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Fascicolo 1, Marzo 2018


«Tutti chiedono la stessa cosa. Dove andiamo? Per me non andiamo mai da nessuna parte. Siamo sempre in viaggio. Sempre in cammino. Perché a questa cosa non ci pensa nessuno? Oggi tutto si sposta. La gente si sposta. Sappiamo perché e sappiamo come. La gente si sposta perché lo deve fare. Ecco perché la gente si sposta. Si sposta perché vuole qualcosa di meglio. E quello è l’unico modo per trovarselo».

 (John Steinbeck, Furore, Bompiani ˗ Tascabili ˗, 2013, tr. Sergio Claudio Perroni)

Rassegna di giurisprudenza europea

Corte europea dei diritti umani (a cura di Marco Balboni e Carmelo Danisi) 

Artt. 2 e 3: Diritto alla vita e divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti
Gli artt. 2 e 3 sono venuti in considerazione sotto un duplice aspetto.
      a) Obblighi procedurali derivanti da tali disposizioni.....
 
Corte di giustizia dell'Unione europea (a cura di Marco Borraccetti e Federico Ferri)
Regolamento Dublino III: accoglienza e limiti al trattenimento
Il caso Khir Amayry (CGUE, 13.9.2017, C-60-16) ha avuto ad oggetto il trattenimento di un richiedente asilo....
 
Corte europea dei diritti umani (a cura di Marco Balboni e Carmelo Danisi)
Corte di giustizia dell'Unione europea (a cura di Marco Borraccetti e Federico Ferri) 
 
 
Artt. 2 e 3: Diritto alla vita e divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti
Gli artt. 2 e 3 sono venuti in considerazione sotto un duplice aspetto.
      a) Obblighi procedurali derivanti da tali disposizioni
Il caso Ranđelović e altri c. Montenegro (Corte EDU, sentenza del 19.09.2017) riguarda la sparizione o la morte dei familiari dei ricorrenti, tutti di origine Rom, che nell’agosto del 1999 erano stati coinvolti in un naufragio nel tentativo di raggiungere l’Italia. Solo alcuni corpi venivano ritrovati, la cui identificazione appariva problematica. Dopo più di quindici anni, tutti i procedimenti avviati si concludevano senza far luce sull’accaduto per mancanza di prove. Chiamata a valutare se le autorità montenegrine abbiano intrapreso tutte le misure necessarie per accertare gli eventuali responsabili della morte e/o della sparizione dei familiari dei ricorrenti, la Corte Edu si sofferma sulla presunta violazione del profilo procedurale del diritto alla vita, protetto dall’art. 2 Cedu. A tal proposito, essa ricorda come tale diritto imponga agli Stati parte di attivarsi in tempi rapidi per garantire indagini effettive tanto nel caso in cui la responsabilità di una morte o di una sparizione sia attribuibile a propri agenti quanto nel caso in cui essa ricada su soggetti privati. Pur non trattandosi di un obbligo di risultato, nel senso di giungere necessariamente all’identificazione e alla condanna dei responsabili, gli Stati parte devono dimostrare una particolare diligenza nell’acquisizione delle prove poiché ritardi non giustificati possono compromettere l’applicazione delle disposizioni di legge interne a tutela del diritto alla vita (cfr. Corte Edu, 12.07.2016, Mučibabić c. Serbia). Nel caso in esame, per quanto le autorità montenegrine abbiano avviato le indagini subito dopo il naufragio, effettuando le autopsie e identificando alcune persone sospettate di essere coinvolte nei fatti, la Corte nota serie lacune procedurali, come l’aver impiegato un periodo di tre anni per notificare l’accusa a un indagato, che hanno compromesso irreparabilmente la ricostruzione degli eventi e sollevano dubbi sulla buona fede degli investigatori. In assenza di adeguate giustificazioni per tali lacune, vi è stata pertanto una violazione dell’art. 2 Cedu letto sotto il profilo procedurale.
In Cessay c. Austria (Corte EDU, sentenza del 16.11.2017) la Corte è chiamata a valutare la presunta violazione degli obblighi procedurali nel caso della morte di un cittadino del Gambia, fratello del ricorrente, avvenuta durante il trattenimento in vista dell’allontanamento. Mentre secondo lo Stato convenuto il decesso era avvenuto per una particolare condizione genetica che, nella situazione di stress dovuta allo sciopero della fame, aveva provocato un arresto cardiaco, secondo il ricorrente, il fratello godeva di buona salute con la conseguenza che sarebbero state le negligenze delle autorità austriache nella gestione dello sciopero a determinarne la morte, cui non sarebbero seguite indagini effettive. Per quanto riguarda l’art. 2, letto sotto il profilo procedurale, la Corte ricorda come gli Stati parte debbano garantire una particolare tutela alle persone private della libertà in ragione della loro vulnerabilità, fornire adeguate spiegazioni in caso di morte e avviare indagini effettive e indipendenti che tengano conto di tutti gli elementi rilevanti. Ora, secondo la Corte, tali obblighi sono stati osservati nel caso di specie, come dimostrano l’avvenuto ascolto di tutti i testimoni, la possibilità del fratello di intervenire nell’ambito del procedimento amministrativo proponendo proprie perizie e la spiegazione fornita dalle autorità competenti, con la conseguenza che non vi è stata violazione dell’art. 2 Cedu. Per quanto riguarda la compatibilità dei trattamenti riservati con l’art. 3, la Corte nota come le autorità austriache abbiano fatto tutto il possibile per far comprendere al fratello del ricorrente le conseguenze delle sue azioni e per monitorarne quotidianamente lo stato di salute, garantendo anche l’accesso a cure ospedaliere. Non essendo a conoscenza della sua malformazione genetica e non avendo notato, in alcun momento, segnali da cui si poteva dedurre un rapido deterioramento delle condizioni di salute, le autorità competenti non hanno esposto l’interessato a trattamenti contrari all’art. 3 Cedu.
       b) Allontanamento
Il caso A. c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 19.12.2017) riguarda un richiedente asilo iraniano che, dopo il rigetto della domanda di protezione internazionale basata su motivi politici, si convertiva al cristianesimo, richiedendo alle autorità svizzere di riconsiderare la domanda di protezione sulla base di motivi religiosi. Anche tale nuova domanda veniva rigettata poiché, a prescindere dalla sua credibilità, per le autorità interne, il governo iraniano non era probabilmente a conoscenza della storia personale del richiedente visto il suo basso profilo politico. La Corte Edu si sofferma sull’esame condotto dallo Stato convenuto in merito alle conseguenze della conversione al cristianesimo e sull’ascolto diretto del richiedente riguardo le modalità con cui intendeva manifestare la nuova fede (in modo diverso, Corte Edu, Grande Camera, 23.03.2016, F.G. c. Svezia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017). Condividendo le argomentazioni generali circa l’assenza di rischi di maltrattamenti in Iran per coloro che hanno abbracciato una nuova fede, se non in casi limitati, la Corte nota in particolare come la manifestazione pubblica della nuova fede non assuma un’importanza centrale per il richiedente restringendo ulteriormente la possibilità che, nel suo Paese di origine, possa subire persecuzioni a essa connesse (in modo diverso, CGUE, 5.09.2012, Bundesrepublik Deutschland c. Y e Z, C-71/11 e C-99/11, in questa Rivista, XIV, n. 4, 2012, p. 122). Pertanto, nel caso del sig. A., l’allontanamento non darebbe luogo a una violazione degli artt. 2 e 3 Cedu.
Il caso D.L. c. Austria (Corte EDU, sentenza del 7.12.2017) è relativo a un cittadino serbo soggetto a estradizione in Kosovo per il presunto coinvolgimento nell’omicidio del sig. Lu. Dinanzi la Corte Edu, il richiedente lamenta che, in caso di esecuzione del provvedimento di estradizione, non sussisterebbe solamente il rischio di subire maltrattamenti contrari all’art. 3 Cedu per le condizioni di detenzione delle prigioni kosovare, ma anche il concreto pericolo di essere ucciso per vendetta dal clan cui era affiliato il sig. Lu. La Corte Edu ricorda che, se non esiste nella Convenzione un diritto a non essere estradato, gli Stati parte non possono dare esecuzione a un provvedimento di estradizione se le conseguenze per l’estradando siano incompatibili con gli obblighi derivanti dalla Convenzione. Ciò vale anche quando i pericoli derivano da agenti non statali, qualora si dimostri che tali rischi siano reali e le autorità dello Stato di destinazione non siano in grado di offrire adeguata protezione (Corte EDU, Grande Camera, 23.08.2016, J.K. e altri c. Svezia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017). Secondo la Corte, nel caso di specie, il rischio di essere vittima di una faida tra clan non è stato sufficientemente dimostrato e non risulta, peraltro, in linea con i dati sulle violenze nel Paese disponibili a livello internazionale. In ogni caso, il ricorrente verrebbe detenuto e non vi sono prove che il personale penitenziario kosovaro sia così corrotto da permettere ai clan di eseguire le loro vendette all’interno delle prigioni o che il sistema kosovaro nel suo insieme non sia in grado di tutelare il ricorrente in caso di minacce di morte. Venendo alle condizioni di detenzione, la Corte Edu presta particolare attenzione all’assenza di precedenti abusi da parte di agenti kosovari nei confronti del ricorrente e ai risultati delle visite condotte nel 2015 negli istituti penitenziari kosovari dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT), in base ai quali non esistono livelli preoccupanti di violenza. Pertanto, l’estradizione del sig. D.L. non darebbe luogo a una violazione degli artt. 2 e 3 Cedu.
 
