SOMMARIO.
INGRESSO in ITALIA. Visto d’ingresso per turismo (rischio migratorio - valutazione discrezionale della PA - obbligo di preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. n. 241/90); Visto d’ingresso per motivi di lavoro subordinato (tutela cautelare ai fini del riesame; errori riconoscibili dalla PA - obbligo di preavviso ex art. 10-bis l. n. 241/90; ricorsi proposti dal datore di lavoro - difetto di legittimazione); Visto d’ingresso per motivi di studio (rischio migratorio - obbligo di contraddittorio ex art. 10-bis l. n. 241/90 - omissione non sanabile in giudizio; il concetto di “coerenza” degli studi nel Paese di origine con quelli in Italia - lo svolgimento dei colloqui in Ambasciata - valutazione complessiva e non parziale).
SOGGIORNO. Class action (regolarizzazione 2020 - ritardi nella definizione del procedimento - illegittimità); Permesso di soggiorno (richiesta del permesso - termine di inizio del procedimento; periodo di validità del permesso - termine iniziale); Permesso di soggiorno per cure mediche e sua convertibilità in lavoro (equiparazione con la protezione speciale - applicazione diritto intertemporale ex art. 7 d.l. n. 20/2023); Permesso per residenza elettiva (requisiti sostanziali - non necessario previo visto d’ingresso specifico); Permesso UE di lungo soggiorno (periodi di assenza dal territorio nazionale - diritto alla giustificazione)
INGRESSO in ITALIA
Visto d’ingresso per motivi di turismo
Il visto d’ingresso per turismo è finalizzato a un ingresso e a un correlato soggiorno per motivi temporanei, dovuti a turismo classico o per visita a familiari o amici, oppure per esigenze comunque temporanee. Esso non ha una disciplina che stabilisca tassativi presupposti e requisiti, tanto che la normativa di riferimento si rinviene nel Regolamento UE n. 810/2009 (Codice Visti) e suoi allegati, nonché nel decreto ministeriale 11.5.2011 del Ministero per gli affari esteri e suoi allegati. Disposizioni che consentono un’ampia discrezionalità della PA finalizzata, di fatto, alla valutazione del cd. rischio migratorio, ovvero della probabilità che alla scadenza del termine del visto la persona straniera non faccia rientro nel Paese di appartenenza e rimanga, invece, in condizione irregolare nel Paese dell’Unione europea che ha rilasciato il visto cd. Schengen o in altri. L’ampia discrezionalità sottesa ai visti cd. Schengen trova una declinazione anche nelle garanzie ad essi collegate, tant’è che l’art. 4, co. 2 TU immigrazione, d.lgs. 286/98, prevede una deroga all’obbligo di motivazione che deve assistere tutti i provvedimenti amministrativi, stabilendo, per l’appunto, che «In deroga a quanto stabilito dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, per motivi di sicurezza o di ordine pubblico il diniego non deve essere motivato, salvo quando riguarda le domande di visto presentate ai sensi degli articoli 22, 24, 26, 27, 28, 29, 36 e 39». In disparte ogni considerazione sulla portata di detta deroga (se è limitata alle ragioni di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato e cosa si intenda per essi), è comunque chiaro che legittima la possibilità per la PA, e dunque nello specifico per le Ambasciate, di negare il visto per turismo con motivazioni di fatto assenti o stereotipate che rimandano genericamente al concetto di “rischio migratorio”. Evidente, tuttavia, che la persona straniera richiedente il visto non può conoscere le effettive ragioni del diniego, ciò che incide anche sul suo diritto di difesa.
Occorre tuttavia specificare che, seppur la giurisprudenza amministrativa ritiene, in linea di massima, legittima detta previsione derogatoria del TU immigrazione, tuttavia ritiene che, quantomeno in sede giurisdizionale, la PA non possa esimersi dal fornire le opportune spiegazioni legittimanti il provvedimento adottato a seguito dell’istanza di parte. Ciò è ribadito, ad esempio, da Tar Lazio, sentenza n. 11895/24 del 12.6.2024, che richiama un proprio orientamento giurisprudenziale (sentenze n. 9682/2016, nn. 1397 e 6421 del 2018 e n. 10072/2019).
