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Fascicolo 1, Marzo 2017


«S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente».
(K. Kavafis, Aspettando i barbari, 1908)

Asilo e protezione internazionale

In questo primo numero della Rassegna di giurisprudenza in materia di protezione internazionale si è scelto di evidenziare la giurisprudenza intervenuta nel 2016 relativamente a questioni processuali e agli effetti dell’impugnazione, di regolamentazione, dunque, del processo, e del diritto del richiedente asilo di rimanere sul territorio nazionale in attesa della decisione finale sul ricorso proposto.

Temi essenziali, in quanto le questioni processuali sono evidentemente propedeutiche al diritto di difesa e dunque al riconoscimento, o al diniego, del diritto alla protezione internazionale o a quella umanitaria, mentre dagli effetti dell’impugnazione si può comprendere se sia garantito al richiedente un effettivo e concreto diritto di impugnazione.
Il recente decreto legge n. 13/2017 ha modificato radicalmente il giudizio della protezione internazionale ed è, pertanto, importante conoscere l’approdo a cui era arrivata la giurisprudenza per avere un termine di paragone di quello che, invece, potrà essere il futuro processo e quale compressione dei diritti potrà produrre.
Un punto di attenzione, infine, si è dedicato alle revoche delle misure di accoglienza ed alla controversa giurisdizione in materia di provvedimenti di rinvio adottati sulla base del Regolamento n. 604/2013, cd. Dublino III.
Nelle successive rassegne si presenteranno le decisioni giurisdizionali intervenute nel merito del diritto alla protezione internazionale, esplorando le varie forme del rifugio politico, della protezione sussidiaria, della protezione umanitaria.
 
Natura del giudizio (art. 19 d.lgs. 150/2011 – art. 35 d.lgs. 25/2008)
Con l’ordinanza n. 11754/2016 la Corte di cassazione ha ritenuto irrilevante l’eccezione di nullità del provvedimento della Commissione territoriale (nel caso, per difetto di traduzione in lingua) in quanto privo di rilevanza autonoma nel giudizio avverso detta decisione, poiché «Tale giudizio, infatti, non ha per oggetto il provvedimento stesso, bensì il diritto soggettivo del ricorrente alla protezione invocata; dunque non può concludersi con il mero annullamento del diniego amministrativo della protezione, ma deve pervenire comunque alla decisione sulla spettanza o meno del diritto alla protezione». Nella pronuncia si richiamano precedenti della stessa Corte (Cass. n. 18632/2014 e n. 26480/2011).
In un passaggio, peraltro, la Cassazione afferma che non esiste l’obbligo per il giudice di ascoltare il richiedente/ricorrente, ma non sono indicate le ragioni del dictum.
 