Art. 3: Divieto di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti
Nel periodo in esame, l’art. 3 Cedu è venuto in considerazione sotto un duplice aspetto.
      a) Allontanamento
Il caso K.I. c. Russia (Corte Edu, sentenza del 7.11.2017) riguarda una persona detenuta in Russia in vista del suo allontanamento verso il Tajikistan, ove era stato processato per il presunto coinvolgimento in un movimento estremista religioso (cd. Islamic Movement of Uzbekistan). La Corte Edu ricorda, innanzitutto, come numerosi rapporti internazionali denuncino il frequente ricorso in Tajikistan a torture e altri maltrattamenti da parte degli agenti statali nei confronti di coloro che vengono condannati per motivi politici o religiosi (ad esempio, Consiglio dei diritti umani, Report of the Working Group on the Universal Periodic Review, 2016, A/HRC/33/11; Amnesty International, Tajikistan: A year of secrecy, growing fears and deepening injustice, 2017). Ciò rende il ricorrente un soggetto vulnerabile correndo il serio rischio di subire trattamenti vietati dalla Convenzione. Poichè le autorità russe non hanno tenuto conto di tale aspetto, pur essendo a conoscenza delle circostanze sopra indicate, l’allontanamento darebbe luogo a una violazione dell’art. 3 Cedu. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 5, par. 4, Cedu, relativo al diritto di ricorso avverso la legalità del trattenimento, poichè i ricorsi avviati dal ricorrente si erano conclusi con particolare ritardo (rispettivamente, 49 e 79 giorni), non essendo possibile accogliere la giustificazione fornita dal Governo russo basata sulla mancata consegna da parte dell’agenzia di traduzione di documenti rilevanti per i procedimenti. Infatti, anche in caso di attribuzione di servizi a terzi, gli Stati parte devono dare prova di particolare diligenza quando si tratta di persone private della libertà personale.
La Corte Edu giunge alle medesime conclusioni in T.M. e altri c. Russia (Corte Edu, sentenza del 7.11.2017), relativo a sei cittadini uzbechi che, nel loro Paese di origine, sono stati condannati per motivi politici o religiosi. Infatti, anche in questo caso le autorità russe non hanno tenuto conto dell’appartenenza, non controversa, dei ricorrenti a gruppi ritenuti vulnerabili in Uzbekistan al fine di valutare i rischi cui sarebbero esposti una volta allontanati (cfr. Human Rights Watch, World Report 2016; Amnesty International, Fast-track to Torture: Abductions and Forcible Returns from Russia to Uzbekistan, 2016) attribuendo, invece, un peso decisivo alle garanzie fornite dal Governo uzebeco, in contrasto con la giurisprudenza della Corte in materia (cfr. Corte Edu, 1.12.2015, Tadzhibayev c. Russia, in questa Rivista, XVII, n. 3-4, 2015, p. 178). A ciò si aggiunge, nel caso di F.N., una violazione dell’art. 5, par. 1, relativo al diritto alla libertà e alla sicurezza, poiché il ricorrente è stato trattenuto senza che fossero contemporaneamente adottate azioni per eseguire tale misura.
Con il caso López Elorza c. Spagna (Corte Edu, sentenza del 12.12.2017), la Corte Edu deve valutare l’eventuale violazione dell’art. 3 Cedu qualora la Spagna dia esecuzione all’estradizione del ricorrente negli Stati Uniti, dove è stato accusato di traffico di droga con il rischio, seppur ipotetico, di essere condannato all’ergastolo. Tutti i ricorsi avviati dal sig. López Elorza dinanzi i giudici spagnoli confermavano l’esistenza di un rischio minimo di essere condannato con il massimo della pena, anche in ragione della possibilità di accedere a una varietà di rimedi alternativi interni. In linea generale, la Corte Edu nota come l’ergastolo, pur non essendo incompatibile per se con la Cedu, possa sollevare profili problematici ai sensi dell’art. 3 nel caso in cui non esista un meccanismo di revisione della condanna che tenga conto del percorso di riabilitazione della persona condannata e non siano sufficientemente chiare le condizioni attraverso cui quest’ultima possa chiedere tale revisione e/o il suo rilascio. Ora, se è vero che queste condizioni appaiono soddisfatte nel caso del ricorrente qualora sia condannato all’ergastolo negli Stati Uniti, la Corte Edu si sofferma in particolare sul fatto che la pena raccomandata ai giudici statunitensi dalle US Sentencing Guidelines per traffico di droga è comunque molto inferiore all’ergastolo. Peraltro, tali linee guida sono state già sostanzialmente seguite dal giudice chiamato a esaminare le accuse nei confronti del sig. López Elorza nei procedimenti a carico dei suoi complici. In assenza di indizi circostanziati da parte di quest’ultimo che mettano in discussione tali argomentazioni, la Corte Edu ritiene che la sua estradizione non darebbe origine a una violazione dell’art. 3 Cedu.
Il caso X c. Germania (Corte Edu, decisione del 7.11.2017) riguarda un cittadino russo nato in Dagestan cui i giudici interni avevano rigettato il ricorso avverso la misura di allontanamento motivata da gravi sospetti di coinvolgimento nella preparazione di attacchi terroristici in Germania sulla base della considerazione che il ricorrente poteva essere rinviato in una zona diversa dalla regione di nascita, ove non sussiste il pericolo di subire maltrattamenti da parte delle forze di polizia per ragioni legate all’origine etnica. La Corte nota come l’art. 3 Cedu non vieta gli Stati parte di allontanare coloro che siano ritenuti una minaccia per la sicurezza naturale, ma obbliga loro di valutare in modo compiuto tutti i rischi cui potrebbe essere esposta la persona interessata nel Paese di destinazione. Secondo la Corte, tale esame è stato effettivamente svolto nel caso del ricorrente tenuto conto che le autorità tedesche non hanno solamente consultato le fonti disponibili a livello internazionale in materia ma hanno anche chiesto e ricevuto informazioni specifiche da una Ong locale russa. Pertanto, alla luce del fatto che il ricorrente ha lasciato la Russia in tenera età e non presenta in ogni caso collegamenti con i conflitti in corso nel Caucaso settentrionale, la Corte conferma che non esistono ragioni sufficienti per ritenere che l’allontanamento del ricorrente, in una zona diversa dal Dagestan, sollevi un rischio di violazione ai sensi dell’art. 3 Cedu.
        b) Condizioni di trattenimento
Il caso S.F. e altri c. Bulgaria (Corte Edu, sentenza del 7.12.2017) riguarda cinque cittadini iracheni, di cui tre minori, che dopo essere entrati irregolarmente in Bulgaria venivano trattenuti, per circa due giorni, nel centro di detenzione della polizia frontaliera a Vidin. Fornendo alla Corte Edu anche video filmati durante il trattenimento che li ritraevano in condizioni molto precarie, i richiedenti lamentavano di aver subito una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti. Ritenendo ammissibili e rilevanti le prove fornite, la Corte Edu presta particolare attenzione alla presenza di minori quali soggetti vulnerabili e alla necessità di tenere conto dei loro bisogni specifici, in linea con quanto richiesto anche dalla Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 (cfr., tra gli altri, i casi R.M. e altri c. Francia, A.B. e altri c. Francia, A.M. e altri c. Francia, R.K. e altri c. Francia e R.C. e V.C. c. Francia del 12 luglio 2016, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017). Per quanto la durata del trattenimento sia stata piuttosto breve rispetto ai casi esaminati in precedenza, la Corte nota innanzitutto come la struttura, fatiscente e sporca, non fosse adatta per ospitare minori, costretti tra l’altro a urinare nel pavimento per l’impossibilità di accedere ai servizi igienici. Per almeno ventiquattro ore dopo il loro arrivo, inoltre, a nessuno dei ricorrenti sono stati forniti cibo e acqua. In assenza di spiegazioni da parte dello Stato convenuto e non rintracciando particolari situazioni di emergenza di arrivi di massa di migranti tali da limitare le possibilità di intervento delle autorità, le condizioni in esame possono aver generato, cumulativamente, conseguenze fisiche e psicologiche nei minori interessati esponendoli, seppur per breve tempo, a un trattamento inumano e degradante. Vi è stata, quindi, violazione dell’art. 3 Cedu.
In Boudraa c. Turchia (Corte Edu, sentenza del 28.11.2017) un cittadino algerino lamentava una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti per le condizioni riservatigli nei locali della polizia di Yalova per circa due mesi in seguito al fermo per mancanza di documenti di identità, tra cui la mancanza di un letto nella stanza in cui era stato trattenuto, l’impossibilità di accedere all’aria aperta e il sovraffollamento. La Corte Edu ricorda come, in tali casi, sia necessario valutare l’effetto cumulativo del trattenimento sulle persone interessate nonché la relativa durata. Così, pur consapevole delle difficoltà che la Turchia sta attraversando per l’enorme afflusso di migranti, le condizioni denunciate dal sig. Boudraa, cumulate con l’ansia generata dall’incertezza sulla fine del trattenimento e la generale inadeguatezza dei locali di polizia di Yalova per ospitare migranti per lunghi periodi, hanno dato origine a un trattamento degradante con conseguente violazione dell’art. 3 Cedu.
Anche in Khaldarov c. Turchia (Corte Edu, sentenza del 5.09.2017), chiamata a esaminare le condizioni di trattenimento del ricorrente nel centro di espulsione di Kumkapı, la Corte Edu ritiene che la mancanza di un adeguato spazio personale nei dormitori, cumulata con l’impossibilità di accedere a spazi esterni e le precarie condizioni generali del centro (CPT, 2009) hanno causato al sig. Khaldarov un livello di sofferenza tale da costituire un trattamento degradante in violazione dell’art. 3 Cedu. Confermando quanto già affermato in precedenza (cfr. i casi Musaev c. Turchia, Aliev c. Turchia, T. e A. c. Turchia del 21.10.2014 in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154), la Corte ritiene che il ricorrente ha anche subito una violazione dell’art. 5, par. 1, 2, 4, e 5 Cedu, relativo al diritto alla libertà e sicurezza, per l’assenza nell’ordinamento turco di una legge che stabilisce procedure chiare per trattenere una persona straniera in vista dell’allontanamento, di rimedi per chiedere un eventuale risarcimento e della comunicazione del motivo della continua privazione di libertà negando così, di fatto, il diritto di presentare ricorso contro la legalità della detenzione.
Infine, il caso M.S.A. e altri c. Russia (Corte Edu, sentenza del 12.12.2017) riguarda la doglianza di dodici cittadini siriani avverso le condizioni di trattenimento nel centro di Krasnoye Selo in cui erano stati collocati in seguito alla scadenza del permesso di soggiorno. In relazione a due soltanto dei citati ricorrenti, la Corte accerta una violazione dell’art. 3 Cedu tenuto conto del limitato spazio personale a disposizione, pari a circa 1,5 metri quadrati, del sovraffollamento, della scarsa qualità e disponibilità di acqua e cibo e delle restrizioni alla libertà di movimento all’interno e all’esterno del centro. In relazione alla maggior parte dei ricorrenti, invece, la Corte ravvisa una violazione dell’art. 5, par. 1 e 4, in ragione della lunga durata del trattenimento, non proporzionale alla concreta possibilità di dare esecuzione all’allontanamento, e del mancato accesso a un meccanismo di revisione periodica della continua privazione di libertà.
 
Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare
In Ndidi c. Regno Unito (Corte Edu, sentenza del 14.09.2017) un cittadino nigeriano, soggiornante nel Regno Unito dal 1989 con i genitori e i fratelli, lamentava una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare in caso di allontanamento verso il Paese di origine in seguito a varie condanne per furti e violenze. Dopo aver verificato che l’interferenza lamentata dal ricorrente è prevista dalla legge e persegue un obiettivo legittimo ai sensi dell’art. 8, par. 2, la Corte si concentra sul bilanciamento operato dalle autorità interne tra gli interessi generali di prevenzione del crimine e quelli individuali del sig. Ndidi (cfr. Corte Edu, 6.06.2017, Alam c. Danimarca (dec.), in questa Rivista, XIX, n. 2, 2017). A tal proposito, essa nota come in tutti i procedimenti interni una serie di fattori, quali la presenza di legami in Nigeria, la gravità delle condanne subite, il concreto rischio di commettere nuovi reati e l’età adulta, siano stati adeguatamente e cumulativamente considerati come prevalenti sulla lunga permanenza del ricorrente nel Regno Unito e sul suo interesse a rimanervi. Poiché tale conclusione non può essere rimessa in discussione da una nuova relazione, peraltro già terminata, e dalla nascita di un figlio, dal momento che tali eventi si sono verificati quando il ricorrente era già a conoscenza del possibile allontanamento, l’esecuzione della misura non concreta una violazione dell’art. 8 Cedu.
Il caso Achim c. Romania (Corte Edu, sentenza del 24.10.2017) riguarda una coppia di origine Rom alla quale, dopo accurate indagini, sono stati sottratti temporaneamente i sette figli in ragione della situazione di povertà e delle scarse competenze genitoriali. Un percorso di assistenza alla famiglia veniva prontamente avviato e i ricorrenti riuscivano in modo graduale a soddisfare le condizioni per chiedere il rientro dei figli, che veniva infine ottenuto con qualche ritardo. La Corte Edu ricorda che la separazione dei figli dai genitori rappresenta una delle ingerenze più gravi nel godimento del diritto al rispetto della vita familiare, alla quale uno Stato parte può ricorrere solo qualora ciò sia richiesto dal perseguimento del preminente interesse dei minori interessati. Per questa ragione, l’esame della Corte si concentra sulla necessità dell’interferenza subita dai ricorrenti alla luce di tale interesse. A tal proposito, essa nota come le autorità rumene abbiano agito in modo molto cauto prima di procedere con la separazione temporanea dei minori, tentando inizialmente di aiutare i ricorrenti e giustificando tale misura con ragioni basate non unicamente sulle privazioni materiali subite dai figli, e abbiano seguito poi l’evoluzione della situazione durante la separazione creando le condizioni per porvi fine. Ora, considerato che è stata garantita l’unità tra i minori e tra questi e i genitori durante il periodo di separazione, che i ricorrenti avevano potuto ospitare i figli durante le vacanze estive, che erano state attivate misure specifiche per migliorare il tenore di vita dell’intera famiglia e le competenze genitoriali dei ricorrenti, e che il rientro è avvenuto una volta soddisfatte le condizioni richieste dai servizi sociali, la Corte Edu conclude che l’interferenza subita dai sigg. Achim è da ritenersi effettivamente necessaria. Pertanto, non vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu.
Nel caso Panyushkiny c. Russia (Corte Edu, sentenza del 21.11.2017), la Corte è chiamata a valutare la presunta violazione del diritto al rispetto del domicilio, protetto anch’esso dall’art. 8 Cedu, di una cittadina uzbeca, cui era stato attribuito lo status di “migrante forzata”, e di suo figlio. Non avendo presentato domanda di rinnovo di tale status nei termini richiesti, i ricorrenti perdevano i benefici a esso associati e, in particolare, un alloggio popolare in cui abitavano da almeno quattordici anni, lasciato in seguito a una procedura di sfratto confermata dai giudici interni e senza alcuna soluzione alternativa a disposizione. Considerata la lunga permanenza nella struttura, la Corte Edu ritiene che la situazione della ricorrente sia coperta dalla nozione di domicilio di cui all’art. 8 Cedu, la cui perdita rappresenta una delle interferenze più gravi nel rispetto del diritto in esame. Mentre secondo lo Stato convenuto tale interferenza risultava necessaria per rispettare i diritti di coloro che godono dello status di migranti forzati, la Corte nota come tale interesse generale non sia stato correttamente bilanciato con gli interessi dei ricorrenti, non adeguatamente presi in considerazione nel corso dei procedimenti interni, quali le difficoltà economiche in cui versavano e l’assenza di una soluzione alternativa. Vi è stata pertanto una violazione dell’art. 8 Cedu.
Infine, nel caso Alković c. Montenegro (Corte Edu, sentenza del 5.12.2017) il ricorrente, di origine Rom e musulmano, lamentava una violazione del divieto di discriminazione, protetto dall’art. 14 Cedu, in combinato al diritto al rispetto della vita privata perché le autorità montenegrine non avevano intrapreso tutte le azioni necessarie per identificare i responsabili di una serie di episodi a sfondo razzista nel quartiere popolare dove abitava a Podgorica, in particolare respingendo per mancanza di prove tutte le denunce presentate dal ricorrente nei confronti dei vicini, autori di ripetute minacce verbali nei confronti della sua famiglia, costringendolo infine a traslocare. La Corte Edu ricorda che il concetto di vita privata comprende sia l’integrità fisica e psicologica sia l’origine etnica di ogni individuo. Per questa ragione, l’art. 8 impone agli Stati parte precisi obblighi positivi al fine di proteggere ogni individuo dalla violenza perpetrata da soggetti privati (cfr. Corte Edu, 17.01.2017, Király e Dömötör c. Ungheria, in questa Rivista, XIX, n. 2, 2017). Tra questi, anche per effetto della lettura congiunta con l’art. 14 Cedu, rientra l’avvio di indagini volte a perseguire i responsabili e identificare eventuali motivi razzisti in presenza di indizi circostanziati. Nel caso del ricorrente, nonostante l’ordinamento montenegrino preveda una disciplina formalmente adeguata per combattere episodi di violenza basata, tra l’altro, sull’origine etnica o sulla religione vera o presunta delle vittime, le autorità competenti non avrebbero tenuto conto di tutti gli episodi denunciati compromettendo l’efficacia dell’intera attività investigativa. Al contempo, nessuna azione era stata adottata per identificare i possibili motivi razzisti alla base delle ripetute minacce. Pertanto, vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu, letto in combinato con l’art. 14.
 