Un’ulteriore parziale, ma importante, mitigazione di tale rigida interpretazione dell’art. 4, co. 2, TU d.lgs. 286/98 è stata di recente affermata dal Tar Lazio, sede di Roma, sentenza n. 15959/2024, RG. 15235/2023, che ha annullato un provvedimento di diniego di visto per turismo non previamente preceduto dalla comunicazione di preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis l. n. 241/90. Dopo avere ricordato la valenza giuridica del preavviso di rigetto – garantire il contraddittorio tra il privato e la PA consentendo a quest’ultima di ponderare tutti gli interessi in campo (Cons. St., sent. n. 6743/2021) –, il Tar romano afferma, sostanzialmente, che il potere discrezionale utilizzato dall’Amministrazione dello Stato nel valutare il rischio migratorio non elimina il dovere di consentire il previo contraddittorio con il privato previsto dall’art. 10-bis legge sul procedimento amministrativo. Precisa, altresì, che «il mancato rispetto dell’obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, imposto dall’art. 10-bis della legge n. 241/1990, determina l’annullamento del provvedimento discrezionale senza che sia consentito all’amministrazione dimostrare in giudizio che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso da quello in concreto adottato (in tal senso, cfr. ex multis Cons. St., sez. III, sent. n. 6743/2021, cit.)» e ciò in applicazione di quanto stabilito dall’art. 21-octies, co. 2 legge n. 241/90. Violazione, dunque, del legittimo contraddittorio che non è sanabile.
Visto d’ingresso per motivi di lavoro subordinato
Non è insolito che, a seguito di domanda e conseguente rilascio di nulla osta in favore del datore di lavoro per l’ingresso di lavoratori stranieri sulla base dei “decreti flussi” emanati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, si incorra nel rigetto del visto di ingresso in Italia del lavoratore da parte della competente Autorità consolare. Impugnati tali provvedimenti amministrativi innanzi al competente Tar del Lazio la tutela cautelare è nella maggior parte dei casi negata sulla base della seguente motivazione: «la eventuale sospensione dell’impugnato provvedimento di diniego non risulterebbe comunque suscettibile di determinare l’ingresso della parte ricorrente sul territorio nazionale, venendo in rilievo, nel caso di specie, una utilità collegata all’esercizio di un potere amministrativo di carattere discrezionale» (così, ex multis, Tar Lazio, Roma, ord. n. 4096/24 del 7.9.2024 e, precedentemente nei medesimi termini, Tar Lazio, sent. n. 2258/2023 e ordinanze n. 64/2024, n. 8309/2023, n. 5417/.2023, n. 1465/2023 e n. 1447/2023). La questione, non di poco conto, è stata affrontata dalla giurisprudenza ora richiamata in termini tali da rendere non effettivo il ricorso alla tutela cautelare, in quanto oblitera la possibilità (concessa dall’ordinamento) di una pronuncia di accoglimento dell’istanza cautelare anche solo al fine del riesame dell’atto da parte della PA competente. A seguito della decisione del Consiglio di Stato, sez. III, ord. 3678 del 4.10.2024 tale consolidato orientamento potrà tuttavia essere rivisto in base alla considerazione giurisdizionale per cui «sussistono i presupposti per l’accoglimento dell’istanza ai fini di un riesame da parte dell’Amministrazione (configurandosi questa misura come ammissibile sul piano processuale e satisfattiva dell’interesse azionato)». Si sottolinea che, nella medesima pronuncia cautelare, il Consiglio di Stato riconosce altresì l’incompetenza dell’Ambasciata in materia di valutazione della capacità economica e solvibilità dei datori di lavoro nelle procedure di flussi, valutazione che può essere operata solo dallo Sportello unico immigrazione a monte del rilascio del nulla osta.
