Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti
a) non-refoulement
Il caso A.E. e altri c. Italia (Corte EDU, sentenza del 16.11.2023) riguarda quattro cittadini sudanesi che, giunti via mare in Italia nell’estate del 2016, venivano trasferiti a Ventimiglia in un Centro di accoglienza della Croce Rossa ma non anche informati del diritto di chiedere protezione internazionale. Dopo un fermo di polizia, a Ventimiglia venivano identificati, perquisiti, privati di alcuni loro beni e denudati.
Senza essere informati sul luogo di destinazione o avere a disposizione un avvocato o un interprete, venivano caricati su un bus e condotti presso l’hotspot di Taranto. Qui i ricorrenti venivano trattenuti in condizioni precarie (in tenda, con scarsa disponibilità di acqua e cibo), prima di essere obbligati a firmare la decisione del prefetto di Taranto, a loro incomprensibile, che ne ordinava l’allontanamento. Durante il procedimento di convalida dinanzi al giudice competente, le carenze dell’interprete rendevano loro impossibile comprendere le domande poste ma, secondo il loro resoconto, avevano comunque manifestato il timore di persecuzione temuto in caso di allontanamento. Trasferiti nuovamente via terra a Ventimiglia, venivano confermata la loro nazionalità dall’Ambasciata del Sudan e, infine, condotti a Torino dove, il 24 agosto 2016, era previsto il volo per rientrare nel loro Paese di origine. A causa dell’insufficiente numero di posti disponibili sul volo, i ricorrenti venivano trasferiti nel Centro di identificazione ed espulsione di Torino dove dichiaravano di temere persecuzione in ragione della loro origine etnica con la conseguente presa in carico della loro domanda di protezione internazionale. Sentiti dalla Commissione territoriale competente, tutti i ricorrenti ottenevano lo status di rifugiato. Con il ricorso alla Corte EDU, lamentavano la violazione dell’art. 3 CEDU sia per essere stati esposti al rischio di refoulement sia per aver subito vari trattamenti inumani o degradanti. Sotto il primo profilo, la Corte ritiene che i ricorrenti non siano più a rischio di allontanamento in Sudan e, pertanto, non possono più essere considerate vittime di una violazione dell’art. 3 CEDU ai sensi dell’art. 34 CEDU. Sotto il secondo profilo, la Corte ricorda come, in situazioni di privazione della libertà, qualsiasi uso della forza da parte delle autorità deve essere strettamente necessario e può comportare una violazione dell’art. 3 CEDU se ha l’effetto di ledere la dignità individuale (ad es., Corte EDU, 2.06.2022, H.M. e altri c. Ungheria, in questa Rivista, XXII, 3, 2022). Se valutato alla luce della situazione di vulnerabilità in cui versavano e congiuntamente alle condizioni cui erano stati esposti durante il trasporto verso e dall’hotspot di Taranto e la loro permanenza in quel Centro, il fatto che i ricorrenti erano stati denudati e tenuti in tale condizione per oltre dieci minuti senza alcuna adeguata motivazione ha causato loro sentimenti di umiliazione e stress che ammontano a un trattamento degradante. Vi è dunque stata violazione dell’art. 3 CEDU. Con specifico riferimento al secondo ricorrente, la Corte EDU constata altresì una violazione della stessa disposizione poiché era stato maltrattato dalla polizia durante il tentativo di rimpatrio in aeroporto, senza spiegazione alcuna da parte del governo italiano o l’avvio di indagini sull’accaduto a seguito del resoconto coerente e circostanziato dello stesso ricorrente dinanzi la Commissione territoriale. Infine, in relazione alle lamentate violazioni dell’art. 5 (diritto alla sicurezza e alla libertà) da parte del secondo, terzo e quarto ricorrente, la Corte reitera le conclusioni già raggiunte in J.A. e altri c. Italia (Corte EDU, 30.03.2023, in questa Rivista, XXV, 2, 2023). Se è vero che il trattenimento subito dai ricorrenti ricadeva nell’ambito dell’art. 5, par. 1, lett. f), ai sensi del quale è permessa una restrizione della libertà personale per prevenire l’ingresso irregolare nel territorio degli Stati contraenti, per la Corte il trattenimento nell’hotspot risultava arbitrario (v. Garante nazionale dei diritti delle persone detenuti o private della loro libertà, Report sulla visita presso l’hotspot di Taranto, 2016). Infatti, dato il vuoto normativo in materia all’epoca dei fatti, tale privazione della libertà non era prevista dalla legge o soggetta alla verifica dell’autorità giudiziaria, per cui non solo era di fatto impossibile notificare ai ricorrenti il motivo alla base del trattenimento ma anche per loro ricorrere dinanzi a un giudice per lamentarne l’arbitrarietà. Ciò ha determinato, nel loro caso, la violazione dell’art. 5, parr. 1, 2 e 4, CEDU.
