (che costituiscono forme di trattamento inumano e degradante). Rispetto ad altre condotte, la Corte è del parere che vengano assorbite all’interno del campo d’azione degli atti persecutori se costituiscono una somma che porti a raggiungere il suddetto livello di gravità: ciò vale per le limitazioni all’accesso all’assistenza sanitaria, alla vita politica e all’istruzione, nonché all’esercizio di un’attività lavorativa o sportiva, o che ne ostacolano la libertà di circolazione o che ne negano la libertà di abbigliamento. Considerate in questi termini, tali misure sono flagranti violazioni alla dignità umana delle donne afghane ed espressione di «un’organizzazione sociale fondata su un regime di segregazione e di oppressione in cui le donne sono escluse dalla società civile e private del diritto di condurre una vita quotidiana dignitosa nel loro Paese di origine». Il secondo punto di analisi della Corte riguarda il perimetro della valutazione della domanda che deve compiere l’autorità nazionale competente in base all’art. 4 della direttiva Qualifiche e alla luce delle precisazioni specifiche in merito al concetto di atti persecutori. La Corte specifica che la fondatezza del timore di persecuzione espresso da un richiedente deve essere valutata caso per caso, individualmente ed esaminando in concreto i fatti e le circostanze. L’esame deve altresì fondarsi su informazioni aggiornate tratte da fonti attendibili (ad esempio, dell’Unione europea o delle Nazioni Unite). Quanto ai casi all’attenzione della Corte austriaca, le autorità nazionali competenti devono raccogliere le informazioni relative all’Afghanistan che siano rilevanti per la valutazione delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato presentate dalle ricorrenti, e tra queste informazioni vi sono la posizione delle donne davanti alla legge, i loro diritti politici, sociali ed economici, i costumi culturali e sociali del Paese e le conseguenze nel caso non vi aderiscano, la frequenza di pratiche tradizionali dannose, l’incidenza e le forme di violenza segnalate contro le donne, la protezione disponibile per loro, la pena imposta agli autori della violenza e i rischi che una donna potrebbe dover affrontare al suo ritorno nel Paese di origine dopo aver inoltrato una siffatta domanda. Dai riscontri emersi da queste indagini potrebbe emergere uno scenario talmente grave da giustificare un’interpretazione dell’art. 4 della direttiva Qualifiche che ammetta, se del caso, una presunzione di riconoscimento dello status di rifugiato: secondo la Corte, di ciò devono beneficiare le donne e le ragazze afghane, tenuto conto degli atti di persecuzione perpetrati nei loro confronti dai Talebani unicamente per il loro sesso.
Art. 38 della direttiva 2013/32: designazione di Paese terzo di origine sicuro per uno Stato che non conceda a richiedenti protezione internazionale l’ingresso nel proprio territorio
Il caso Somateio «Elliniko Symvoulio gia tous Prosfyges» (CGUE, C‑134/23, sentenza del 4 ottobre 2024) ha al centro l’interpretazione dell’art. 38 della direttiva 2013/32 (direttiva Procedure), sul concetto di Paese terzo di origine sicuro. Su richiesta del Consiglio di Stato greco, nell’ambito di una controversia tra associazioni e ministeri nazionali, la Corte doveva stabilire se fosse conforme a tale disposizione, letta alla luce dell’articolo 18 della Carta, una normativa nazionale che designava la Turchia come Paese terzo generalmente sicuro per determinate categorie di richiedenti protezione internazionale. Ciò sebbene quel Paese terzo avesse da tempo sospeso, in via generale e senza prevedibili prospettive di evoluzione in senso contrario, l’ammissione o la riammissione di richiedenti nel suo territorio. L’interpretazione data dalla Corte conduce alla conferma della legittimità della normativa interna contestata nel giudizio principale. Il tenore letterale dell’art. 38 della direttiva Qualifiche, in particolare del suo secondo comma, ammetterebbe un’ipotesi come quella di specie, tenendo altresì presente che quest’ultimo non fa riferimento all’eventuale accertamento dell’ammissione o della riammissione di richiedenti protezione internazionale in un Paese terzo. Troverebbe applicazione il par. 4 dell’art. 38, secondo cui se il Paese terzo di riferimento non concede al richiedente l’ingresso nel proprio territorio, gli Stati membri assicurano il ricorso a una procedura in conformità dei principi e delle garanzie fondamentali descritti al capo II direttiva 2013/32, non potendo quindi respingere la domanda di protezione internazionale causa inammissibilità.
