in applicazione della normativa interna, avevano respinto la richiesta di prestazioni sociali a favore di stranieri privi di permesso di soggiorno di lungo periodo.
Assegno di maternità
Si segnala che, quanto all’assegno di maternità (art. 74, d.lgs. n. 151/2001), pur in pendenza del giudizio avanti alla Corte costituzionale promosso dal Tribunale di Bergamo ord. 26.11.2015 (in Banca dati ASGI), diversi giudici di merito hanno nuovamente affermato la diretta applicabilità della direttiva 2011/98/UE (cfr. Trib. Bari ord. 20.12.2016 e Trib. Brescia ord. 23.8.2016, entrambe in Banca dati ASGI) evidenziando che l’esclusione dalla prestazione è in contrasto con il principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale previsto dall’art. 12, dir. 2011/98/UE. I giudici hanno richiamato la giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte costituzionale, per sostenere che la normativa europea deve trovare immediata applicazione non solo da parte dei giudici nazionali, ma anche da parte della PA nell’esercizio della sua attività amministrativa. Sempre in relazione alle prestazioni sociali ed in particolare alla richiesta dell’assegno di maternità ex art. 74, d.lgs n.151/2001 è stato, inoltre, rilevato (cfr. Tribunale Brescia ord. 23.8.2016) che il rifiuto della prestazione ad una cittadina del Marocco collide con l’art. 65 dell’Accordo Euromediterraneo tra UE e Regno del Marocco, siglato tra CE e CECA (e relativi Stati membri) e il Marocco il 27.2.1996, entrato in vigore il 1.3.2000 e recepito dall’Italia con la legge 302/1999, secondo cui: «Fatte salve le disposizioni dei paragrafi seguenti, i lavoratori di cittadinanza marocchina e i loro familiari conviventi godono, in materia di previdenza sociale, di un regime caratterizzato dall’assenza di ogni discriminazione basata sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali sono occupati. L’espressione "previdenza sociale" copre gli aspetti della previdenza sociale riguardanti le prestazioni in caso di malattia e di maternità, di invalidità, di vecchiaia, di reversibilità, le prestazioni per infortuni sul lavoro e per malattie professionali, le indennità in caso di decesso, i sussidi di disoccupazione e le prestazioni familiari». Si tratta di una disposizione che ha sostituito quella analoga prevista dall’art. 41 dell’Accordo di Cooperazione tra CEE e Regno del Marocco stipulato il 27.4.1976, approvato con regolamento (CEE) n. 2211/1978, secondo cui: «Fatte salve le disposizioni dei paragrafi seguenti, i lavoratori di cittadinanza marocchina e i loro familiari conviventi godono, in materia di sicurezza sociale, di un regime caratterizzato dall’assenza di ogni discriminazione basata sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali sono occupati».
Bonus bebè
Assegni per il nucleo famigliare
Assegno sociale
Il comportamento discriminatorio dell’INPS è stato denunciato anche in relazione all’assegno sociale, precisamente per l’ipotesi di sospensione e di domanda di restituzione del pagamento che si asserisce indebitamente effettuato in conseguenza di rientri temporanei degli stranieri in patria. Al riguardo si sono pronunciati sia il Trib. Arezzo, sent. 13.7.2016 , sia il Trib. Brescia, sent. 4.8.2016 (in Banca dati ASGI). Entrambe le decisioni giungono alla medesima conclusione: rientri temporanei non giustificano né la sospensione, né la pretesa di restituzione se il centro di interessi e la residenza anagrafica rimangono in Italia. Infatti ai requisiti menzionati dall’art. 3. co. 6 della l. n. 335/1995, l’art. 20, co. 10 della l. n. 133/2008, applicabile alle domande di assegno sociale presentate dopo l’1.1.2009 aggiunge l’aver soggiornato legalmente, in via continuativa, per almeno dieci anni nel territorio nazionale. Laddove questi presupposti siano soddisfatti dal soggetto titolare del beneficio, nessuna diversa valutazione può essere fatta dall’INPS, posto che la legge fa riferimento a un accertamento legale che compete all’ufficiale di stato civile. In assenza di diversa determinazione da parte di detto ufficio, l’INPS non può che prenderne atto. Nelle citate pronunce è stato richiamato il disposto dell’art. 43 c.c. e la giurisprudenza formatasi al riguardo sicché essendo la residenza «il luogo in cui la persona ha la dimora abituale» e sussistendo secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in presenza «dell’elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dell’elemento soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali» (Cass. sez. I, 1.12.2011, n. 25726; Cass., sez. I, 5.8.2005, n. 16525; Cass., sez. I, 6.7.1983, n. 4525), sono del tutto illegittime sia la determinazione dell’INPS, di cui al messaggio del 4 giugno 2008, sia la circ. 2.12.2008 n. 105 avendo entrambe escluso la sussistenza della residenza (ai fini dell’erogazione dell’assegno sociale) nel caso in cui il richiedente si allontani dal territorio italiano per un periodo superiore al mese. Infatti interpretando il requisito dell’effettiva residenza come presenza costante che ammette soluzioni di continuità solo se di durata inferiore o pari al mese, l’INPS introduce un requisito ulteriore e non previsto – e quindi non voluto – dal legislatore e che non ha il potere di introdurre e che si appalesa come certamente discriminatorio.
