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Fascicolo 1, Marzo 2024


«Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte "originali",

significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte,

"socializzarle" per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali».

Antonio Gramsci

 

Corte di giustizia dell'Unione europea

Artt. 3, 4, 5 e 29 del regolamento 604/2013 e art. 29 del regolamento 603/2013: diritti di informazione e rischio di refoulement indiretto nelle procedure di ripresa in carico

Il caso Ministero dell’interno, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione – Unità Dublino (CGUE, cause riunite C-228/21, C-254/21, C-297/21, C-315/21 e C-328/21, sentenza del 30 novembre 2023) trae origine da rinvii pregiudiziali con i quali alla Corte è stato richiesto di esaminare alcuni profili dei diritti di richiedenti protezione internazionale che avevano presentato una prima domanda in uno Stato membro e una nuova domanda in un altro Stato membro, ove soggiornavano irregolarmente. Il contesto giuridico di riferimento era rappresentato principalmente dal regolamento 604/2013 (“Dublino III”).

Veniva in rilievo soprattutto l’esigenza di trasferire gli interessati verso gli Stati membri che avrebbero dovuto riprenderli in carico, ma le decisioni di trasferimento erano contestate per vari motivi: tra questi, segnatamente, la presunta violazione del diritto di informazione – dovuta all’omessa consegna dell’opuscolo informativo previsto dal regolamento 603/2013 (“regolamento Eurodac”) e dalla mancata effettuazione del colloquio personale – e l’asserito rischio di refoulement indiretto da parte dello Stato membro richiesto. Quanto al diritto del richiedente di essere informato, la Corte raggiunge le seguenti conclusioni: dal punto di vista sostanziale, l’obbligo di fornire informazioni (incluso l’opuscolo comune il cui modello è contenuto nell’allegato X al regolamento n. 1560/2003) e di svolgere il colloquio personale si impone agli Stati membri tanto nell’ambito di una prima domanda di protezione internazionale e di una procedura di presa in carico, quanto nell’ambito di una domanda di protezione internazionale successiva e di una situazione che possa dar luogo a procedure di ripresa in carico. Tale lettura è l’esito di una interpretazione degli artt. 4 e 5 del Dublino III, oltre che dell’art. 29 del regolamento Eurodac, interpretazione che è anche di tipo sistematico e teleologico. In particolare, le disposizioni sul diritto di informazione di cui si discute si inseriscono in un contesto normativo più ampio, che non si limita al solo Dublino III e nel suo insieme conferma l’esigenza di consegnare l’opuscolo comune al cittadino di Paese terzo o all’apolide; ciò anche quando l’interessato si trovi in situazione di soggiorno irregolare nel territorio di uno Stato membro e le sue impronte digitali sono state acquisite e trasmesse al sistema centrale da parte dell’autorità nazionale competente per verificare l’esistenza di un’eventuale domanda di protezione internazionale già presentata in un altro Stato membro. Inoltre, la Corte rammenta che questi diritti servono altresì a determinare con più precisione lo Stato membro competente per l’esame della domanda. In effetti, anche in virtù del principio di leale cooperazione, gli Stati membri devono mettere l’interessato nelle condizioni di fornire quegli elementi di informazione che, in alcuni casi, potrebbero fare affiorare errori manifesti nella precedente identificazione dello Stato membro competente e, per l’effetto, risolvere la problematica modificando l’assegnazione della competenza. A questo riguardo, l’opuscolo comune è di particolare rilievo, perché il suo obiettivo è fornire all’interessato informazioni relative all’applicazione del regolamento Dublino III e ai suoi diritti nel contesto della determinazione dello Stato membro competente; il colloquio personale, invece, costituisce il modo per verificare che l’interessato comprenda le informazioni contenute nell’opuscolo e rappresenta l’occasione