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Corte di giustizia dell'Unione europea

Cessazione dello status di rifugiato: protezione nel Paese di origine e supporto economico e sociale offerto da privati

Nel caso OA (C-255/19, sentenza del 20.1.2021), la CGUE ha fatto luce sul requisito della protezione nel Paese di origine a fronte del rischio di persecuzione lamentato dal cittadino di Stato terzo in procinto di essere rimpatriato per cessazione dello status di rifugiato. OA, cittadino somalo, era stato riconosciuto come rifugiato nel Regno Unito nel 2003.

Nel 2016 il Ministro dell’interno aveva disposto la cessazione dello status di rifugiato, sostenendo che con il passare del tempo le condizioni nel Paese di origine erano nettamente migliorate. In particolare, OA non poteva più essere considerato come potenziale vittima di danni gravi e attacchi violenti perpetrati dalle milizie che tempo addietro lo perseguitavano; nello specifico, egli avrebbe potuto beneficiare della protezione offerta da privati, come i familiari e i membri del suo clan di appartenenza, specialmente tramite un supporto di natura economica o sociale. Per il Ministero dell’interno, insomma, se OA fosse rientrato nella città di ultima residenza in Somalia avrebbe avuto la prospettiva di vivere in condizioni al di sopra di ciò che dovrebbe considerarsi accettabile in termini di protezione umanitaria. OA contestava la decisione di cessazione dello status di rifugiato, facendo valere il fondato timore di essere perseguitato in caso di ritorno in Somalia. Aggiungeva poi che le autorità statali del suo Paese non sarebbero state in grado di proteggerlo da potenziali danni gravi simili a quelli già subiti. La posizione di OA si fondava soprattutto su una recente valutazione realizzata dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Il Tribunale superiore, dovendo decidere la controversia tra OA e il Ministero dell’interno, domandava alla CGUE di interpretare la disposizione di diritto UE rilevante nel caso di specie, vale a dire l’art. 11, par. 1, lett. e), della direttiva 2004/83, secondo cui un cittadino di un Paese terzo o un apolide cessa di essere un rifugiato «qualora non possa più rinunciare alla protezione del Paese di cui ha la cittadinanza, perché sono venute meno le circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato». Detto che la direttiva 2004/83 doveva essere applicata perché il Regno Unito non è vincolato dalla successiva direttiva di rifusione (direttiva 2011/95 o nuova «direttiva qualifiche»), e posto che comunque c’è corrispondenza tra gli artt. 11, par. 1, lett. e) della prima e della seconda, il giudice nazionale voleva in pratica sapere se, sulla base di tale disposizione, vi è simmetria tra il concetto di «protezione» nel Paese di cittadinanza ai fini del riconoscimento e della cessazione dello status di rifugiato e se un eventuale sostegno sociale ed economico garantito da soggetti privati all’interessato possa sostituirsi alla protezione statale idonea a fugare il fondato timore di essere perseguitati. La Corte prende spunto dalla sentenza Salahadin Abdulla e a. (C-175/08, C-176/08, C-178/08 e C-179/08, sentenza del 2 marzo 2010) e risponde affermativamente alla prima questione: la protezione offerta all’interessato nel Paese di cittadinanza cui fa cenno l’art. 11, par. 1, lett. e), della direttiva 2004/83 è il riflesso del medesimo requisito enunciato all’art. 2, lett. c), riguardante la nota definizione di «rifugiato», letto in combinato disposto con l’art. 7, parr. 1 e 2. Segnatamente, il par. 1 menziona, tra i soggetti che possono offrire protezione, solo lo Stato oppure «partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio». Dunque, la risposta alla seconda questione è negativa, in quanto tra i soggetti che possono proteggere non figurano i privati. Tra l’altro un mero sostegno economico o sociale non sarebbe sufficiente a integrare quanto richiesto dall’art. 7, par. 2, che associa la protezione dei soggetti ex par. 1 ad «adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi», cosa che implica l’esistenza, nel Paese di cittadinanza, di «un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave». Di conseguenza, per la Corte un sostegno come quello di cui si discute non può escludere il fondato timore di essere perseguitato nel Paese di cittadinanza, che quindi continuerebbe ragionevolmente a sussistere.

