Corte europea dei diritti umani (a cura di Marco Balboni e Carmelo Danisi)
- Corte europea dei diritti umani (a cura di Marco Balboni e Carmelo Danisi) 1
- Corte di giustizia dell'Unione europea (a cura di Marco Borraccetti e Federico Ferri) 2
Corte europea dei diritti umani
Art. 3: Divieto di divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti
Nel corso del 2016, l’art. 3 è venuto in considerazione sotto una molteplicità di aspetti.
a) Pericolo di violazione dell’art. 3 in seguito all’allontanamento
Con una prima serie di casi, la Corte ritorna sull’accertamento del pericolo di violazione dell’art. 3 in seguito all’eventuale allontanamento dei richiedenti protezione internazionale.
Il caso Paposhvili c. Belgio (Corte Edu, Grande Camera, sentenza del 13.12.2016) è relativo a un richiedente asilo affetto da una particolare forma di leucemia, al quale è stato rifiutato in Belgio un permesso di soggiorno per motivi di salute. La Corte ricorda che le sofferenze derivanti da una malattia, aggravate da misure quali la detenzione o l’allontanamento, possono rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 3 (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 27.05.2008, N. c. Regno Unito; Corte Edu, 6.02.2001, Bensaid c. Regno Unito; cfr. anche questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154). Da ciò tuttavia non si può trarre un diritto di rimanere in uno Stato parte per beneficiare di cure mediche o assistenziali più avanzate. Solo in presenza di circostanze eccezionali si può ritenere che l’allontanamento esporrebbe una persona seriamente malata a trattamenti inumani o degradanti nel Paese di destinazione (cfr. Corte Edu, 26.02.2015, M.T. c. Svezia e 6.01.2015, Aswat c. Regno Unito, dec., in questa Rivista, XVII, n. 3-4, 2015, p. 178). Per verificare la presenza di tali circostanze, occorre tenere conto di aspetti di carattere sia sostanziale sia procedurale. Sul piano sostanziale, occorre verificare se l’allontanamento espone il richiedente a una significativa riduzione dell’aspettativa di vita e a un rapido declino delle condizioni di salute per l’assenza di, o impossibilità di accedere a, trattamenti medici adeguati nel Paese di destinazione. Sotto il profilo procedurale, occorre che l’interessato disponga di procedure interne che effettivamente garantiscano tale verifica alla luce delle prove presentate dal richiedente (quali ad esempio certificati medici) e dei rapporti di organizzazioni intergovernative e non governative sul Paese di destinazione, tra cui ad esempio l’Organizzazione mondiale della sanità. In definitiva, occorre che le autorità interne procedano a una comparazione tra lo stato di salute precedente e l’ipotetico stato di salute successivo all’allontanamento alla luce della disponibilità di cure mediche, del loro costo e dell’esistenza nel Paese di destinazione di una rete sociale e familiare di sostegno. Nel caso in cui, una volta effettuata tale valutazione, permangano dubbi, le autorità interne sono tenute a richiedere assicurazioni individuali al Paese di destinazione sull’esistenza, la disponibilità e l’accesso a tali cure (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 4.11.2014, Tarakhel c. Svizzera, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154). Nel caso di specie, la Corte nota che le autorità interne si sono limitate a esaminare le attività criminali del richiedente, senza procedere a alcuna valutazione delle condizioni di salute e della situazione familiare del richiedente in seguito all’allontanamento con la conseguenza che vi è stata violazione degli artt. 3 e 8 Cedu.