Art. 37 della direttiva 2013/32: designazione parziale di Paese terzo di origine sicuro e per uno Stato che invochi il diritto di derogare i diritti previsti dalla CEDU
Anche il caso Ministerstvo vnitra České republiky (CGUE, C-406/22, sentenza del 4 ottobre 2024) ha ad oggetto il concetto Paese terzo sicuro. Questa volta il giudice del rinvio è la Corte regionale di Brno e il ricorrente nel procedimento interno un cittadino moldavo che chiedeva di poter ottenere protezione internazionale in Repubblica Ceca, soprattutto a causa della situazione di insicurezza che a suo parere caratterizzava la Moldova. Posto che la Repubblica Ceca aveva designato la Moldova quale Paese terzo di origine sicuro, fatta eccezione per la Transistria, le questioni trasmesse dal giudice nazionale alla Corte di giustizia, riunita in Grande Sezione, sono tre. Con la prima si chiede se l’art. 37 della direttiva 2013/32 (in combinato disposto con l’allegato I), debba essere interpretato nel senso che un Paese terzo cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come sicuro per il solo fatto che invoca il diritto di derogare agli obblighi previsti dalla CEDU, in applicazione dell’articolo 15 di tale Convenzione. La Corte risponde negativamente. È vero che l’allegato I alla direttiva Procedure assegna un ruolo molto importante, ai fini del potere degli Stati membri di designare un Paese terzo di origine come sicuro, al rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella CEDU, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma del proprio art. 15, par. 2; eppure, non basta il mero ricorso, da parte di un Paese terzo, al diritto di deroga previsto all’articolo 15 della CEDU per concludere in automatico che esso abbia effettivamente adottato misure che hanno l’effetto di derogare agli obblighi previsti dalla Convenzione, e comunque non sarebbe possibile comprenderne natura e portata. Ma poiché l’art. 37, par, 2, della direttiva impone agli Stati membri di riesaminare regolarmente la situazione in quelli che sono stati designati come Paesi terzi di origine sicuri, è necessario verificare in concreto se le circostanze che consentono di presumere la sicurezza dei richiedenti protezione internazionale in un determinato Paese d’origine abbiano subito variazioni. Nel caso di specie, tale riesame diviene ancor più urgente, perché il diritto di deroga invocato dalla Moldova è sintomatico di un rischio rilevante di modifica significativa circa l’applicazione delle norme in materia di diritti e di libertà. La seconda questione mira a capire se l’art. 37 della direttiva 2013/32 ammetta che un Paese terzo possa essere designato come Paese di origine sicuro, eccettuate talune parti del suo territorio. La Corte risponde nuovamente in senso negativo. Non vi sono elementi nel testo della direttiva e dell’Allegato I che lascino presagire l’intenzione del legislatore dell’Unione di ammettere la facoltà, per gli Stati membri, di effettuare designazioni parziali riguardo alle designazioni di Stati terzi come Paesi di origine sicuri. Inoltre, accogliere la tesi della designazione parziale significherebbe estendere il campo d’azione di una eccezione a regole del diritto UE, atteso che se un Paese terzo di origine è designato come sicuro le domande di protezione internazionale dei richiedenti provenienti da quello Stato sottostarebbero a un regime particolare di esame avente carattere di deroga. Il fatto che poi la direttiva Procedure (applicabile al caso concreto) sia stata riformata in senso contrario nel 2024 (da un regolamento non applicabile al caso concreto) da questo punto di vista, conferma l’intenzione del legislatore dell’epoca di non concedere agli Stati membri il diritto di procedere ad alcuna designazione parziale. La terza questione si riferisce ai poteri del giudice chiamato a decidere sull’impugnazione avverso una decisione di status. Il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se l’art. 46 della direttiva Qualifiche, imponendo un esame completo ed ex nunc, anche in ragione dell’art. 47 della Carta, impone all’autorità giudiziaria di accertare violazioni dello Stato membro riguardo alla designazione di un Paese terzo di origine come sicuro (cosa che, appunto, è avvenuta quando la Repubblica ceca ha così designato solo parte della Moldova). La Corte conferma il dubbio del giudice a quo. Siccome la designazione di un Paese di origine sicuro ricade in tali aspetti procedurali delle domande di protezione internazionale ed è atta a comportare ripercussioni sulla procedura di esame, è così che deve essere interpretato l’art. 46 della direttiva; anzi, tale violazione va rilevata anche d’ufficio, se l’interessato non l’ha fatta valere.