La forma dell’appello (artt. 342 e 702-quater c.p.c.)
Una questione estremamente controversa ha riguardato nel 2016, e ancora oggi[i], la forma dell’appello da proporsi avverso l’ordinanza del Tribunale che definisce il giudizio relativo alla protezione internazionale (con cui si contesta il diniego di riconoscimento effettuato dalla Commissione territoriale). Problema che si è posto a seguito della riforma dell’art. 19, d.lgs. 150/2011, operata dal d.lgs. n. 142/2015. L’originario testo dell’art. 19[ii], infatti, ha collocato il giudizio in esame nel rito sommario di cognizione (artt. 702-bis, 702-ter e 702-quater c.p.c.), da proporsi con ricorso e nulla ha stabilito, come per tutte le materie attratte nel rito sommario, per il successivo grado d’appello di cui all’art. 702-quater c.p.c., che si limita ad indicare il termine di 30 gg. ma senza specificare se in esso si conserva la forma dell’atto (ricorso) o se, invece, segua la forma ordinaria dell’atto di citazione ex art. 342 c.pc.
Distinzione fondamentale perché se proponibile con il reclamo/ricorso, l’appello è tempestivo se depositato entro i detti 30 gg., mentre se è necessario l’atto di citazione[iii], la tempestività è rispettata se l’atto è notificato entro tale termine, pur iscritto a ruolo entro i successivi 10 gg.
Questione che, in generale, è stata oggetto di svariati interventi giurisprudenziali già per lo speciale rito processuale precedente il d.lgs. 150/2011[iv], arrivando all’approdo secondo cui la forma dell’appello è quella dell’atto di citazione (Cass. SU n. 2907/2014; Cass. civ. n. 18022/2015; Cass. civ. n. 7712/2016 con precedenti richiamati; Cass. civ. n. 9808/2016).
Nello specifico della protezione internazionale, la distinzione è stata rilevante successivamente, in quanto la riforma di semplificazione dei riti del 2011 ha transitato la materia del diritto degli stranieri affidata alla giurisdizione ordinaria (con l’eccezione del giudizio avverso l’espulsione e quella davanti al Tribunale per i minorenni) dalla volontaria giurisdizione ex art. 737 c.p.c. al rito sommario di cognizione. La questione è stata risolta in senso coerente con la giurisprudenza generale, secondo cui, nel silenzio del legislatore, la forma dell’appello è l’atto di citazione, con conseguente inammissibilità dei giudizi proposti con ricorso ovvero con ricorso non notificato a controparte entro il termine di 30 gg. La sentenza n. 26326/2014 della Corte di cassazione, proprio in materia di protezione internazionale, richiamando un precedente in materia di permesso di soggiorno per motivi familiari (Cass. n. 14502/2014 ma in termini cfr. Cass. civ. 13815/2016), ha, infatti, affermato che «al presente procedimento in grado d’appello non può che applicarsi anche in ordine alla fase introduttiva la disciplina ordinaria ex art. 339 cod. proc. civ.».
Un’ulteriore pronuncia della Cassazione conferma tale principio, sia pur per la fase del giudizio davanti al Giudice di legittimità (Cass. civ. n. 13830/2016).
Si tratta, però, di pronunce riguardanti giudizi antecedenti la riforma del 2015.
Con la riforma dell’art. 19, d.lgs. 150/2011, attuata con il d.lgs. n. 142/2015, la questione si è, infatti, nuovamente complicata, in quanto il comma 9, interamente sostituito, è il seguente: «Entro sei mesi dalla presentazione del ricorso, il Tribunale decide, sulla base degli elementi esistenti al momento della decisione, con ordinanza che rigetta il ricorso ovvero riconosce al ricorrente lo status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria. In caso di rigetto, la Corte d’Appello decide sulla impugnazione entro sei mesi dal deposito del ricorso. Entro lo stesso termine, la Corte di Cassazione decide sulla impugnazione del provvedimento di rigetto pronunciato dalla Corte d’Appello».
Il poco accorto legislatore ha associato la parola “ricorso” anche alla fase dell’appello (oltre che, come ordinariamente, per il giudizio di cassazione), senza tuttavia esplicitare se questo comportasse una implicita modifica all’art. 702-quater c.p.c., per la sola materia della protezione internazionale, o se, invece, fosse un termine atecnico (pur inusuale per un legislatore).
Le Corti d’appello che hanno affrontato la questione della forma dell’atto d’appello, si sono divise tra quelle che, in prevalenza, hanno ritenuto unitaria la disciplina processuale dell’art. 702-quater c.p.c., richiedendo pertanto l’atto di citazione per la proposizione dell’appello ( Corte appello Cagliari 7.04.2016, in termini: Corte appello Napoli 3.6.2016), e quelle che, invece, più recentemente, attenendosi al testo letterale della nuova norma, hanno ritenuto sia intervenuta una modifica processuale e che pertanto sia ammissibile il solo ricorso (Corte appello Perugia sent. n. 541/2016; Corte appello Ancona sent. n. 1156/2016 ; Corte appello Trieste sent. n. 103/2017 ).
La questione non è di poco conto perché potrebbe comportare l’inammissibilità di molti appelli proposti seguendo la regola ordinaria, con atto di citazione notificato entro il termine perentorio di 30 gg. indicato dall’art. 702-quater c.p.c.
La questione è in fase di rimessione al giudizio di legittimità della Corte di cassazione e l’auspicio è che intervenga rapidamente, per evitare che la modifica processuale del 2011 abbia un mero effetto deflattivo del contenzioso, a discapito della certezza delle regole processuali e soprattutto del diritto alla giustizia.
 