più indicata per comunicare all’autorità competente i suddetti elementi di informazione. Tutti questi obblighi informativi sono dunque parti di garanzie procedurali che gli Stati membri devono rispettare, anche se le conseguenze di eventuali violazioni non sono espressamente illustrate nelle norme interessate. La Corte, allora, richiama il principio di autonomia processuale degli ordinamenti giuridici interni di ciascuno Stato membro: gli Stati membri possono stabilire le modalità processuali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la salvaguardia dei diritti dei singoli, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività). Nella fattispecie, e con specifico riferimento alla violazione dell’obbligo di effettuare il colloquio personale, la Corte si concentra sul principio di effettività e mutua le conclusioni della propria giurisprudenza sull’art. 33, par. 2, lett. a), della direttiva 2013/32 (in tema di domande inammissibili). Pertanto, a meno che non incorra una delle ipotesi nelle quali il regolamento cd. Dublino III dispensa lo Stato membro dall’obbligo di eseguire il colloquio, la conseguenza principale di detta violazione è che la decisione di trasferimento dovrà essere annullata, sempre che la normativa nazionale consenta all’interessato di esporre di persona tutti i suoi argomenti in sede di ricorso contro la decisione impugnata e comunque nel corso di un’audizione che rispetti le condizioni e le garanzie previste dall’art. 5 del Dublino III. Se però il problema è costituito soltanto dalla mancata consegna dell’opuscolo comune, la soluzione prospettata dalla Corte è diversa: l’annullamento della decisione di trasferimento è possibile solo se il giudice competente, tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto specifiche del caso di specie, ritiene che tale omissione abbia avuto l’effetto (nonostante l’esecuzione del colloquio) di privare l’interessato della possibilità di far valere i propri argomenti in misura tale che il procedimento nei suoi confronti avrebbe potuto condurre a un risultato diverso. Venendo ora all’analisi delle questioni direttamente o indirettamente connesse al refoulement indiretto, la Corte traccia la rotta nel modo seguente. Facendo leva sul principio di mutua fiducia, nega che il giudice nazionale adito per la contestazione di una decisione di trasferimento verso lo Stato membro ritenuto competente (e, quindi, richiesto) possa valutare il rischio di refoulement da parte di quest’ultimo. Posto che in gioco dovrebbero pur sempre esservi carenze sistemiche, generalizzate o che colpiscono determinati gruppi di persone, la Corte rileva che divergenze di opinioni tra le autorità e i giudici dei due Stati membri sull’interpretazione dei presupposti sostanziali della protezione internazionale non dimostrerebbero l’esistenza di simili problematiche. Senza contare che ciò va oltre la finalità del Dublino III, cioè stabilire un metodo chiaro e operativo di determinazione dello Stato membro competente e a prevenire movimenti secondari di richiedenti asilo tra gli Stati membri. Sicché, non è possibile desumere dall’art. 3 del regolamento, anche alla luce delle pertinenti disposizioni della Carta dei diritti fondamentali, l’obbligo, per l’autorità nazionale competente, di condurre un esame di merito in tal senso. E anche se laddove una domanda fosse comunque analizzata dallo Stato membro richiedente, su base volontaria, in virtù della facoltà prevista dall’art. 17, par. 1, del Dublino III, il giudice nazionale non potrebbe comunque dichiarare il proprio Stato come “competente” solo perché non condivide la valutazione dello Stato membro richiesto sul rischio di refoulement dell’interessato. Analogamente, il regolamento Dublino III non impone, in una situazione come quella del caso concreto, che il giudice dello Stato membro richiedente obblighi tale Paese a esaminare esso stesso una domanda di protezione internazionale per il motivo che esisterebbe un rischio di violazione del principio di non-refoulement nello Stato membro richiesto.

