La rassegna del numero 3 del 2018 prende in considerazione, senza pretesa di esaustività, gli orientamenti giurisprudenziali in materia di espulsioni e trattenimenti intervenuti nel secondo quadrimestre del 2018.
ESPULSIONI
Profili sostanziali
Espulsione amministrativa ed espulsione giudiziale: differenze ontologiche e ricadute sul termine per il divieto di reingresso
Una interessante sentenza della Cassazione penale (
Cass. pen. sez. I, n. 37305/2018) in tema di mancata convalida dell’arresto in flagranza perpetrato in danno di uno straniero che, espulso a titolo di misura di sicurezza, faceva rientro nel territorio nazionale in violazione dell’art. 235, co. 3, c.p.p. (disposizione che punisce il trasgressore con la pena della reclusione da uno a quattro anni e per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza), consente di chiarire le differenze strutturali tra le espulsioni amministrative e quelle giudiziali e di mettere ben in luce le relative conseguenze sui termini del divieto di reingresso che è comunque previsto in entrambi i casi.
Nello specifico, l’arrestato era stato precedentemente espulso a titolo di misura di sicurezza (ai sensi dell’art. 86, d.p.r. 309/90, legge stupefacenti) e, ciononostante, aveva fatto reingresso in Italia decorsi cinque anni, essendo privo di titolo abilitante il suo ingresso. Il Tribunale non convalidava l’arresto sul presupposto che, non essendo prevista la durata massima del divieto di reingresso per le espulsioni comminate a titolo di misura di sicurezza, si potesse operare un’assimilazione strutturale tra queste e le espulsioni amministrative (che, come noto, prevedono un divieto di reingresso non superiore a cinque anni), sicché il rientro in Italia decorso un quinquennio dall’allontanamento non avrebbe alcun rilevo penale.
La Corte suprema accoglie il ricorso della Procura della Repubblica, ritenendo errata l’equiparazione strutturale tra le espulsioni amministrative e quelle disposte dal giudice penale (tra le quali vanno annoverate le misure di sicurezza) poiché assolvono a finalità differenti. Infatti, mentre le misure amministrative hanno essenzialmente lo scopo di controllare la regolarità della presenza dello straniero sul territorio, quelle giudiziali hanno la tipica funzione di controllo della pericolosità post delictum e sono pertanto collegate alla commissione di un reato ed alla pericolosità del suo autore. La mancata previsione normativa di un termine massimo di durata dell’espulsione a titolo di misura di sicurezza è strettamente connaturata alla gravità del fatto commesso ed alla pericolosità del suo autore, sicché la sua revocabilità sarà soggetta alla verifica del venir meno dei presupposti legittimanti, attraverso lo strumento del riesame della pericolosità sociale.
In conclusione, poiché i diversi tipi di misura per struttura e finalità non postulano lo stesso statuto giuridico, è privo di fondamento il ragionamento analogico che estende alle espulsioni a titolo di misura di sicurezza i termini di divieto di reingresso previsti per le espulsioni amministrative.
L’espulsione dello straniero inottemperante a pregresso ordine di allontanamento emesso in esecuzione di un’espulsione dichiarata illegittima in sede giurisdizionale
È noto che la maggior parte delle espulsioni sono corredate dall’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale entro sette giorni dalla notificazione di tali atti (art. 14, co. 5 bis, d.lgs. 286/98): ciò avviene quando non sia possibile disporre l’accompagnamento immediato alla frontiera a mezzo della forza pubblica e nemmeno sia possibile disporre il trattenimento nei CPR. Nei casi in cui lo straniero non ottempera all’ordine di allontanamento nel predetto termine, ove rintracciato sul territorio nazionale, deve essere nuovamente espulso. Si tratta di una seconda espulsione che trae la sua giustificazione nel fatto storico di avere violato la precedente (art. 14, co. 5 ter, d.lgs. 286/98).