Deve, invece, prendersi atto dell’imperante orientamento, ad oggi, della giurisprudenza amministrativa, come evincibile anche da Tar Lazio, sentenza n. 15819/24, in tema di inammissibilità (per carenza di legittimazione attiva) dei ricorsi volti alla censura del diniego del visto di ingresso per motivi di lavoro proposti dai datori di lavoro e non (almeno anche) dei lavoratori stranieri. Secondo tale orientamento «il titolare dell’autorizzazione ad assumere uno straniero con contratto di lavoro subordinato è privo della legittimazione a impugnare il diniego del visto d’ingresso, tenuto conto della funzione tipica di quest’ultimo provvedimento, che è quella di consentire al richiedente straniero l’ingresso (altrimenti precluso) nel territorio nazionale, e dunque della lesività diretta del diniego nei confronti del richiedente medesimo, non essendo ammissibile, nella fattispecie, una sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c.».
Sul punto è auspicabile una pronuncia chiarificatrice del Consiglio di Stato (che, per quanto noto, non è mai stato investito della relativa questione), tenuto conto della concreta possibilità di ipotizzare la lesione diretta dell’interesse datoriale alla corretta organizzazione dell’impresa e dell’esercizio della relativa libertà d’impresa costituzionalmente garantita (art. 41 Cost.), oltre che la circostanza per la quale tutto il procedimento di ingresso dei lavoratori stranieri in Italia sulla base dei decreti flussi origina da un’istanza di parte datoriale, dunque del dubbio riferimento della giurisprudenza di merito su richiamata all’art. 81 c.p.c.
Si segnala, infine, Tar Lazio, sentenza n. 15131/24, che sottolinea che la presenza di un errore perfettamente conoscibile all’Amministrazione e, peraltro, frutto dell’errore di altra Amministrazione (nel caso di specie l’inversione, da parte dello Sportello unico immigrazione presso la prefettura, tra il nome e il cognome del richiedente un visto di ingresso per motivi di lavoro subordinato), deve comportare un supplemento istruttorio, specie sulla base delle argomentazioni prodotte ai sensi dell’art. 10-bis l. 241/90. Infatti, «L’omissione di tale elementare incombente istruttorio», è il dictum giudiziale, «non può non viziare il contestato provvedimento di diniego» con conseguente suo annullamento.
Visto di ingresso per motivi di studio
Il Tar Lazio, sentenza n. 14283/24, coglie l’occasione per ribadire che, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, derivante dalla valutazione inerente alla sussistenza del “rischio migratorio”, posto nel caso specifico sostanzialmente a fondamento del diniego dell’istanza formulata dal richiedente il rilascio del visto di ingresso, devono trovare piena applicazione i principi generali espressi dalla giurisprudenza amministrativa in ogni procedimento ad istanza di parte, «per cui la comunicazione del preavviso di rigetto deve necessariamente precedere l’adozione del provvedimento di rigetto da parte dell’amministrazione, pena la lesione delle garanzie partecipative che la legge riconosce al privato in sede procedimentale». La mancanza di tale preavviso determina il correlato effetto in termini di annullabilità del provvedimento finale adottato sulla base dell’art. 21-octies, co. 2, della medesima legge n. 241/1990 il quale osta all’applicazione del meccanismo di non annullabilità di cui al medesimo articolo per il caso di violazione dell’articolo 10-bis l. 241/90 «senza che sia consentito all’amministrazione dimostrare in giudizio che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso da quello in concreto adottato».
Sempre in materia di visto per motivo di studio, ma in questo caso relativo ai corsi della formazione superiore in Italia, il Tar Lazio, sentenza n. 13875/24 offre una breve ricostruzione della normativa rilevante in materia, nonché del significato da darsi al concetto di “coerenza” del percorso di studio che si vuole intraprendere in Italia rispetto al precedente nel Paese di origine del richiedente (ai sensi, in particolare, dell’art. 44-bis, co. 2, lett. a), d.p.r. n. 394/1999). La pronuncia sottolinea aspetti rilevanti anche nella gestione ed analisi del procedimento amministrativo, connotato dalla valutazione della Amministrazione che, sul punto, si fonda essenzialmente sugli esiti del colloquio personale con il richiedente tenutosi presso la sede dell’Ambasciata la cui verbalizzazione, tuttavia, non è allegata al processo ma solo richiamata parzialmente in una relazione dell’Ambasciata stessa.