In W.A. e altri c. Italia (Corte EDU, sentenza del 16.11.2023) cinque sudanesi che, a differenza dei ricorrenti nel precedente caso A.E. e altri c. Italia, sostenevano di essere stati rimpatriati in Sudan con il volo in partenza da Torino il 24 agosto 2016. Il governo italiano contestava l’identità dei ricorrenti poiché, sulla base dei dati disponibili, non vi erano tracce del loro passaggio in Italia. Visto tale disaccordo tra le parti, la Corte EDU nominava un esperto di comparazione facciale che, tramite un software avanzato, doveva verificare la corrispondenza tra le foto prodotte dai ricorrenti con i documenti d’identità di coloro che erano stati rimpatriati dall’Italia sul volto indicato. Se il governo italiano contestava questo metodo ritenendo che solo le impronte digitali garantiscono una corretta identificazione, secondo il report consegnato alla Corte EDU vi erano forti evidenze che uno dei ricorrenti, il sig. W.A., si trovasse effettivamente sull’aereo. Quest’ultimo, indicato come A.A. dalle autorità italiane, era arrivato in Italia via mare e, dopo il trasferimento a Ventimiglia, veniva collocato in un Centro di accoglienza della Croce Rossa. In seguito a un fermo di polizia, ne veniva deciso l’allontanamento. Secondo il resoconto fornito dal ricorrente, le autorità italiane non lo avevano informato del diritto di chiedere protezione internazionale ma, durante il colloquio, aveva comunque manifestato loro di temere persecuzione in ragione della sua origine etnica nel caso in cui fosse stato rinviato in Sudan. Dopo essere stato allontanato nel suo Paese di origine, il ricorrente raggiungeva il campo di rifugiati di Agadez in Niger, dove gli veniva riconosciuta protezione internazionale da parte dell’UNHCR e delle autorità nigerine. Dopo aver rigettato come manifestamente infondati i ricorsi di tutti i ricorrenti sui quali sussistevano dubbi circa la loro identità, la Corte EDU concentra il suo esame sulla lamentata violazione dell’art. 3 CEDU. Diversamente da quanto aveva affermato il ricorrente, essa nota come il governo italiano abbia dato prova di aver adottato un decreto con cui si disponeva il suo allontanamento, il quale era stato ricevuto e sottoscritto dal sig. W.A., e di avergli garantito assistenza legale e servizi di interpretariato durante la procedura di convalida presso il giudice competente. Inoltre, lo stesso ricorrente aveva firmato una dichiarazione, disponibile sia in italiano sia in arabo, in cui affermava di non voler chiedere protezione internazionale (diversamente da casi come Corte EDU, 11.12.2008, M.A. e altri c. Lituania, in questa Rivista, XXI, 1, 2019). Il fatto che il sig. W.A. abbia poi ottenuto protezione internazionale in Niger non significa, per la Corte EDU, che l’Italia lo abbia esposto al rischio di refoulement diretto o indiretto, non avendo peraltro conoscenza della sua appartenenza a un gruppo etnico soggetto a persecuzione in Sudan. Tenuto conto che gli sono dunque state assicurate adeguate garanzie contro il rischio di refoulement (cfr. Corte EDU, 20.12.2022, S.H. c. Malta, in questa Rivista, XXII, 1, 2022; 20.7.2021, D. c. Bulgaria, in questa Rivista, XXI, 3, 2021), nel suo caso non vi è stata violazione dell’art. 3 CEDU.
Con il caso A.M.A. c. Paesi Bassi (Corte EDU, sentenza del 24.10.2023) la Corte EDU è chiamata a esaminare la presunta violazione del divieto di refoulement rispetto alla valutazione condotta dallo Stato convenuto in merito ai rischi cui il ricorrente, un cittadino del Bahrain, sarebbe stato esposto nel suo Paese di origine nel quadro di una richiesta di protezione internazionale “last minute”, ossia presentata poco prima dell’avvenuto allontanamento (v. sulle domande reiterate, Corte EDU, 9.01.2016, M.D. e M.A. c. Belgio, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Il ricorrente riteneva di subire persecuzione in Bahrain in ragione delle attività politiche sue e di suo fratello e della sua religione ma, nel negargli protezione, le autorità olandesi ritenevano il suo racconto non plausibile. Ad esempio, il sig. A.M.A aveva lasciato il suo Paese legalmente utilizzando un passaporto rilasciato dalle stesse autorità che, a suo avviso, lo avrebbero voluto arrestare. Inoltre, non aveva fornito prove da cui si potesse dedurre un fondato timore di persecuzione. Posto in stato di fermo in vista del suo allontanamento, il ricorrente veniva intervistato un’ultima volta e, manifestato nuovamente il timore di persecuzione, veniva informato della possibilità di presentare una nuova domanda di protezione internazionale. Questa richiesta veniva valutata direttamente in aeroporto prima del volo previsto per dare esecuzione al suo allontanamento e, nonostante la produzione di nuova documentazione ottenuta tramite il fratello, veniva infine dichiarata inammissibile. Nella decisione adottata a tal fine si affermava che il ricorrente non aveva prodotto alcun elemento nuovo rispetto alla precedente richiesta e, di conseguenza, doveva essere allontanato immediatamente. Tale decisione veniva confermata successivamente, precisando che la documentazione prodotta prima dell’allontanamento non era originale e doveva quindi essere ritenuta priva di valore. Giunto in