Il caso in esame riguarda uno straniero espulso nel 2012 con provvedimento prefettizio corredato da un ordine di allontanamento del questore cui lo stesso non aveva ottemperato, ma che era stato annullato a seguito di ricorso giurisdizionale, cui ha fatto seguito un secondo decreto di espulsione consequenziale al primo, emanato nel 2013. In sede di ricorso per Cassazione l’interessato si duole del fatto che il Giudice di pace adito a seguito di ricorso avverso la seconda espulsione non avesse considerato la stretta consequenzialità tra i due provvedimenti e, soprattutto, che il primo era stato annullato.
L’ordinanza in commento così motiva: vero è che lo straniero è stato espulso una seconda volta, dopo l’annullamento della prima espulsione, perché non aveva ottemperato all’ordine del questore, ma il provvedimento di espulsione ha carattere obbligatorio e vincolato, sicché il giudice ordinario è tenuto unicamente a controllare – al momento dell’espulsione – l’assenza del titolo di soggiorno del lo straniero e gli è preclusa ogni tipo di valutazione, anche ai fini della sua eventuale disapplicazione, sulla legittimità del provvedimento del questore che è sindacato spettante unicamente al giudice amministrativo, come insegnano le Sezioni Unite fin dalla sentenza 16.10.2006, n. 22217.
Questa decisione soffre di una evidente confusione tra istituti differenti. Infatti, confonde l’ordine del questore emanato ex art. 14, co. 5 bis, d.lgs. 286/98 che costituisce misura esecutiva del decreto di espulsione del prefetto, con il diniego del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, la cui emanazione è sempre devoluta all’autorità questorile, che sovente costituisce l’atto presupposto del decreto espulsione qualora lo straniero si trattenga nel territorio dello Stato, dopo che sia decorso il termine di 15 giorni per il c.d. “volontario esodo” consentito ai sensi dell’art. 12, d.p.r. 394/98.
Infatti, se è corretto affermare che, al lume della giurisprudenza delle citate Sezioni Unite, è inibito al giudice ordinario qualsiasi sindacato sulla legittimità del rifiuto di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno perché trattasi di materia devoluta alla giurisdizione amministrativa (fatte salve le numerose eccezioni in cui – trattandosi di diritti soggettivi – è prevista la giurisdizione ordinaria, come nelle controversie inerenti il diritto all’unità familiare o la protezione internazionale o umanitaria), altrettanto non può dirsi per l’ordine del questore ex art. 14, co. 5 bis, che è misura meramente attuativa del decreto di espulsione – che attiene esclusivamente alla sua esecuzione – tant’è vero che non è autonomamente impugnabile né dinanzi al giudice ordinario, né a quello amministrativo, secondo il costante e risalente orientamento giurisprudenziale (Cass. civ. sez. VI, 15.6.2011, n. 13115). Consegue che l’ordine questorile di allontanamento non goda di “vita propria” ma la sua efficacia ed esistenza sia strettamente connessa con il decreto espulsivo cui accede.
Tornando ora al caso oggetto della decisione in commento, pare evidente che se l’espulsione comminata al ricorrente nel 2012 era stata annullata era altresì caducato – per illegittimità derivata – l’ordine di allontanamento del questore emesso parallelamente a quella espulsione. Consegue l’evidente illegittimità dell’espulsione comminata nel 2013 che trovava la sua giustificazione nell’inosservanza di un ordine ormai privo di effetti.
La mancata concessione del termine per la partenza volontaria ed i limiti della sua sindacabilità
Occorre rammentare che la modalità esecutiva dell’espulsione amministrativa con la concessione di un termine per la partenza volontaria (ordinariamente compreso tra i 7 ed i 30 giorni) è stata inserita nel nostro ordinamento con la legge 129/2011, di recepimento della direttiva 115/2008/CE (c.d. direttiva rimpatri). L’art. 13, co. 5, d.lgs. 286/98 prevede che il destinatario di un provvedimento di espulsione possa chiedere di beneficiare della concessione del termine in questione solo qualora non ricorrano le condizioni per l’accompagnamento coattivo alla frontiera, tali condizioni sono indicate al comma 4 della medesima disposizione e, tra queste, vi è proprio la mancata richiesta del termine stesso. Ovvio, quindi, che l’espellendo debba essere adeguatamente informato della facoltà che la legge gli consente e, proprio a tal fine, il co. 5.1 del citato art. 13 prescrive che egli debba essere adeguatamente informato tramite apposite schede informative plurilingue. È opportuno ancora ricordare che l’esecuzione dell’espulsione con la concessione del termine per la partenza volontaria costituisce modalità esecutiva del provvedimento ablativo assai più favorevole rispetto all’espulsione eseguita coattivamente, sia perché non viene adottata alcuna misura coercitiva (trattenimento o allontanamento coatto), sia soprattutto perché, ove l’espulso ottemperi all’obbligo di allontanarsi dal territorio dello Stato nel termine concesso, potrà chiedere ed ottenere tramite la Rappresentanza diplomatica italiana del Paese di destinazione la revoca del divieto di reingresso (da tre a cinque anni). Evidente è dunque la natura fortemente premiale insita in questa modalità esecutiva degli atti ablativi.
