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Fascicolo 2, Luglio 2017


  «Una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quella esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce».

(Hanna Arendt, Tra passato e futuro)

Non discriminazione

Nel corso del primo quadrimestre del 2017 si segnala in particolare che:

˗ la Corte Costituzionale, investita dai giudici di Bergamo e di Reggio Calabria della questione di costituzionalità dell’art. 74, d.lgs. n 151/2001 (diritto all’assegno di maternità), ne ha dichiarato l’inammissibilità poiché i giudici rimettenti avevano omesso di considerare l’eventuale applicabilità della normativa europea.

˗ la Corte di Cassazione ha ritenuto che nel caso di ipotesi di discriminazione collettiva per nazionalità sussista la legittimazione attiva di enti e associazioni iscritte nell’elenco di cui all’art. 5, d.lgs 215/03 ed altresì che sia ammissibile l’azione avverso un atto amministrativo generale con effetti solo potenziali in quanto suscettibili di determinare una discriminazione collettiva;

˗ si sta consolidando su tutto il territorio nazionale l’orientamento che ha ritenuto discriminatorio il comportamento dell’INPS che, in applicazione della normativa interna, ha respinto la richiesta di prestazioni sociali a favore di stranieri privi di permesso di soggiorno di lungo periodo.

Assegno di maternità
In relazione alla fattispecie sottoposta dal Tribunale di Bergamo, la Corte costituzionale (ord. 7.3 ˗ 4.5.2017) ha rilevato che si trattava di straniere titolari di permesso per motivi familiari che avevano invocato il diritto alla parità di trattamento di cui all’art. 12 direttiva 2011/98/UE. La Corte ha preso atto che detto articolo «attraverso il richiamo all’art. 3, paragrafo 1, lettera b), riconosce [al titolare di permesso unico] lo stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro per quanto concerne i settori della sicurezza sociale come definiti dal regolamento (CE) n. 883/2004». La Corte pare avallare dunque l’orientamento giurisprudenziale di merito che ha affermato la diretta applicabilità dell’art. 12, dir. 2011/98/UE, già citato nella rassegna del numero precedente della Rivista. In relazione alla questione sollevata dal Tribunale di Reggio Calabria, la Corte costituzionale con la medesima ordinanza ha osservato che si trattava di straniera titolare di permesso umanitario e che il giudice rimettente avrebbe dovuto considerare l’art. 34, co. 5, d.lgs 19.11.07 n. 251 il quale «riconosce agli stranieri con permesso di soggiorno umanitario i medesimi diritti attribuiti dal decreto stesso ai titolari dello status di protezione sussidiaria, tra i quali, ai sensi dell’art. 27, comma 1, è annoverato il diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale e sanitaria». Va sottolineato che l’INPS, nonostante la Presidenza del Consiglio dei Ministri fosse intervenuta sostenendo che il diritto era già riconosciuto dall’ordinamento interno (grazie al citato art. 34), ha persistito nel mantenere una tesi in contrasto persino con la posizione del Governo.
 
Bonus bebè
In relazione al c.d. bonus bebè previsto dall’art. 1, co. 125 della legge n. 190/14 nel corso del primo quadrimestre del 2017 si sono moltiplicate ed estese a tutto il territorio nazionale le pronunce che hanno riconosciuto il carattere discriminatorio del rifiuto di erogazione di tale prestazione a coloro che siano legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato in quanto titolari di permesso unico di lavoro o titolari di permesso per motivi famigliari, ribadendo che l’art. 12 della dir. 2011/98/UE è di portata chiara ed incondizionata e deve trovare diretta applicazione nel nostro ordinamento con conseguente disapplicazione delle norme nazionali eventualmente contrastanti e sottolineando, anche in relazione alla suddetta prestazione, che si tratta di un obbligo che grava su tutti gli organi della PA, dunque anche sull’Inps e sui Comuni. In particolare si segnalano le pronunce recenti del Tribunale di Alessandria in data 19.4.2017 del Tribunale di Treviso in data 29.3.2017 e del Tribunale di Como 27.3.2017 (tutte in Banca dati ASGI) che hanno ribadito quanto sostenuto anche dal Tribunale di Modena in merito al fatto che «non vi è sovrapposizione tra il concetto comunitario di sicurezza sociale e quello nazionale di previdenza sociale; il concetto comunitario di sicurezza sociale deve essere valutato alla luce della normativa e della giurisprudenza comunitaria per cui deve essere considerata previdenziale una prestazione attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione legalmente definita e riferita ad uno dei rischi elencati nell’art. 4, n. 1, del Regolamento n. 1408/71, dove sono incluse le prestazioni di invalidità» ( Trib. Modena ord. 24.3.2017 ). 
 
