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Fascicolo 3, Novembre 2019


«Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale di speciale disperazione / e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità, di verità.   [...] Ricorda Signore questi servi disobbedienti / alle leggi del branco / non dimenticare il loro volto / che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti come una svista / come un'anomalia / come una distrazione / come un dovere».
(Fabrizio de Andrè, Smisurata Preghiera, in Anime salve, 1996)

Penale

Decisioni della Cassazione in relazione al delitto di inottemperanza all’ordine di allontanamento ex art. 14, co. 5 ter TU
La prima sentenza che merita di essere segnalata, anche per i suoi risvolti prasseologici, è la n. 29465/2019 della I sezione, che annulla senza rinvio una decisione di condanna emessa in primo grado in relazione al reato di cui all’art. 14, co. 5-ter TU.
La sentenza riafferma il principio di diritto secondo cui il giudice penale può disapplicare l’ordine del questore laddove il decreto prefettizio di espulsione ex art. 13, co. 2 TU, che ne costituisce l’atto amministrativo presupposto e che deve essere, sia pure sinteticamente, motivato, sia illegittimo e in particolare non rispetti il quadro normativo di riferimento. Nella fattispecie si trattava di un decreto prefettizio emesso prima che si fosse completato l’iter giurisdizionale di verifica della legittimità della reiezione da parte della competente Commissione territoriale di una domanda di protezione internazionale, e che fosse cessato l’effetto sospensivo di tale contenzioso in sede civile ordinaria secondo la normativa vigente all’epoca (d.lgs. n. 150 del 2011, art. 19, che aveva previsto l’applicazione del rito sommario di primo grado con conseguente assoggettamento dell’ordinanza del Tribunale all’appello, secondo la regola generale di cui all’art. 702-quater c.p.c.). Si tratta della normativa che prevedeva che il ricorso in sede giurisdizionale avverso il provvedimento di rigetto sospendesse l’efficacia dello stesso fino alla definitività della decisione dell’A.G. ordinaria, e dunque anche dopo la decisione negativa di primo grado. Nel caso in esame il provvedimento era stato emesso dopo la decisione confermativa di quella emessa in primo grado (e dunque ancora negativa) della Corte d’appello, ma prima che la stessa divenisse definitiva.
La Cassazione non ha mancato ovviamente di sottolineare come la portata del principio suddetto sia limitata alla normativa pro tempore vigente e come la stessa sia stata in seguito modificata nel senso che l’efficacia sospensiva del ricorso giurisdizionale cessa ora con la pronuncia di rigetto in primo grado (d.lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis co. 13, come introdotto dal d.l. n. 13 del 2017, art. 6 co. 1, lett. g) in vigore dal 18.2.2017). Tuttavia il principio affermato conserva un campo di applicazione pratica per casi analoghi ove risultasse applicabile il regime processuale precedente alla riforma del 2017.

 

La seconda sentenza che si segnala, ancora di annullamento senza rinvio di pronuncia di condanna, è la n. 25358/2019 della I sezione della Corte di cassazione, che riguarda sempre i reati di cui agli artt. 14, co. 5-ter e quater TU, ma sotto l’aspetto procedurale della preclusione al proseguimento dell’azione penale ex art. 14, co. 5-septies, una volta intervenuta l’esecuzione dell’espulsione amministrativa, e della natura di improcedibilità della sentenza da emettere al riguardo. La decisione è frutto di una lunga disamina della normativa processuale di riferimento e perviene alla conclusione che proprio per la sua natura di decisione di accertamento di una causa di improcedibilità la stessa sia rilevabile d’ufficio, anche nel giudizio di Cassazione ed in deroga ai limiti di operatività del principio devolutivo in sede di impugnazione.

 

Merita infine un cenno la sentenza della V sezione n. 25598/2019, relativa all’onere della prova circa la sussistenza di un «giustificato motivo» idoneo, ai sensi dell’art. 14, co. 5-ter, a escludere l’integrazione del reato di inottemperanza all’ordine di allontanamento (nel caso di specie, l’imputato si era difeso allegando l’impossibilità di acquistare il biglietto aereo per il rimpatrio in ragione del proprio stato di impossidenza). I giudici di legittimità, ribadendo la propria tradizionale giurisprudenza, ricordano come, in relazione al requisito negativo del reato rappresentato dalla clausola del “senza giustificato motivo”, in capo alla difesa dell’imputato spetti solo un onere di allegazione di tale motivo, posto che «nell’ordinamento processuale penale, non è previsto un onere probatorio a carico dell’imputato, modellato sui principi propri del processo civile, ma è, al contrario, prospettabile un onere di allegazione, in virtù del quale l’imputato è tenuto a fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore» (la Cassazione annulla di conseguenza la sentenza di condanna impugnata, che aveva motivato la propria decisione sul fatto che la difesa non avrebbe adempiuto al proprio onere di provare i fatti allegati).