Bahrain, il sig. A.M.A. veniva arrestato, accusato di terrorismo e condannato all’ergastolo. Dopo aver rigettato le obiezioni del governo olandese circa il mancato esaurimento dei ricorsi interni, la Corte EDU ricorda il carattere assoluto del divieto di cui all’art. 3 CEDU (ad es. Corte EDU, Grande Camera, 28.02.2008, Saadi c. Italia) anche a fronte dell’evidente difficoltà degli Stati contraenti di esaminare un numero crescente di domande di asilo infondate, specie nell’immediatezza dell’esecuzione degli allontanamenti. Per verificare se le autorità interne avessero esaminato approfonditamente la situazione personale del ricorrente, così da escludere il rischio di refoulement (tra le altre, Corte EDU, 22.07.2021, E.H. c. Francia, in questa Rivista, XXIII, 3, 2021), la Corte si concentra sull’eventuale carattere abusivo della sua richiesta last minute e sull’effettiva produzione di nuovi elementi che avrebbero potuto dimostrare gli eventuali rischi cui sarebbe stato esposto in Bahrain. Rispetto al primo punto, la Corte ritiene che il ricorrente avesse raccolto ulteriore documentazione già prima di sapere del suo allontanamento al fine di provare, al meglio delle sue possibilità, il suo timore di persecuzione. Se si tiene anche conto che le informazioni da lui fornite in appello contro il rigetto della sua domanda di asilo non erano state prese in considerazione per ragioni formali, per la Corte è evidente che la sua domanda di asilo last minute non fosse motivata dal solo interesse di ritardare l’allontanamento previsto. Per quanto riguarda il secondo punto, le autorità interne non hanno effettivamente esaminato se dall’ultima documentazione prodotta, seppur non in originale e in arabo, emergessero nuovi elementi utili per la valutazione del rischio di refoulement. Tale approccio, eccessivamente restrittivo, non appare alla Corte conforme agli obblighi procedurali derivanti dall’art. 3 CEDU. Essa constata pertanto la violazione di tale disposizione, non ritenendo necessario pronunciarsi anche sulle altre violazioni lamentate dal ricorrente né indicare, ai sensi dell’art. 46 CEDU, misure generali o specifiche volte a porre rimedio alla violazione constatata o, come richiesto dallo stesso ricorrente, per mettere fine alla sua detenzione in Bahrain.
Il caso H.A. c. Regno Unito (Corte EDU, sentenza del 5.12.2023) riguarda una persona apolide di origine palestinese che, temendo di essere reclutata da gruppi terroristici nel campo per rifugiati di Ein El-Hilweh in Libano dove è nato e vissuto prima di giungere nello Stato convenuto, lamentava un’eventuale violazione dell’art. 3 CEDU nel caso in cui fosse venisse allontanato. Nei vari procedimenti interni, due diverse ragioni erano emerse per rigettare la sua richiesta di protezione internazionale. Da un lato, per le autorità interne il sig. H.A. ricadeva sotto il mandato della United Nations Relief and Works Agency for Palestinian Refugees (UNRWA) che gestiva molti servizi nel campo di Ein El-Hilweh. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 1D della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, doveva essere escluso dalla protezione internazionale disciplinata da questa Convenzione. Dall’altro lato, per quanto il suo resoconto potesse risultare finanche credibile sulla base delle informazioni disponibili in materia (v. UNHCR, The Situation of Palestinian Refugees in Lebanon, 2016), secondo lo Stato convenuto nelle sue audizioni il ricorrente non aveva circostanziato in modo sufficiente le gravi conseguenze cui sarebbe stato esposto se si fosse rifiutato di unirsi a gruppi terroristici, risultando così non meritevole della protezione sussidiaria o di quella umanitaria. La Corte EDU chiarisce innanzitutto l’esame che le compete, ossia verificare i possibili rischi di maltrattamenti vietati dall’art. 3 CEDU cui sarebbe esposto il sig. H.A. in caso di allontanamento, non ritenendo rilevante stabilire se le autorità interne avessero adeguatamente valutato i rischi esistenti al momento della sua partenza dal Libano come chiedeva il ricorrente. Poiché in appello i giudici interne non avevano effettuato tale verifica, la Corte procede essa stessa a determinare il rischio di violazione dell’art. 3 CEDU (v. Corte EDU, Grande Camera, 23.08.2016, J.K. e altri c. Svezia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). A tal fine, accettata l’attualità della valutazione del giudice di primo grado che aveva escluso che le condizioni generali del campo di Ein El-Hilweh, per quanto precarie, fossero così gravi da mettere in pericolo la vita stessa del ricorrente, la Corte EDU si concentra sulla situazione personale di quest’ultimo. Essa nota come, dalle trascrizioni delle interviste, il sig. H.A. era piuttosto vago su quali possano essere le conseguenze per chi non accetta di essere reclutato in gruppi terroristici attivi nel campo di rifugiati menzionato, né tali conseguenze possono essere desunte da report pubblicati sul tema (EASO, Lebanon - Information on forced recruitment of young Palestinians by Fatah in Lebanon, EASO COI Query Response, 2020). Su tali basi, la Corte conclude che il suo allontanamento non darebbe pertanto luogo a una violazione dell’art. 3 CEDU.