Direttiva 2013/33 e direttiva 2008/115: rapporto tra regimi giuridici diversi in materia di trattenimento
La sentenza Bouskoura (CGUE, C-387/24 PPU, sentenza del 4 ottobre 2024) insiste sul rapporto intercorrente tra ipotesi di trattenimento nel quadro del sistema Dublino III e ai fini del diritto UE in materia di rimpatrio di stranieri irregolari. Il Tribunale dell’Aia domandava se, in forza delle disposizioni in punto di trattenimento contenute nella direttiva 2013/33, nel regolamento 604/2013 e nella direttiva 2008/115 (direttiva Rimpatri), il diritto interno dovesse prevedere l’obbligo per le autorità giudiziarie competenti di disporre il rilascio immediato di un cittadino di un Paese terzo attualmente trattenuto in quanto irregolare, benchè tale privazione della libertà fosse stata originariamente disposta quando egli era richiedente asilo, e nonostante questa specifica misura fosse poi divenuta illegittima. La Corte conclude in senso negativo. Pur ammettendo che, indipendentemente dall’atto di riferimento, il trattenimento costituisce un’ingerenza grave nel diritto alla libertà ex art. 6 della Carta, la Corte ricorda che il trattenimento ai fini dell’allontanamento disciplinato dalla direttiva 2008/115 e il trattenimento disposto nei confronti di un richiedente asilo, in particolare in forza della direttiva 2013/33, rientrano in distinti regimi giuridici. D’altra parte, la prima direttiva non riguarda i richiedenti protezione internazionale. Per giunta, anche se la direttiva Rimpatri è temporaneamente inapplicabile durante lo svolgimento del procedimento d’esame della domanda d’asilo, non per questo dovrà essere posto definitivamente termine al procedimento di rimpatrio, che potrebbe certamente proseguire potendo laddove la domanda d’asilo venisse respinta. Ne consegue l’autorità giudiziaria competente non è tenuta a rimettere immediatamente in libertà una persona in stato di soggiorno irregolare per il solo fatto dell’illegittimità di una precedente misura di trattenimento adottata sulla base del regolamento Dublino III.
Direttive 2011/95 e 2008/115: presupposti per la concessione di determinate fattispecie di diritto di soggiorno e diritti procedurali del soggiornante irregolare
Nella causa Changu (CGUE, C-352/23, sentenza del 12 settembre 2024) si intrecciano questioni attinenti alla direttiva 2011/95 e alla direttiva 2008/115. Un cittadino maggiorenne di Stato terzo si era visto rigettare dalla competente autorità bulgara le proprie domande di asilo e di status umanitario. Tuttavia, non vi era modo di procedere al suo allontanamento entro il termine previsto dall’art. 8 della direttiva 2008/115 in merito alla partenza volontaria. Il Tribunale amministrativo di Sofia, di fronte al quale doveva essere deciso il contenzioso tra questa persona e l’autorità bulgara che aveva assunto la decisione contestata, rivolgeva alla Corte di giustizia vari quesiti, i cui punti chiave possono essere riassunti come segue. Il primo riguarda la possibilità per lo Stato membro di concedere al richiedente un diritto di soggiorno per motivi che non presentano alcun collegamento con l’economia generale e con gli obiettivi della direttiva Qualifiche. La Corte risponde che ciò in linea di principio è ammissibile, ma solo qualora tale diritto di soggiorno si distingua chiaramente dalla protezione internazionale concessa a titolo della direttiva Qualifiche. Spetta al giudice del rinvio effettuare la valutazione definitiva, anche se la Corte sospetta che nel caso di specie il regime risultante dalla protezione nazionale sia previsto dalla stessa normativa che ha trasposto la direttiva 2011/95 e che quindi la suddetta distinzione non emerga. Il secondo quesito tocca i diritti procedurali dell’interessato, che nello specifico si trova in posizione irregolare in Bulgaria: dovrà essergli data conferma scritta del fatto che la decisione di rimpatrio adottata nei suoi confronti non verrà temporaneamente eseguita? La Corte ritiene che sia questo il caso, in base all’interpretazione da assegnare all’art. 14, par. 2, della direttiva Rimpatri: l’interessato, infatti, si trova in una situazione rispetto alla quale continua ad applicarsi tale direttiva, incluse ovviamente le garanzie da essa previste. Da ultimo, stante l’ineffettività del rimpatrio e la condizione di irregolarità, alla Corte viene chiesto se uno Stato membro in questo caso sia tenuto a concedere all’interessato un diritto di soggiorno per cogenti motivi umanitari, indipendentemente dalla durata del soggiorno di detto cittadino in tale territorio. La Corte risponde che dalla direttiva Rimpatri non discende un simile obbligo, nemmeno se la si legge in combinato disposto con gli artt. 1, 4 e 7 della Carta. Restano comunque salvi gli altri diritti di cui tale persona potrà godere finché non sia stata allontanata, specialmente se riveste anche la qualifica di richiedente protezione internazionale.