Il termine di ricorso in Cassazione (artt. 325 e 327 c.pc.) e la sospensione feriale dei termini (L. 742/69)
Una questione forse poco frequentata, ma che merita di essere evidenziata, riguarda il termine di ricorso davanti alla Corte di cassazione e l’applicazione dei termini di sospensione feriale ex lege 742/69 (modificata dall’art. 16 D.L. n. 132/2014 a decorrere dal 2015)[v].
La Corte di cassazione ha affermato che, quanto al termine di ricorso nel giudizio di legittimità, vale quello ordinario semestrale se la sentenza avverso cui è proposto non è notificata, ovvero il termine di 60 gg. in caso di notifica. L’art. 19, d.lgs. 150/2011 (ante riforma ex d.l. n. 13/2017) si è limitato a stabilire che le controversie in materia di protezione internazionale sono trattate in ogni grado in via di urgenza, ma si tratta di una richiesta organizzativa per la magistratura e non una implicita riduzione del termine di ricorso. Secondo Cass. civ. n. 7333/2015, infatti, «deve radicalmente escludersi, in mancanza di espressa indicazione normativa, la sostituzione e restrizione dei termini d'impugnazione della sentenza d'appello davanti alla Corte di Cassazione nonché l'invocata applicazione in via analogica dei termini relativi all'impugnazione in appello».
La Cass. civ. n. 18704/2015, nel confermare tale principio, aggiunge che ai giudizi in esame va applicato anche il termine di sospensione feriale.
 
Onere probatorio/dovere di cooperazione (art. 3, d.lgs. 251/2007 e artt. 8 e 27, d.lgs. 25/2008)
Nel giudizio relativo alla protezione internazionale riveste particolare importanza l’onere probatorio del richiedente asilo, alla luce del vigente principio del dovere di cooperazione tra richiedente e autorità competente all’esame della domanda (artt. 10/16 direttiva 2013/32/UE c.d. procedure rifusa, già direttiva 2005/85/CE; art. 3, d.lgs. 251/2097, artt. 8 e 27, d.lgs. 25/2008), imprescindibile sia in sede amministrativa che giurisdizionale.
Principio dal quale discende la natura attenuata dell’onere probatorio, che è stato oggetto di varie pronunce giurisprudenziali. Sul dovere di cooperazione si vedano, tra le tante, Cass. SU n. 27310/08, Cass. n. 16221/2012; n. 17576/2010; n. 19187/2010; n. 26056/2010; n. 15466/2014; n. 22111/2014; n. 14998/2015; n. 16202/2015.
Con l’ordinanza n. 14157/16 la Corte di cassazione ribadisce i «principi sanciti da questa Corte, secondo la quale la valutazione deve essere svolta alla stregua dei criteri stabiliti nell'art. 3, quinto comma, del d.lgs. n. 251 del 2007 (verifica dell'effettuazione di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; deduzione di un'idonea motivazione sull'assenza di riscontri oggettivi; non contraddittorietà delle dichiarazioni rispetto alla situazione del paese; presentazione tempestiva della domanda; attendibilità intrinseca) (Cass. 16202/2012)» ed afferma che «Il relativo onere probatorio - che riceve un'attenuazione in funzione dell'intensità della persecuzione - incombe sull'istante, per il quale è tuttavia sufficiente provare anche in via indiziaria la "credibilità" dei fatti da esso segnalati (Cass. 18353/2006). Affinché l'onere probatorio possa ritenersi assolto, gli elementi allegati devono avere carattere di precisione, gravità e concordanza desumibili dai dati anche documentali offerti (Cass. 26287/2005)».
Affermazione, quest’ultima, che potrebbe ritenersi in parte difforme da quanto statuito dalla medesima Corte nell’ordinanza n. 15782/2014, in cui aveva precisato che «le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza dell'onere della prova, potendo essere superate grazie alla valutazione, che il giudice di merito è tenuto a compiere, delle circostanze sopra indicate alle lettere da a) ad e)» dell’art. 3, co. 5 d.lgs. 251/2007 (disposizione che si applica nel caso in cui il richiedente asilo non abbia prove a sostegno delle proprie dichiarazioni).
Centralità, dunque, dell’art. 3, co. 5, d.lgs. 251/2007, alla luce del quale va effettuato l’esame della richiesta di protezione ed in particolare il segmento relativo alla credibilità intrinseca delle dichiarazioni. Senza dimenticare, tuttavia, che la valutazione non può arrestarsi al solo giudizio sulle dichiarazioni, dovendo l’esame comprendere anche l’accertamento della loro coerenza con le pertinenti informazioni sul Paese di origine (art. 3, co. 3 lett. a), d.lgs. 251/2007, artt. 8 e 27, d.lgs. 25/2008).
 