Esclusione dallo status di rifugiato di apolide di origine palestinese: valutazione delle circostanze di fatto che hanno portato alla fuga dal Paese di origine

Con la pronuncia XT (C-507/19, sentenza del 13.1.2021), la Corte ha offerto criteri interpretativi per comprendere come applicare l’art. 12, par. 1, lett. a), della direttiva 2011/95, ai sensi del quale un cittadino di uno Stato terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato se rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 1D della Convenzione di Ginevra del 1951, relativo alla protezione o assistenza di un organo o di un’Agenzia delle Nazioni Unite diversi dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. L’art. 12, par. 1, lett. a) della direttiva qualifiche chiarisce che tale causa di esclusione viene meno quando protezione o assistenza cessano per qualsiasi motivo, senza che la posizione dell’interessato sia stata definitivamente stabilita in conformità delle pertinenti risoluzioni adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Ebbene, nel caso in esame, l’apolide di origine palestinese XT era stato registrato presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), che anche all’epoca dei fatti operava in cinque settori (Striscia di Gaza, Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria). XT viveva in Siria, ma durante il conflitto siriano aveva anche soggiornato in Libano; solo che a un certo punto aveva deciso ugualmente di rientrare in Siria per via dell’assenza di un titolo di soggiorno valido e di un rafforzamento, circostanza che avrebbe verosimilmente indotto le autorità libanesi a ricondurre XT nel suo Paese. Dopo poco tempo, XT fuggiva dalla Siria a causa del conflitto e della situazione di forte insicurezza e precarietà. Una volta lasciata la Siria, XT non vi voleva più fare ritorno perché temeva di essere arrestato. Non riuscendo ad entrare né in Giordania né in Libano, dato che entrambi gli Stati nel frattempo avevano chiuso le frontiere ai rifugiati palestinesi che si trovavano in Siria, XT si era diretto verso l’Europa ed era arrivato in Germania, dove aveva presentato domanda di asilo. Dal momento che le autorità competenti gli avevano riconosciuto lo status di beneficiario di protezione sussidiaria, sorgeva un contenzioso che arrivava fino alla Corte amministrativa federale. Questo giudice, per risolvere la controversia portata alla sua attenzione, si rivolgeva alla CGUE per chiederle come interpretare il suddetto art. 12, par. 1, lett. a), della direttiva qualifiche. Per prima cosa, il giudice a quo voleva sapere se, per compiere la verifica in merito all’eventuale cessazione della protezione o dell’assistenza dell’UNRWA, fosse sufficiente considerare la zona operativa di detta Agenzia in cui l’interessato aveva la dimora effettiva al momento della partenza da quel luogo. A questo proposito, la CGUE si rifà alla sentenza Aletho (C-585/16, sentenza del 25 luglio del 2018) e propone un’interpretazione teleologica e sistematica dell’art. 12, par. 1, lett. a), della direttiva 2011/95, che si ispira alla Convenzione di Ginevra e tiene conto anche di altre disposizioni di diritto UE, come l’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/33. La sostanza del ragionamento della Corte è che l’analisi da svolgere deve essere più ampia: è necessario valutare tutti gli elementi pertinenti per concludere se un apolide di origine palestinese come XT si trovasse davvero in uno stato personale di grave insicurezza senza che l’UNRWA potesse effettivamente garantirgli condizioni di vita conformi alla propria missione. Quanto al luogo di protezione/assistenza, la Corte nota che le disposizioni di riferimento della direttiva qualifiche e della Convenzione di Ginevra non indentificano limitazioni di carattere territoriale, come quelle prospettate nel quesito formulato dal giudice del rinvio. Quanto poi all’effettività della protezione/assistenza, la CGUE ritiene che dipenda dalla possibilità per l’interessato di soggiornare in una zona operativa dell’UNRWA in sicurezza, in condizioni di vita dignitose e senza essere esposto al rischio di respingimento nel territorio della sua dimora abituale finché non sia in grado di farvi ritorno in sicurezza. Tuttavia, al netto delle capacità reali dell’UNRWA, se la persona non aveva modo di lasciare il luogo della sua dimora e accedere a uno dei cinque settori della zona operativa dell’Agenzia per cercare protezione/assistenza, ecco che l’effettività di cui sopra svanisce. A giudizio della Corte, possono costituire indicatori utili la sussistenza del diritto di ottenere un titolo di soggiorno, o di legami familiari in uno Stato o in un territorio autonomo di uno dei settori operativi dell’UNRWA; contano poi anche elementi di prassi posti in essere dalle autorità locali. Pertanto, l’autorità competente dello Stato membro che riceve la domanda di asilo di un richiedente come XT, è tenuta a considerare tutti questi elementi, così come gli elementi nuovi emersi, se del caso, dopo la partenza dell’interessato dal luogo in cui si pensava potesse essere protetto o assistito dell’UNRWA. Con il secondo quesito, invece, il giudice tedesco intendeva sapere se l’art. 12, par. 1, lett. a), debba essere interpretato nel senso che la protezione o l’assistenza dell’UNRWA cessa quando un apolide di origine palestinese ha tenuto la stessa condotta di XT, il quale, prima di partire per l’Europa, aveva deciso di spostarsi dal Libano alla Siria ben sapendo che lì si sarebbe trovato in uno stato personale di grave insicurezza e non avrebbe potuto attendersi un supporto fattivo da parte dell’UNRWA. Facendo valere in particolare il principio dell’effetto utile del diritto UE, la Corte dichiara che è volontario lo spostamento compiuto dall’apolide di origine palestinese che lascia un settore UNRWA in cui non è in pericolo, per dirigersi verso un altro settore UNRWA dove, in base a informazioni concrete e puntuali, non può che prevedere che si troverà in uno stato personale di grave insicurezza. E se lo spostamento dal settore “sicuro” a quello “insicuro” è volontario si può sostenere che, in termini generali, l’interessato non sia stato costretto a lasciare la zona operativa dell’UNRWA considerata nel suo complesso quando si è diretto verso il territorio dell’Unione. In presenza di queste condizioni, la protezione o assistenza dell’UNRWA non può dirsi cessata. La Corte, facendo leva sulle informazioni a disposizione, dubita che l’allontanamento di XT dal Libano (e, per l’effetto, dall’intera zona operativa UNRWA) sia stato volontario, ma conclude che la valutazione definitiva compete al giudice del rinvio. Questi, naturalmente, dovrà accertare le circostanze di fatto eseguendo un accertamento individuale che copra tutti gli elementi pertinenti della situazione di cui al procedimento principale.