Art. 5 della direttiva 2008/115: rapporto tra rimpatrio e principio di non refoulement
Anche la sentenza Ararat (CGUE, C-156/23, sentenza del 17 ottobre 2024) ha ad oggetto la direttiva Rimpatri, ma approfondisce il rapporto tra rimpatrio e garanzie collegate al divieto di refoulement. Le questioni sono state sollevate dal Tribunale dell’Aia, che aveva bisogno di comprendere fino a che punto potesse estendersi l’obbligo di verificare i presupposti di tale divieto nell’arco dell’esecuzione della decisione di rimpatrio emessa dall’autorità competente olandese contro cittadini di Stati terzi. La Corte ribadisce la centralità del principio di non refoulement, evincibile dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, nonché dagli artt. 18 e 19 della Carta e dall’art. 5 della direttiva 2008/115, provvisto di effetto diretto. Secondo i giudici gli Stati membri non possono allontanare, espellere o estradare uno straniero in presenza di «seri e comprovati motivi di ritenere che, nel Paese di destinazione, egli vada incontro a un rischio reale di subire trattamenti vietati dalle due summenzionate disposizioni della Carta». La valutazione di questi rischi deve essere condotta anche prima dell’esecuzione della decisione di rimpatrio: essa è aggiornata, e dunque distinta e autonoma rispetto a quella effettuata al momento dell’adozione della decisione di rimpatrio. In caso di conferma dei rischi in questione, l’autorità che ha effettuato l’accertamento deve rinviare l’allontanamento. L’obbligo che impone al giudice nazionale di vigilare sul rispetto di detto principio, se del caso d’ufficio, si mantiene anche nell’ambito di un procedimento di protezione internazionale o di un procedimento avviato con una domanda di permesso di soggiorno previsto dal diritto nazionale.
Direttiva 2001/55 e decisione 2022/382: limiti alla revoca parziale del beneficio della protezione temporanea facoltativa prevista a livello nazionale
Il caso Kaduna (CGUE, cause riunite C-244/24 e C-290/24, sentenza del 19 dicembre 2025) affronta il tema della protezione temporanea facoltativa a seguito dell’attuazione della direttiva 2001/55 mediante la decisione di esecuzione del Consiglio 2022/382, a sua volta adottata per far fronte all’arrivo di sfollati dall’Ucraina dopo l’invasione Russa. Due giudici olandesi avevano chiesto alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla legittimità della scelta delle autorità nazionali di riconoscere la protezione temporanea a tutti i titolari di un permesso di soggiorno ucraino, inclusi coloro i quali avevano un permesso temporaneo (e che avessero verosimilmente lasciato l’Ucraina 90 giorni prima della data di inizio dell’invasione russa), salvo poi restringerla ai soli i titolari di un permesso permanente. La Corte rileva che, malgrado l’estensione decisa originariamente dalle autorità olandesi non riguardasse categorie di persone indicate come beneficiari di protezione temporanea dalla decisione di esecuzione 2022/382, essa troverebbe comunque copertura attraverso l’interpretazione da assegnare all’art. 7 della direttiva 2001/55 e all’art. 2, par. 3, della decisione di esecuzione del 2022. I cittadini di Paesi terzi o apolidi che, a causa della durata molto limitata del loro diritto di soggiorno nel territorio dell’Unione, sarebbero stati chiamati a fare ritorno in Ucraina poco tempo dopo l’inizio dell’invasione, possono essere assimilati, ai fini dell’applicazione delle disposizioni appena enunciate, alle persone sfollate a seguito dell’inizio della guerra. Pertanto, i beneficiari della protezione temporanea facoltativa sono da considerarsi sfollati per le stesse ragioni e dal medesimo Paese o dalla medesima regione d’origine dei beneficiari della protezione temporanea obbligatoria. Viene poi ravvisato che la protezione temporanea facoltativa concessa dalle autorità dei Paesi Bassi ha smesso di produrre effetti prima della cessazione della protezione temporanea obbligatoria prevista dalla decisione attuativa della direttiva 2001/55. Ora, da un’interpretazione testuale e teleologica dell’art. 7, par. 1, di tale norma, deriva che gli Stati membri non sono obbligati ad allineare la durata della protezione temporanea facoltativa alla durata iniziale della protezione temporanea obbligatoria, né tantomeno alla durata della sua proroga automatica o a quella