Si pone la questione relativa alla sede in cui l’interessato possa dolersi della mancata concessione del termine per la partenza volontaria vuoi perché lamenti di non essere stato adeguatamente informato della possibilità di avvalersi di tale facoltà, vuoi perché lamenti che erroneamente l’amministrazione ha ritenuto che sussistessero le condizioni per l’accompagnamento coattivo.
La Suprema Corte (
sez. VI civ., ord. n. 16273/18 pubblicata in data 20.6.2018), investita da un ricorso proposto dal Ministero dell’interno avverso un decreto di un Giudice di pace che aveva annullato un decreto espulsivo proprio perché viziato dalla mancata concessione del termine in questione, ha ritenuto (conformemente alla sua giurisprudenza) che «la decisione relativa alla modalità di attuazione della misura coercitiva dell’espulsione non attiene all’esistenza e legittimità di quest’ultima misura amministrativa, ma alla sua esecuzione, e, conseguentemente, non può essere censurata in sede di opposizione all’espulsione. Tale vizio rileva in sede di sindacato della convalida dell’accompagnamento e/o del trattenimento»
. Non è quindi il ricorso avverso il decreto di espulsione la
sedes in cui dolersi della mancata concessione del termine in questione, quanto solo ed esclusivamente l’udienza di convalida dell’accompagnamento coatto ovvero del trattenimento.
La ratio della decisione si basa sulla distinzione tra provvedimento di espulsione – di competenza del prefetto – e sua esecuzione – di competenza del questore – e, quindi, su una presunta autonomia della seconda rispetto al primo. Questa scissione tra provvedimenti tra loro intrinsecamente connessi è alla base della c.d. “doppia tutela” che presiede le forme di tutela giurisdizionale in materia di espulsione. Infatti, in subjecta materia, convivono una tutela eventuale a cognizione piena, qual è il ricorso avverso il decreto di espulsione, ed una tutela officiosa ma a cognizione parziale, qual è la convalida del trattenimento o dell’accompagnamento coatto alla frontiera. La giurisprudenza di legittimità si è adoperata per ampliare il sindacato del giudice della convalida fino a riconoscergli il potere di sindacare la manifesta illegittimità dell’espulsione (cfr. Cass. civ. sez. VI, n. 17407/2014, 11.7.2014), tuttavia pare che l’orientamento di cui la decisione in commento è espressione paradossalmente riduca il sindacato del giudice della tutela piena, il tutto in una cornice basata sulla distinzione tra provvedimento espulsivo e sua attuazione. Ora, a ben vedere, è proprio questa autonomia tra le due fasi che non convince appieno, specie con riferimento all’espulsione con previa concessione del termine per la partenza volontaria: invero è sempre il prefetto (e mai il questore) a disporre l’espulsione con partenza volontaria, ed è solo al prefetto che l’interessato ha la facoltà di chiedere la concessione di tale termine, a differenza dei casi di espulsione con accompagnamento coattivo che è disposta dal prefetto ma attuata dal questore il quale solo ha il potere di optare per l’esecuzione con accompagnamento immediato, previo trattenimento, ovvero con l’ordine questorile di lasciare il territorio nazionale entro sette giorni. Ed allora, la distinzione di fondo da operare – conformemente alla direttiva rimpatri – è tra espulsione con previa concessione del termine per la partenza volontaria (che nella disciplina eurounitaria dovrebbe essere la regola), ed espulsione con accompagnamento coattivo (che dovrebbe rappresentare l’eccezione). Se si condivide questa impostazione si converrà che non esiste una fase esecutiva della prima, posto che sarà l’interessato a darvi volontaria esecuzione, e, del pari, sarà solo contestando il provvedimento prefettizio – in sede di opposizione all’espulsione – che ci si potrà dolere del mancato riconoscimento della misura non coercitiva (cui conseguono vantaggi sostanziali in ordine alla revoca del divieto di reingresso).