Art. 2, lett. l), del regolamento 604/2013: rapporto tra possesso di una tessera diplomatica e titolo di soggiorno ai fini della competenza circa l’esame di una domanda di protezione internazionale

Il giudizio Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid contro E., S., (CGUE, C-568/21, sentenza del 21 settembre 2023) ha ad oggetto la relazione tra rilascio di una tessera diplomatica e la sussistenza di un titolo di soggiorno nel territorio di uno Stato membro, ai fini del regolamento 604/2013. Nel caso di specie, i coniugi E. ed S. avevano presentato domande di protezione internazionale nei Paesi Bassi. Le domande erano state rigettate perché risultava che ai richiedenti fossero state rilasciate tessere diplomatiche, in forza della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961, da parte dello Stato membro X: l’uomo, infatti, era stato membro di una missione diplomatica in questo Paese. Le autorità olandesi competenti chiedevano allora allo Stato X di prendere in carico i richiedenti, e lo Stato X accettava; i richiedenti, però, si opponevano alla decisione delle autorità olandesi. Nel corso procedimento allo scopo instaurato, emergeva l’esigenza di comprendere se l’art. 2, lett. L), del regolamento Dublino III, dovesse essere interpretato nel senso che una tessera diplomatica rilasciata da uno Stato membro in forza della predetta Convenzione di Vienna configura un titolo di soggiorno. La questione è importante soprattutto per definire al meglio gli oneri sulla competenza all’esame delle domande di protezione internazionale. Investita del quesito, la Corte guarda anzitutto al dato testuale della disposizione da interpretare, che qualifica come “titolo di soggiorno” ogni permesso rilasciato dalle autorità di uno Stato membro che autorizza il soggiorno di un cittadino di un Paese terzo o di un apolide nel rispettivo territorio; la nozione comprende «i documenti che consentono all’interessato di soggiornare nel territorio nazionale nell’ambito di un regime di protezione temporanea o fino a quando avranno termine le circostanze che ostano all’esecuzione di un provvedimento di allontanamento»; al tempo stesso, restano esclusi da tale nozione i visti e le autorizzazioni di soggiorno rilasciati nel periodo necessario a determinare lo Stato membro competente ai sensi del Dublino III o durante l’esame di una domanda di protezione internazionale o di una richiesta di permesso di soggiorno. La Corte stabilisce quindi che la nozione di “titolo di soggiorno” è costruita in senso estensivo e assorbe anche le tessere diplomatiche rilasciate ai membri delle missioni diplomatiche nello Stato accreditatario. Questa conclusione è confermata anche da altri elementi. Intanto, dall’economia della Convenzione di Vienna del 1961 appare chiaro che lo Stato membro che rilascia una tessera diplomatica compie una scelta in buona parte libera, che esprime l’intenzione di consentire all’interessato il soggiorno sul proprio territorio in qualità di membro di una missione diplomatica. Inoltre, rileva anche il criterio teleologico, stante il fatto che il rilascio di una tessera diplomatica contribuisce al perseguimento di una finalità di assoluto rilievo del regolamento 604/2013, cioè l’obiettivo di celerità nel trattamento di una domanda di protezione internazionale. Ferma restando, dunque, l’interpretazione da assegnare all’art. 2, lett. l), la Corte ricorda che l’effetto reale della corrispondenza tra tessera diplomatica e titolo di soggiorno riguarda unicamente la determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale e non incide sul diritto di soggiorno diplomatico.

Art. 12, par. 1, lett. a), della direttiva 2011/95: assistenza sanitaria offerta da un’Agenzia delle Nazioni Unite diversi dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati

Nel caso Office français de protection des réfugiés et apatrides contro SW (CGUE, C-294/22, sentenza del 5 ottobre 2023), la Corte di giustizia si è occupata del mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (UNRWA). L’obiettivo era comprendere se la missione dell’UNRWA dovesse essere considerata cessata laddove questa Agenzia non fosse più in grado di fornire a un apolide di origine palestinese, al quale garantiva protezione o assistenza, l’accesso alle cure e ai trattamenti medici che il suo stato di salute richiedevano. Il quesito derivava da un dubbio del Consiglio di Stato francese, nell’ambito di un procedimento che aveva per protagonista un apolide di origine palestinese che aveva proposto invano una domanda di asilo in Francia, ritenendo che l’UNRWA non aveva i mezzi finanziari per fornirgli le cure necessarie a fronte di una grave malattia genetica. Più precisamente, si trattava di interpretare l’art. 12, par. 1, lett. a), della direttiva 2011/95 (direttiva qualifiche), che recita: «(u)n cittadino di un Paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato se: a) rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 1D della convenzione di Ginevra, relativo alla protezione o assistenza di un organo o di un’Agenzia delle Nazioni Unite diversi dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. Quando siffatta protezione o assistenza cessi per qualsiasi motivo, senza che la posizione di tali persone sia stata definitivamente stabilita in conformità delle pertinenti risoluzioni adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, queste persone sono ipso facto ammesse ai benefici della presente direttiva». La Corte chiarisce in primo luogo tre punti. Primo, l’UNRWA è una Agenzia delle Nazioni Unite diversa dall’Alto commissariato per i rifugiati. Secondo, la posizione dei beneficiari dell’assistenza fornita dall’UNRWA non è stata ad oggi definitivamente stabilita. Terzo, per stabilire se la protezione UNRWA sia effettivamente cessata è sufficiente dimostrare che la sua assistenza o protezione sono venute meno per un qualsiasi motivo, «cosicché tale organo non sia più in grado, per motivi oggettivi o legati alla situazione specifica di detta persona, di garantire a quest’ultima condizioni di vita conformi alla missione di cui detto organo è investito». Fatte queste premesse, la Corte afferma che dalla prassi emerge come la missione dell’UNRWA copra anche l’assistenza sanitaria; tuttavia, l’impossibilità di fornire cure o trattamenti specifici non può, di per sé, giustificare la constatazione della cessazione della protezione o dell’assistenza. Tale effetto si avrebbe solo qualora l’interessato corra il rischio reale di morte imminente o di declino grave, rapido e irreversibile del suo stato di salute o di una significativa riduzione della sua speranza di vita. Il rischio di cui trattasi, secondo la Corte, è quindi elemento integrante per accertare la constatazione dell’eventualità ex art. 12, par. 1, lett. A), della direttiva qualifiche e compete al giudice nazionale verificarne l’esistenza.