 

Decisioni in materia di favoreggiamento dell’ingresso irregolare ex art. 12 TU
In materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, una prima decisione d’interesse è costituita dalla sentenza n. 25356/2019 della I sezione della Cassazione, che ha ribadito il principio di diritto secondo il quale l’art. 512, co. 1 c.p.p. (relativo alla lettura in dibattimento e conseguente utilizzabilità ai fini della decisione di atti delle indagini preliminari per sopravvenuta irripetibilità) trova applicazione anche quando risulti impossibile, per fatto non riconducibile alla parte processuale interessata, l’esame di persona chiamata a rendere l’incidente probatorio.
In un processo relativo al reato di procurato ingresso clandestino via mare di cittadini non comunitari (art. 12, co. 3, 3-bis e 3-ter TU) mediante l’uso di un’imbarcazione proveniente dalla Libia che trasportava 536 migranti (di cui 14 purtroppo deceduti durante il trasporto a causa delle condizioni nelle quali erano stati assiepati nella stiva, con contestazione dell’ulteriore fattispecie della morte come conseguenza di altro delitto ex art. 586 c.p.), parte del materiale probatorio a carico degli imputati individuati come c.d. scafisti (cui nella specie era contestato pure l’uso minaccioso di armi bianche) era stato costituito nel giudizio di merito da dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria da alcune delle persone trasportate. Più precisamente si trattava di persone per le quali, dopo la loro prima escussione a verbale, era stato tempestivamente chiesto dalla Procura della Repubblica procedente l’incidente probatorio, teso come noto ad anticipare nella fase delle indagini preliminari la formazione della prova in contraddittorio. Nel tempo intercorrente tra il rilascio delle prime dichiarazioni e l’esame da parte del giudice delle indagini preliminari competente ex art. 392 c.p.p., gli interessati risultavano collocati in Centri di accoglienza, da cui si erano però allontanati prima dello svolgimento dell’incidente probatorio, ammesso e fissato dal GIP. In questi casi l’incidente probatorio stesso non si era potuto svolgere, a differenza di altri nei quali aveva avuto regolare corso, nel contraddittorio delle parti, anche con l’acquisizione di filmati girati dai testimoni.
Il ragionamento della Corte relativo alle controdeduzioni difensive in ordine alla lettura ex art. 512 c.p.p. e comunque all’inutilizzabilità del relativo contenuto per volontaria sottrazione al contraddittorio ex art. 526 co. 1-bis c.p.p. muove dalla distinzione dei piani su cui si muove la prima norma rispetto alla seconda.
Nel caso dell’art. 512 c.p.p. si tratta di norma relativa all’acquisizione della prova di cui vengono ricordati i requisiti dell’irripetibilità sopravvenuta e dell’imprevedibilità originaria. Nella ricerca dell’equilibrio perseguito tra impostazione processuale accusatoria e dispersione del materiale probatorio assume importanza centrale l’incolpevole mancata attivazione, ad opera della parte interessata, dell’incidente probatorio in situazioni che presentino pericolo di perdita della prova, e ciò nella prospettiva della «accertata impossibilità di natura oggettiva» richiesta dall’art. 111, co. 5 Cost. per la disciplina legislativa dei casi di formazione della prova in assenza di contraddittorio. Rispetto alla specifica situazione di irrepetibilità dell’atto per irreperibilità sopravvenuta del dichiarante la Cassazione ribadisce la sua giurisprudenza, secondo la quale per escludere, con valutazione ex ante e in base alle conoscenze concrete del caso, la prevedibilità dell’irreperibilità stessa, non basta la condizione di irregolarità nel soggiorno del cittadino non UE. Fatte queste premesse giuridiche, la Corte arriva ad affermare che, se ordinariamente le condizioni legittimanti la lettura delle dichiarazioni ex art. 512 c.p.p. si verificano a dibattimento, tuttavia nessuna norma processuale specifica vieta e la logica del sistema processuale anzi consente, che le condizioni stesse risalgano alla fase dell’incidente probatorio. Nella fattispecie i rapidi tempi di attivazione della procedura e di convocazione degli interessati e la rete di protezione attivata nei loro confronti davano adeguate garanzie ex ante nei termini suddetti.
Su un altro piano, ovvero su quello della valutazione della prova, si muove invece la regola di cui all’art. 526 co. 1-bis c.p.p. che a sua volta riproduce la norma di cui all’art. 111, co. 4 II p. Cost., che vieta che la colpevolezza dell’imputato possa essere provata sulla base delle dichiarazioni di chi si è sempre volontariamente sottratto al contraddittorio. Si tratta di una regola di chiusura del sistema accusatorio che opera a prescindere dalla regolare acquisizione della prova, come opportunamente anche in questa sentenza viene rimarcato. Nell’applicazione del principio viene in gioco la giurisprudenza della Corte EDU e della stessa Corte di cassazione sull’art. 6 della CEDU, nel senso della preclusione di una sentenza di condanna che faccia fondamento esclusivo o significativo su dichiarazioni predibattimentali rese in deficit di contraddittorio e seguite da un’assenza volontaria (anche al di là di una specifica volontà di sottrazione al controesame). Nella fattispecie questa situazione è stata esclusa per la presenza nel giudizio di molte altre prove dichiarative autosufficienti assunte in contraddittorio, anche con supporto visivo documentale.