Ricorso contro decisione di trasferimento del richiedente asilo verso lo Stato membro competente: garanzie procedurali

Nel caso H.A. (CGUE, C-194/19, sentenza del 15.4.2021) sono state esaminate alcune garanzie procedurali del richiedente asilo che abbia deciso di contestare una decisione di trasferimento verso lo Stato membro competente e disposto prendere in carico l’interessato. H.A., richiedente asilo in Belgio, si era opposto a un simile provvedimento, cercando di fare valere circostanze sopravvenute che, a suo dire, avrebbero giustificato la sua permanenza in territorio belga. Ciononostante, la sua difesa non era stata accolta: si riteneva che nessuna circostanza successiva potesse essere legittimamente invocata per ottenere la revisione del provvedimento contestato. Nel corso del procedimento veniva da ultimo attivato il Consiglio di Stato, che si rivolgeva alla CGUE per sapere se l’art. 27, par. 1, del regolamento 604/2013 («Dublino III»), letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali, ammette che una normativa nazionale per la quale il giudice investito di un ricorso di annullamento contro una decisione di trasferimento non può, durante l’esame del ricorso, tenere conto di circostanze successive all’adozione della decisione impugnata. La Corte isola la disposizione da interpretare, che dispone quanto segue: «Il richiedente (...) ha diritto a un ricorso effettivo avverso una decisione di trasferimento, o a una revisione della medesima, in fatto e in diritto, dinanzi a un organo giurisdizionale». Nel proprio ragionamento sottolinea che il citato art. 27, par. 1, deve tendere all’obiettivo prefigurato dal considerando 19, cioè la protezione efficace dei diritti degli interessati. Ciò implica, anche in funzione del diritto fondamentale a un ricorso effettivo sancito dall’art. 47 della Carta, che le circostanze successive devono potere essere portate all’attenzione dell’organo giudicante laddove si contesti una decisione che dispone il trasferimento dell’interessato verso altro Stato membro; ciò, tuttavia, solo qualora le circostanze sopravvenute siano determinanti ai fini della corretta applicazione del regolamento. Inoltre, si sottolinea come non sia obbligatorio che la valutazione di queste circostanze sia realizzata già in sede di esame del ricorso che consente di contestare la legittimità della decisione di trasferimento, in quanto è sufficiente che il diritto interno preveda un mezzo di ricorso specifico. Resta inteso che il rimedio eventuale di cui trattasi deve pur sempre essere effettivo. In particolare, esso deve innanzitutto essere esperibile a seguito del verificarsi delle suddette circostanze e che i risultati prodotti sono da considerarsi vincolanti per le autorità competenti; occorre altresì che possa essere messo in funzione senza che la libertà del ricorrente venga compressa e indipendentemente dall’imminenza dell’esecuzione della decisione di trasferimento verso lo Stato membro competente.