Art. 14: Divieto di discriminazione
Il caso M.F. c. Ungheria (Corte Edu, sentenza del 31.10.2017) riguarda il fermo e il successivo trattamento riservato dalle forze di polizia ungheresi a un cittadino di origine Rom che, per le violenze subite e l’inefficacia delle attività investigative, lamentava una violazione del divieto di discriminazione, letto congiuntamente agli artt. 2 e 3 Cedu. Come denunciato dinanzi i giudici interni, gli agenti di polizia avrebbero più volte denigrato il ricorrente durante gli abusi, facendo esplicito riferimento all’origine etnica, mentre, nonostante i certificati medici presentati e le dichiarazioni di testimoni, i vari procedimenti interni si concludevano senza l’identificazione dei responsabili per mancanza di prove o per contraddittorietà del racconto del ricorrente. La Corte Edu riscontra, innanzitutto, una violazione dell’art. 3 Cedu sotto il profilo sia sostanziale che procedurale. Infatti, lo Stato convenuto non era riuscito a dissipare i forti indizi che collocavano gli abusi nel periodo di tempo in cui il ricorrente era stato trattenuto nei locali della polizia, mentre le indagini successive si erano basate essenzialmente sulle dichiarazioni dei soli presunti responsabili. Per quanto riguarda l’art. 14, la Corte ricorda che tale articolo impone agli Stati parte di utilizzare ogni mezzo a disposizione per combattere il razzismo e di avviare indagini effettive ogni volta in cui vi sia il sospetto che le violenze siano motivate dall’odio nei confronti di una particolare etnia, come ad esempio nel caso di insulti verbali come quelli indirizzati al ricorrente per la sua origine Rom. Confermando la giurisprudenza precedente (Corte Edu, 24.07.2012, B.S. c. Spagna, in questa Rivista, XIV, n. 4, 2012, p. 122), nel caso di specie, se ritiene che non vi siano prove sufficienti atte a dimostrare che gli abusi siano stati commessi unicamente per motivi razzisti, la Corte ravvisa tuttavia che nessuna azione è stata intrapresa in ambito interno per accertare tali eventuali motivi denunciati dal ricorrente, con la conseguenza che vi è stata violazione del divieto di discriminazione in combinato all’art. 3 letto sotto il profilo procedurale.
 
Art. 4, Protocollo 4: Divieto di espulsioni collettive
Nel caso N.D. e N.T. c. Spagna (Corte Edu, sentenza del 3.10.2017), la Corte Edu è nuovamente chiamata a pronunciarsi sulla presunta violazione del divieto di espulsioni collettive, sancito dall’art. 4 del quarto Protocollo addizionale alla Cedu, lamentata da due migranti provenienti rispettivamente dal Mali e dalla Costa d’Avorio. Entrambi erano giunti in Marocco e, dopo aver soggiornato per mesi nell’accampamento situato nei pressi del monte Gourougou, tentavano più volte di attraversare con altri migranti le tre recinzioni poste a protezione del confine tra Marocco e la città spagnola di Melilla. Nel 2013, scavalcata la terza recinzione, entrambi i ricorrenti venivano fermati dalla Guardia Civil spagnola e respinti direttamente verso il Marocco, senza prima procedere ad alcuna identificazione o garantire loro assistenza medica e/o legale. L’anno successivo, pur riuscendo a entrare nel territorio spagnolo, ne veniva ordinato l’allontanamento verso i Paesi di origine. Confermando la giurisprudenza precedente (Corte Edu, Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XIV, n. 1, 2012, p. 104; Corte Edu, 21.10.2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154), la Corte rigetta le obiezioni del Governo basate sull’assenza di giurisdizione della Spagna nel tratto di confine in cui si trovano le recinzioni ai sensi dell’art. 1 Cedu, secondo il quale gli Stati parte riconoscono i diritti protetti dalla Convenzione ad ogni persona “sottoposta alla loro giurisdizione”, in quanto, a partire dal momento in cui hanno scavalcato le recinzioni, i ricorrenti si trovano sotto il controllo “continuo ed esclusivo” delle autorità spagnole (par. 54). Quanto al merito, la Corte ricorda che essenzialmente l’art. 4, Prot. 4 protegge i ricorrenti contro il rischio di essere allontanati collettivamente senza aver avuto la possibilità di presentare la propria situazione personale (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017). Poiché nel caso di specie, in linea con le misure di carattere generale adottate dalla Spagna per contrastare l’immigrazione irregolare al confine con il Marocco, l’allontanamento è stato immediato e nessuna procedura di identificazione è stata garantita, la Corte considera che le autorità spagnole hanno dato corso a un’espulsione collettiva con la conseguenza che vi è stata violazione dell’art. 4, Prot. 4.