Art. 15 della direttiva 2011/95: concetto di “danno grave” ed elementi generali del contesto di origine ai fini della protezione sussidiaria 

X, Y, i loro 6 figli minorenni contro Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (CGUE, C-125/22, sentenza del 9 novembre 2023) è un caso che riguarda l’interpretazione dell’art. 15 della direttiva 2011/95, che qualifica come segue il “danno grave” quale elemento costitutivo della protezione sussidiaria: «(s)ono considerati danni gravi: a) la condanna o l’esecuzione della pena di morte; o b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; o c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale». Alla base del caso vi era il rigetto delle domande di protezione internazionale presentate nei Paesi Bassi dai membri di una famiglia libica, che non erano stati apparentemente in grado di dimostrare la sussistenza del rischio di un danno grave e individualizzato in caso di ritorno nel Paese di origine. Nel corso del procedimento interno attivato da queste persone, il Tribunale dell’Aja rivolgeva alla Corte di giustizia varie questioni sull’art. 15 della direttiva qualifiche. Il ragionamento della Corte può essere riassunto in questi termini. Ai fini di tutte le ipotesi prefigurate dall’art. 15, sia le circostanze relative alla situazione generale nel Paese di origine, in particolare al livello generale di violenza e di insicurezza in tale Paese, sia quelle relative alla situazione individuale e alle circostanze personali del richiedente possono costituire elementi pertinenti per l’esame di una domanda di protezione sussidiaria da parte dell’autorità nazionale competente. Tra l’altro, il riferimento alle circostanze generali è un corollario di una interpretazione dell’art. 15 della direttiva qualifiche in linea con gli artt. 4 e 19 della Carta ed è al tempo stesso un requisito previsto da ulteriori disposizioni della direttiva in merito alla valutazione della domanda: in particolare, l’art. 4 (specialmente il par. 3), sull’esame delle circostanze e dei fatti riferiti dall’interessato, nonché l’art. 8, par. 2, sull’esame degli elementi che possono configurare il livello di protezione di cui potrebbe beneficiare o meno il richiedente in caso di ritorno al Paese di origine. La Corte chiarisce poi alcuni aspetti di specifiche ipotesi dell’art. 15 della direttiva qualifiche. Ad esempio, per attuare correttamente la fattispecie indicata alla lett. c) l’autorità nazionale competente deve poter prendere in considerazione anche elementi relativi alla situazione individuale e alle circostanze personali del richiedente diversi dalla mera provenienza da una zona di un determinato Paese in cui si verificano i casi più estremi di violenza generale: tale disposizione può applicarsi ad altre situazioni, nelle quali la combinazione, da un lato, di un grado di violenza indiscriminata meno elevato di quello appena evidenziato e, dall’altro, di elementi propri della situazione personale del richiedente è tale da concretizzare il rischio effettivo di subire una minaccia grave e individuale. Relativamente alla corretta attuazione della fattispecie indicata alla lett. b), invece, la Corte dichiara che l’intensità della violenza indiscriminata nel Paese d’origine del richiedente non può attenuare il requisito dell’individualizzazione dei danni gravi.

Artt. 20 e 23 della direttiva 2011/95 e limiti all’estensione di status ai familiari di rifugiato