Il caso J.K. e altri c. Svezia (Corte Edu, Grande Camera, sentenza del 23.08.2016) riguarda il rifiuto della protezione internazionale a un richiedente e famiglia che temeva di essere oggetto di violenza da parte di al-Qaeda in caso di allontanamento verso l’Iraq in ragione delle attività che aveva prestato in questo Paese a servizio delle truppe americane sia in quanto il rischio di persecuzione aveva perso ormai ogni carattere di attualità, sia in quanto le forze di sicurezza irachene sarebbero state in grado di assicurare un’adeguata protezione contro violenze provenienti da privati. La Corte ricorda che la situazione generale in Iraq, nonostante i recenti avvenimenti, non presenta più un livello di pericolosità tale per cui la semplice presenza nel Paese espone un individuo a un rischio oggettivo di subire trattamenti inumani o degradanti (Cfr., Corte Edu, 27.06.2013, S.A. c. Svezia, in questa Rivista, XV, n. 2, 2013, p. 89). Occorre considerare, tuttavia, che il richiedente (e famiglia) appartiene a un particolare gruppo sociale costituito da coloro che hanno intrattenuto rapporti con le truppe americane per il quale esiste tuttora un rischio sistematico di torture o trattamenti inumani e degradanti anche da parte di agenti non statali (cfr. United Kingdom Home Office, Operational Guidance Note on Iraq, 22 agosto 2014). Poiché il sig. J.K. ha sufficientemente dimostrato di appartenere a tale gruppo e poiché l’Iraq non dispone ancora di un apparato di sicurezza effettivo per proteggere i propri cittadini, l’allontanamento verso tale Paese darebbe luogo a una violazione dell’art. 3.
La Corte segue il medesimo ragionamento nel caso R.V. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 7.07.2016), relativo all’allontanamento di un cittadino russo coinvolto nella guerriglia cecena, e nei casi Kholmurodov c. Russia, U.N. c. Russia e R. c. Russia (Corte Edu, sentenze dell’1.03.2016, del 26.07.2016 e del 26.01.2016), riguardanti il rinvio di oppositori politici di etnia uzbeca in Uzbekistan e Kirghizistan, mentre invece ritiene che non sussistano più i necessari presupposti nel caso di sostenitori del governo comunista afghano della fine degli anni ’80 allontanati dall’Olanda verso l’Afghanistan, anche tenuto conto dei pertinenti rapporti dell’UNHCR (Corte Edu, sentenze del 12.01.2016, A.G.R., A.W.Q., D.H., M.R.A. e altri, S.D.M. e altri, S.S. c. Paesi Bassi e Corte Edu, sentenza del 5.07.2016, A.M. c. Paesi Bassi).
Infine, la Corte considera che non vi è violazione nel caso R.B.A.B. e altri c. Paesi Bassi (Corte Edu, sentenza del 7.06.2016) relativo a due genitori sudanesi che avevano fondato la loro terza domanda di asilo sul pericolo che le loro figlie sarebbero state sottoposte a MGF in caso di invio in Sudan. La Corte considera infatti che in Sudan tale pratica è oramai in declino, essendo osservata solo in ambiti familiari consenzienti.
b) Garanzie procedurali richieste dall’art. 3 in caso di allontanamento
Un secondo gruppo di casi riguarda le garanzie procedurali, specie in caso di domande reiterate, desumibili segnatamente dall’art. 3 quando l’allontanamento possa determinare un rischio di violazione di tale disposizione.
Il caso F.G. c. Svezia (Corte Edu, Grande Camera, sentenza del 23.03.2016) riguarda un richiedente asilo iraniano che aveva basato la propria domanda d’asilo su motivi di persecuzione di natura politica, rifiutandosi di approfondire, nonostante le sollecitazioni delle autorità competenti, ulteriori motivi basati sulla sua conversione al cristianesimo, ritenendola un fatto privato. A fronte del rigetto della richiesta, presentava una seconda domanda basata su motivi di natura religiosa, che tuttavia non veniva considerata dalle autorità interne in quanto non erano emerse “nuove circostanze” rispetto alla prima domanda. La Corte ribadisce che gli Stati parte hanno l’obbligo di condurre un esame estremamente rigoroso nel caso in cui si possa presumere di inviare una persona verso un Paese in cui vi è pericolo di vita o di trattamenti inumani o degradanti. A tal fine, non è rilevante se il motivo di persecuzione sia o meno manifestato alla prima occasione utile, avendo comunque le autorità interne l’obbligo di esaminare i rischi menzionati anche nel caso in cui vengano autonomamente a conoscenza di fatti rilevanti. Nel caso di specie, un tale esame rigoroso non è stato effettuato sia in quanto le autorità interne hanno escluso a priori il timore di persecuzione sulla base delle dichiarazioni del richiedente sia in quanto si sono astenute dall’effettuare qualunque valutazione su come quest’ultimo avrebbe inteso manifestare la propria fede una volta in Iran. Il rinvio del richiedente verso tale Paese comporterebbe quindi una violazione degli artt. 2 e 3 Cedu.