Corte di giustizia dell’Unione europea

 
Regolamento Dublino III: accoglienza e limiti al trattenimento
Il caso Khir Amayry (CGUE, 13.9.2017, C-60-16) ha avuto ad oggetto il trattenimento di un richiedente asilo durante il perfezionamento dell’iter di determinazione dello Stato membro competente a esaminare la domanda del richiedente. Il Sig. Khir Amayry, cittadino di uno Stato terzo, aveva chiesto asilo in Svezia, nonostante avesse compiuto il suo primo ingresso in territorio europeo passando dall’Italia. Veniva allora disposto il trasferimento del richiedente verso lo Stato italiano, che accettava di eseguire la presa in carico. Pochi giorni dopo, l’autorità svedese competente disponeva il trattenimento del Sig. Khir Amayry, a causa di un evidente rischio di fuga. L’interessato impugnava le decisioni emesse contro di lui. Nel procedimento interno sorgevano dubbi circa l’interpretazione dell’art. 28, par. 3, reg. 604/2013 (regolamento «Dublino III»), norma che disciplina il trattenimento di un richiedente asilo ai fini del trasferimento verso altro Stato membro. Il primo quesito predisposto dal giudice a quo riguardava la compatibilità con il diritto UE applicabile di una normativa interna che ammette, in casi particolari, la possibilità di estendere la durata del trattenimento anche a due, tre o, addirittura, dodici mesi. La CGUE nota che la regola generale del Dublino III in punto di trattenimento del soggetto che deve essere trasferito non contiene un termine massimo: l’art. 28, par. 3, co. 1, si limita a stabilire che il trattenimento «ha durata quanto più breve possibile e non supera il tempo ragionevolmente necessario agli adempimenti amministrativi previsti da espletare con la dovuta diligenza per eseguire il trasferimento (…)». Invece, il termine massimo di sei settimane dall’accettazione dello Stato richiesto per eseguire il trasferimento è considerato eccezionale. La Corte, però, afferma che questo termine decorre dal dell’accettazione dello Stato richiesto soltanto se in quel momento il richiedente sia già trattenuto dallo Stato in cui ha presentato la propria domanda di protezione internazionale. Nel caso del Sig. Khir Amayry ciò non era avvenuto: la Corte considera questa ipotesi a sé stante, con l’effetto che non si applica il termine massimo eccezionale del comma 1 dell’art. 28, par. 3, reg. 604/2013, bensì la regola generale del primo comma di tale norma. Ne deriva un margine di discrezionalità a favore degli Stato membri, da esercitare ad ogni modo nel rispetto dei diritti fondamentali (su tutti, il diritto alla libertà e alla sicurezza, sancito dall’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali) e di norme di diritto derivato richiamate dallo stesso art. 28 del regolamento 604/2013 (come gli artt. 9 ss. della direttiva 2013/33). La CGUE fa comunque presente che il trattenimento del richiedente asilo da trasferire verso lo Stato membro competente, disposto dopo l’accettazione alla presa in carico di quest’ultimo, e sempre che il ricorso o la revisione non abbia più effetto sospensivo, potrà durare più di sei settimane, a condizione che ciò risulti necessario in considerazione delle esigenze concrete. Al contrario, la Corte conclude che un trattenimento della durata di dodici mesi sarebbe oggettivamente irragionevole. Gli altri quesiti del giudice del rinvio si incentrano sul calcolo del già visto termine massimo di sei settimane. Anzitutto, la Corte dichiara che l’art. 28, par. 3, co. 3, reg. Dublino III determina due momenti distinti dai quali il termine di sei settimane può decorrere: l’accettazione alla presa in carico dello Stato richiesto o il momento da cui il ricorso o la revisione non hanno più effetto sospensivo ai sensi dell’articolo 27. Si tratta di due eventualità distinte e non sovrapponibili, perciò se il termine di sei settimane decorre dal momento in cui il ricorso o la revisione non ha più effetto sospensivo, non si deve detrarre il numero di giorni che la persona ha già trascorso in stato di trattenimento dopo che un altro Stato membro ha accettato la richiesta di presa in carico. In secondo luogo, la CGUE chiarisce che l’articolo 28, par. 3, co. 3 va interpretato nel senso che il termine di sei settimane a partire dal momento in cui il ricorso o la revisione non ha più effetto sospensivo si applica anche quando la sospensione dell’esecuzione della decisione di trasferimento non è stata specificamente richiesta dall’interessato. Ciò permette di equiparare la posizione degli Stati membri che attribuiscono un effetto sospensivo automatico al ricorso e quella degli Stati membri che non hanno previsto questa possibilità; se così non fosse, gli Stati membri più garantisti nei confronti dei richiedenti non sarebbero più nelle condizioni di beneficiare di un termine sufficiente per effettuare il trasferimento quando il ricorrente impugni una decisione ad egli rivolta. 
Il diritto UE in materia di trattenimento del richiedente asilo è stato al centro di un’altra sentenza della CGUE, anche se nel caso di specie il trattenimento dell’interessato non era stato disposto in funzione del suo trasferimento verso lo Stato membro competente all’esame della domanda di asilo. Nel caso K. (CGUE, 14.9.2017, causa C‑18/16), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha esaminato la validità dell’art. 8, par. 3, lett. a) e b), della direttiva 2013/33, vale a dire due disposizioni relative al trattenimento del richiedente protezione internazionale contenute nella «direttiva accoglienza»: secondo queste disposizioni, «un richiedente può essere trattenuto soltanto: a) per determinarne o verificarne l’identità o la cittadinanza; b) per determinare gli elementi su cui si basa la domanda di protezione internazionale che non potrebbero ottenersi senza il trattenimento, in particolare se sussiste il rischio di fuga del richiedente». Il caso era sorto nei Paesi Bassi, in quanto era lì che il sig. K., cittadino di uno Stato terzo, aveva chiesto asilo; tuttavia, l’autorità interna competente aveva disposto il trattenimento nei confronti del sig. K. per identificarne l’identità o la cittadinanza, oltre che per determinare gli elementi necessari per la valutazione della sua domanda, sussistendo un rischio di fuga. Tale provvedimento era stato adottato in base alla normativa interna di recepimento della direttiva accoglienza, più precisamente in relazione all’art. 8, par. 3, di quest’ultima. Il sig. K. si opponeva al provvedimento e decideva di rivolgersi al giudice interno, il quale rilevava una possibile incompatibilità tra l’art. 8, par. 3, lett. a) e b), della direttiva 2013/33 e l’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che riconosce e garantisce la liberà e la sicurezza di ogni individuo, ispirandosi all’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La CGUE dapprima precisa che la validità delle disposizioni di cui sopra non può essere vagliata anche con riferimento alla CEDU, che è un atto giuridico non «formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione». Quindi precisa che l’art. 8, par. 3, lett. a) e b), della direttiva 2013/33 è stato formulato per assicurare il corretto funzionamento del sistema UE di asilo nel quadro dello spazio di libertà sicurezza e giustizia, come del resto emerge anche dai lavori preparatori dell’atto in questione. L’esigenza di perseguire questo obiettivo può giustificare limiti alla libertà e alla sicurezza del richiedente, a patto che ogni deroga sia prevista in conformità al principio di proporzionalità e sia valutata caso per caso. A questo proposito, la Corte si rifà alla sentenza N. (CGUE, 15 febbraio 2016, C‑601/15 PPU) ed enfatizza due aspetti. Da un lato, i limiti delle disposizioni oggetto di causa sono evidentemente eccezionali e condizionati, come risulta dall’art. 8 nel suo complesso. Dall’altro, anche in presenza di un certo margine di discrezionalità riservato dall’art. 8, par. 3, co. 2 agli Stati membri nella specificazione dei motivi di trattenimento, tali misure devono comunque essere attivate solo se necessarie, di volta in volta, per il raggiungimento dei predetti obiettivi UE, e sempre che non possano essere applicabili misure alternative meno coercitive; fermo restando che il diritto nazionale deve pur sempre essere interpretato in armonia con la «direttiva accoglienza», i diritti fondamentali e i principi generali del diritto UE. Pertanto, la CGUE conclude che i motivi di trattenimento analizzati sintetizzino, all’interno della direttiva 2013/33, un giusto equilibrio tra gli obiettivi cui essa mira e il diritto alla libertà del richiedente. Di conseguenza, la Corte conferma la validità dell’art. 8, par. 3, lett. a) e b), della direttiva 2013/33.
 
Regolamento Dublino III: trasferimento e ricorso effettivo dell’interessato
Questioni piuttosto simili a quelle della sentenza Khir Amayry sono state affrontate nel caso Shiri (CGUE, 25.10.2017, C‑201/16). Il Sig. Shiri, cittadino di uno Stato terzo, aveva presentato due domande di protezione internazionale in territorio UE: la prima in Bulgaria, la seconda in Austria. Le autorità austriache avevano chiesto e ottenuto che la Bulgaria si occupasse della domanda di protezione internazionale del Sig. Shiri, verso il quale veniva adottato un provvedimento di diniego e di trasferimento in Bulgaria. Dopo l’adozione di questo provvedimento spirava il termine di sei mesi (dall’accettazione dello Stato membro competente) previsto dall’art. 29, par. 2, del regolamento 604/2013 per il trasferimento dell’interessato, che faceva valere la circostanza con ricorso alla giurisdizione austriaca. Nel corso del procedimento interno, il giudice austriaco decideva di rivolgere alla CGUE un rinvio pregiudiziale contenente due quesiti distinti, ma tra loro connessi. Con il primo quesito, il giudice interno chiedeva se l’art. 29, par. 2, del regolamento Dublino III dovesse essere interpretato nel senso che la scadenza del termine indicato comporta il passaggio automatico di competenza dell’esame della domanda allo Stato che non ha eseguito il trasferimento in tempo. La Corte risponde affermativamente, spiegando che questa conclusione è il risultato di un’interpretazione al contempo testuale e teleologica della norma; la domanda del Sig. Shiri dovrà essere esaminata dall’Austria, senza che sia necessario attendere un eventuale rifiuto di presa in carico da parte della Bulgaria. Il secondo quesito, invece, riguarda la possibilità o meno per l’interessato di invocare, ai sensi dell’art. 27, par. 1, reg. Dublino III, la scadenza del termine dell’art. 29, par. 2, al fine di paralizzare una decisione di trasferimento verso altro Stato membro. La Corte riprende in parte le conclusioni della sentenza Mengasteab (CGUE, 26.7.2017, c-670/16) per dichiarare che anche i termini relativi alle procedure di presa in carico, come quello fissato dall’art. 29, par. 2, concorrono a determinare lo Stato competente. Pertanto, al fine di verificare che la decisione di trasferimento sia stata adottata in ossequio a tali procedure, il ricorso contro una decisione di trasferimento può certamente fondarsi anche sull’asserita violazione dell’art. 29, par. 2. Il tutto, anche se il termine di sei mesi è scaduto dopo la decisione sul trasferimento dell’interessato, ma prima della sua esecuzione. Perciò, il Sig. Shiri ha diritto a un ricorso effettivo in virtù dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, che gli permetta di fare valere circostanze successive all’adozione della decisione di trasferimento in Bulgaria, anche in ragione dell’esigenza di garantire con celerità la determinazione dello Stato membro competente.
 