Con il caso Shahzad c. Ungheria (n. 2) (Corte EDU, sentenza del 5.10.2023) la Corte EDU torna sulle circostanze relative all’allontanamento di un cittadino pakistano che era stato vittima, nel 2016, di un’espulsione collettiva in violazione dell’art. 4 del Quarto Protocollo addizionale alla CEDU (Corte EDU, 8.7.2021, Shahzad c. Ungheria, in questa Rivista, XXIII, 3, 2021). L’oggetto di questo secondo ricorso è la presunta violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti originata dai maltrattamenti perpetrati dalle forze di sicurezza ungheresi durante l’allontanamento del ricorrente verso la Serbia. Secondo la versione del ricorrente, gli agenti ungheresi lo avrebbero immobilizzato, picchiato tanto da perdere momentaneamente i sensi e, infine, costretto a correre per entrare illegalmente in Serbia. Ai suoi beni veniva dato fuoco. Al primo centro per migranti lunga la via, veniva soccorso e trasportato in un ospedale locale in cui i medici accertavano serie ferite. Nonostante il sig. Shahzad avesse intentato un’azione penale contro gli agenti e fornito fotografie ed evidenze mediche dei maltrattamenti subiti, il procedimento veniva chiuso per mancanza di prove. Per la Corte EDU, nonostante il ricorrente avesse avanzato numerosi elementi utili per accertare quanto accaduto, vi sono diversi punti oscuri nella condotta delle autorità interne. Innanzitutto, se è vero che erano state avviate immediatamente indagini, queste non hanno chiarito come mai, diversamente da quanto accade per ogni operazione al confine, fosse stata interrotta la videoregistrazione delle operazioni di allontanamento riguardante il ricorrente, né la ragione per cui non siano stati ascoltati testimoni chiave, incluso l’agente incaricato della videoregistrazione. Inoltre, nonostante sia stata posta l’attenzione esclusivamente sulle contraddizioni interne al resoconto del sig. Shahzad, le sue richieste per l’acquisizione di ulteriori dati che avrebbero potuto confermare la sua versione dei fatti, come la geolocalizzazione delle persone interessate, non erano state prese in considerazione né era stata accolta la sua disponibilità a testimoniare. Date queste gravi carenze investigative (cfr. anche Corte EDU, 2.02.2023, Alhowais c. Ungheria, in questa Rivista, XXV, 2, 2023), la Corte EDU ha dunque concluso per la violazione dell’art. 3 CEDU letto sotto il profilo procedurale. Tenuto conto delle evidenze mediche, dei rapporti internazionali sulle modalità di svolgimento delle operazioni di “push-back” al confine ungherese (ad es. Comitato per la prevenzione della tortura, Report to the Hungarian Government on the visit to Hungary from 20 to 29 November 2018, 2020) e delle particolari circostanze del caso, nonché dell’assenza di argomentazioni valide da parte dello Stato convenuto volte a dimostrare che i maltrattamenti non erano imputabili ai suoi agenti, per la Corte EDU vi è stata anche una violazione del divieto di tortura e altri trattamenti inumani o degradanti letto sotto il profilo sostanziale.
b) condizioni materiali
In A.D. c. Malta (Corte EDU, sentenza del 17.10.2023) un cittadino ivoriano giungeva via mare a Malta nel 2021 e, nonostante si fosse autoidentificato come minore, veniva privato per mesi della sua libertà e per diversi motivi senza alcuna considerazione per la sua, quantomeno presunta, minore età. Con il suo ricorso, lamentava numerose violazioni della CEDU, compreso il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti per le condizioni in cui era stato detenuto nonostante il suo stato di salute e la sua minore età e il diritto al rispetto per la sicurezza e la libertà personale (art. 5 CEDU) in ragione dell’arbitrarietà del suo trattenimento. La Corte EDU chiarisce innanzitutto due punti preliminari per rispondere ad alcune obiezioni mosse dallo Stato convenuto. In primo luogo, non è necessario accertare se il ricorrente fosse o meno un minore al suo arrivo. Per la Corte è infatti sufficiente che il ricorrente avesse dichiarato la sua minore età all’arrivo e che tale autoidentificazione non fosse apparsa infondata o irragionevole alle autorità, con la conseguenza di dover essere considerato un presunto minore (ad es., Corte EDU, 31.08.2023, M.A. c. Italia, in questa Rivista, XXV, 3, 2023). In secondo luogo, tenuto conto delle versioni contrastanti circa i fatti all’origine del ricorso, la Corte nota come sia grave il fatto che lo Stato convenuto, pur avendo posseduto il totale controllo sul ricorrente, non abbia a disposizione dati completi sulla sua detenzione (date, motivi, luogo, etc…). Ciò giustifica il fatto di ritenere credibile il resoconto, del tutto coerente, fornito dal ricorrente al fine di esaminare il suo ricorso. In sintesi, secondo la versione del ricorrente, egli era stato posto inizialmente in un regime di quarantena per via della pandemia da Covid-19 insieme a persone adulte e restava con detenuti adulti anche dopo la decisione del Tribunale per i minori che ordinava il suo collocamento in una struttura dedicata. Successivamente, per ragioni legate al suo status migratorio, veniva trattenuto nel Centro di detenzione di Safi dove, per un periodo, veniva anche collocato in un container nonostante le sue precarie condizioni fisiche, dovute alla tubercolosi, e mentale, per problemi di depressione e PTSD. Dopo aver ricordato i principi consolidati in materia (su tutte, Corte EDU, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017; Grande Camera, 21.11.2019, Ilias e Ahmed c. Ungheria, in questa Rivista, XXII, 1, 2020), specie in relazione al trattenimento di migranti minori di età (ad es. Corte EDU, 7.12.2017, S.F. e altri c. Bulgaria, in questa Rivista, XX, 1, 2018), la Corte EDU ritiene opportuno esaminare la presunta violazione dell’art. 3 CEDU rispetto a tutti i luoghi di detenzione considerati cumulativamente alla luce della presunta minore età del ricorrente e del suo stato di salute. Rispetto all’età, se è vero che il Tribunale dei minori aveva adottato una decisione nei suoi confronti, questa non era stata comunicata al ricorrente né aveva saputo della nomina di un tutore. A ciò si aggiunge il fatto che era stato inizialmente trattenuto con persone adulte e, soprattutto, che in alcuni periodi era stato tenuto in isolamento in un container in condizioni molto precarie (assenza di ventilazione, impossibilità di esercizio fisico all’esterno, etc..) nonostante la tubercolosi accertata. Quanto alla sua salute, non vi sono