Peraltro, v’è un ulteriore profilo di criticità cui si espone l’indirizzo giurisprudenziale in commento: si tratta dei numerosissimi casi in cui l’espulsione sia corredata dall’ordine di allontanamento disposto dal questore ex art. 14, co. 5 bis, d.lgs. 286/98. In queste ipotesi non si celebra alcuna udienza di convalida, anche se tale tipologia di esecuzione dell’espulsione presuppone sempre un’espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera a mezzo della forza pubblica (e non con termine per la partenza volontaria) che non viene attuata solo per motivi contingenti di mero fatto (l’indisponibilità di un vettore, la necessità di procedere all’identificazione dello straniero, l’indisponibilità di posti nei Centri per il rimpatrio). Consegue che, in assenza dell’udienza di convalida, lo straniero espulso con espulsione corredata da ordine di allontanamento del questore non avrà una sede in cui dolersi del mancato riconoscimento del termine per la partenza volontaria e non potrà beneficiare della revoca del divieto di reingresso per tre o cinque anni. Il che fa dubitare della fondatezza dell’orientamento del Supremo Collegio.
Divieto di espulsione in pendenza della domanda di protezione internazionale
Ricorre per Cassazione una richiedente protezione internazionale avverso un decreto del Giudice di pace che respinse un ricorso avverso la sua espulsione sul presupposto che costei non fosse titolare di permesso di soggiorno e che la presentazione dell’istanza di protezione, in caso di accoglimento, avrebbe impedito il rimpatrio e la richiedente sarebbe stata accolta in apposito Centro.
La Corte (
Cass. civ. sez. VI, ord. n. 19819/18 del 15.5.2018), ritiene fondata la violazione dell’art. 7, co. 3, d.lgs. 25/2008 (diritto a rimanere nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda) richiamando la nota sentenza della CGUE 30.5.2013 C-534/11, Arslan. La Corte rammenta che, ove la domanda di protezione sia stata avanzata in pendenza del procedimento di espulsione, cionondimeno non può farsi luogo all’esecuzione del provvedimento ablativo, ben potendo il richiedente essere trattenuto nei CPR se si ritenga che la domanda sia stata avanzata al solo scopo di eludere o ritardare l’adozione o l’esecuzione del provvedimento di espulsione. La decisione impugnata viene cassata e decisa nel merito con l’annullamento dell’espulsione.
Divieto di espulsione a seguito del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari
Il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari rende inefficace il decreto di espulsione precedentemente emesso, che deve essere revocato in autotutela dalla stessa amministrazione. In caso di inerzia della stessa, il Giudice di pace, investito della questione a seguito di impugnazione del silenzio serbato dalla prefettura, deve provvedere a dichiarare la perdita di efficacia dell’espulsione. È quanto statuito dalla
Corte di cassazione civile, sez.VI, ord. n. 21609/18, pubblicata in data 4.9.2018.
Obbligo del giudice di valutare la legittimità del decreto espulsivo solo con riferimento alla fattispecie contestata dall’amministrazione
Si registra una tendenza di alcuni Giudici di pace a confermare decreti di espulsione sulla base di presupposti di diritto diversi da quelli indicati dall’amministrazione, già oggetto di valutazione nel precedente numero di questa
Rivista. Il principio di diritto per cui «il giudice, ove accerti l’insussistenza dell’ipotesi contestata, deve annullare il provvedimento, non potendo convalidarlo sulla base dell’accertata sussistenza di una diversa ragione di espulsione non contestata dal prefetto» è stato ancora ribadito da Cass. civ. sez. VI, ordd. n.