Nel censurare la decisione in quanto carente di motivazione, il Collegio amministrativo afferma che tali “richiami” non possono assumere rilievo nel processo se non precedentemente riportati nel diniego del visto di ingresso, in quanto ciò costituirebbe una postuma motivazione dell’atto amministrativo. In questi termini, sul punto, la citata decisione: «non costituiscono una mera esplicitazione in maggior dettaglio delle ragioni, come esternate nel corpo del gravato provvedimento finale (unitamente ai connessi atti procedimentali, per la corrispondente parte), poste alla base del censurato diniego: una ipotetica presa in considerazione degli elementi stessi allo scopo di valutare la legittimità del gravato provvedimento di diniego, in assenza - come nel caso di specie - di un richiamo ai predetti elementi nel testo del provvedimento medesimo (con il corredo documentale inerente alle risultanze della compiuta intervista all’interessato), contrasterebbe con il divieto di motivazione postuma, in sede giudiziale, degli atti amministrativi».
Precisa, altresì, il Tar che la valutazione del cd. “rischio migratorio” deve fondarsi su un esame complessivo degli elementi forniti dal richiedente il visto, senza limitarsi al solo colloquio in Ambasciata, di cui comunque l’Amministrazione non ha fornito copia.
IL SOGGIORNO
Class action per il ritardo nella definizione delle procedure di regolarizzazione
Si da seguito alla Rassegna in questa Rivista n. 1.2024 per segnalare che il Consiglio di Stato, sentenza n. 7704/24 del 20.9.2024, ha stabilito principi rilevanti in materia di procedimento di regolarizzazione dei lavoratori stranieri di cui all’art. 103, d.l. n. 34/2020, conv. con mod. in l. n. 77/2020.
La pronuncia del Giudice amministrativo d’appello origina dall’incardinamento – da parte di diversi soggetti che hanno fatto ricorso alla speciale procedura di regolarizzazione 2020, e da alcune associazioni rappresentative – della speciale azione disciplinata dagli artt. 1 ss. d.lgs. 198/2009, finalizzata a «ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio» nell’ipotesi in cui ai suoi promotori «derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, dalla violazione di termini…». I ricorrenti, lamentavano, in particolare, che dopo oltre due anni dalla presentazione della domanda di regolarizzazione e pur essendo ormai ampiamente spirato il termine di 180 giorni individuato dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sentenze n. 3578/2022 e n. 3645/2022) per la conclusione del relativo procedimento, i procedimenti amministrativi fossero ancora pendenti e non definiti. A seguito della sentenza n. 2949 del 4.12.2023 del Tar Lombardia (già oggetto di segnalazione in questa Rivista, n. 1.2024) di accoglimento della domanda attorea, i Ministeri chiamati in giudizio avevano proposto appello innanzi al Consiglio di Stato per chiederne la riforma. La pronuncia dell’Alto Consesso amministrativo, confermativa della sentenza di primo grado, ha il pregio di affrontare con dovizia di motivazione numerosi e interessanti aspetti della speciale procedura azionata, sottolineando che «la connotazione dell’azione collettiva de qua è chiaramente ispirata ad una logica di carattere strumentale, cui è estranea la considerazione dell’interesse sostanziale finale sul quale l’incide l’azione amministrativa: essa, infatti, si propone di correggere quest’ultima laddove si discosti dai canoni di efficienza e tempestività che devono caratterizzarne lo svolgimento, quale derivato dei principi di imparzialità e buon andamento ex art. 97 Cost., in primo luogo in ragione della “violazione dei termini” che presiedono alla tempestiva definizione del procedimento amministrativo, che della funzione pubblica è lo strumento attuativo». Specifica, inoltre, che «L’azione predetta, quindi, non è preordinata alla tutela dell’interesse del singolo promotore del procedimento alla tempestiva definizione dello stesso, ma dell’interesse, comune a tutti i soggetti coinvolti in analoghe procedure amministrative e, per questo, diffuso nel relativo ambito comunitario o categoriale, alla correzione di una distorsione propria della “funzione” (che nel singolo procedimento si estrinseca ma che in esso non si esaurisce): interesse che, proprio perché assume carattere omogeneo, indipendentemente dal numero e dalla specifica posizione procedimentale dei soggetti che ne sono portatori, è legittimamente azionato dalle relative associazioni rappresentative».