Il caso Sow c. Belgio (Corte Edu, sentenza del 19.01.2016) è relativo a una donna vittima di matrimonio forzato che aveva più volte reiterato domanda di asilo producendo sempre nuova documentazione adducendo il pericolo di essere sottoposta nuovamente a mutilazioni genitali (MGF) se rinviata in Guinea Conakry. Dopo avere considerato che la sig.ra Sow è una donna adulta e istruita, con contatti con la madre che ugualmente si oppone a tali trattamenti, con la conseguenza che non può essere considerata un soggetto vulnerabile, la Corte considera che la mancata considerazione da parte delle autorità interne dell’ulteriore documentazione prodotta dalla richiedente nelle successive domande di asilo non dà luogo a una violazione del diritto a un ricorso effettivo in quanto tali autorità non sono tenute a effettuare un esame puntuale e rigoroso dei fatti in caso di domande reiterate, soprattutto qualora le ulteriori prove addotte ribadiscono fatti già noti alle medesime autorità. Non vi è quindi violazione dell’art. 13 in combinato con l’art. 3 Cedu.
Al contrario, nel caso M.D. e M.A. c. Belgio (Corte Edu, sentenza del 19.01.2016), relativo a due richiedenti asilo russi di origine cecena che avevano presentato nuovi elementi sostanziali solo alla quarta domanda, la Corte ha ritenuto che le autorità nazionali devono tenere conto di nuovi elementi centrali per la richiesta di protezione anche se presentati in occasione di domande reiterate. Poiché nel caso di specie i nuovi elementi prodotti non sono stati esaminati, l’allontanamento darebbe luogo a una violazione dell’art. 3 Cedu.
Il caso R.D. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 16.06.2016) riguarda l’esame con procedura prioritaria della richiesta di protezione internazionale di una donna che aveva sposato in Guinea Conakry un uomo di religione cristiana contro il volere della famiglia. Dopo avere considerato fondato il pericolo lamentato dalla ricorrente tenuto conto della coerenza del racconto, delle prove presentate, tra cui il certificato di matrimonio, e dei rapporti internazionali relativi alla situazione delle donne in Guinea, la Corte ricorda che gli Stati parte possono legittimamente ricorrere a procedure prioritarie al fine di gestire grandi flussi di richiedenti asilo (cfr., Corte Edu, 2.02.2012, I.M. c. Francia), a condizione tuttavia che questi ultimi abbiano a disposizione un tempo adeguato per preparare la domanda di protezione. Poiché nel caso di specie tale tempo è stato garantito, come anche la possibilità di ottenere il supporto di persone specializzate, non vi è stata violazione del diritto a un ricorso effettivo in combinato con l’art. 3.
c) Violazione dell’art. 3 derivante dalle condizioni di trattenimento in vista dell’allontanamento
Un terzo gruppo di casi riguarda la compatibilità con l’art. 3 delle condizioni di trattenimento. Si registrano innanzitutto casi relativi a minori.
Il caso A.B. e altri c. Francia (Corte Edu, sentenza del 12.07.2016) riguarda il trattenimento di una coppia di cittadini armeni e del figlio di quattro anni in un centro per circa tre settimane ritenuto dalle autorità interne non incompatibile con il preminente interesse del minore in quanto la decisione di trattenimento riguardava formalmente soltanto i richiedenti adulti. La Corte ricorda che per valutare se il trattenimento di minori raggiunga la severità richiesta dall’art. 3 (cfr. Corte Edu, 19.10.2010, Muskhadzhiyeva e altri c. Belgio; 5.04.2011, Rahimi c. Grecia) occorre considerare tre fattori, ossia l’età dei minori coinvolti, la durata della detenzione e le condizioni del centro di trattenimento. Nel caso di specie, la Corte non attribuisce rilevanza al fatto che il minore sia stato trattenuto con i genitori o alle condizioni generali del centro, considerando invece pertinente la protezione offerta specificamente al minore, ritenuta inadeguata. Infatti, durante il trattenimento, il minore ha vissuto sensazioni di ansia e disagio a causa dell’effetto cumulativo prodotto dalla privazione della libertà personale, dalla presenza della polizia, dalla partecipazione ai colloqui dei genitori, dal rumore insostenibile dovuto alla prossimità dell’aeroporto con la conseguenza che nei confronti del figlio dei richiedenti vi è stata violazione dell’art. 3.