Visti: tutela giurisdizionale
La CGUE ha approfondito la portata della tutela giurisdizionale del cittadino di Stato terzo in materia di visti nel caso El Hassani (13.12.2017, C‑403/16). Un cittadino di uno Stato terzo, il Sig. El Hassani, aveva chiesto al consolato polacco a Rabat il rilascio di un visto Schengen per potere fare visita a sua moglie e a suo figlio, cittadini polacchi residenti in Polonia. La richiesta veniva rigettata, così il Sig. El Hassani decideva di ricorrere alla giustizia polacca per ottenere una revisione del provvedimento di diniego. Tuttavia, si scontrava con una norma di diritto interno secondo cui una decisione presa da un console, come quella nel caso di specie, non sempre può essere oggetto di un ricorso giurisdizionale. Il giudice adito, constatando questa possibile assenza di competenza dei giudici amministrativi per le cause relative ai visti rilasciati dai consoli, effettuava un rinvio pregiudiziale alla CGUE: chiedeva se ciò fosse consentito dall’art. 32, par. 3, del regolamento (CE) n. 810/2009 («codice dei visti»), letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La Corte accerta che effettivamente l’art. 32, par. 3, del codice dei visti lascia agli Stati membri abbastanza liberi di disciplinare autonomamente i ricorsi contro decisioni sui visti, perché questi ricorsi sono regolati essenzialmente dal diritto interno. Resta il fatto che la libertà riconosciuta agli Stati membri in proposito non può condurre alla violazione di due principi chiave: il principio di equivalenza, che prevede che la disciplina di diritto interno sui ricorsi non differenzi i ricorsi fondati su violazioni del diritto UE da quelli fondati su violazioni di diritto interno; e il principio di effettività, che vieta agli Stati membri di rendere impossibile o particolarmente difficile l’esercizio di diritti riconosciuti e garantiti dall’UE. Il caso del Sig. El Hassani rientra in questa casistica, perché presuppone diritti di derivazione UE a favore dell’interessato: l’art. 32, par. 3, del codice visti deve essere dunque interpretato conformemente alla Carta dei diritti fondamentali, compreso l’art. 47 della stessa. Tale norma prescrive che ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati abbia diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice indipendente e imparziale; ma la giurisprudenza UE ha da tempo chiarito che la nozione di indipendenza sottintende la presenza di un organo terzo rispetto all’autorità che ha adottato l’atto contestato. Da ciò deriva che anche una decisione che nega la concessione di un visto deve potere essere impugnata dall’avente diritto di fronte a un organo giurisdizionale e che una distinzione pregiudizievole per chi richieda il visto è contraria al diritto UE.
 
Circolazione e soggiorno: cittadino di Stato terzo familiare di cittadino europeo
Nel caso Lounes (CGUE, 14.11.2017, C‑165/16), è stato affrontato il tema del diritto di soggiorno del cittadino di uno Stato terzo familiare di un cittadino europeo che abbia, a sua volta, già esercitato il diritto di circolazione e acquisito, in aggiunta, anche la cittadinanza dello Stato membro ospitante. Era il caso della Sig.ra Ormazabal, cittadina spagnola che si era recata in Regno Unito per soggiornarvi legalmente, senza interruzione dal momento dell’arrivo; la donna aveva poi ottenuto la cittadinanza di quello Stato per naturalizzazione, senza però perdere la cittadinanza spagnola. Ottenuta la doppia cittadinanza, la Sig.ra Ormazabal aveva poi sposato in Regno Unito un cittadino tunisino in posizione irregolare, il Sig. Lounes. Questi, in virtù del matrimonio contratto con una cittadina del Regno Unito, chiedeva alle autorità competenti il rilascio di una carta di soggiorno. Siccome la sua richiesta veniva respinta, il Sig. Lounes impugnava il provvedimento contestato. Il giudice interno decideva di sospendere il giudizio e di rivolgersi alla CGUE per sapere se tale diniego fosse compatibile con la direttiva 2004/38. La Corte amplia il contesto normativo da analizzare per rispondere al quesito: articola il suo ragionamento distinguendo tra gli effetti che al ricorrente nel procedimento principale deriverebbero in forza della direttiva 2004/38 o dall’art. 21, par. 1, TFUE. Spiega che la direttiva 2004/38 si applica esclusivamente ai cittadini di uno Stato membro di origine che abbiano esercitato il diritto di circolazione in un altro Stato membro, divenuto lo Stato ospitante; diversamente, la direttiva non riguarda né i cittadini di Stati terzi, i quali non possono invocare alcun diritto autonomo in virtù di essa, né i cittadini europei che intendano invocare diritti contro lo Stato membro di cittadinanza. Essendo proprio questo il caso della Sig.ra Ormazabal, non trova applicazione l’art. 3, par. 1, dir. 2004/38: la fattispecie resta regolata dal diritto internazionale. Pertanto, il Sig. Lounes non può rifarsi alla direttiva 2004/38 per beneficiare di un diritto di soggiorno derivato nel Regno Unito. Prendendo in esame l’art. 21, par. 1, TFUE, invece, la CGUE giunge a una conclusione favorevole al ricorrente nel procedimento principale. Il diritto al soggiorno di un cittadino di uno Stato terzo che sia familiare di un cittadino europeo può essere riconosciuto se necessario per fare sì che il secondo riesca a beneficiare effettivamente della sua libertà di circolazione. Tra i diritti che l’art. 21, par. 1, TFUE prevede implicitamente per il cittadino europeo vi sono anche il diritto di condurre una normale vita familiare nello Stato membro ospitante grazie alla vicinanza dei propri familiari, e il diritto di integrarsi stabilmente nella società di tale Stato. Questi diritti specifici risulterebbero compromessi se un familiare, ancorché cittadino di Stato terzo, non potesse soggiornare nello Stato membro ospitante. La Corte puntualizza che ciò vale anche per le persone che abbiano la cittadinanza di due Stati UE, incluso lo Stato di soggiorno. Una situazione come quella sella Sig.ra Ormazabal non potrebbe essere considerata meramente interna, in quanto la sussistenza della cittadinanza spagnola determina l’avvenuta circolazione in Regno Unito.
 
Allontanamento di cittadino di Stato terzo
Con la sua pronuncia nel caso Lopez Pastuzano (CGUE, 7.12.2017, C‑636/16), la CGUE ha chiarito alcuni punti fermi della tutela accordata dal diritto UE ai soggiornanti di lungo periodo. Il Sig. Lopez Pastuzano è un cittadino colombiano che aveva ottenuto un permesso di soggiorno di lungo periodo in Spagna, revocato a seguito di condanna penale superiore a un anno; alla revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo si aggiungeva anche il divieto di ingresso in territorio spagnolo per cinque anni. La misura era stata adottata in conformità a una norma interna, che impone, previo esperimento del corrispondente procedimento amministrativo, l’allontanamento del cittadino di Stato terzo condannato (in Spagna o altrove) per una condotta che in Spagna sia costitutiva di un reato punito con una pena detentiva superiore a un anno. Va detto che nell’interpretazione della giurisprudenza spagnola questa norma può consentire, in alcune ipotesi, il diniego della tutela rafforzata che il diritto UE prevede a favore del soggiornante di lungo periodo. Quindi, il giudice nazionale adito dall’interessato prospettava profili di incompatibilità tra la norma interna e l’art. 12, par. 3, della direttiva 2003/109 (relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo), che elenca gli aspetti da considerare al momento di decidere sull’allontanamento di un soggiornante di lungo periodo. Il giudice nazionale decideva allora di rivolgersi alla CGUE per risolvere il suo dubbio. La CGUE condivide le perplessità del giudice del rinvio e dichiara che l’art. 12, par. 3, dir. 2003/109 deve essere osservato a prescindere dalla misura adottata contro il trasgressore, sia essa di natura amministrativa o penale. L’allontanamento del soggiornante di lungo periodo non potrà essere disposto in via automatica a seguito di condanna a pena detentiva superiore a un anno, ma solo dopo che sia stato accertato che il condannato costituisca una minaccia effettiva e sufficientemente grave per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza. Oltre a ciò, è necessario considerare aspetti ulteriori, frutto di una valutazione concreta, quali la durata del soggiorno nel territorio, l’età dell'interessato, le conseguenze che l’allontanamento comporterebbe per l’interessato e per i suoi familiari, gli eventuali vincoli dell’interessato con il paese di soggiorno o, per altro verso, l’assenza di vincoli con il paese d’origine.
 