eventualmente risultante dalla sua proroga facoltativa. Significa, in altre parole, che il diritto dell’Unione autorizza, in linea di principio, uno Stato membro a revocare il beneficio della protezione temporanea facoltativa anche prima che la protezione temporanea obbligatoria cessi di produrre effetti. Tuttavia, la Corte precisa che una tale decisione di revoca non può pregiudicare né gli obiettivi né l’effetto utile della direttiva e deve rispettare, in particolare, i principi generali del diritto dell’Unione, tra i quali figurano i principi della tutela del legittimo affidamento e della certezza del diritto. Chiariti questi aspetti, la Corte dichiara che lo Stato membro è tenuto ad accordare ai beneficiari della protezione temporanea facoltativa un titolo di soggiorno che gli consenta di permanere nel proprio territorio fino alla revoca dello status. Di conseguenza, le persone che si trovano in tale situazione non sono irregolari e quindi non possono essere rimpatriate in forza della direttiva 2008/115, prima che lo Stato membro abbia posto fine alla protezione facoltativa.
Artt. 15 e 17 della direttiva 2003/86: concetto di “situazioni particolarmente difficili” e requisiti dell’esame della situazione personale di chi richiede il ricongiungimento familiare
Con la pronuncia Sagrario e a. (CGUE, C-63/23, sentenza del 12 settembre 2024) sono state interpretate alcune disposizioni della direttiva 2003/86 sul ricongiungimento familiare, a seguito di rinvio pregiudiziale esperito da un Tribunale spagnolo. La prima questione concerne l’art. 15, par. 3, collocato nel capo sull’ingresso e soggiorno dei familiari, che recita: «In caso di vedovanza, divorzio, separazione o decesso di ascendenti o discendenti diretti di primo grado, un permesso di soggiorno autonomo può essere rilasciato, previa domanda, ove richiesta, alle persone entrate in virtù del ricongiungimento familiare. Gli Stati membri adottano disposizioni atte a garantire che un permesso di soggiorno autonomo sia rilasciato quando situazioni particolarmente difficili lo richiedano». Segnatamente, rilevava la seconda frase, che la Corte è chiamata a interpretare per concludere se è legittima una normativa di uno Stato membro che non impone all’autorità nazionale competente di rilasciare un permesso di soggiorno autonomo ai familiari di un soggiornante qualora questi ultimi versino in situazioni particolarmente difficili e abbiano perduto il permesso di soggiorno per ragioni indipendenti dalla loro volontà oppure se tra di loro vi siano figli minori. La Corte osserva anzitutto che, sebbene la direttiva 2004/86 non definisca né concettualizzi le situazioni particolarmente difficili menzionate all’art. 15, par. 3, gli Stati membri non possono disporre di un margine discrezionale illimitato per definire le circostanze che configurano queste ipotesi. Occorre quindi riferirsi a «circostanze che per loro natura presentano un elevato grado di gravità o di sofferenza per il familiare interessato o che lo espongono ad un elevato livello di precarietà o di vulnerabilità che eccede il rischio abituale di una normale vita familiare». In caso contrario risulterebbe compromesso l’obiettivo della disposizione, che – anche avuto riguardo ai lavori preparatori della direttiva – risulta essere la protezione del cittadino di un Paese terzo entrato nel territorio dello Stato membro ospitante per ricongiungimento familiare, che sia stato vittima di atti di violenza domestica commessi dal soggiornante durante il matrimonio. Ma le situazioni particolarmente difficili cui allude l’art. 15, par. 3 devono poter essere concepite in senso ampio, senza che siano circoscritte esclusivamente alle difficoltà derivanti dalla rottura del vincolo coniugale, ben potendo dipendere dal mantenimento di tale vincolo. In ogni caso, la sola presenza di minori tra i membri della famiglia del soggiornante o il fatto che la perdita del permesso di soggiorno dei minori sia la conseguenza di circostanze proprie al soggiornante non possono essere sufficienti per giustificare la concessione di un permesso di soggiorno autonomo sulla base dell’esistenza delle predette situazioni particolarmente difficili. La seconda questione, invece, tocca l’art. 17 della direttiva, formulato nei seguenti termini: «In caso di rigetto di una domanda, di ritiro o di mancato rinnovo