Sempre in tema di assegno sociale si deve richiamare la sentenza del Trib. Brescia 4.2.2016, n. 167, est. Mossi (in Banca dati ASGI) che ha riconosciuto che «poiché lo straniero regolarmente soggiornante beneficia, ai sensi dell'art. 2, co. 5, TU, della parità di trattamento nei rapporti con la pubblica amministrazione, questi ha diritto di fruire dell'autocertificazione alle medesime condizioni previste per i cittadini italiani e pertanto anche per autocertificare l'assenza di redditi o patrimoni all'estero. Costituisce pertanto discriminazione – in quanto in contrasto con il predetto principio di parità – la pretesa dell'INPS di dare applicazione alla disposizione, di natura meramente amministrativa, contenuta nell'art. 3, d.p.r. n. 445/2000, che, in contrasto con detta previsione di legge, prevede che lo straniero, per quanto riguarda stati, qualità personali e fatti non attestabili da soggetti pubblici italiani, debba produrre certificati o attestazioni rilasciati dalla competente autorità dello Stato estero. Nella specie il giudice ha reputato illegittimo e discriminatorio il diniego opposto alla domanda di assegno sociale da parte dell'INPS, che aveva ritenuto insufficiente l'autocertificazione sulla mancanza di redditi e patrimoni nel paese. Secondo il Tribunale di Brescia, quindi, le norme regolamentari di secondo grado violano i precetti delle norme primarie e pertanto dovranno esser disapplicate ed a sostegno della propria decisione ha ricordato che, con l'entrata in vigore del Decreto ISEE (d.p.c.m. 159/2013), il Governo non ha differenziato le DSU presentate dai cittadini italiani e comunitari, rispetto a quelle dei cittadini stranieri.
La sentenza del Tribunale di Brescia, tuttavia, è stata riformata dalla Corte di Appello di Brescia con sent. 13.12.2016, n. 437 sul presupposto che con l’autocertificazione, sostitutiva dei certificati della PA italiana, si possano attestare, sia da parte di cittadini italiani che stranieri, solamente fatti attestabili o certificabili da parte dei soggetti pubblici italiani suscettibili di essere controllati e verificati in ottemperanza all’obbligo di controllo gravante su questi ultimi. Sicché sulla base di tale non condivisibile motivazione è stata negata la disparità di trattamento.