Assegni per il nucleo famigliare
La Corte di Cassazione con sentenza 8.2.˗8.5.2017, n. 11166 ha confermato la decisione della Corte di Appello di Milano che aveva riconosciuto la sussistenza di una discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità nella condotta tenuta dall’INPS e consistita nell’emanazione della circolare 15.1.2013, n. 4 nella quale affermava che il diritto all’assegno per il nucleo famigliare per gli stranieri lungosoggiornanti residenti in Italia sorgeva a far data dal 1 luglio 2013.
In quanto discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità si doveva riconoscere la legittimazione attiva delle associazioni ricorrenti (nella specie ASGI e APN). Nella sentenza in esame la Corte ha evidenziato che la tutela effettiva dei diritti dei singoli non può prescindere da una «legittimazione conferita in capo ad un organismo collettivo» ex art. 5, d.lgs. n. 215/03 «e che “a ciò non era ostativa la previsione dell’art. 3 comma 2 del d.lgs n, 215/03» poiché non «interferisce in alcun modo con le regole processuali in materia di discriminazione» rammentando che le differenze di trattamento basate sulla nazionalità «non potrebbero comunque giustificare trattamenti illeciti ed oscurare le esigenze di protezioni nascenti da discriminazioni collettive per nazionalità (già disciplinate dall’ordinamento), che lo stesso testo normativo riconosce anzi esplicitamente ed alle quali intende volgere la tutela processuale ivi regolata». Infatti secondo il Supremo Collegio «l’utilità e la essenza di queste azioni collettive… consente di esperire in via preventiva una azione di natura collettiva rispetto al verificarsi del danno al fine di tutelare meglio e prima le potenziali vittime» essendo allo scopo sufficiente la presenza di effetti pregiudizievoli potenziali che si producono «anche solo con la adozione dell’atto», nella specie appunto la circolare n. 4/2013 con la quale l’INPS rendeva noto di non voler pagare la prestazione in discorso per il periodo precedente il 1 luglio 2017 suggerendo così ai Comuni di non accogliere la domanda e spiegando un effetto dissuasivo anche nei confronti dei soggetti privati aventi diritto alla prestazione che erano indotti a confidare nella legittimità degli atti della PA. Con una diffusa argomentazione la Corte ha chiarito che tale diritto non poteva che essere fatto decorrere che «dal momento in cui esso doveva esser introdotto nell’ordinamento interno in attuazione della direttiva» (sentenza n. 11166/2017 in Banca dati ASGI). Nella giurisprudenza di merito in relazione alle azioni intraprese dai singoli è stata nuovamente ribadita la natura discriminatoria del comportamento dell’INPS che non consente il computo, nel nucleo famigliare di uno straniero lungosoggiornante, dei famigliari residenti all’estero mentre lo consente per i cittadini italiani essendo tale disparità di trattamento, benché prevista dall’art. 2, co. 6 e 6bis, l. 153/88, in contrasto con il principio sovraordinato di parità tra italiani e stranieri lungosoggiornanti contenuto nell’art. 11 dir. 109/2003/ che, in quanto sufficientemente preciso, deve trovare applicazione diretta nel nostro ordinamento (Tribunale Milano, ord. 28.4.2017 in Banca dati ASGI).
 