Gli effetti sospensivi della proposizione del ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale, nei giudizi successivi al 1^ grado (art. 19, d.lgs. 150/2011 – art. 46, dir. 2013/32/UE).
Una questione che si è posta prepotentemente nel 2016 riguarda gli effetti sospensivi della proposizione del ricorso avverso la decisione negativa della Commissione territoriale. L’art. 19 del d.lgs. 150/2011, infatti, prevede che l’impugnazione sospenda ex lege gli effetti del provvedimento (nonché le sue conseguenze, ovverosia l’allontanamento coattivo dal territorio nazionale), ad eccezione di ipotesi tassativamente indicate dal legislatore (co. 4: richiedenti asilo trattenuti provvedimento che dichiara inammissibile il provvedimento o manifestamente infondato richiesta di asilo presentata dopo essere stato fermato in condizioni di irregolarità di soggiorno e la domanda è stata presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’espulsione).
Il problema ha riguardato, in particolare, la sospensione nel giudizio di appello, evidentemente a fronte di decisione di rigetto del ricorso da parte del Tribunale. Nell’incertezza del testo normativo e a fronte di una diffusa prassi delle questure di non rilascio del permesso di soggiorno nella fase giudiziale di appello, in molti casi si è scelto di presentare alla Corte d’appello istanza di sospensione dell’efficacia dell’ordinanza di 1^ grado ex art. 283 c.p.c.
Sul punto la giurisprudenza di merito si è divisa in due orientamenti, pur con diverse sfumature: il primo ritiene inammissibile l’istanza di sospensione, perché la decisione di 1^ grado, nell’ambito del giudizio sommario di cognizione, non diventa esecutiva in caso di impugnazione, essendo di mero rigetto ( Corte appello Brescia 29.2.2016 , Corte appello Bari 29.9.2016 , ovvero ritenendo la sospensione per l’intero giudizio conforme alla direttiva 2013/32/UE che prevede il diritto del richiedente a rimanere sul territorio nazionale sino alla decisione definitiva ( Corte appello Bologna 27.9.2016 , Corte appello Venezia 10.11.2016 ).
Un secondo orientamento, invece, esclude la possibilità di sospensione perché non prevista espressamente dalla legge e non potendo l’effetto sospensivo del ricorso di 1^ grado sopravvivere al rigetto del ricorso stesso ( Corte appello Firenze 10.11.2015 ), e comunque perché la direttiva 2013/32/UE riguarderebbe il diritto del richiedente di rimanere ma solo fino al giudizio di 1^ grado, potendo il Giudice di 2^ grado sospendere caso per caso gli effetti dell’ordinanza del Tribunale, se ritenuto sussistente il fumus boni juris ed il periculum in mora ( Corte appello Cagliari 8.11.2016 ).
Un ulteriore orientamento, particolarmente restrittivo, è quello di Corte appello Torino ord. 16.12.2016 , secondo cui né l’art. 19, d.lgs. 150/2011, né l’art. 46, dir. 2013/32/UE, né l’art. 5 d.lgs. 150/2011 contemplano la sospensione per i giudizi successivi al 1^ grado, né sarebbe possibile l’applicazione dell’art. 283 c.p.c. perché riferito a pronunce di condanna suscettibili di esecuzione forzata. Secondo la Corte torinese l’art. 19, d.lgs. 150/2011, novellato dal d.lgs. n. 142/2015, abrogando la previgente disposizione, avrebbe circoscritto la possibilità di chiedere la sospensione del provvedimento ex art. 5, d.lgs. 150/2011 (nei casi di non automatismo) solo per determinate ipotesi, escludendo pertanto tutte le altre e comunque «la norma pare univocamente riferirsi al giudizio di primo grado» ed in ciò sarebbe conforme ai dettami della direttiva 2005/85/CE.
 
Le clausole di esclusione della protezione internazionale (artt. 10 e 16 d.lgs. 251/2007)
La Corte di cassazione n. 16100/2015 affronta la questione della ostatività dei reati commessi dal richiedente la protezione internazionale ed in particolare quelli commessi in Italia dopo l’ingresso.
Con riguardo alla protezione sussidiaria la Corte afferma che solo i reati commessi prima dell’ingresso possono essere ritenuti ostativi. Secondo il Giudice di legittimità «Premesso, infatti, che la sussistenza del diritto alla protezione internazionale va accertata alla data della decisione, trattandosi di una condizione dell'azione, va osservato che il testo della lett. b) del comma 1 dell'art. 16 d.lgs. n. 251 del 2007, cit., è stato modificato, dall'art. 1, comma 1, lett. 1), n. 1), d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18 (di attuazione della direttiva 2011/95/UE), nel senso che la protezione sussidiaria non può essere riconosciuta a chi "abbia commesso, al di fuori del territorio nazionale, prima di esservi ammesso in qualità di richiedente, un reato grave...". Perdono dunque rilevanza i reati, ancorché gravi, che, come nella specie, siano stati commessi dal richiedente in Italia».
 