Accesso al posto di lavoro
La Cass., SU civili, 20.4.2016, n. 7951 (in Banca dati ASGI) ha affermato il carattere discriminatorio di un bando per la selezione di volontari da impiegare in progetti di servizio civile in Italia e all'estero che esclude gli stranieri residenti ricordando che «per effetto della sentenza della Corte Costituzionale 119 del 2015,… ove la P.A., nell’emanare un bando per la selezione di volontari da impiegare nel servizio civile nazionale, inserisca, tra i requisiti e le condizioni di ammissione, il possesso della cittadinanza italiana, e non consenta in tal modo l’accesso ai cittadini stranieri che risiedono regolarmente in Italia, essa pone in essere un comportamento discriminatorio, per ragioni di nazionalità, avverso il quale è esperibile dinanzi al giudice ordinario, da parte del soggetto leso, l’azione ex art. 44 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con il d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Invero, l’esclusione del cittadino straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato dalla possibilità di prestare il servizio civile nazionale realizza una discriminazione diretta per ragioni di nazionalità, perché – impedendogli di concorrere a realizzare progetti di utilità sociale nell’ambito di un istituto rivolto a favorire la partecipazione e la condivisione dei valori costituzionali della Repubblica – preclude allo stesso non-cittadino, in violazione del principio di parità di trattamento, il pieno sviluppo della sua persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza. Ai fini dell’accesso al servizio civile nazionale, non può richiedersi una particolare intensità del vincolo tra stranieri regolari e comunità di accoglienza, del tipo di quella derivante dal possesso di un determinato tipo di permesso di soggiorno o dalla durata della residenza in Italia. Infatti, la motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 119 del 2015, nel punto 4.1. del Considerato in diritto, si riferisce, espressamente, ai “cittadini stranieri, che risiedono regolarmente in Italia”: è questa la categoria di soggetti presa in considerazione quando è stata giudicata irragionevole l’esclusione dalle attività alle quali i doveri inderogabili di solidarietà sociale si riconnettono. L’apertura dell’accesso al servizio civile è, dunque, per tutti i cittadini stranieri che risiedono regolarmente in Italia. Non sono pertanto applicabili, in tema di servizio civile, limitazioni ulteriori, tratte in via analogica dalla disciplina che il legislatore ha introdotto per l’accesso ai posti di lavoro presso le pubbliche amministrazioni (in relazione al quale l’art. 38, comma 3-bis, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, aggiunto dall’art. 7 della legge 6 agosto 2013, n. 97, richiede, per i cittadini di Paesi terzi, la titolarità del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, ovvero dello status di rifugiato o dello status di protezione sussidiaria)».
La Corte di Appello di Milano, sent. 20.5.2016, n. 579 (in Banca dati ASGI), in riforma della sentenza del Tribunale di Lodi, ha riconosciuto discriminatoria l’esclusione dall’assunzione di una lavoratrice perché la stessa aveva rifiutato di eliminare il velo islamico. Diversamente opinando dal primo giudice che aveva escluso la discriminazione diretta ed indiretta, ritenendo l'esclusione giustificata dalla richiesta del selezionatore di presentare al cliente candidate con caratteristiche d'immagine incompatibili con l'indossare un copricapo, la Corte d'Appello ha sottolineato il carattere oggettivo che connota la discriminazione. Secondo i giudici una condotta è discriminatoria se determina in concreto una disparità di trattamento fondata sul fattore tutelato, a prescindere dall'elemento soggettivo dell'agente (stato psicologico, dolo, colpa, buona fede). Sicché non ammettere la candidata alle selezioni per il lavoro ha determinato in capo alla stessa una esclusione o restrizione ai sensi dell'art. 43 del TU, menomando la sua libertà contrattuale e restringendo la possibilità di accedere a un'occupazione. Secondo l'art. 3, co. 1, del d.lgs. 261/2003, che ha attuato la direttiva CE per la parità di trattamento e condizioni di lavoro, il principio di parità di trattamento si applica anche senza distinzione di religione a tutte le persone, sia nel settore pubblico che privato, ed è suscettibile di tutela giurisdizionale. Poiché lo hijab ha una connotazione religiosa ed appartiene alla pratica consigliata dal Corano, l'esclusione da un posto di lavoro a ragione del velo costruisce una discriminazione diretta in ragione dell'appartenenza religiosa. Una differenza di trattamento sarebbe legittimata solo laddove la caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato. Tuttavia, nel caso in esame, i giudici hanno reputato che nella fattispecie loro sottoposta non sussisteva alcuna causa di giustificazione, poiché non emergeva da alcun documento che il capo scoperto e il correlativo divieto di indossare il velo fosse stato qualificato come requisito essenziale e determinante della prestazione.