Rimpatrio di cittadino UE
Il caso Petrea (CGUE, 14.9.2017, C-184/16) si è incentrato sul rimpatrio di un cittadino europeo e su taluni aspetti relativi al suo divieto di ingresso nello Stato membro che lo aveva allontanato. Il Sig. Petrea era stato rimpatriato dalla Grecia al suo Stato di origine, la Romania: l’allontanamento era stato disposto per un periodo di sette anni a causa di una condanna a pena detentiva e perché la persona costituiva una grave minaccia per l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza nazionale. Il condannato era stato messo nelle condizioni di conoscere il provvedimento a suo carico, ma aveva dichiarato per iscritto di rinunciare a qualsiasi impugnazione e di voler tornare nel proprio paese di origine. Tuttavia, dopo essere stato rimpatriato, decideva di tornare in Grecia prima dei sette anni previsti e presentava domanda di attestato di iscrizione quale cittadino dell’Unione. La domanda veniva accolta, ma a seguito di controlli più approfonditi l’autorità competente si accorgeva dell’esistenza del provvedimento di allontanamento e del divieto di rimpatrio; l’attestato di iscrizione era immediatamente revocato e nei confronti del Sig. Petrea veniva emesso un nuovo provvedimento di rimpatrio. A questo punto, l’interessato si rivolgeva alla giustizia greca, sollevando eccezioni sostanziali e procedurali. Nel corso del giudizio, il giudice a quo indirizzava alla Corte di giustizia dell’Unione europea un rinvio pregiudiziale di interpretazione. Con il primo quesito il giudice interno voleva sapere se gli artt. 27 e 32 della direttiva 2004/38 e il principio del legittimo affidamento ammettessero la revoca di un attestato di iscrizione concesso da un’autorità nazionale che non si era accorta da subito dell’esistenza di un divieto di ingresso a carico del cittadino UE richiedente; chiedeva anche se l’articolo 27 della direttiva 2004/38 obbligasse le autorità competenti a verificare, in tale occasione, se l’individuo rappresentava ancora una minaccia reale per l’ordine pubblico. La Corte, a tale proposito, fa presente che l’attestato di iscrizione è un titolo di soggiorno, dunque il suo rilascio non costituisce diritti, ma ha natura dichiarativa: significa, nello specifico, che un attestato di iscrizione, anche se validamente rilasciato, non può dare luogo al diritto di soggiorno a chi di questo diritto non può beneficiare secondo il diritto UE. Perciò, il Sig. Petrea non potrebbe invocare neppure il legittimo affidamento circa un diritto di soggiorno in Grecia, tanto più che l’attestato di iscrizione era stato rilasciato per errore. La Corte poi ricorda che le disposizioni ex art. 27, par. 2, dir. 2004/38, riguardanti l’allontanamento del cittadino UE, si applicano anche ai provvedimenti di divieto di ingresso, disciplinati dall’art. 32. La dimostrazione della gravità, della realtà e dell’attualità della minaccia rappresentata dal soggetto allontanato non devono essere riviste se viene ripresentata una nuova domanda di permesso di soggiorno, specie se la persona in questione ha violato il precedente divieto di ingresso nel paese che lo ha allontanato. Con il secondo quesito, il giudice del rinvio chiedeva orientamenti di carattere procedurale da utilizzare per accertare la legittimità del provvedimento di rimpatrio. La CGUE risponde che gli Stati membri godono di un certo margine di libertà nella designazione delle autorità competenti e nella definizione della procedura da applicare all’adozione di un provvedimento di rimpatrio, potendosi anche ispirare alla direttiva 2008/115. In particolare, autorità e procedure possono essere le stesse in tutti i procedimenti volti a decidere sull’allontanamento dello stesso individuo, come accaduto al Sig. Petrea. Inoltre, non è affatto necessario, nemmeno per l’art. 30 della direttiva 2004/38, che un provvedimento sia notificato al destinatario in una lingua ad egli comprensibile, se così non è stato richiesto: basta che lo Stato direttamente coinvolto ponga in essere «misure utili» alla comprensione dei contenuti del provvedimento. Infine, se l’interessato, come nel caso di specie, non ha impugnato per sua stessa intenzione il primo provvedimento di rimpatrio nei termini previsti, il diritto UE non gli concede la possibilità di chiedere la revoca del secondo provvedimento di allontanamento per via della presunta illegittimità del primo.
 