In due casi rinominati XXX contro Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides (CGUE, C-374/22 e C-614/22, sentenze del 23 novembre 2023), la Corte si è pronunciata in merito alla pretesa “estensione” dello status di rifugiato a beneficio del familiare dell’interessato. La questione di fondo era rappresentata dall’ipotetica sussistenza a favore di genitori di cittadini stranieri, beneficiari dell’asilo in Belgio, di potere ottenere, sulla base della direttiva 2011/95, lo stesso status dei figli, in quanto loro familiari; ciò anche se le domande di protezione internazionale proposte in precedenza erano state rigettate dalle autorità competenti belghe. La Corte conclude che la direttiva 2011/95 (in particolare con riferimento agli artt. 20 e 23) non prevede in automatico un simile effetto per le persone che non soddisfano individualmente le condizioni per il riconoscimento di detto status. Sono tutt’al più ammissibili disposizioni nazionali più favorevoli che, secondo l’art. 3 della direttiva, permetterebbero di riconoscere lo status di rifugiato a titolo derivato e ai fini del mantenimento dell’unità familiare a coloro i quali siano “familiari” di un beneficiario di tale protezione, purché ciò sia compatibile con tale direttiva. Tuttavia, si tratta pur sempre di una facoltà che ciascuno Stato membro può esercitare o meno (e, nello specifico, il Belgio non se ne era avvalso).

Artt. 2, par. 1, e 3, punto 2, della direttiva 2008/115: legittimità della decisione di rimpatrio pronunciata contro cittadino di Stato terzo che abbia presentato domanda di protezione internazionale e sia ancora in attesa della decisione di status

La pronuncia CD contro Ministerstvo vnitra České republiky, Odbor azylové a migrační politiky (CGUE, C-257/22, sentenza del 9 novembre 2023) fa luce sulla legittimità dell’adozione di una domanda di rimpatrio ex art. 6, par. 1, della direttiva 2008/115 (direttiva rimpatri) in rapporto alla sussistenza di una previa domanda di protezione internazionale da parte dell’interessato nello Stato membro di riferimento. Rilevano in particolare gli artt. 2, par. 1, e 3, punto 2, della direttiva. La questione sorgeva a seguito dell’emanazione di un ordine di allontanamento amministrativo ad opera delle competenti autorità ceche nei confronti di un cittadino algerino che aveva già presentato domanda di protezione internazionale in Repubblica ceca, senza che però fosse stata ancora assunta una decisione al riguardo. Il cittadino algerino aveva quindi avviato un procedimento per impugnare il provvedimento con cui veniva disposto l’allontanamento e nel corso di quel giudizio era stata interpellata la Corte di giustizia. La Corte restringe il suo scrutinio al rapporto tratteggiato in premessa: il punto di partenza è che un ordine di allontanamento come quello del caso di specie coincide con una decisione di rimpatrio ai sensi della direttiva 2008/115. Ciò posto, deriva in particolare dal considerando 9 della direttiva 2008/115 e dall’art. 9, par. 1, della direttiva 2013/32 (direttiva procedure) che non può essere disposto l’allontanamento del soggiornante irregolare durante il periodo compreso tra la proposizione della propria domanda di protezione internazionale fino all’emanazione della decisione di primo grado che statuisce su di essa; sussiste, in altre parole, un’autorizzazione a rimanere nel territorio dello Stato membro competente, cosa che esclude l’irregolarità del soggiorno del richiedente e quindi l’applicazione della direttiva 2008/115 nei suoi confronti. Una decisione di rimpatrio potrà essere adottata, in linea di principio, a partire dal rigetto della domanda di protezione internazionale, eventualmente anche in via cumulativa con quest’ultima statuizione. 

Direttiva 2008/115 e regolamento 2016/399: soggiorno irregolare di cittadino di Stato terzo a seguito di ripristino autorizzato di controlli alle frontiere interne

Nel caso Association Avocats pour la défense des droits des étrangers (ADDE) e al. Contro Ministre de l’intérieur (CGUE, C-143/22, sentenza del 21 settembre 2023), sono stati valutati i profili di applicabilità della direttiva 2008/115 contro il cittadino di Stato terzo chi si presenti a un valico di frontiera interna autorizzato in via provvisoria a norma del regolamento 2016/399 (Codice frontiere Schengen). Il quesito era stato sollevato dal Consiglio di Stato francese e verteva, in generale, sull’interpretazione dei due strumenti per ipotesi di mobilità intra-Schengen di cittadini di Stati terzi. L’obiettivo finale era stabilire se fosse legittima un’ordinanza nazionale che consentiva l’adozione di provvedimenti di respingimento alle frontiere interne sulle quali erano stati ripristinati i controlli di frontiera. La Corte precisa che il cittadino di un Paese terzo il quale, dopo il suo ingresso irregolare nel territorio di uno Stato membro, sia presente in tale territorio senza soddisfare le condizioni d’ingresso, di soggiorno o di residenza, si trova per tale motivo in una situazione di soggiorno irregolare, ai sensi della direttiva 2008/115. La direttiva rimpatri è pertanto applicabile, senza che a tal fine rilevino aspetti quali la condizione di una durata minima dell’interessato nel territorio di quello Stato o l’intenzione di rimanervi. Ciò vale anche quando il cittadino di un Paese terzo sia stato sorpreso ad un valico di frontiera sul territorio di detto Stato membro. In una simile circostanza, il cittadino di Stato terzo deve essere assoggettato alle norme e alle procedure comuni previste dalla direttiva rimpatri al fine del suo allontanamento, salvo non venga regolarizzato. Ecco che allora uno Stato membro che abbia ripristinato controlli di frontiera alle sue frontiere interne può applicare, mutatis mutandis, l’art.14 del codice frontiere Schengen nonché l’allegato V, parte A, punto 1, respingendo con provvedimento motivato il cittadino straniero che risulti privo di un titolo di soggiorno regolare ad un valico di frontiera autorizzato in cui vengono effettuati tali controlli. Lo Stato membro in questione dovrà assicurarsi che l’applicazione di tale regime non determini il mancato rispetto delle norme e delle procedure comuni previste dalla direttiva 2008/115; nel descritto scenario, restano salve tutte quelle prerogative statali che, in base alla direttiva, non renderebbero impossibile il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna ai sensi dell’articolo 72 TFUE.