La Corte arriva alle medesime conclusioni nel caso R.C. e V.T. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 12.07.2016), riguardante un minore di due anni trattenuto per dieci giorni assieme alla madre, e nel caso A.M. e altri c. Francia (Corte Edu, sentenza del 12.07.2016), relativo a una famiglia russa con figli di due anni e mezzo e quattro mesi detenuti per sette giorni, mentre nei casi R.K. e altri c. Francia (Corte Edu, sentenza del 12.07.2016), relativo a un minore di quindici mesi trattenuto per quattro giorni e R.M. e altri c. Francia (Corte Edu, sentenza del 12.07.2016), relativo a un minore di sette mesi trattenuto per sette giorni, oltre alla violazione dell’art. 3, la Corte constata altresì una violazione dell’art. 5, par. 1 e 4, in quanto, rispettivamente, nell’ordinamento francese non esiste alcuna disposizione di legge che prevede la detenzione di minori in vista dell’allontanamento e in quanto, mancando un ordine di trattenimento specifico nei confronti dei minori, le autorità interne hanno privato di ogni efficacia il diritto di questi ultimi di ricorrere dinanzi a un tribunale in grado di valutare la legalità della loro detenzione.
Il caso Abdullahi Elmi e Aweys Abubakar c. Malta (Corte Edu, sentenza del 22.11.2016) riguarda invece due minori somali entrati irregolarmente a Malta e trattenuti per circa otto mesi in un centro di detenzione nonostante gli accertamenti medici ne avessero confermato la minore età, prima di essere trasferiti in un apposito centro per minori non accompagnati. Dopo avere ricordato che la situazione di vulnerabilità derivante dallo stato di minore deve prevalere su considerazioni legate allo stato di migrante irregolare e che le condizioni di detenzione possono dare luogo a un livello di severità proibito dall’art. 3 nel caso in cui diano origine a sentimenti di ansia e stress, con conseguenti traumi (cfr., Corte Edu, Grande Camera, 4.11.2014, Tarakhel c. Svizzera, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154), pur considerando positivamente la distribuzione gratuita di beni di prima necessità, la garanzia di una dieta equilibrata e di condizioni igieniche minimamente soddisfacenti, la Corte attribuisce particolare importanza all’assenza di luce, di attività organizzate, di supporto specializzato, al contesto, a tratti violento, del centro di trattenimento, come riportato anche da rapporti internazionali, e all’inazione delle autorità competenti in attesa dei risultati del test relativo all’età. La Corte constata altresì una violazione dell’art. 5, par. 1 e 4, poiché, nonostante la detenzione sia di per sé legittima nel quadro del contrasto all’immigrazione irregolare, le autorità interne non si sono dimostrate sufficientemente celeri nel condurre la procedura di accertamento relativa all’età con conseguente prolungamento del trattenimento (cfr., Corte Edu, 23.7.2013, Suso Musa c. Malta, in questa Rivista, XV, n. 4, 2013, p. 107).
Altri casi riguardano il trattenimento di adulti, specie se in situazione di vulnerabilità.
Il caso Abdi Mahamud c. Malta (Corte Edu, sentenza del 3.05.2016) è relativo a una cittadina somala con particolari esigenze mediche e mentali che, dopo essere trattenuta, veniva sottoposta alla procedura di valutazione di vulnerabilità delle persone adulte, conclusasi un anno dopo con la rimessa in libertà. La Corte constata una violazione dell’art. 3 in quanto, se è vero che è stato garantito uno spazio (4/5 mq) accettabile per gli standard convenzionali, non è stato permesso alla richiedente di accedere a spazi esterni per almeno 18 settimane generando, cumulativamente con altri aspetti problematici riscontrati durante la detenzione quali esposizione al freddo, mancanza di privacy e di staff femminile, sentimenti di angoscia e inferiorità tali da generare sentimenti di umiliazione. La Corte constata altresì una violazione dell’art. e 5, par. 1 e 4 sia in ragione dei ritardi nella procedura relativa al riconoscimento della vulnerabilità e alla mancata adozione di misure effettive al fine di dare esecuzione all’allontanamento nel più breve tempo possibile, sia in ragione della mancanza di un ricorso effettivo contro la legalità della detenzione.