19868/2018, depositata il 26.7.2018, e n.
10529/2018, depositata il 3.5.2018.
Profili procedurali
Condizioni per la declaratoria della cessata materia del contendere
Un Giudice di pace ha dichiarato la cessione della materia del contendere in un ricorso avverso un decreto di espulsione semplicemente sulla base della dichiarazione del rappresentante dell’amministrazione che si stava «valutando la possibilità di revocare il provvedimento». Trattasi di decisione abnorme, perché la declaratoria della cessata materia del contendere è una causa di estinzione del giudizio che presuppone che la parte che ha agito in giudizio per la tutela dei propri interessi, ne abbia conseguito l’integrale soddisfacimento per fatti sopravvenuti nel corso del giudizio stesso. Tale evidentemente non può essere il mero intento della PA di revocare il provvedimento. Così
Cass. civ. sez. VI, ord. 17712/18, pubblicata il 5.7.2018.
Procura conferita da soggetto non identificato
Un Giudice di pace ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso un decreto di espulsione, ritenendolo carente di valida procura alle liti stante l’impossibilità di identificare la ricorrente, priva di documenti. Il decreto è stato cassato con rinvio da
Cass. civ. sez. VI, ord. 19784/18, pubblicata il 25.7.2018 secondo cui il difensore coll’autentica della procura compie un negozio di diritto pubblico e riveste la qualifica di pubblico ufficiale la cui certificazione può essere contestata solo con la querela di falso. Si precisa che la pubblicazione di decisioni come questa e quella che precede non è certo giustificata dal peculiare interesse scientifico, quanto piuttosto per evidenziare i gravi errori in cui troppo spesso inciampano le decisioni di alcuni Giudici di pace.
TRATTENIMENTO
Garanzie del contradditorio – udienza di convalida – avviso al difensore
La
Corte di Cassazione ha affermato con ordinanza n.
18769/2018 che la effettiva nomina di un difensore di fiducia prima dell’udienza di convalida del provvedimento di trattenimento rende necessaria la partecipazione del difensore che deve essere consentita mediante una puntuale specificazione e comunicazione del luogo e del tempo in cui si svolgerà l’udienza di convalida.
La Corte ha richiamato il proprio costante orientamento secondo cui in tema di procedimento di convalida del trattenimento dello straniero nel Centro di identificazione ed espulsione le garanzie del contraddittorio, consistenti nella partecipazione necessaria del difensore e nell’audizione dell’interessato, trovano applicazione senza che sia necessaria la richiesta dell’interessato di essere sentito (Cass. civ. sez. VI-1 n. 26803 del 13 novembre 2017).
La Corte ha inoltre ribadito che la mancata partecipazione del difensore di fiducia nel procedimento di convalida della misura di trattenimento presso un Centro di permanenza temporanea adottata dal questore, a causa del mancato avviso al difensore nominato della data fissata per la relativa udienza non può essere sanata da alcun altro atto equivalente, quale la presenza in udienza del difensore designato dal Giudice di pace, atteso che, ai sensi dell’art. art. 14, co. 4, d.lgs. 286/1998, si applicano all’udienza di convalida del provvedimento di trattenimento le disposizioni di cui al sesto e settimo periodo del comma 8 del precedente art. 13, dove viene esplicitamente affermato che solo qualora lo straniero sia sprovvisto di un difensore sarà assistito da uno nominato d’ufficio (Cass. civ. sez. I n. 16212 del 17 luglio 2006).
MISURE ALTERNATIVE AL TRATTENIMENTO
Garanzie del contradditorio – udienza di convalida – avviso al difensore
Facendo seguito alla pronuncia n.
2997/2018 del 7/02/2018, in cui aveva affermato implicitamente che anche per la convalida delle misure alternative è necessaria la celebrazione di un’udienza, la Corte con le ordinanze interlocutorie nn.
21930/2018 del 7/9/2018 e
21931/2018 del 7/9/2018 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, co. 1
bis, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui non prevede che il giudizio di convalida della misura di cui alla lett. c) di tale disposizione si svolga in udienza con la partecipazione necessaria del difensore dell’interessato, eventualmente nominato d’ufficio, per contrasto con gli artt. 13 e 24, co. 2, Cost.