Art. 7, lett. f), del regolamento 2018/1806: poteri discrezionali della Commissione in situazioni di assenza di reciprocità tra UE e Stati terzi circa l’esenzione dell’obbligo di visto 

Il caso Parlamento europeo contro Commissione europea (CGUE, C-137712, sentenza del 5 settembre 2023) verte su un ricorso in carenza attivato dalla prima istituzione a norma dell’art. 265 TFUE e riguarda l’eventuale margine di discrezionalità della seconda nel quadro dell’art. 7, lett. f), del regolamento 2018/1806, che adotta l’elenco dei Paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso del visto all’atto dell’attraversamento delle frontiere esterne e l’elenco dei Paesi terzi i cui cittadini sono esenti da tale obbligo. In sintesi, la disposizione in parola prevede che, in presenza di determinate condizioni fattuali e procedurali, se il Paese terzo interessato non ha revocato l’obbligo del visto, la Commissione adotta un atto delegato che sospende temporaneamente l’esenzione dall’obbligo del visto per un periodo di dodici mesi per i cittadini di tale Paese terzo. Nello specifico, il problema si poneva nei confronti degli Stati Uniti, che continuavano a mantenere in vigore l’obbligo di visto per i cittadini di alcuni Stati membri. La Corte doveva quindi stabilire se la Commissione disponesse o meno di uno spazio di manovra circa l’adozione di un atto delegato di fronte al precetto dell’art. 7, lett. f), del regolamento 2018/1806. I giudici di Lussemburgo confermano in primis che la Commissione ha un margine di discrezionalità: anche se la disposizione interpretata sembra escluderlo, vi sono altre disposizioni nello stesso art. 7 che le consentono di effettuare valutazioni preliminari sulla situazione in essere. In effetti, l’eventuale sospensione dell’esenzione dall’obbligo del visto per tutti i cittadini di un Paese terzo avrebbe conseguenze politiche particolarmente sensibili, quindi è opportuno prospettarne prima le implicazioni per le relazioni esterne e per il funzionamento generale dello spazio Schengen. Ciò posto, la Corte nega altresì che la Commissione abbia ecceduto il margine di discrezionalità di cui dispone. In primo luogo, la Commissione aveva adottato una comunicazione (del 22 dicembre 2020) contenente una panoramica dettagliata della situazione degli Stati membri allora interessati dall’obbligo del visto, evidenziando, nel complesso, elementi di prassi (statunitense) più favorevoli per i loro cittadini. Secondariamente, nello stesso atto la Commissione ha dato conto degli interventi da essa effettuati presso gli Stati Uniti d’America, in particolare nel settore politico, economico e commerciale, ai fini della reintroduzione o dell’introduzione dell’esenzione dall’obbligo del visto, anche alla luce del cambio di amministrazione avvenuto nel gennaio 2021 con l’insediamento della Presidenza Biden. Infine, la Commissione ha dimostrato di avere considerato le potenziali conseguenze della sospensione dell’esenzione dall’obbligo del visto per le relazioni esterne dell’Unione e dei suoi Stati membri con gli Stati Uniti d’America, riproducendo spiegazioni dettagliate diffuse in precedenza. Per tutte queste ragioni, il ricorso del Parlamento europeo è stato respinto in quanto infondato. 

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