La Corte esclude invece una violazione dell’art. 3 nel caso Moxamed Ismaaciil e Abdirahman Warsame c. Malta (Corte Edu, sentenza del 12.01.2016), relativo a due somale adulte anch’esse trattenute in un centro di detenzione. Le richiedenti infatti non presentano particolari vulnerabilità, con la conseguenza che la Corte esclude che si sia prodotto lo stesso effetto cumulativo nonostante il centro presenti i medesimi aspetti problematici. La Corte esclude altresì una violazione dell’art. 5, par. 1, in quanto il trattenimento di circa un anno appare giustificato dal contestuale svolgimento della procedura d’asilo, ma non del par. 4, in ragione della mancanza di un ricorso effettivo.
Il caso Alimov c. Turchia (Corte Edu, sentenza del 6.09.2016) riguarda un cittadino uzbeco trattenuto nell’area “per passeggeri inammissibili” dell’aeroporto di Sabiha Gökçen in uno spazio da 1 a 2 mq per 68 giorni e quindi trasferito in un centro di espulsione. La Corte nota che il ricorrente è stato trattenuto in aeroporto in uno spazio estremamente ridotto, senza poter lasciare l’area e senza aver accesso ad alcuna assistenza legale e sia poi stato trasferito in un centro altrettanto affollato senza accesso ad ambienti esterni. In tali condizioni, considerata anche l’angoscia generata dall’incertezza sulla fine della detenzione, la Corte ravvisa un livello di severità superiore a quanto ammissibile in una situazione di privazione della libertà personale con conseguente violazione dell’art. 3, cui si aggiunge una violazione dell’art. 13, in combinato con lo stesso art. 3, in ragione della mancanza di rimedi effettivi atti a far valere la precarietà di tali condizioni di detenzione. La Corte accerta altresì una violazione dell’art. 5, par. 1, in quanto non esistono nell’ordinamento turco disposizioni chiare che regolano la procedura di trattenimento, del par. 2, in quanto nessun ordine di trattenimento è stato notificato al ricorrente, del par. 4, per l’assenza di un meccanismo rapido al fine di verificare la legalità del trattenimento e del par. 5, per l’assenza di risarcimento relativo all’illegalità del trattenimento.
Infine, in una serie di casi contro la Grecia, la Corte constata una violazione dell’art. 3 a causa delle condizioni di trattenimento praticate nel periodo 2010-2011 derivanti dal sovraffollamento e dalle scarse condizioni igieniche, come confermato da numerosi rapporti di organizzazioni internazionali e non governative (Corte Edu, 21.04.2016, HA.A. c. Grecia e 11.02.2016, R.T. c. Grecia, relativi entrambi a circa quattro mesi di detenzione nel centro di Tychero; 4.02.2016, Amadou c. Grecia, relativo a quattro mesi di trattenimento nei centri di Fylakio e di Aspropyrgos; 21.01.2016, H.A. c. Grecia, relativo a cinque mesi di trattenimento nei centri di Soufli). Negli stessi casi, la Corte constata una violazione dell’art. 5, par. 4, Cedu, in ragione della mancanza all’epoca dei fatti di un rimedio effettivo per valutare la legittimità della detenzione e, con esclusione del caso HA.A. c. Grecia, una serie di ulteriori violazioni specifiche. In particolare, nel caso H.A. c. Grecia, la Corte constata una violazione dell’art. 5, par. 1 perché durante la detenzione non sono state avviate misure concrete per procedere al rinvio del ricorrente verso l’Iran; nel caso R.T. c. Grecia, una violazione dell’art. 13, in combinato con l’art. 3, poiché, nonostante il richiedente avesse avanzato elementi da cui si poteva presumere l’esistenza di un rischio di subire trattamenti inumani o degradanti in Iran, era stato comunque allontanato in Turchia prima della conclusione della procedura di asilo; nel caso Amadou c. Grecia, un’ulteriore violazione dell’art. 3 in quanto il richiedente è stato esposto dopo il rilascio dal centro a una situazione degradante data l’assenza di ogni aiuto materiale nel corso degli oltre tre anni necessari per valutare la domanda di asilo (cfr., Corte Edu, Grande Camera, 21.01.2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, in questa Rivista, XIII, n. 2, 2011, p. 111).