La Corte ha rilevato che le misure alternative al trattenimento incidono in modo significativo sulla libertà personale del destinatario, il quale è presumibilmente inibito da limiti culturali e sociali che ne ostacolano le consapevolezze, nonché le capacità di autodifesa, e pertanto ha bisogno dell’assistenza e difesa tecnica. Queste considerazioni hanno indotto la Corte a ritenere che non si potessero applicare alla convalida delle misure alternative le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 144/1997 che aveva escluso l’illegittimità costituzionale delle norme che disciplinano il c.d. DASPO, misura per certi verti analoga a quella in esame ma non altrettanto incidente sulla libertà personale e rivolta a soggetti che possono presumersi, per cultura personale e radicamento nella società, maggiormente consapevoli dei propri diritti e capaci, tra l’altro, di produrre al giudice scritti difensivi redatti personalmente.
La Corte ha altresì escluso di poter interpretare la norma in senso costituzionalmente orientato.
Proroga del trattenimento, motivazione, presenza del trattenuto, termini
La Corte, con ordinanza n.
16740/2018 del 26.6.2018, ha affermato che è illegittimo, perché fondato su motivazione del tutto apparente, il decreto di proroga del trattenimento che si limiti a dare atto della «sussistenza dei presupposti che legittimano la concessione della proroga del temine di permanenza presso il CIE per ulteriori 30 gg», senza alcuna menzione delle ragioni, in fatto o in diritto, che legittimano la proroga, e senza dar conto alcuno delle deduzioni difensive della parte, riportate anche nel verbale d’udienza (cfr. Cass. 18748/2015; n. 5744/2017). Nella stessa ordinanza la Corte ha invece ritenuto legittimo il decreto di proroga del trattenimento adottato in udienza alla quale non ha partecipato l’interessato per motivi precauzionali di natura igienico-sanitaria, ma alla presenza del difensore. Del pari ha ritenuto irrilevante la circostanza che il provvedimento di proroga del trattenimento sia stato disposto qualche giorno prima della scadenza del precedente termine di trattenimento, risultando anzi del tutto coerente con l’esigenza di provvedere tempestivamente che la decisione sulla proroga debba avvenire prima della predetta scadenza, dovendosi altrimenti disporre il rilascio dello straniero (cfr. Cass. 6326/2017).
Con ordinanza n.
13990/2018 del 31/5/2018 la Corte, dopo aver ribadito che il cittadino straniero ha l’interesse ad ottenere l’annullamento del decreto di convalida del trattenimento anche se il trattenimento è nel frattempo cessato, sia per il diritto al risarcimento derivante dall’illegittima privazione della libertà personale, sia al fine di eliminare ogni impedimento illegittimo al riconoscimento della sussistenza delle condizioni di rientro e soggiorno nel territorio italiano, ha inoltre confermato che la presenza dell’interessato all’udienza di convalida del trattenimento è necessaria e indefettibile, e la sua assenza, in mancanza di indicazione delle ragioni e di una motivazione atta a ritenere giustificata tale assenza, integra difetto assoluto di motivazione che costituisce, di per sé, vizio sufficiente all’annullamento del provvedimento impugnato.
Provvedimento presupposto
La Corte con ordinanza n.
18035/2018 del 9/7/2018 ha affermato che è legittima la proroga del trattenimento disposto, ai sensi dell’art. 6, co. 2, lett. d), d.lgs. 142/2015, sulla base del ritenuto rischio di fuga del richiedente asilo, non rilevando che fosse stata in precedenza disposta dal giudice penale, e nelle more del trattenimento revocata dal magistrato di sorveglianza, l’espulsione come misura di sicurezza.
Precedente detenzione
La Corte con ordinanza n.
16417/2018 del 21/6/2018 ha chiarito che è illegittimo il provvedimento del Giudice di pace che convalidi il trattenimento senza prendere in considerazione il pregresso trattenimento per un periodo superiore a 90 giorni e la pregressa detenzione in struttura carceraria per un periodo di tre anni, fatti dedotti dalla difesa e rilevanti per la decisione poiché ostano a un ulteriore trattenimento.