Il giudice del Lavoro del Trib. Udine con ord. 30.6.2016 (in Banca dati ASGI) ha riconosciuto il carattere discriminatorio dell’esclusione di una cittadina croata dalla procedura di selezione per due posizioni di operatore doganale presso l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (Ministero dell’Economia e delle Finanze) ricordando che, come ribadito in numerose occasioni dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, il regime derogatorio dell’art. 45, par. 4 TFUE al principio di non discriminazione e libera circolazione dei lavoratori di paesi UE trova applicabilità in limitati casi, ovvero solo quando tali incarichi implichino esercizio abituale diretto o indiretto di pubblici poteri e non quando rappresentino una parte molto ridotta delle attività svolte. La valutazione deve essere fatta non in astratto, ma in modo concreto, caso per caso. Pertanto ha affermato che costituisce discriminazione sulla base della nazionalità il comportamento dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli che esclude i cittadini europei dalla procedura di selezione per il profilo di operatore doganale in quanto il ruolo di operatore doganale per cui è bandita la selezione rappresenta una parte molto ridotta delle attività svolte.
Diritti di segreteria relativi al rilascio della certificazione di idoneità alloggiativa e tassa per rinnovo o rilascio del permesso di soggiorno
In ordine al comportamento degli enti pubblici territoriali, va segnalato Trib. Brescia ord. 8.7.2016, est. Tinelli (in Banca dati ASGI), con cui sono stati condannati i comuni di Pontoglio e Rovato per l’aumento dei diritti di segreteria relativi al rilascio della certificazione di idoneità alloggiativa, disposti nelle delibere dei suddetti Comuni, perché la certificazione di idoneità alloggiativa è un atto che tipicamente riguarda la condizione dello straniero, poiché è indispensabile al fine di ottenere il permesso per lungo soggiornati, richiedere il ricongiungimento familiare o acquisire il permesso di soggiorno per motivi familiari. Dunque, benché in linea di principio la tariffa applicata dai comuni convenuti per la richiesta della certificazione di idoneità alloggiativa sia la medesima per tutti, italiani e stranieri, è evidente che l’interesse prevalente se non esclusivo al rilascio della certificazione riguardi i soli stranieri. Costituisce perciò discriminazione indiretta sulla base della nazionalità l’aumento in misura elevata (nella specie 212 % e 624 %) dei diritti di segreteria richiesti dall’Amministrazione comunale per il rilascio della certificazione di idoneità alloggiativa che ha l’effetto di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali dei cittadini stranieri a norma degli artt. 2, co. 1, lett. b), d.lgs. n. 215/2003 e 43, d.lgs. n. 286/1998 proprio in quanto tale aumento grava in misura quasi esclusiva sugli stranieri, nei confronti dei quali compromette in maniera rilevante alcuni diritti fondamentali (come quello di accedere al permesso per lungosoggiornanti e al ricongiungimento familiare) senza che tale pregiudizio abbia una valida giustificazione negli asseriti maggiori costi dell’attività. La rimozione di detta discriminazione comporta la restituzione della quota di aumento a tutti gli stranieri che l’hanno pagata, anche se non parte nel giudizio. Il Tribunale ha sottolineato che l’interesse ad agire del ricorrente persona fisica prescinde dall’effettiva presentazione di una domanda proprio in ragione del fatto che «se l’azione individuale di discriminazione fosse subordinata alla effettiva richiesta della idoneità alloggiativa e al conseguente pagamento dei diritti di segreteria, un soggetto incapace di far fronte alla spesa si vedrebbe in radice precluso il proprio diritto alla tutela giurisdizionale». È quindi sufficiente la residenza nel comune ad integrare l’interesse ad agire. Il Tribunale ha affermato anche il carattere collettivo della discriminazione, riconoscendo la legittimazione attiva delle due associazioni, proprio perché la discriminazione si estende a tutti coloro che possono avere interesse ad ottenere la certificazione di idoneità alloggiativa, non solo a quelli che l’abbiano in concreto richiesta.