La revoca dell’accoglienza (art. 23 d.lgs. 142/2015 – artt. 7 e 10 l. n. 241/90)
Un’ulteriore questione si è posta, nel 2016, all’attenzione della giurisprudenza ed ha riguardato la revoca delle misure di accoglienza previste dal d.lgs. 142/2015, con conseguente allontanamento del richiedente asilo (in attesa di definizione della sua richiesta di protezione) dalla struttura di accoglienza. Nella prassi, le revoche intervengono ad opera della Prefettura, su segnalazione dell’ente gestore della struttura di accoglienza ma senza un preventivo contraddittorio con l’interessato.
Sul punto, si segnala il TAR Liguria sentenza n. 846/2016, che afferma il principio del pieno contraddittorio che deve informare il procedimento finalizzato alla revoca delle misure di accoglienza, trattandosi di attività discrezionale della P.A. Ritiene, infatti, il giudice amministrativo ligure che «il provvedimento in questione, attesa la sua natura sanzionatoria (cfr. art. 20 comma 4 della direttiva del Parlamento europeo 26.6.2013, n. 2013/33/UE), rivesta un carattere eminentemente discrezionale, e postuli pertanto una valutazione in concreto della singola fattispecie (anche sotto il profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità delle condotte accertate, cfr. art. 20 comma 5 della direttiva n. 2013/33/UE), da effettuarsi soltanto a seguito di un pieno contraddittorio procedimentale».
Negli stessi termini anche il TAR Lazio, Roma, sentenza n. 5658/2015, che affronta il tema dell’applicazione delle norme di garanzia e trasparenza della legge n. 241/90 e s.m., evidenziando che l’art. 7 di essa consente di derogare al principio del pieno contraddittorio solo in presenza «di ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento», che vanno evidenziate, così come va evidenziata, in caso le si ritenga sussistenti, l’adozione di misure cautelari provvisori.
Secondo detta pronuncia «La giurisprudenza, infatti, ha affermato che il grado di urgenza necessario, che consente di omettere le garanzie partecipative, va valutato, di volta in volta, discrezionalmente in relazione alle circostanze ed alla conoscenza da parte dell'autorità amministrativa dei fatti, che risultino obiettivamente di tale gravità ed evidenza da non procrastinare ulteriormente l'adozione del provvedimento o da non richiedere l'apporto collaborativo dell'interessato (Consiglio di Stato n. 3581 del 2013) e che comunque l'urgenza qualificata che, ai sensi dell'art. 7 della l. 241/90, consente all'Amministrazione di derogare all'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento non può che attenere al singolo procedimento e trovare giustificazione nelle esigenze proprie e peculiari del singolo procedimento (Consiglio di Stato n. 3048 del 2013).
Pertanto l'Amministrazione, che ritenga esistenti i presupposti di celerità che legittimano l'omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento, deve dare contezza, nel provvedimento finale, dell'urgenza atteso che le ragioni della speditezza devono essere poste a raffronto con le esigenze di tutela del contraddittorio, soprattutto nel caso in cui il provvedimento da adottare consista nel ritiro o nella modificazione di un atto favorevole per i destinatari con conseguente venir meno di un effetto positivo per i destinatari (Tar Lazio n. 1663 del 2013)».
La sentenza ricorda, inoltre, che l’art 12 del d.lgs n. 140 del 2005, di attuazione della direttiva 2003/9/CE, prevede la revoca delle misure di accoglienza da parte del prefetto con proprio motivato decreto, in una serie di ipotesi, che vanno verificate caso per caso, senza applicazione estensiva.
Infine, la decisione pone l’accento anche sull’inapplicabilità al caso esaminato dell’art. 21-octies l. n. 241/90 (che consente in determinate ipotesi la salvezza del provvedimento viziato da norme procedurali), sia perché non si tratta di atto vincolato ma discrezionale, sia perché in questo secondo caso è onere della PA dimostrare che il provvedimento non sarebbe potuto essere diverso da quello adottato. Prova che nel caso esaminato dalla sentenza non è stato raggiunto.
Il caso esaminato riguardava la disciplina precedente il d.lgs. 142/2015, che ha abrogato il d.lgs. 140/2005, ma i principi affermati sono applicabili anche alla nuova disciplina sull’accoglienza.
 