Allontanamento di minori non accompagnati: garanzie a tutela dell’interesse superiore del minore

Il caso TQ (C-441/19, 14.1.2021) pone la CGUE di fronte all’esigenza di interpretare varie disposizioni della direttiva 2008/115 (direttiva rimpatri) alla luce dell’interesse superiore del minore. La vicenda alla base del rinvio pregiudiziale traeva origine dalla situazione di incertezza in cui versava TQ, cittadino straniero che non aveva i requisiti per beneficiare di uno status di protezione internazionale nei Paesi Bassi. Il problema di fondo era che TQ all’epoca della presentazione della domanda aveva da poco compiuto 15 anni e non era accompagnato; anzi, sosteneva di non sapere nulla della sua famiglia di origine e di non avere altri contatti al di là dei membri della famiglia di affidamento nei Pesi Bassi. Nel giudizio che TQ aveva instaurato per contestare la decisione che gli imponeva la partenza entro quattro settimane il giudice nutriva alcuni dubbi circa la compatibilità della normativa nazionale applicabile con la direttiva rimpatri, interpretata in considerazione di disposizioni della Carta dei diritti fondamentali a presidio dell’interesse superiore del minore. La CGUE, interpellata da tale giudice, si è quindi trovata a risolvere tre questioni chiave. Riguardo alla prima, la Corte chiarisce che una decisione di rimpatrio nei confronti di un minore non accompagnato potrà essere adottata solo dopo che lo Stato membro interessato abbia accertato che nello Stato di rimpatrio sia disponibile «un’accoglienza adeguata» per il minore. La Corte giunge a questa conclusione perché, se è vero che l’art. 6, par. 1, della direttiva prevede che gli Stati membri adottino una decisione di rimpatrio contro il cittadino di Paese terzo che stia soggiornando irregolarmente, l’art. 5, lett. a) – rafforzato dall’art. 24, par. 2, della Carta –, prescrive che nell’attuazione della direttiva l’interesse superiore del bambino sia sempre tenuto in debita considerazione. Ora, dal momento che un quindicenne come TQ, è da considerarsi minore, e dunque bambino, in virtù di quanto disposto dall’art. 2, lett. d), della direttiva 2013/33, è chiaro che le autorità olandesi devono assicurarsi che il suo interesse superiore sia rispettato quando viene attuata la direttiva 2008/115. E allora, di fronte alla prospettiva di un rimpatrio, per la Corte l’interesse superiore del minore (specie se non accompagnato) può essere soddisfatto solo se le autorità coinvolte nella procedura compiono un esame generale ed approfondito della situazione del soggetto. Ma per essere conforme al diritto dell’Unione, la valutazione deve avere ad oggetto anche la sussistenza o meno di un’accoglienza adeguata del minore nello Stato di rimpatrio. La seconda questione discende da una distinzione operata dalla normativa nazionale applicabile alla fattispecie: in mancanza dei presupposti per il riconoscimento di uno status di protezione internazionale al minore, la valutazione circa l’accoglienza adeguata nello Stato di rimpatrio è richiesta solo se l’interessato aveva meno di 15 anni al momento della presentazione della domanda (poi rigettata) di asilo o di protezione sussidiaria. La Corte, tuttavia, nega che una distinzione di questo tipo possa essere in linea con le predette norme di diritto dell’Unione derivato e primario: la valutazione che le autorità nazionali competenti dovranno svolgere non può dipendere da un criterio automatico, come previsto dalla normativa olandese, ma sarà è necessario compiere un esame accurato del caso in questione. Passando alla terza questione, la Corte fa presente che se le autorità competenti accertano che nello Stato di rimpatrio il minore non accompagnato potrà godere di un’assistenza adeguata, la decisione di rimpatrio dovrà essere eseguita. L’art. 8, par. 1, della direttiva 2008/115, d’altronde, specifica che se l’interessato non lascia il territorio dello Stato membro entro il termine assegnatogli, dovranno essere adottare tutte le misure necessarie per dare corso alla decisione di rimpatrio.