In una diversa fattispecie, pur sempre incidente sulla condizione dello straniero, si è pronunciato il Trib. Milano, ord. 8.7.2016, est. Flamini (in Banca dati ASGI) che ha dichiarato discriminatoria la richiesta agli stranieri della tassa sproporzionata per la domanda di rinnovo o rilascio del permesso di soggiorno – anche non di lungo periodo – prevista dal d.m. 6.10.2011, già annullato dal Tar del Lazio nel precedente mese di maggio, ed ha condannato il Ministero dell’Interno, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Presidenza del Consiglio dei Ministri alla restituzione parziale di quanto versato. Infatti il Tar Lazio, con sent. 24.5.2016 n. 6095 aveva concluso in primo grado la vicenda riguardante il «contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno» iniziata con un procedimento promosso davanti al medesimo tribunale da CGIL e INCA al fine di ottenere l’annullamento del decreto Ministero dell’Interno e Ministero dell’Economia e delle Finanze del 6 ottobre 2011 con il quale era stato fissato tra un minimo di 80 e un massimo di 200 euro in relazione ai vari tipi di permesso l’importo da versare a titolo di “tassa di soggiorno”. Il Tar aveva promosso d’ufficio rinvio pregiudiziale avanti la Corte di giustizia sotto il profilo del contrasto tra la dir. 2003/109/CE e l’art. 5, co. 2 ter TU, nella parte in cui prescrive che la richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno sia sottoposta al versamento del predetto contributo. La Corte, con sent. C‑309/14 del 2 settembre 2015, aveva dichiarato incompatibile con la direttiva 2003/109/CE l’art. 5, co. 2ter sopracitato. Il Tar che aveva, di conseguenza, disapplicato la normativa nazionale per contrastato con la normativa di fonte comunitaria, ha annullato gli artt. 1, co. 1 e 2 (nella sola parte in cui si riferiscono al contributo di cui al precedente art. 1) del d.m. 6.10.2011. Sicché essendo annullata la norma secondaria (il d.m.) che stabiliva l’importo da pagare per il rilascio di tutti i permessi di soggiorno, qualsiasi pretesa dell’amministrazione di ottenere il pagamento di somme ai sensi dell’art. 5, co. 2ter TU sarebbe priva di titolo, ferma restando la facoltà dell’Amministrazione di rideterminare l’importo dovuto con altro atto amministrativo, purché secondo i criteri di proporzionalità indicati dalla CGUE. Tuttavia l’annullamento del citato decreto da parte del Tar non aveva indotto le amministrazioni resistenti ad adottare nessun provvedimento che continuavano a richiedere il pagamento della tassa nella misura prevista dal decreto annullato.
Di conseguenza la pronuncia del Tribunale di Milano è molto importante in quanto statuisce che la richiesta di pagamento in misura non consentita dall’ordinamento europeo costituisce anche discriminazione e viola il principio di parità di trattamento previsto dalla direttiva 2003/109/CE e sancisce, di conseguenza, il diritto alla restituzione di quanto pagato dagli stranieri dall’entrata in vigore del decreto.
Strumentalizzazione delle diversità culturali e religiose a fini discriminatori
Un altro aspetto su cui è dovuto intervenire il Tribunale di Brescia riguarda la strumentalizzazione delle tradizioni religiose a fini discriminatori. Ancora una volta il Trib. Brescia con ord. 18.7.2016 (in Banca dati ASGI) ha dovuto dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dal Comune di Pontoglio il quale con deliberazione del 30.11.2015 aveva disposto il posizionamento ai vari ingressi del paese di cartelli a sfondo marrone recanti la scritta «Pontoglio è un paese a cultura occidentale di profonda tradizione cristiana, chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene». Nella ordinanza il giudice ha dovuto rammentare che «lo Stato italiano non è confessionale bensì improntato al principio di laicità» (articolo 19 Costituzione) e che «ragioni di razza e religione non possono pregiudicare l’eguale godimento dei diritti fondamentali dell’individuo (art. 3 Cost.), fra i quali figura quello della libertà di circolazione e soggiorno (articolo 16 Cost.)». In conclusione nella ordinanza è stato chiarito che il principio di laicità delle istituzioni e di tutela della libertà religiosa comporta che motivi di appartenenza etnica e culturale o di religione non possano pregiudicare il godimento – in condizioni di parità – dei diritti fondamentali dell’individuo, fra i quali la libertà di circolazione e soggiorno garantita dall’art. 16 Cost. e che pertanto le radici culturali o religiose di una comunità locale non possano essere strumentalizzate dalla pubblica amministrazione per ostacolare, fosse anche nella forma della persuasione, il libero esercizio dei predetti diritti. Inoltre il giudice ha poi correttamente rilevato che il comportamento di spontanea rimozione dei cartelli nelle more del giudizio non precludeva né la emissione di una pronuncia di accertamento, né l’ordine di pubblicazione della ordinanza che tale condotta discriminatoria aveva stigmatizzato.