dubbi che lo Stato convenuto gli abbia garantito cure ed esami periodici per le sue condizioni fisiche ma non può affermarsi che sia stata prestata adeguata attenzione anche al suo stato di salute mentale. Anzi, le autorità competenti avevano ignorato le indicazioni del personale specializzato causandone un peggioramento. Pertanto, alla luce della giurisprudenza precedente in cui la Corte EDU aveva già constatato l’estrema precarietà delle condizioni di detenzione nel centro di Safi (ad es. Corte EDU, 11.03.2021, Feilazoo c. Malta, in questa Rivista, XVIII, 2, 2021) e dei rapporti internazionali pertinenti (Consiglio d’Europa, Report by the Commissioner for Human Rights following her visit to Malta from 11 to 16 October 2021, 2022), per la Corte EDU il ricorrente è stato sottoposto a un trattamento inumano e degradante in violazione dell’art. 3 CEDU. Quanto alle presunte violazioni del diritto alla sicurezza e alla libertà, la Corte ritiene innanzitutto applicabile tale disposizione anche ai due mesi successivi al periodo di quarantena obbligatoria nonostante, formalmente, il ricorrente fosse soggetto a una misura di restrizione della libertà di movimento per presunte ragioni di salute pubblica. Infatti, non distinguendosi nella sostanza dal trattenimento successivo, tale privazione di libertà costituiva una detenzione de facto che, in assenza di una base giuridica certa, non può essere ritenuta conforme alla CEDU (art. 5, par. 1). Se è vero che il trattenimento successivo era invece previsto dalla legge, poiché era stato ritenuto necessario per la raccolta degli elementi utili volti a valutare la sua domanda di asilo e accertare la sua età, per la Corte EDU anche questa detenzione solleva dubbi sulla buona fede dello Stato convenuto che non ha dato prova della diligenza dovuta in casi riguardanti presunti minori (Corte EDU, 21.07.2022, Darboe e Camara c. Italia, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022). Non solo la procedura di accertamento dell’età aveva subito ritardi ingiustificati ma le autorità competenti non avevano provato a identificare alcuna soluzione alternativa al suo trattenimento. Di conseguenza, anche rispetto a questo secondo periodo, vi è stata violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU. Infine, in linea con la giurisprudenza precedente riguardante l’assenza nell’ordinamento maltese di rimedi efficaci per lamentare condizioni di detenzione contrarie agli standard convenzionali (ad es. Corte EDU, 20.12.2022, S.H. c. Malta, in questa Rivista, XXV, 1, 2023), la Corte EDU constata altresì la violazione del diritto a un mezzo di ricorso effettivo (art. 13), letto in combinato con l’art. 3 CEDU. Considerate le serie lacune emerse nel suo ordinamento, la Corte EDU ha indicato alla Stato convenuto alcune misure di carattere generale ai sensi dell’art. 46 CEDU. In particolare, la Corte ha chiesto di assicurare una base giuridica alle privazioni di libertà motivate da ragioni di salute per renderle conformi all’art. 5 CEDU e di adottare le misure necessarie per evitare che individui vulnerabili siano trattenuti o che comunque questo trattenimento avvenga per il solo tempo strettamente necessario per gli scopi previsti dalla legge e in condizioni adeguate alla loro condizione personale.
Art. 8: Diritto al rispetto per la vita privata e familiare
Il caso Sharifi c. Danimarca (Corte EDU, sentenza del 5.09.2023) riguarda un cittadino afghano, soggiornante da oltre 15 anni nello Stato convenuto, nei cui confronti le autorità competenti adottavano un ordine di allontanamento con contestuale divieto di re-ingresso per un periodo di dodici anni dopo essere stato condannato per possesso e traffico illegale di armi. Dinanzi la Corte EDU, il ricorrente lamentava una violazione del diritto cui all’art. 8 CEDU. Per la Corte, non vi sono dubbi che il ricorrente abbia subito un’interferenza nella sua vita privata, che tale interferenza sia prevista dalla legge interna e che persegua interessi legittimi previsti dalla stessa disposizione, ossia la tutela dell’ordine pubblico e la prevenzione del crimine. Per quanto riguarda la necessità di una siffatta misura in una società democratica, la Corte EDU nota come i giudici interni, nell’adottare la decisione controversa, abbiano applicato i criteri consolidati nella sua giurisprudenza in materia di allontanamenti di persone lungo soggiornanti (tra le altre, Corte EDU, Grande Camera, 18.10.2006, Üner c. Paesi Bassi; 1.02.2022, Johansen c. Danimarca, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022). Infatti, al fine di determinare le “ragioni particolarmente serie” da essa richieste per giustificare questo tipo di allontanamento, i giudici interni avevano attribuito un peso significativo alla sua storia criminale e ai reati da lui commessi. Al contempo, pur riconoscendo che il sig. Sharifi avesse oramai legami più forti con la Danimarca rispetto a quelli detenuti con il suo Paese di origine, essi avevano ritenuto possibile il suo rientro in Afghanistan. Se tali elementi sembrano in effetti giustificare l’allontanamento, per la Corte EDU la lunga durata del divieto di re-ingresso nello Stato convenuto appare tuttavia problematica. Infatti, per quanto non vi fossero dubbi che il ricorrente rappresentasse una minaccia per l’ordine pubblico alla luce del possesso e traffico illegali di armi, la Corte nota come, in precedenza, non aveva infranto la legge per un lungo periodo di tempo né fosse stato mai avvertito del possibile rischio di allontanamento in caso di un’eventuale condanna. Se si aggiunge che si tratta di una persona lungo soggiornante con legami quasi inesistenti con il suo Paese di origine, per la Corte EDU il divieto di re-ingresso imposto al ricorrente costituisce una misura sproporzionata. Nel suo caso, vi è stata dunque una violazione dell’art. 8 CEDU. Appare opportuno evidenziare che, nel raggiungere tale decisione, la Corte non ha dato rilevanza ai suoi presunti legami familiari. Infatti, essa nota come il ricorrente avesse ufficializzato la sua convivenza con la compagna e anche concepito il figlio in un periodo in cui il suo soggiorno era già precario. Anche ammettendo che ciò fosse sufficiente per ritenere che una vita familiare esistesse già, il suo allontanamento non potrebbe generare un serio impatto su tali legami che, in ogni caso, potrebbero essere mantenuti anche a distanza (Corte EDU, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014).