del permesso di soggiorno o di adozione di una misura di allontanamento nei confronti del soggiornante o dei suoi familiari, gli Stati membri prendono nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine». Al riguardo, il giudice a quo si chiedeva se fosse in linea con questa disposizione una normativa interna che consente all’autorità competente di non rinnovare il permesso di soggiorno rilasciato ai familiari di un soggiornante senza aver svolto previamente un esame individualizzato della situazione e senza averli ascoltati; in caso affermativo, il giudice chiedeva altresì se, quando tale decisione riguarda un figlio minorenne, quest’ultimo debba essere ascoltato. La Corte afferma che il diniego del permesso di soggiorno non potrà avvenire in via automatica: è necessario che gli interessati siano ascoltati allo scopo di poter manifestare, in modo utile ed effettivo, il proprio punto di vista nel corso del procedimento amministrativo e prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa ledere interessi personali; e in virtù dell’esigenza di rispettare l’interesse superiore del minore, occorre che anche i minori siano messi nelle condizioni di essere sentiti.
Art. 21 TFUE: diritti di circolazione del cittadino dell’Unione ed effetti del cambio di nome e identità di genere in uno degli Stati membri di cittadinanza
Il giudizio Mirin (CGUE, C-4/23, sentenza del 4 ottobre 2024) affronta il rapporto tra cittadinanza dell’Unione, diritti di circolazione dei cittadini UE ed eventuali cambi di nome e genere avvenuti in uno Stato membro. Al centro della vicenda vi era una persona registrata all’anagrafe rumena con sesso femminile. Tale persona si era poi trasferita nel Regno Unito, aveva acquisito la cittadinanza di questo Stato (allora membro dell’Unione) e lì aveva ottenuto il cambio di nome e identità di genere. Nonostante ciò, le autorità dello Stato membro di nascita, ossia la Romania, rigettavano la richiesta dell’interessato di ottenere l’annotazione nel suo atto di nascita delle menzioni relative a tali cambiamenti. Più precisamente, veniva eccepito che, ai sensi della normativa rumena applicabile, la menzione relativa al cambiamento di identità di genere di una persona avrebbe potuto essere annotata nell’atto di nascita solo previa approvazione mediante decisione giudiziaria passata in giudicato. Il Tribunale rumeno trovatosi a dirimere la causa a livello nazionale si chiedeva, in sostanza, se una simile condizione fosse compatibile con il diritto UE in materia di cittadinanza dell’Unione. La Corte fa perno sullo status di cittadino dell’Unione e sui diritti di circolazione da esso derivanti, per concludere che vi è incompatibilità tra diritto interno e sovranazionale. Anche se in gioco vi sono competenze nazionali, il rifiuto di riconoscere il nuovo nome e la nuova identità di genere di un cittadino che abbia ottenuto tali modifiche nell’ambito dell’esercizio della sua libertà di circolazione, peraltro nel rispetto delle leggi di un altro Stato membro del quale è cittadino, sarebbe idoneo a limitare la portata dell’art. 21 TFUE. Infatti, se permanessero diversità su questi aspetti potrebbero verosimilmente nascere fraintendimenti ed inconvenienti, poiché per svolgere numerose attività della vita quotidiana, sia in ambito pubblico che privato, è richiesta la prova della propria identità. Non sarebbe conforme al diritto UE nemmeno l’onere di aprire un procedimento giudiziario ad hoc: questa procedura costituirebbe una limitazione al diritto in parola e non vi sarebbero presupposti validi per riconoscerne la necessità e la proporzionalità rispetto al fine da conseguire, per di più in una prospettiva di tutela dei diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalla Carta. Il tutto, a maggior ragione, in considerazione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, che concepisce la tutela dell’identità sessuale di una persona come un elemento costitutivo e uno degli aspetti più intimi della sua vita privata. Infatti, interpretando l’art. 8 CEDU, quei giudici hanno affermato che gli Stati sono tenuti a prevedere un procedimento chiaro e prevedibile di riconoscimento giuridico dell’identità di genere che consenta il cambiamento di sesso, e quindi anche di nome, nei documenti ufficiali, per mezzo di un procedimento rapido, trasparente e accessibile.