Superati anche gli altri profili di censura sollevati da parte appellante e relativi all’esame dei profili di ammissibilità dell’azione, è sottolineato che il rimedio de quo ha funzione lato sensu sanzionatoria di condotte violative di obblighi di azione derivanti dalla legge o stabiliti in applicazione della stessa, nonché correttiva delle modalità di regolare svolgimento della funzione o del servizio pubblico.
All’esito dell’esame delle “giustificazioni” fornite dall’Amministrazione in ordine alla ritardata conclusione dei procedimenti amministrativi e trovando le stesse non pertinenti e/o valide, il Consiglio di Stato afferma che esse «non dimostrano che la tempestiva introduzione di misure organizzative e gestionali ad hoc, nel quadro delle risorse appositamente stanziate, non avrebbe evitato, o quantomeno ricondotto entro confini fisiologici e quindi tollerabili, i ritardi verificatisi, con il carattere di generalità evidenziato dalla sentenza appellata» e, conclusivamente, conferma la sentenza di primo grado e la già accertata inefficienza dell’Amministrazione nel definire i procedimenti amministrativi.
Permesso di soggiorno. I termini procedimentali
La richiesta di rilascio e/o rinnovo del permesso di soggiorno fa iniziare il procedimento amministrativo a istanza di parte in base alla ordinaria normativa (art. 2, l. 241/90). I termini di conclusione del procedimento amministrativo sono determinati o dalla legislazione speciale con riferimento a specifici titoli di soggiorno o, in mancanza, dalla medesima l. 241/90. È consueta prassi dell’Amministrazione ritardare notevolmente i tempi di rilascio e/o rinnovo dei permessi di soggiorno e, in taluni casi, la tesi dell’Amministrazione è che il dies a quo del termine di conclusione del procedimento decorrerebbe (non dal giorno di presentazione della domanda amministrativa, bensì) dal giorno della presentazione presso l’Ufficio per le procedure di foto-segnalamento e verifica dell’istanza. Tesi, quest’ultima, che ha trovato riscontro in un unico e isolato provvedimento giurisprudenziale (Tar Campania, Salerno, sentenza n. 1307/2023). Il Tar Veneto, sentenza n. 829/24 del 30.4.2024, nel criticare motivatamente tale lettura, ha escluso la possibilità di derogare ai principi di cui all’art. 2, l. 241/90 e afferma: «Resta la circostanza per cui il momento della presentazione della domanda e quello della convocazione presso la Questura per l’effettuazione dei rilievi foto dattiloscopici sono fasi procedurali distinte presupponendo quest’ultima la prima, non essendo, infatti, ipotizzabile una convocazione che non sia preceduta da un’istanza. Diversamente opinando, del resto, si consentirebbe alla Questura, una volta ricevuta la domanda, di individuare a piacere il momento di conclusione del procedimento, modulando nel tempo le convocazioni per i rilievi fotodattiloscopici, circostanza che, oltre ad introdurre un termine di incertezza relativamente all’inizio, a tutto discapito dell’utenza, rischia di dilatare i termini di definizione delle vertenze, in antitesi con il principio di buon andamento che governa l’agire amministrativo (art. 97 Cost.)».