Visti per soggiorni superiori a 90 giorni: impugnazione a fronte di decisione di diniego

Nel caso M.A. (CGUE, C-949/19, sentenza del 10.3.2021), la Corte ha fornito utili ragguagli sui rimedi giurisdizionali applicabili alle decisioni di diniego a seguito di domande con le quali il cittadino di Stato terzo chiedeva il rilascio di un visto per soggiorni di lunga durata. Nello specifico, M.A., ricorreva alla giurisdizione polacca per impugnare il provvedimento consolare di rigetto della propria richiesta di visto per soggiorno di lunga durata al fine di effettuare studi di secondo ciclo in Polonia. Tuttavia, il Tribunale amministrativo adito aveva statuito che la decisione contestata non avrebbe potuto essere oggetto di sindacato giurisdizionale, anche sulla scorta della sentenza El Hassani (CGUE, C-403/16, sentenza del 13 dicembre 2017), che però riguardava richieste di soggiorni di breve durata. Alla fine dell’iter giudiziario, veniva investita della questione la Corte suprema amministrativa polacca, che rivolgeva apposito quesito alla CGUE. La Corte nota dapprima che il giudice a quo si è focalizzato su una disposizione errata per risolvere il suo dubbio: questi, infatti, aveva fatto leva sull’art. 21, par. 2 bis, della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen del 1985 (CAAS), disposizione che – tuttavia - concerne esclusivamente i cittadini di Stati terzi che siano titolari di un visto per soggiorni di lunga durata. La Corte, allora, individua come riferimento normativo per il caso in esame l’art. 34, par. 5, della direttiva 2016/801, relativa alle condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di Paesi terzi che intendano rimanere nel territorio di uno Stato membro per più di 90 giorni per realizzare determinate esperienze di educazione e formazione, tra cui figurano le ragioni di studio. La disposizione menzionata dalla CGUE fa presente, tra le altre cose, che se la richiesta dell’interessato viene rigettata, deve essere possibile impugnarla conformemente al diritto nazionale. Fermo restando che il giudice del rinvio dovrà valutare se la fattispecie ricade nel campo di applicazione della direttiva 2016/801, la CGUE conferma che ciascuno Stato membro è libero di stabilire le modalità processuali dei ricorsi giurisdizionali destinati a garantire la salvaguardia dei diritti dei soggetti dell’ordinamento. Al tempo stesso, una simile libertà di azione non può autorizzare l’individuazione di modalità meno favorevoli per l’interessato (rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno) o tali da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione. Inoltre, le caratteristiche della procedura di ricorso di cui all’articolo 34, paragrafo 5, della direttiva 2016/801 devono essere determinate conformemente all’articolo 47 della Carta.

Anche nel caso Migrationsverket (C-193/19, sentenza del 4.3.2021) è stata considerata la CAAS. Questa volta l’attenzione è stata concentrata sul tema dei motivi ostativi al ricongiungimento familiare. Le autorità svedesi avevano negato la proroga del soggiorno temporaneo ad A, cittadino gambiano che aveva potuto raggiungere la moglie svedese a seguito di ricongiungimento familiare. Il rigetto della richiesta di proroga del soggiorno era stato deciso perché A, durante un periodo di tempo trascorso in Norvegia, era stato inserito dalle autorità locali nel Sistema d’informazione Schengen (SIS), ai fini della non ammissione nello spazio Schengen. Inoltre, non era stato possibile risalire alla sua identità da documenti di viaggio validi. Nel procedimento instaurato da A sorgeva dunque la necessità di interpretare l’art. 25, par. 1, CAAS, per capire se la normativa svedese applicabile fosse ad esso conforme. In effetti, in forza del diritto interno A avrebbe potuto beneficiare della proroga di soggiorno richiesta per motivi connessi al ricongiungimento familiare, nonostante fosse stato segnalato al SIS. Invece, la formulazione dell’art. 25, par. 1, CAAS sembra più rigida, in quanto si prevede che un cittadino di Stato terzo nella situazione di A possa mantenere il suo titolo di soggiorno in uno Stato Schengen solo «per motivi seri, in particolare umanitari o in conseguenza di obblighi internazionali» e sempre che siano considerati gli interessi dello Stato che ha effettuato la segnalazione nel SIS. La CGUE, chiamata a pronunciarsi sul punto, interpreta in maniera estensiva l’art. 25, par. 1, CAAS. Conclude che i motivi indicati non costituiscono un elenco chiuso e che il ricongiungimento familiare può integrare un motivo serio idoneo a giustificare la concessione di una proroga del titolo di soggiorno, malgrado l’interessato sia stato segnalato nel SIS per impedire la sua ammissione entro lo spazio Schengen e sebbene non lo si possa identificare correttamente tramite documento di viaggio valido. Pertanto, la normativa svedese in base alla quale è consentito accordare un trattamento garantistico a chi si trovi nelle condizioni di A può trovare applicazione, a patto che prima di concedere la proroga del titolo di soggiorno siano tenuti in conto anche gli interessi della Norvegia, le cui autorità dovranno essere appositamente consultate.

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Rubrica di Questione Giustizia & Diritto, Immigrazione e Cittadinanza

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