d) Garanzie procedurali richieste dall’art. 3 in caso di crimini di odio
Il caso Sakir c. Grecia (Corte Edu, sentenza del 24.03.2016) riguarda un cittadino afghano che, dopo essere entrato irregolarmente in Grecia per sfuggire a persecuzioni basate su motivi politici, subiva violenza per mano di un gruppo di persone mascherate nel centro di Atene e, poco dopo, era trattenuto nel commissariato di Aghios Panteleïmon in condizioni igienico-sanitarie precarie. Dopo aver riscontrato una violazione dell’art. 3 sotto il profilo sostanziale, poiché le autorità interne non avevano effettuato una valutazione preliminare sulla necessità di trattenere il ricorrente alla luce delle sue condizioni mediche, la Corte si concentra sulle indagini svolte dalla polizia greca relativamente all’episodio di violenza denunciato dal ricorrente. Tenuto conto che la deposizione di quest’ultimo non era stata raccolta, che altri testimoni presenti nel luogo dell’incidente non erano stati ascoltati e che nessuna azione era stata intrapresa per accertare motivi razzisti alla luce delle denunce di alcune Ong su azioni punitive condotte da gruppi neo-fascisti contro persone immigrate, la Corte conclude per la violazione dell’art. 3 sotto il profilo procedurale. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 13 Cedu, dovuta all’indisponibilità di un ricorso effettivo mediante il quale il richiedente avrebbe potuto lamentarsi delle precarie condizioni di detenzione.
Ugualmente, in Adam c. Slovacchia (Corte Edu, sentenza del 26.07.2016), relativo a un giovane di origine Rom che veniva schiaffeggiato dalla polizia per spingerlo a confessare la commissione di un furto, la Corte nota come i giudici interni abbiano velocemente chiuso il caso escludendo la presenza di motivi razzisti senza dare particolari spiegazioni, nonostante la particolare situazione della minoranza Rom in Slovacchia. Pertanto, anche nel caso in esame, vi è stata violazione dell’art. 3 sotto il profilo procedurale.
Anche il caso Boacă e altri c. Romania (Corte Edu, sentenza del 12.01.2016) riguarda un uomo di etnia Rom che, nel tentativo di sporgere denuncia per un precedente attacco subito, veniva colpito ripetutamente da agenti di polizia. Il pubblico ministero, chiamato per tre volte a riaprire l’indagine, si rifiutava di rinviare a giudizio gli agenti coinvolti ritenendo insufficienti le prove avanzate. Dopo aver accertato che il sig. Boacă è stato vittima di un trattamento vietato dall’art. 3 ad opera della polizia, la Corte nota la lacunosità delle indagini condotte in ambito interno e la mancata identificazione dei responsabili, con conseguente violazione dell’art. 3 anche sotto il profilo procedurale. Inoltre, poiché le autorità interne non avevano preso in considerazione le denunce circa la natura discriminatoria delle violenze subite, la Corte accerta altresì una violazione dell’art. 14, relativo al divieto di discriminazione, in combinato con l’art. 3. Infatti, alla luce dei commenti razzisti della polizia e del trattamento generale riservato alla comunità Rom in Romania, il rispetto degli obblighi derivanti dagli artt. 3 e 14 impone l’avvio di indagini specifiche volte a verificare l’esistenza di un nesso causale tra il presunto atteggiamento razzista della polizia e la violenza perpetrata nei confronti del richiedente (cfr., Corte Edu, 24.07.2012, B.S. c. Spagna, in questa Rivista, XIV, n. 4, 2012, p. 122).