Sotto altro punto di vista è di notevole interesse la pronuncia del Tar Lazio, sentenza n. 15448/2024, il quale stigmatizza la prassi troppe volte invalsa nell’Amministrazione dell’interno secondo la quale il permesso di soggiorno avrebbe validità dal momento della sua richiesta e non dal momento della sua effettiva consegna alla parte. Tale prassi comporta, dati i lunghi tempi dell’Amministrazione, che allorquando il permesso di soggiorno viene consegnato è prossimo alla sua scadenza. In tale modo è frustrata l’esigenza della parte di potere usufruire del titolo di soggiorno per la durata prevista dalla legge o da un ordine del giudice e, d’altro lato, si verifica una seria compromissione delle capacità organizzative delle questure (le quali, di fatto, si trovano a dovere prendere in carico una nuova richiesta di rilascio/rinnovo del titolo di soggiorno che viene consegnato oramai alla sua scadenza nominale). Il Tribunale amministrativo evidenzia che «il fatto che il permesso di soggiorno rilasciato avrebbe validità dalla data di presentazione della formalizzazione della relativa domanda (…) non trova riscontro in alcun puntuale richiamo normativo».
Ne consegue che la durata del permesso di soggiorno deve decorrere dal momento della possibilità della parte di riceverlo.
Permesso di soggiorno per cure mediche. Conversione in motivi di lavoro
La riforma 2023 del diritto dell’immigrazione e dell’asilo (d.l. n. 20/2023 e sua legge di conversione n. 50/2023) ha posto nuovamente la questione della convertibilità del permesso di soggiorno da motivi di cure mediche in motivi di lavoro, che invece la riforma 2020 (d.l. n. 130/2020, come convertito in l. n. 173/2020) aveva risolto prevedendone espressamente il diritto (art. 6, co. 1-bis, lett. h-bis, d.lgs. 286/98). Infatti, la legge n. 50/2023, di conversione del d.l. n. 20/2023, ha abrogato, tra le altre ipotesi, proprio la norma che permetteva la convertibilità in un permesso per motivo di lavoro anche del permesso ora in esame. In disparte ogni considerazione su profili di illegittimità costituzionale che tale abrogazione può indurre, una delle questioni che si è posta all’attenzione della magistratura è stata quella relativa al regime intertemporale previsto dall’art. 7 d.l. 20/2023 nel testo risultante dalla legge di conversione (l’abrogazione, infatti, è stata disposta con la legge n. 50/2023). Nella precedente rassegna della Rivista n. 2.2023 si è dato conto della prevalente giurisprudenza amministrativa che nega la convertibilità in applicazione del principio tempus regit actum, con la conseguenza che le sole domande di conversione del titolo di soggiorno per cure mediche in lavoro presentate prima del 6 maggio 2023 (data di entrata in vigore della legge n. 50) possano trovare accoglimento, mentre quelle successive no.
A detto filone giurisprudenziale si aggiunge anche Tar Emilia Romagna, sede di Parma, sentenza n. 201/2024, che espressamente nega l’equiparazione tra protezione speciale e permesso per cure mediche e dunque l’applicazione di analogo diritto intertemporale come era richiesto nel ricorso.
Di segno contrato, tuttavia, si pone Consiglio di Stato, ordinanza n. 3747/2024 che, pur nella cognizione sommaria della fase cautelare ma con pronuncia di rilevante importanza, afferma principi di primario interesse in materia. Il caso oggetto di giudizio riguardava un richiedente asilo al quale la Commissione territoriale aveva riconosciuto, nel 2022, il permesso per cure mediche ex art. 32, co. 3.1, d.lgs. 25/2008, successivamente rinnovato e con richiesta di conversione presentata per la prima volta nel luglio 2023 (dunque successivamente alla riforma attuata con la legge n. 50/2023).
Nel sospendere la decisione impugnata, il Consiglio di Stato motiva ricomprendendo, sostanzialmente, il permesso per cure mediche nell’alveo della protezione internazionale. Il Supremo consesso amministrativo richiama la propria giurisprudenza in materia di conversione del permesso per protezione speciale in lavoro, secondo cui l’art. 7, co. 2 d.l. n. 20/2023 «… ha posto come sbarramento temporale, ai fini della convertibilità del titolo, unicamente quello della data di presentazione dell’istanza di protezione speciale, e non altri, sicché il dato letterale del citato comma 2 non consente di inserire una ulteriore condizione ostativa (implicita), limitativa di un così rilevante diritto» (Cons. St., ord. n. 3313/2024). Interpretazione che, ad avviso dell’Alto Consesso, pare essere stata fatta propria anche dalla circolare del Ministero dell’interno del 24.5.2024 con allegato parere dell’Avvocatura di Stato.