Equiparazione del cittadino straniero lungo-soggiornante al cittadino italiano per la nomina a direttore responsabile di un periodico
Un altro profilo su cui nel primo quadrimestre dell’anno sono dovuti intervenire i giudici per sanzionare comportamenti di natura discriminatoria riguarda la possibilità per i cittadini stranieri lungo soggiornanti di poter svolgere l’attività di direttore responsabile di un periodico.
Era accaduto che l’associazione ANSI (Associazione nazionale stampa interculturale) aveva chiesto la registrazione del periodico PROSPETTIVE ALTRE con l’indicazione, quale direttore responsabile, di una cittadina peruviana titolare di permesso di soggiorno di lungo periodo, ma tale iscrizione era stata negata dal Giudice delegato dal Presidente del Tribunale di Torino sul presupposto della necessaria individuazione per tale funzione di un cittadino italiano ex art. 3, co. 1 e 2, l. n.47/48. L’azione antidiscriminatoria subito promossa dall’ANSI e dall’ASGI e respinta in primo grado è stata poi accolta in sede di appello con la sent. 16.1.2017, n. 80 (in Banda dati ASGI). La Corte di Appello di Torino ha ritenuto discriminatorio il comportamento tenuto dal Ministero della Giustizia per il tramite del Presidente del Tribunale di Torino nell’esercizio della funzione amministrativa di registrazione delle testate con un’articolata motivazione in cui ha sottolineato che: 1) sono condivisibili le argomentazioni del giudice di primo grado in merito alla non intervenuta abrogazione dell’art. 3, l. n. 47/48 da parte della normativa successiva; 2) deve essere valorizzata la ratio legis di tale disposizione che viene individuata nella sussistenza di un rapporto continuativo destinato a perdurare nel tempo con lo Stato nel cui ambito territoriale il direttore opera e risiede, nella specifica possibilità della sua identificazione, anche al fine di individuare un patrimonio di sua pertinenza, e della sua facile reperibilità, nonché della sua affidabilità per il rispetto dei valori civilistici fondanti la convivenza sociale e delle norme di diritto pubblico; 3) la ratio legis individuata consente di affermare che non vi è differenza al riguardo fra straniero lungo soggiornante e cittadino italiano in quanto il primo «non può essere in situazioni che non ne permetterebbero se fosse cittadino italiano, l’iscrizione alle liste elettorali politiche»; 4) di conseguenza la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 3 della l. n. 47/48 consente di ritenere discriminatorio il rifiuto di registrazione di un periodico in presenza di un direttore titolare di permesso di lungo soggiorno. Va rilevato, peraltro, che la Corte di Appello di Torino, ha ritenuto sufficiente per far cessare il comportamento discriminatorio il mero ordine di procedere all’adempimento in origine rifiutato, respingendo la richiesta di dare pubblicità al provvedimento assunto in quanto «è da escludere che la Corte che è giudice del merito in relazione ad una controversia specifica, possa pronunciare un provvedimento volto a dare pubblicità all’interpretazione normativa prescelta al fine di attribuire portata generale indiretta a tale interpretazione». 
 
È discriminatorio equiparare il richiedente asilo al “clandestino”
Un altro aspetto su cui nel quadrimestre appena trascorso sono dovuti intervenire i giudici per sanzionare comportamenti lesivi ex art. 2, co. 3 della l. 215/2003 è quella della equiparazione dei richiedenti asilo ai “clandestini” in due diversi episodi sanzionati con il risarcimento dei danni alle organizzazioni ricorrenti, dapprima il Tribunale di Milano, ord. 22.2.2017 (in Banca dati ASGI) e quindi il Tribunale di Brescia, ord. 2.3.2017 (in Banca dati ASGI). In entrambe le ipotesi i giudici hanno ritenuto legittimate le organizzazioni ricorrenti sulla base del disposto dell’ultimo comma dell'art. 5, d.lgs. 215/03, trattandosi di casi di discriminazione collettiva in cui non erano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. Nell’articolata ordinanza del Tribunale di Milano si chiarisce che si ha discriminazione diretta «ogniqualvolta un soggetto sia svantaggiato a causa di una caratteristica che, pur non essendo espressamente indicata quale fattore vietato, sia intimamente e inscindibilmente connessa con il fattore vietato stesso e da ciò si poteva affermare che la tutela contro le discriminazioni per etnia e razza e quella contro le discriminazioni per nazionalità si debbano sommare individuando nel fattore di protezione del caso di specie quella della razza ed etnia sia dalla cittadinanza (diversa da quella italiana)». Il giudice ha sottolineato che il termine “clandestino” ha una valenza denigratoria e viene utilizzato come emblema di negatività, ricordando, fra l’altro, che tale termine designa un soggetto abusivamente presente nel territorio nazionale e contraddistingue il comportamento delittuoso (punito con una contravvenzione) di chi fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del TU sull’immigrazione. Sicché l’individuazione dei richiedenti asilo, soggetti che avevano esercitato un diritto fondamentale chiedendo protezione allo Stato italiano, con l’attributo di “clandestini” non si poteva giustificare come una mera imprecisione terminologica, stante la chiara ed univoca valenza negativa del termine utilizzato.
Il Tribunale di Brescia ha ritenuto che anche postare su facebook affermazioni che degradano i richiedenti asilo a clandestini e irridono le associazioni che danno loro ospitalità attribuendo ad esse il fine illecito di lucrare sul traffico dei clandestini integra un comportamento palesamente discriminatorio.

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