Art. 4: Divieto di schiavitù
Il caso L.E. c. Grecia (Corte Edu, sentenza del 21.01.2016) riguarda una cittadina nigeriana vittima di tratta che, dopo essere stata avviata alla prostituzione, decideva di denunciare gli sfruttatori che l’avevano condotta in Europa a questo fine, fornendo alla polizia tutti i dettagli utili, ivi compreso l’indirizzo dell’abitazione di questi ultimi. Nonostante queste informazioni, le autorità interne convocavano i presunti sfruttatori con grave ritardo permettendone la fuga. La Corte conferma che il divieto di schiavitù trova applicazione anche rispetto al fenomeno della tratta, quale grave attentato alla dignità umana (cfr. Corte Edu, 7 gennaio 2010, Rantsev c. Cipro e Russia). Proprio per l’importanza che riveste nel sistema convenzionale, l’art. 4 impone agli Stati diversi obblighi positivi in materia di tratta: l’introduzione di disposizioni nell’ordinamento interno volte a proteggere le vittime e assicurare alla giustizia i responsabili, l’adozione di misure protettive laddove esistano indizi sostanziali che una persona possa diventare o sia vittima di tratta, l’avvio di indagini rapide ed effettive in caso di indizi significativi. Nel caso di specie, la Corte nota che in Grecia esiste un quadro giuridico solido, derivante anche dall’attuazione della direttiva Ue 2011/36 sulla prevenzione e la repressione della tratta, e che nei confronti della ricorrente erano state adottate alcune misure protettive, come la concessione di un permesso di soggiorno. Tuttavia, la ricorrente è stata riconosciuta vittima di tratta, con le relative ricadute positive, solo nove mesi dopo la denuncia e, nonostante l’avvio di indagini rapide, le autorità interne hanno trascurato alcune testimonianze chiave, facilitato la fuga del principale accusato senza l’adozione di ulteriori tentativi per rintracciarlo e chiuso il caso oltre sei anni dopo la denuncia iniziale. Vi è stata quindi violazione dell’art. 4 Cedu.
Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza
Essenzialmente sotto il profilo dell’art. 5 viene in rilievo il caso Khlaifia e altri c. Italia, su cui la Grande Camera si è pronunciata in seguito alla richiesta di rinvio del Governo italiano (Corte Edu, Grande Camera, sentenza del 15.12.2016), confermando così soltanto parzialmente la sentenza emanata dalla Camera in prima istanza (Corte Edu, sentenza del 1.09.2015, in questa Rivista, XVII, n. 3-4, 2015, p. 178). Come si ricorderà, il caso riguarda il trattenimento nel 2011 di tre cittadini tunisini nel Centro di Soccorso e Prima Accoglienza a Lampedusa (CSPA) e su navi attraccate nel porto di Palermo prima del loro rinvio in Tunisia. Mentre la Camera aveva constatato una violazione degli artt. 3, 5, 4, Prot. 4 e 13 Cedu, la Grande Camera conferma l’esistenza di una violazione dell’art. 5 e parzialmente dell’art. 13, ma non delle restanti disposizioni della Convenzione. Per quanto riguarda l’art. 5, la Grande Camera conferma la violazione del par. 1, in quanto il trattenimento non si basava su alcuna disposizione di legge né sugli accordi con la Tunisia in materia di rimpatri e dei par. 2 e 4, in quanto le autorità interne non hanno adeguatamente informato i ricorrenti della ragione della detenzione svuotando così di efficacia il diritto di agire contro la legalità della detenzione. Ugualmente, vi è stata violazione dell’art. 13 in quanto i ricorrenti non hanno avuto la possibilità di lamentarsi avverso le condizioni di trattenimento. La Corte invece esclude una violazione dell’art. 3 in quanto tale violazione esige un livello di severità derivante da condizioni di trattenimento oggettivamente degradanti o la presenza di una particolare vulnerabilità dei soggetti coinvolti (Corte Edu, Grande Camera, 21.01.2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, in questa Rivista, XIII, n. 2, 2011, p. 111; 5.04.2011, Rahimi c. Grecia), condizioni che, nel caso di specie, non potevano ritenersi integrate se si considera, nonostante la situazione eccezionale di arrivi e di sovraffollamento, il periodo relativamente breve di trattenimento, l’assenza di particolari vulnerabilità, la presenza di medici, interpreti, mediatori culturali e dello staff di organizzazioni internazionali e Ong per procedere al rapido trasferimento dei nuovi arrivati, nonché la discreta libertà di movimento e l’accesso all’assistenza legale (cfr. i riscontri del sotto-comitato ad hoc dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa nella sua missione del 23-24 maggio 2011). Quanto alla violazione del divieto di espulsioni collettive, la Corte precisa che la circostanza per cui un numero elevato di individui sia sottoposto alla medesima decisione di allontanamento non dà per se origine a un’espulsione collettiva se ognuno di essi ha avuto occasione di presentare la sua situazione personale. Per quanto i decreti di espulsione fossero tutti formulati nei medesimi termini a eccezione dei soli dati personali dei ricorrenti, ciò non significa che questi ultimi non abbiano avuto possibilità di esporre alle autorità eventuali motivi personali che ne impedissero l’allontanamento. Considerato che questa opportunità è stata loro garantita tanto al momento della prima registrazione quanto in occasione dell’identificazione da parte del console tunisino prima del rimpatrio (diversamente da Corte Edu, Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XIV, n. 1, 2012, p. 104; Corte Edu, 21.10.2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154), non vi è stata quindi violazione dell’art. 4, Prot. 4. Infine, per quanto riguarda il diritto a un ricorso effettivo contro la misura di allontanamento, la Corte osserva che è irrilevante che il ricorso dinanzi il giudice di pace di Agrigento non avesse carattere sospensivo. Infatti, gli Stati parte devono garantire tale effetto solo quando una persona si lamenta del rischio di subire trattamenti vietati dagli artt. 2 e 3 Cedu, e non anche in relazione al rischio di espulsioni collettive.