Art. 22 TFUE: diritto, a favore del cittadino europeo residente in uno Stato membro diverso da quello di cittadinanza, di appartenere a partiti o movimenti politici nello Stato membro ospitante.
La procedura di infrazione Commissione contro Repubblica Ceca (CGUE, C-808/21, sentenza del 19 novembre 2024) verte sulla conformità o meno al diritto UE di una normativa nazionale che nega ai cittadini europei residenti nel territorio della Repubblica ceca, senza averne la cittadinanza, il diritto di divenire membri di un partito politico o di un movimento politico. Il contrasto portato all’attenzione della Corte (nell’occasione riunita in Grande Sezione) coinvolge l’art. 22 TFUE, che riconosce ai cittadini dell’Unione il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali in uno Stato membro in cui risiedono pur senza averne la cittadinanza e alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. La Corte guarda da subito oltre il testo dell’art. 22 TFUE, che non contiene riferimenti al diritto di appartenere a partiti o movimenti politici. La Grande Sezione annota che il divieto di discriminazione contenuto in questo articolo è espressione del principio generale di uguaglianza. Aggiunge, inoltre, che, sebbene ciascuno Stato membro possa decidere le condizioni che devono essere rispettate dai cittadini di altri Stati membri che risiedano al suo interno e vogliano diventare membri di partiti o movimenti politici a livello nazionale, l’esercizio di tale competenza deve essere realizzato nel rispetto degli obblighi previsti dal diritto dell’Unione. Ne consegue che in un caso di questo genere uno Stato membro non può introdurre una siffatta disparità di trattamento nell’esercizio dei diritti conferiti dall’articolo 22 TFUE, altrimenti sarebbe messo in discussione l’effetto utile del divieto di discriminazione in base alla cittadinanza. La Corte aggiunge che esiste un nesso tra, da un lato, il diritto di libera circolazione e di soggiorno e, dall’altro, il diritto di voto e di eleggibilità dei cittadini dell’Unione residenti in uno Stato membro diverso dal proprio: gli artt. 20, par. 2, 21 e 22 TFUE sono quindi collegati. Lo stesso può dirsi riguardo al rapporto tra quest’ultimo e l’art. 10 TUE, che enuncia il fondamento dell’Unione sulla democrazia rappresentativa e il diritto dei cittadini degli Stati membri di partecipare alla vita democratica dell’UE. E ancora, la Corte richiama la Carta, enfatizzando l’art. 12, par. 1, che riconosce a chiunque il diritto alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico. Oltretutto, dalla giurisprudenza della Corte EDU emerge che il diritto alla libertà di associazione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica e pluralista. Da quanto riassunto consegue che la qualità di membro di un partito o di un movimento politico contribuisce sostanzialmente all’esercizio effettivo del diritto di eleggibilità ex art. 22 TFUE. Perciò, affinché i cittadini dell’Unione residenti in uno Stato membro senza averne la cittadinanza possano esercitare in maniera effettiva il loro diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali e del Parlamento europeo in tale Stato membro, devono poter godere di un pari accesso ai mezzi di cui dispongono i cittadini di detto Stato membro ai fini dell’esercizio effettivo di tali diritti. Ciò detto, anche se il diritto ceco prevede temperamenti rispetto alla discriminazione rilevata dalla Commissione, la sussistenza di questo limite di fondo non potrebbe che comportare un vulnus per i cittadini dell’Unione diversi dai cechi, circa le prospettive di un pari accesso ai mezzi di cui dispongono i cittadini cechi ai fini dell’esercizio effettivo del loro diritto di eleggibilità alle elezioni comunali e del Parlamento europeo. Tale discriminazione non potrebbe essere nemmeno giustificata mediante il ricorso alla clausola dell’identità nazionale sancita all’art. 4, par. 2, TUE, soprattutto perché non sarebbe consentito invocarla contro le norme richiamate sopra, di pari rango rispetto a quest’ultima e, in parte, riconducibili ai valori fondanti dell’Unione.