I provvedimenti di rinvio ai sensi del Regolamento 604/2013 cd. DUBLINO III
Recentemente, la giurisprudenza amministrativa che si è occupata dei provvedimento dell’Unità Dublino, di rinvio di richiedenti asilo nel Paese di primo arrivo (criterio prioritario che assegna la competenza degli Stati UE all’esame della richiesta di protezione internazionale), si è posta la questione della giurisdizione che, come è noto, è rilevabile anche d’ufficio.
Pur in assenza di espressa previsione di legge, a fronte di una prassi che assegnava alla giurisdizione amministrativa i provvedimenti cd. Dublino, già nel 2015 il TAR Puglia, Lecce ha modificato l’orientamento, affermando la giurisdizione ordinaria trattandosi di provvedimenti in materia di diritti soggettivi (il diritto alla protezione internazionale) e pertanto assegnati ratione materiae alla giurisdizione ordinaria (sentenza n. 586/2015, sentenza 2396/2015). Il Consiglio di Stato, tuttavia, ha censurato una di tali sentenze (n. 586), ritenendo sussistente la giurisdizione amministrativa in quanto i provvedimenti di rinvio Dublino presuppongono un’attività valutativa discrezionale dello Stato e pertanto la posizione del richiedente asilo destinatario del rinvio è qualificabile di interesse legittimo, per legge di competenza del giudice amministrativo. In tal senso Consiglio di Stato sentenza n. 5469/2015
Di segno opposto, però, sempre il Consiglio di Stato che con sentenza n. 5738/2015 ha confermato l’altra decisione del TAR Lecce (n. 2396), ovverosia il difetto di giurisdizione amministrativa, ritenendo, che «la situazione giuridica soggettiva dello straniero richiedente protezione internazionale rientri nel novero dei diritti umani fondamentali, con la conseguenza che la garanzia apprestata dall'art. 2 Cost. esclude che dette situazioni possano essere degradate ad interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo» e che «la procedura di protezione internazionale, in ogni sua fase ( anche, dunque, quella dell’interpello dello Stato estero, della sua risposta positiva e della c.d. ripresa in carico, pur connotata dalla facoltà di tale richiesta e dalla sua procedimentalizzazione entro termini definiti e celeri: v. parr. 2 e 3 dell’art. 23 del cit. Reg. n. 604/2013), ha per oggetto il diritto soggettivo dello straniero richiedente alla protezione invocata».
Interessante anche il passaggio ove il Consiglio di Stato afferma che impugnato nel giudizio è anche la decisione di archiviazione della richiesta di protezione internazionale che la Commissione effettua a seguito del provvedimento di rinvio Dublino, sia pur come «atto connesso e/o consequenziale».
Statuizione estremamente chiara, seguita anche dal TAR Lazio con varie pronunce, tra le quali si segnalano le sentenze n. 9831/2016 e n. 11911/2016.
 
 

[i] Il d.d. n. 13/2017 ha eliminato l’appello avverso la decisione del Tribunale (modificando, peraltro, lo stesso giudizio di 1^ grado, oggi attratto nella volontaria giurisdizione ex art. 737 c.p.c.) ma la riforma, se convertita, entrerà in vigore decorsi 180 gg. dall’entrata in vigore del decreto legge e si applicherà ai giudizi sorti dopo quel termine (art. 21).

[ii] Che già aveva modificato l’originario art. 35 d.lgs. 25/2008 che collocava il ricorso avverso la decisione negativa della Commissione territoriale nella volontaria giurisdizione ex art. 737 c.p.c. con reclamo in Corte d’appello ex art. 739 c.p.c.

[iii] Che, è noto, comporta la citazione in giudizio ad opera della parte, nel rispetto dei termini di comparizione ex art. 163-bis c.p.c. e la successiva iscrizione a ruolo entro i successivi 10 gg.

[iv] Che, è noto, comporta la citazione in giudizio ad opera della parte, nel rispetto dei termini di comparizione ex art. 163-bis c.p.c. e la successiva iscrizione a ruolo entro i successivi 10 gg.

[v] La legge 742/69 stabiliva la sospensione feriale dei termini (ad eccezione delle ipotesi di cui all’art. 3) dal 1^ agosto al 15 settembre di ogni anno, mentre con la riforma del 2014 la sospensione opera dall’1 al 31 agosto.

 

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