La conclusione a cui giunge il Consiglio di Stato è che «il permesso per protezione internazionale ed il permesso per cure mediche hanno - per espressa previsione contenuta nella rubrica del citato art. 7 del d. l. 20/2023 - il medesimo regime di conversione».
Affermazione importantissima perché esclude, di fatto, trattamenti discriminatori tra diritti fondamentali. Interpretazione rispetto alla quale si stava orientando anche parte della giurisprudenza di merito (Tar Toscana, ord. 582/2024).
Permesso di soggiorno per residenza elettiva
Il permesso di soggiorno per residenza elettiva è disciplinato dall’art. 11, lett. c-quater, d.p.r. 394/1999 e dal d.m. 11.5.2011 allegato A punto n. 13. Nell’interpretazione consueta di tale normativa da parte dell’Amministrazione si afferma che per potere ottenere il rilascio di tale specifico titolo di soggiorno il cittadino di Stato terzo dovrebbe sempre munirsi precedentemente all’ingresso nel territorio nazionale del relativo visto di ingresso. Interpretazione non conforme alla ratio legis già in base alla giurisprudenza segnalata in questa Rivista n. 1.2024. Il Tar Lazio, sentenza n. 13243/24, differentemente, afferma che, proprio dal combinato disposto dell’art. 11 d.p.r. 394/99 e dell’allegato A n. 13 del d.m. 11 maggio 2011, si evince che «il visto per residenza elettiva, e il relativo permesso di soggiorno, sono rilasciati a coloro i quali siano in grado di mantenersi autonomamente, senza esercitare alcuna attività lavorativa». Resta fermo, come precisa il Tar, che «lo straniero dovrà fornire adeguate e documentate garanzie circa la disponibilità di un’abitazione da eleggere a residenza, e di ampie risorse economiche autonome, stabili e regolari, di cui si possa ragionevolmente supporre la continuità nel futuro. Tali risorse, comunque non inferiori al triplo dell’importo annuo previsto dalla tabella A allegata alla direttiva del Ministro dell’interno del 1 marzo 2000, recante definizione dei mezzi di sussistenza per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato, dovranno provenire dalla titolarità di cospicue rendite (pensioni, vitalizi), dal possesso di proprietà immobiliari, dalla titolarità di stabili attività economico-commerciali oda altre fonti diverse dal lavoro subordinato». Dunque, l’Amministrazione procedente avrebbe dovuto valutare se il ricorrente era in possesso di adeguati mezzi di sussistenza, a prescindere dal visto di ingresso, la cui mancanza era già supplita nella specie dal citato documento di identità rilasciato dal Ministero degli affari esteri (cfr. per un caso analogo, Tar Piemonte, sent. n. 687/2023).
Permesso di soggiorno UE per soggiornate di lungo periodo
L’art. 9, co. 7, lett. d), TU d.lgs. 286/1998 dispone che «il permesso di soggiorno di cui al comma 1 [ndr: il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo] è revocato (...) d) in caso di assenza dal territorio dell’Unione per un periodo di dodici mesi consecutivi». Già in passato la giurisprudenza amministrativa (cfr. Tar Lombardia, sentenza n. 1109/2021 e, più recentemente, Tar Veneto, sentenza n. 455/2024) aveva sottolineato che – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dal principio di eguaglianza sostanziale e dell’interpretazione informata alla logica inclusiva che caratterizza lo statuto dello straniero, nonché l’inammissibilità di automatismi ostativi, ove vengano in rilievo i diritti fondamentali dell’uomo – si impone sempre di consentire alla persona straniera di potere giustificare l’assenza prolungata dal territorio nazionale e, ciò, anche in ipotesi di revoca del permesso di soggiorno di cui si discute. Tale orientamento è stato da ultimo ribadito da Tar Lazio, sentenza n. 14024/24, con conseguente annullamento del provvedimento di revoca del permesso di soggiorno UE di lungo periodo.