Anche nel caso Noorzae c. Danimarca (Corte EDU, sentenza del 5.09.2023) il ricorrente, un cittadino afghano lungo soggiornante senza relazioni familiari nello Stato convenuto, era soggetto ad allontanamento con un contestuale divieto di re-ingresso di dodici anni. Egli era stato condannato per possesso e traffico di sostanze stupefacenti e diversi episodi di violenza. Seguendo il medesimo ragionamento del caso precedente, la Corte verifica se i giudici interni abbiano addotto ragioni particolarmente serie per giustificare il suo allontanamento. A tal fine, essa osserva soprattutto come il ricorrente non avesse una storia criminale così grave da costituire una seria minaccia per l’ordine pubblico e, dopo essere stato rimesso in libertà, avesse seguito un’apposita terapia e ripreso i propri studi. Se tali fattori vengono esaminati alla luce dei legami quasi inesistenti con il suo Paese di origine, per la Corte anche la misura adottata nei confronti del sig. Nooarze risulta sproporzionata. Nel suo caso, vi è stata dunque una violazione del diritto al rispetto per la vita privata.
In altri due casi molto simili ai precedenti e decisi lo stesso giorno, Al-Masudi c. Danimarca e Goma c. Danimarca (Corte EDU, 5.09.2023), la Corte giunge invece a una diversa conclusione poiché ritiene corretto il bilanciamento di interessi operato dai giudici interni. In Al-Masudi, un cittadino iracheno che risiedeva dall’età di tre anni in Danimarca era destinatario di un ordine di allontanamento con divieto di re-ingresso permanente. Per la Corte EDU, la misura era proporzionata perché, in linea con quanto affermato dai giudici interni, la serietà dei crimini commessi, legati al possesso e al traffico di droga e alla detenzione illegale di armi, nonché il suo passato criminale, lo rendevano una minaccia per l’ordine pubblico. Nonostante fosse già stato avvertito del rischio di essere espulso in caso di ulteriori condanne, il ricorrente aveva dimostrato la sua incapacità di rispettare la legge dello Stato convenuto. Tutto ciò, visto alla luce dell’esame imparziale, indipendente e circostanziato condotto dai giudici interni, fa sì che l’allontanamento del sig. Al-Masudi sia stato sufficientemente motivato. Allo stesso modo, in Goma, le autorità competenti adottavano un ordine di allontanamento accompagnato da un divieto di re-ingresso permanente nei confronti di un cittadino congolese residente in Danimarca dall’età di tre anni. Tenuto conto della gravità dei reati commessi, compreso uno stupro, e nonostante l’assenza di legami con il Paese di origine, la Corte EDU ha ritenuto che i giudici interni abbiano condotto un esame puntuale della sua situazione individuale e avanzato ragioni particolarmente serie che dimostrano la proporzionalità dell’interferenza subita dal sig. Goma. In entrambi i casi, non vi è quindi stata violazione dell’art. 8 CEDU.
In J.B. e E.M. c. Norvegia (Corte EDU, decisione del 14.09.2023), un cittadino nigeriano e una cittadina norvegese lamentavano, tra l’altro, la violazione del diritto al rispetto per la vita familiare poiché il loro figlio, all’età di quattro mesi, era stato collocato dai servizi sociali presso una famiglia affidataria dello stesso sesso e dichiarato adottabile. La Corte EDU ritiene, innanzitutto, che non è necessario pronunciarsi sulla presunta violazione della loro libertà di coscienza, pensiero e religione, letta in combinato con il diritto all’istruzione, causata dall’affidamento del figlio a una coppia caratterizzata da un orientamento sessuale ritenuto illegale in Nigeria. Si tratta infatti di un profilo assorbito nella valutazione circa la giustificazione della misura controversa ai sensi del par. 2, art. 8 CEDU. A questo proposito, la Corte ritiene che il trattamento nei confronti dei ricorrenti abbia generato un’interferenza nella loro vita familiare ma che fosse previsto dalla legge e perseguisse fini legittimi, cioè la tutela della salute e dei diritti del minore. Quanto alla necessità di tale interferenza in una società democratica, la Corte EDU ricorda come, in via di principio, la rottura dei rapporti tra genitori e figli possa essere giustificata solamente in circostanze eccezionali e in conformità con il principio del superiore interesse del minore (v., recentemente, Corte EDU, 12.01.2023, Kilic c. Austria, in questa Rivista, XXV, 2, 2023). Queste circostanze ricorrevano nel caso in esame. Infatti, i giudici interni avevano evidenziato lo scarso interesse dei ricorrenti nei confronti del figlio, dimostrato anche dalla mancata partecipazione alle visite previste dal provvedimento con cui si disponeva l’affidamento. Inoltre, il padre era stato allontanato dalla Norvegia con divieto di re-ingresso permanente e non parlava la stessa lingua del figlio, mentre i due ricorrenti si erano nel frattempo separati. Su tali basi, posto che la rottura dei legami tra i ricorrenti e il loro figlio non era da attribuire allo Stato convenuto (diversamente da casi simili decisi nella stessa data: ad es. Corte EDU, 12.09.2023, S.S. e J.H. c. Norvegia) e tenuto conto del particolare interesse mostrato dai ricorrenti di evitare una famiglia adottiva omogenitoriale, la Corte ritiene che il provvedimento di adozione fosse necessario alla luce dell’interesse superiore del minore interessato. Si conseguenza, ha rigettato il ricorso dei sigg. J.B. e E.M. in quanto manifestamente infondato.