 

Merita poi una segnalazione anche la sentenza n. 15292/2019 (della VI sezione della Cassazione) che riguarda un’altra ipotesi di procurato ingresso irregolare via mare ex art. 12 TU, giudicata in primo grado dal GUP del Tribunale di Trapani, e parzialmente riformata quanto alla pena dalla Corte d’appello di Palermo.
La Cassazione, a fronte di un’eccezione di difetto di giurisdizione, motivata dal trasbordo dei circa 200 migranti, fin lì trasportati su un barcone in metallo proveniente dalle coste nord africane, su una nave militare olandese intervenuta in soccorso dei migranti in acque internazionali contigue alle coste greche, ribadisce la propria giurisprudenza su casi analoghi, che individua nell’ultima parte della condotta e in specie nel luogo di sbarco (Trapani) gli elementi per incardinare la giurisdizione italiana ex art. 6, co. 2 c.p. ed individuare la competenza territoriale ex art. 8 c.p.p.
Secondo questa giurisprudenza «l’ultimo tratto del trasposto marittimo rappresenta un passaggio essenziale e pianificato di una concatenazione articolata di condotte che non può essere interrotta nella sua continuità», nel senso che il soccorso marittimo, doveroso sulla base delle vigenti Convenzioni internazionali e in particolare di quella delle Nazioni Unite sul diritto del mare sottoscritta a Montego Bay (in specie art. 98, par. 1), non rappresenta un’evenienza imprevedibile ed idonea ad interrompere il nesso causale e così a radicare la giurisdizione nel luogo di soccorso, ma è invece una circostanza prevista e provocata con l’abbandono alla deriva del natante, non idoneo ad assicurare una sicura navigazione. In questo modo si determina un’attività dei soccorritori scriminata dalla stato di necessità ex art. 54 c.p. e in particolare ai sensi del co. 3 per la determinazione dello stato di pericolo ad opera dell’altrui minaccia. Attività da addebitarsi, secondo la teoria dell’autore mediato, a coloro che hanno volutamente creato il pericolo, determinato il soccorso e così conseguito l’obiettivo finale dello sbarco in territorio italiano.

 

Di grande interesse sono infine i provvedimenti cautelari con cui la magistratura agrigentina ha risolto le vicenda della nave Open Arms, cui nell’agosto scorso era stato negato per più di dieci giorni dalle autorità italiane l’accesso nel porto di Lampedusa e lo sbarco dei migranti soccorsi in mare. La vicenda è molto nota, e viene analiticamente ripercorsa nei due provvedimenti allegati. Il primo è il decreto di sequestro preventivo d’urgenza , con cui il 20 agosto 2019 la Procura di Agrigento, constatate le gravissime condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza venutesi a creare sulla nave in ragione della lunga attesa, dispone il sequestro della nave e l’immediato sbarco dei migranti che vi si trovavano a bordo, ipotizzando il delitto di rifiuto d’atti d’ufficio ex art. 328 c.p., co. 1 a carico delle autorità cui è imputabile il rifiuto di autorizzare lo sbarco; la Procura si sofferma sulle ragioni per cui, secondo la normativa nazionale e internazionale, doveva considerarsi illegittimo il rifiuto allo sbarco, e ritiene di conseguenza di configurare a carico delle autorità il delitto di cui sopra. Il secondo provvedimento, del 29 agosto, è quello con cui il GIP di Agrigento convalida il sequestro della Procura, disponendo al contempo il dissequestro dell’imbarcazione; il giudice condivide le ragioni addotte dalla Procura per affermare l’illegittimità del rifiuto allo sbarco opposto dalle autorità alla Open Arms, e oltre a ritenere sussistente gli estremi del reato contestato, ravvisa anche la commissione del più grave reato di sequestro di persona nella «illecita e consapevole privazione della libertà personale dei migranti soccorsi, costretti a bordo per un’apprezzabile lasso di tempo contro la loro volontà»; il sequestro viene allora convalidato in quanto al momento della sua emanazione sussisteva l’urgenza di porre fine all’illecito trattenimento e di consentire lo sbarco immediato, ma viene al contempo disposto il dissequestro della nave posto che, una volta cessato con lo sbarco il periculum in mora, l’imbarcazione deve essere restituita all’avente diritto (la ONG che gestiva la Open Arms), che risulta estraneo al reato contestato. La vicenda presenta notevoli aspetti di somiglianza con il noto caso della nave Diciotti, conclusosi con la richiesta di autorizzazione a procedere per il reato di sequestro di persona a carico del Ministro dell’interno avanzata dal Tribunale dei ministri di Catania, e poi respinta dal Senato (cfr. «Il parere della Giunta del Senato per le immunità nel caso Diciotti. Alcune riflessioni in attesa della decisione dell’assemblea del Senato»).

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