Decisioni di ricollocamento.
I ricorsi proposti da Slovacchia e Ungheria (CG, 6 settembre 2017, cause riunite C‑643/15 e C‑647/15, Repubblica slovacca e Ungheria c./ Consiglio dell’Unione europea), chiedevano l’annullamento della decisione del Consiglio 2015/1601, una delle due disposizioni sul ricollocamento che, sulla base dell’art.78.3 TFUE, hanno istituito misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia, della Grecia e dell’Ungheria. Tali decisioni, come noto, costituiscono il primo esempio di effettiva applicazione del principio di solidarietà in ambito migratorio, prevedendo il ricollocamento negli altri Stati membri di 120.000 richiedenti protezione, che avrebbero dovuto essere gestiti da Grecia e Italia, da compiersi nell’arco di 2 anni e relativamente a coloro giunti nell’intervallo di tempo tra il 25 settembre 2015 e il 26 settembre 2017 e ai richiedenti giunti dopo il 24 marzo 2015.
Le cause promosse da Slovacchia e Ungheria si fondano su numerosi motivi di ricorso; la nostra attenzione si soffermerà su quelli più rilevanti.
In primo luogo i due Stati sostengono che la decisione impugnata, pur se adottata con procedura non legislativa, sia in realtà un atto legislativo in virtù del suo contenuto e dei suoi effetti, poiché modificherebbe in maniera sostanziale vari atti legislativi del diritto dell’Unione. Se così fosse, l’art.78.3 TFUE non costituirebbe adeguata base giuridica poiché non contiene alcuna indicazione in virtù della quale le misure adottate sulla sua base dovrebbero essere adottate secondo una procedura legislativa.
Secondo la Corte, un atto giuridico dell’Unione europea è legislativo soltanto se è stato adottato sul fondamento di una disposizione dei Trattati che fa espresso riferimento alla procedura legislativa ordinaria o alla procedura legislativa speciale; dal mero riferimento al requisito di una consultazione del Parlamento, contenuto nella base giuridica dell’atto in esame, non può dedursi che la procedura legislativa speciale sia applicabile all’adozione di tale atto. In specie, l’art. 78.3 TFUE prevede che il Consiglio adotti misure temporanee su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento, ma non contiene alcun espresso riferimento né alla procedura legislativa ordinaria né a quella speciale; ne consegue che le misure adottate su suo fondamento sono ‘atti non legislativi’.
In secondo luogo si chiede alla Corte di verificare se se l’art.78.3 consenta di modificare un atto legislativo, in specie il regolamento Dublino III, con misure non legislative.
Sul punto i giudici precisano che l’art. 78. 3, TFUE non definisce la natura delle «misure temporanee» che possono essere adottate in forza di tale disposizione, sono atti non legislativi funzionali ad una risposta a breve termine ad una situazione di emergenza. La possibilità, tuttavia, di consentire che tali misure temporanee non legislative possano derogare a disposizioni di atti legislativi, incontra alcuni limiti: dovranno essere circoscritte sotto il profilo del loro ambito di applicazione sia sostanziale che temporale, così che esse si limitino a rispondere in modo rapido ed effettivo, mediante una disciplina provvisoria, ad una situazione di crisi precisa e temporalmente limitata.
In terzo luogo, nel ricorso slovacco si sostiene che la decisione impugnata non rispetta il presupposto di applicazione dell’articolo 78.3 TFUE, secondo cui lo Stato membro beneficiario delle misure temporanee deve trovarsi in «una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi». Questo perché, l’afflusso di cittadini di paesi terzi in Grecia e in Italia al momento dell’adozione della decisione impugnata o immediatamente prima di tale adozione, era ragionevolmente prevedibile e non può dunque essere qualificato come «improvviso».
I giudici, sul punto, sostengono che vada qualificato come «improvviso» un afflusso di cittadini di paesi terzi di una tale portata da essere imprevedibile, e ciò anche nel caso in cui esso si inserisca in un contesto di crisi migratoria distribuita su vari anni, poiché rende impossibile il normale funzionamento del regime europeo comune di asilo; se ne deduce che l’art.78.3 possa essere usato anche solo con riferimento all’imprevedibilità del numero di persone in arrivo. Ciò porta a ritenere che l’art.78.2, che compie espresso riferimento ad un massiccio afflusso di persone, possa invece essere utilizzato nei casi in cui vi sia certezza nella previsione tanto dal punto di vista del verificarsi del fenomeno che dal punto di vista della sua dimensione.
In quarto luogo, i ricorsi contestavano l’utilizzo del voto a maggioranza qualificata per giungere all’adozione dell’atto, quando invece dalle conclusioni del Consiglio europeo dei giorni 25 e 26 giugno 2015 risultava che essa avrebbe dovuto essere adottata «per consenso» e «rispecchiando le situazioni specifiche degli Stati membri»; in tal modo, Slovacchia e Ungheria asserivano che il Consiglio aveva contravvenuto all’articolo 68 TFUE, violandone le forme sostanziali.
Per i giudici, la presunta incidenza della natura cosiddetta «politica» delle conclusioni del Consiglio europeo - tanto sul potere di iniziativa legislativa della Commissione quanto sulle regole di voto in seno al Consiglio previste dall’articolo 78.3 TFUE - non può costituire un motivo per l’annullamento di un atto da parte della Corte. Infatti, da un lato, il potere di iniziativa legislativa riconosciuto alla Commissione implica che ad essa spetti la decisione sulla presentazione di una proposta di atto legislativo (v., in tal senso, sentenza del 14 aprile 2015, Consiglio/Commissione, C‑409/13, EU:C:2015:217, punti 64 e 70); in particolare, l’articolo 78.3 TFUE non subordina il potere di iniziativa della Commissione alla previa esistenza di orientamenti definiti dal Consiglio europeo ai sensi dell’articolo 68 TFUE.
Dall’altro lato, il medesimo articolo permette al Consiglio di adottare misure a maggioranza qualificata, come nel caso della decisione impugnata; al contempo, il principio dell’equilibrio istituzionale vieta che il Consiglio europeo possa modificare tale regola di voto imponendo al Consiglio una regola di voto diversa, in tal caso all’unanimità. Se del caso, solo i Trattati potrebbero, in casi specifici, autorizzare un’istituzione a modificare una procedura decisionale da essi prevista (sentenza del 10 settembre 2015, Parlamento/Consiglio, C‑363/14, EU:C:2015:579, punto 43).
Il quinto punto verte sull’inidoneità della dec. 2015/1601 a realizzare l’obiettivo perseguito, risultando pertanto contraria al principio di proporzionalità, perché il meccanismo di ricollocazione non sarebbe di natura tale da rimediare alle carenze strutturali dei regimi di asilo greco e italiano.
Secondo i giudici, l’obiettivo del meccanismo di ricollocazione previsto dalla decisione impugnata è di aiutare Grecia e Italia ad affrontare una situazione di emergenza sul proprio territorio, caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi manifestamente bisognosi di protezione internazionale, alleggerendo la pressione considerevole che grava sui regimi di asilo di questi due Stati membri. Il ricollocamento di un numero significativo di richiedenti aventi manifestamente bisogno di protezione internazionale è misura che va in questa direzione; inoltre, il meccanismo fa parte di un insieme di misure intese ad alleggerire l’onere gravante su questi due Stati membri e la sua idoneità a realizzare i propri obiettivi non potrà essere valutata isolatamente, ma nel quadro dell’insieme di misure in cui esso si inserisce.
Un sesto aspetto riguarda l’imposizione delle quote di ricollocamento anche all’Ungheria, inizialmente beneficiaria del meccanismo di ricollocamento e poi rinunciataria. Secondo il governo ungherese l’imposizione di quote vincolanti nei suoi confronti costituirebbe un onere sproporzionato, tenuto conto del fatto che anche l’Ungheria era soggetta ad una situazione di emergenza per la pressione migratoria sulle sue frontiere.
La Corte ricorda come - in un contesto quale quello descritto - gli oneri derivanti dalle adottate misure temporanee devono essere ripartiti tra tutti gli altri Stati membri ai sensi dell’articolo 80 TFUE. Stante il rifiuto ungherese a beneficiarne, il Consiglio non è censurabile sotto il profilo della proporzionalità, per aver dedotto dal principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità che l’Ungheria doveva vedersi attribuire delle quote di ricollocazione, al pari di tutti gli altri Stati membri. Tale Stato avrebbe potuto comunque avvalersi della possibilità prevista dalla stessa decisione di chiedere, a certe condizioni, la sospensione degli obblighi che gli incombono in quanto Stato membro di ricollocazione. Inoltre, permane il diritto di rifiutare la ricollocazione di un richiedente protezione qualora sussistano fondati motivi per ritenere che la persona in questione possa costituire un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico (articolo 5.7, rubricato «Procedura di ricollocazione).
Infine, il ricorso ungherese asserisce che l’atto impugnato avrebbe violato i principi di certezza del diritto e di chiarezza normativa in quanto non indica chiaramente il modo in cui le disposizioni di tale decisione devono essere applicate, né come esse si correlino alle disposizioni del regolamento Dublino III, con particolare riferimento al diritto di ricorso dei richiedenti protezione non ricollocati.
Inoltre, il fatto che i richiedenti rischino, eventualmente, di essere ricollocati in uno Stato membro con il quale essi non intrattengono alcun rapporto particolare solleverebbe la questione della compatibilità con la Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, completata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati del 31 gennaio 1967. Ciò perché, secondo l’interpretazione fornita al punto 192 della guida delle procedure e dei criteri da applicare per stabilire lo status di rifugiato alla luce della Convenzione del 1951 e del protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, il richiedente dovrebbe essere autorizzato a restare nel territorio dello Stato membro nel quale egli ha introdotto la propria domanda fino a che le autorità di tale paese non avranno preso una decisione su quest’ultima. Tale diritto sarebbe altresì riconosciuto dall’art.9 della direttiva procedure, 2013/32/UE.
La decisione impugnata priverebbe dunque del diritto suddetto i richiedenti protezione internazionale e permetterebbe la loro ricollocazione senza il loro consenso in un altro Stato membro con il quale essi non intrattengono alcun rapporto significativo.
Per quanto riguarda la prima censura, sulla violazione dei principi di certezza del diritto e di chiarezza normativa, i giudici ricordano che la decisione impugnata è costituita da un insieme di misure provvisorie, comportanti un meccanismo di ricollocazione temporanea che deroga all’«acquis» relativo al sistema comune in materia di asilo soltanto su alcuni punti precisi ed espressamente elencati. Tale meccanismo si inscrive pienamente nel suddetto «acquis», di modo che questo rimane, in via generale, applicabile.
In tale prospettiva, il Consiglio ha rispettato i principi di certezza del diritto e di chiarezza normativa, precisando i rapporti reciproci tra le disposizioni di tale atto e quelle di atti legislativi adottati nell’ambito della politica comune dell’Unione in materia di asilo. Inoltre, un diritto di ricorso effettivo contro qualsiasi decisione che debba essere presa da un’autorità nazionale nell’ambito della procedura di ricollocazione, deve essere garantito sul piano nazionale ai sensi dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Quanto alla critica mossa dall’Ungheria secondo cui la decisione impugnata non fisserebbe alcun criterio per determinare lo Stato membro di ricollocazione, occorre ricordare che la decisione in parola ha tenuto conto dell’articolo 80 TFUE e dell’articolo 78.3 TFUE, da cui risulta che la determinazione dello Stato membro di ricollocazione deve essere fondata su criteri connessi alla solidarietà e all’equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri.
Occorre aggiungere, da un lato, che l’articolo 6, paragrafi 1 e 2, della decisione impugnata prevede alcuni criteri specifici di determinazione dello Stato membro di ricollocazione analoghi a quelli previsti dal regolamento Dublino III; dall’altro, il suo considerando 34 elenca un insieme di elementi che sono preordinati, in particolare, a che i richiedenti vengano ricollocati in uno Stato membro verso il quale essi intrattengono legami familiari, culturali o sociali e di cui occorre tener conto in modo particolare al momento della designazione dello Stato membro di ricollocazione, ai fini della loro integrazione.
Non si può quindi asserire l’esistenza di un sistema arbitrario che si sarebbe sostituito al sistema oggettivo dettato dal regolamento Dublino III. In particolare, la regola della competenza dello Stato membro di primo ingresso, unica regola di determinazione dello Stato membro competente dettata da tale regolamento alla quale la decisione impugnata apporta una deroga, non si ricollega alle preferenze del richiedente e non mira specificamente a garantire che sussista un legame linguistico, culturale o sociale tra tale richiedente e lo Stato membro competente.
Inoltre, se è pur vero che non è previsto che il richiedente acconsenta alla propria ricollocazione, ciò non toglie che l’interessato vada informato della procedura e della sua destinazione finale, da precisare nello stesso provvedimento di ricollocazione.
Infine, i giudici respingono con decisione il motivo secondo il quale la decisione impugnata, prevedendo il trasferimento prima che venga adottata una decisione sulla domanda di protezione, sarebbe contraria alla Convenzione di Ginevra, in quanto tale convenzione prevedrebbe un diritto di restare nello Stato di presentazione della domanda fintanto che questa è pendente.
I giudici precisano che il Consiglio ha giustamente ricordato che il diritto dell’Unione non consente ai richiedenti di scegliere lo Stato membro competente per l’esame della loro domanda: i criteri previsti dal regolamento Dublino III per determinare lo Stato membro competente a trattare una domanda di protezione internazionale non si ricollegano alle preferenze del richiedente per un determinato Stato membro ospitante.
Inoltre, dalla guida delle procedure e dei criteri da applicare per stabilire lo status di rifugiato alla luce della Convenzione del 1951 e del protocollo del 1967, relativi allo status di rifugiati, non è possibile desumere che la Convenzione di Ginevra sancisca, a beneficio di un richiedente la protezione internazionale, il diritto di restare nello Stato di presentazione della domanda di protezione fintanto che questa è pendente.
Tale passaggio deve essere inteso come un’espressione particolare del principio di non respingimento, il quale vieta che un richiedente la protezione internazionale venga espulso verso uno Stato terzo fino a che non sia intervenuta una decisione sulla sua domanda. Al contrario, il trasferimento nell’ambito di un’operazione di ricollocazione da uno Stato membro ad un altro ha il fine di assicurare un esame della domanda entro termini ragionevoli, e costituisce una misura di gestione di crisi, adottata a livello dell’Unione, col fine di garantire l’esercizio effettivo, nel rispetto della Convenzione di Ginevra, del diritto di asilo, quale sancito dall’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

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