Art. 2, Protocollo 4: libertà di circolazione e diritto di lasciare il proprio Paese
Il caso Memedova e altri c. Macedonia del Nord (Corte EDU, sentenza del 24.10.2023) trae origine da tre diversi ricorsi riguardanti un totale di cinque cittadini della Macedonia del Nord di origine Rom che, in diversi momenti e luoghi, avevano visto negata la possibilità di recarsi in uno dei Paesi membri dell’Unione europea perché le autorità di frontiera avevano ritenuto che non fossero in possesso della documentazione richiesta dalla legge in seguito alla liberalizzazione degli ingressi dei cittadini macedoni nell’Unione. Poiché non avevano dimostrato, tra le altre cose, le ragioni del viaggio e i mezzi finanziari per la permanenza nello Stato di destinazione o esibito valide lettere di invito, i ricorrenti venivano identificati come una minaccia per l’ordine pubblico e per le relazioni dello Stato convenuto con i Paesi membri dell’Ue. Secondo i ricorrenti, la reale ragione per tale trattamento risiedeva nella loro origine etnica, come dimostravano rapporti nazionali (State’s Ombudsman, rapporto annuale 2013 e ss.) e internazionali (ad es. ECRI, Report on The Former Yugoslav Republic of Macedonia (fifth monitoring cycle), 2016, par. 83 ss.). Se nel caso del primo e del secondo ricorrente i giudici interni confermavano quanto disposto dalle autorità amministrative, il terzo e il quarto ricorrente ottenevano invece una decisione che confermava l’avvenuta violazione della loro libertà di movimento anche se non otteneva alcuna compensazione per il trattamento illecito subito. Rigettato come manifestamente infondato il ricorso del quinto ricorrente, al quale non era stato in realtà impedito di lasciare il Paese, e accertato che il terzo e il quarto ricorrente potessero ritenersi ancora vittime ai sensi dell’art. 34 CEDU, poiché non avevano ricevuto alcuna riparazione per la violazione già accertata dai giudici interni, la Corte EDU esamina i ricorsi sotto il profilo del diritto di lasciare il proprio Paese, ex art. 2, par. 2, del Quarto Protocollo addizionale alla CEDU (Corte EDU, 13.12.2018, Mursaliyev e altri c. Azerbaigian, in questa Rivista, XXIII, 1, 2019). Poiché la restrizione imposta ai ricorrenti costituisce un’interferenza nel godimento di tale diritto e, come tale, doveva essere giustificata, occorreva verificare se essa fosse prevista dalla legge, perseguisse un fine legittimo tra quelli previsti dalla medesima disposizione e risultasse necessaria in una società democratica. Per la Corte EDU, la misura controversa non soddisfa il primo requisito perché le decisioni adottate nei confronti dei ricorrenti si basavano su interpretazioni diverse e contrastanti del diritto interno. Mentre nel caso dei primi due ricorrenti era stato applicato il Codice Frontiere Schengen, in altri procedimenti interni era stato ritenuto che tale Codice non fosse chiaramente parte del diritto interno. In tal senso, non può dunque affermarsi che l’interferenza subita dai ricorrenti avesse una base giuridica chiara né che la legge interna sia formulata in modo sufficientemente preciso per permettere alle persone interessate di regolare la loro condotta e prevedere le conseguenze cui sarebbero altrimenti esposte. La Corte aggiunge che l’interferenza subita dai primi due ricorrenti non sarebbe stata, comunque, giustificata perché non c’erano elementi per ritenere che, alla luce delle loro circostanze individuali, potessero costituire una minaccia per la sicurezza nazionale o per l’ordine pubblico. Tenuto conto che i giudici interni avevano già ritenuto illecita la misura imposta al terzo e al quarto ricorrente, la Corte EDU conclude che i primi quattro ricorrenti hanno subito un violazione del diritto di lasciare il proprio Paese. Per quanto riguarda la lamentata violazione del divieto di discriminazione, letto il combinato con lo stesso diritto di cui all’art. 2, par. 2, Prot. 4, la Corte nota innanzitutto come, nel 2011, l’autorità competente in materia di frontiere aveva diramato una circolare interna volta a intensificare i controlli al confine perché, approfittando della liberalizzazione dei visti con l’Unione, molti cittadini macedoni avevano presentato domanda di protezione internazionale in uno Stato membro Ue. Per quanto la circolare non facesse alcun riferimento alle persone di origine Rom, le informazioni disponibili dimostrano come nella prassi essa sia stata applicata aumentando i controlli nei loro confronti con la conseguente negazione dell’espatrio (oltre ai rapporti menzionati sopra, v. Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale, Concluding observations on the combined eighth to tenth periodic reports of the former Yugoslav Republic of Macedonia on the implementation of the International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination, UN doc. CERD/C/MKD/CO/8-10, 2015; Consiglio d’Europa, Report of the Commissioner for Human Rights following his visit to the former Yugoslav Republic of Macedonia from 26 to 29 November 2012, 2013, par. 99 ss.). Alla luce di informazioni così chiare e concordanti, per la Corte non sono anche necessarie statistiche sull’etnia delle persone cui è stato invece permesso l’espatrio per dimostrare, quantomeno prima facie, la possibile esistenza di una discriminazione indiretta in ragione dell’origine etnica dei ricorrenti. Tale presunzione comporta l’inversione dell’onere della prova a favore di questi ultimi (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 13.11.2007, D.H. e altri c. Repubblica Ceca; Grande Camera, 16.03.2010, Oršuš e altri c. Croazia), per cui spettava allo Stato convenuto dimostrare che le modalità con cui la circolare interna ha trovato applicazione fosse oggettivamente giustificata. Poiché alcuna giustificazione è stata avanzata a tal fine, mentre i giudici interni avevano rigettato le doglianze dei ricorrenti senza considerare i rapporti menzionati e senza invertire l’onere della prova, per la Corte EDU questi ultimi sono stati vittima di una discriminazione nel godimento del diritto a lasciare il loro Paese.
Art. 4, Protocollo 4: divieto di espulsioni collettive
In S.S. e altri c. Ungheria (Corte EDU, sentenza del 12.10.2023) due famiglie con minori, originarie dallo Yemen e dall’Afghanistan giunte in diversi momenti all’aeroporto di Budapest con documenti di identità contraffatti, venivano poste in stato di fermo. Manifestata la loro intenzione di chiedere protezione internazionale, venivano informate di dover presentare domanda di persona nella zona di transito al confine con la Serbia, come previsto dalla legge in materia di asilo. Venivano così scortate al confine e costrette di notte, talora anche sotto la minaccia dell’uso della forza, a dirigersi verso la Serbia. Qualche mese dopo, entrambe le famiglie ottenevano protezione internazionale, rispettivamente in Austria e Germania. Con due ricorsi distinti, i ricorrenti lamentavano la violazione del divieto di espulsioni collettive ex art. 4, del Quarto Protocollo addizionale alla CEDU (cfr. Corte EDU, 5.4.2022, A.A. e altri c. Macedonia del Nord, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022; Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XXIV, 1, 2012, p. 104). Riuniti i ricorsi, la Corte EDU si sofferma innanzitutto sull’applicabilità dell’art. 4, Prot. 4 al loro caso. Considerato che i ricorrenti erano stati allontanati al di là della rete costruita per dividere il confine tra Ungheria e Serbia, per la Corte si può affermare che siano stati effettivamente espulsi dal territorio dello Stato convenuto (Corte EDU, 8.7.2021, Shahzad c. Ungheria, in questa Rivista, XXIII, 3, 2021). Per quanto riguarda invece la natura collettiva di tale espulsione, la Corte osserva come i ricorrenti non solo abbiano informato le autorità interne della loro intenzione di chiedere asilo ma abbiano anche adottato un atteggiamento cooperativo dopo essere stati identificati in aeroporto. Se ciò significa che non si potrebbe imputare loro un comportamento che avrebbe impedito allo Stato convenuto di valutare la loro situazione individuale (diversamente da Corte EDU, Grande Camera, 13.02.2020, N.D. e N.T. c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 2, 2020), esso ha invece proceduto immediatamente allontanando i ricorrenti in un Paese terzo senza considerare la presenza di minori e senza l’adozione di una decisione formale che poteva essere contestata dai ricorrenti. Trattandosi quindi di un’espulsione collettiva ai sensi della disposizione richiamata, la Corte non ravvisa alcuna giustificazione per tale condotta. In tal senso, il ricorso a documenti di identità contraffatti non può certamente giustificare un’espulsione collettiva anche perché, come rileva la Corte stessa, coloro che cercano protezione internazionale sono spesso costretti a viaggiare senza documenti e la protezione offerta dalla Convenzione e dai suoi Protocolli non dipende dall’attraversamento legale del confine di uno Stato parte. Per tali ragioni, compresa l’assenza di garanzie effettive contro l’espulsione collettiva, la Corte EDU constata una violazione dell’art. 4, Prot. 4. Peraltro, l’allontanamento dei ricorrenti non sarebbe comunque stato conforme alla legge interna perché questa non prevede l’accompagnamento alla frontiera nel caso in cui le persone interessate siano sospettate di aver commesso un reato, proprio come le due famiglie interessate. Infine, poiché i ricorrenti sono stati allontanati in Serbia senza alcun esame in merito alla loro effettiva possibilità di accedere a una procedura di asilo adeguata in grado di tutelarli contro il rischio di refoulement diretto o indiretto (cfr. ad es. Corte EDU, 15.09.2022, O.M. e D.S. c. Ucraina, in questa Rivista, XXV, 1, 2023), nel loro caso vi è stata anche una violazione del divieto di tortura e altri trattamenti inumani o degradanti (art. 3) letto sotto il profilo procedurale.