Altri casi rilevanti sotto il profilo dell’art. 5 riguardano il rispetto delle diverse garanzie previste dai paragrafi della disposizione avverso il trattenimento in vista dell’allontanamento.
a) 5 par. 1: legalità del trattenimento
Il caso O.M. c. Ungheria (Corte Edu, sentenza del 5.07.2016) riguarda un richiedente asilo iraniano che, fuggito dal suo Paese per ragioni legate all’orientamento sessuale, era destinatario di un ordine di trattenimento, poi prorogato senza alcuna considerazione del timore più volte espresso di subire molestie all’interno del centro di detenzione. A fronte dell’argomento del Governo ungherese, secondo cui la misura era giustificata ai sensi dell’art. 5, par. 1, lett. b), in virtù del quale è possibile detenere un individuo per eseguire un obbligo prescritto dalla legge e, più precisamente, al fine di procedere all’identificazione e prevenirne il rischio di fuga, la Corte nota che la legge interna non impone al richiedente di esibire documenti di identità, ma soltanto di collaborare con le autorità interne per la ricostruzione della stessa, cosa che il richiedente aveva dimostrato di fare avendo profuso ogni sforzo in questo senso, che la legge interna condiziona la detenzione al fatto che non sia possibile altra soluzione anche alla luce del rischio rappresentato dal richiedente di sottrarsi alle procedure rilevanti, rischio del tutto non dimostrato nel caso di specie, e che le autorità interne non hanno fatto alcuno sforzo per verificare l’esistenza di una soluzione alternativa al trattenimento insieme a altri richiedenti nonostante fosse nota la specifica situazione di vulnerabilità del ricorrente. Vi è stata quindi violazione dell’art. 5, par. 1.
Il caso J.M. c. Regno Unito (Corte Edu, sentenza del 19.05.2016) riguarda un cittadino iraniano trattenuto per due anni e mezzo in vista dell’allontanamento a causa del rifiuto delle autorità del Paese di origine di collaborare al rilascio dei documenti di viaggio e poi nuovamente trattenuto per oltre due anni a causa della mancata collaborazione dello stesso richiedente. La Corte ricorda che, se è vero che l’art. 5 consente agli Stati parte la privazione della libertà personale in vista dell’allontanamento senza stabilire particolari requisiti temporali o di revisione periodica, è anche vero che il trattenimento cessa di essere compatibile con la disposizione in esame nel momento in cui le autorità non si attivano in modo efficace per procedere all’allontanamento nel più breve tempo possibile (Corte Edu, 18.04.2013, Azimov c. Russia). Nel caso di specie, la Corte ritiene che la mancata indicazione di un periodo massimo di detenzione nell’ordinamento inglese non sia incompatibile con l’art. 5, par. 1, lett. f), né che sia incompatibile con tale disposizione l’assenza di un meccanismo automatico di revisione posto che gli interessati possono ricorrere dinanzi i giudici interni quando necessario. Tuttavia, tenuto conto del lungo periodo di detenzione, la Corte osserva che le autorità interne non hanno agito diligentemente per accelerare l’esecuzione dell’allontanamento non valendo come giustificazione la mancata cooperazione del richiedente in particolare in relazione al secondo periodo di detenzione.
In V.M. c. Regno Unito (Corte Edu, sentenza dell’1.09.2016) la Corte giunge alla medesima conclusione nel caso di una cittadina nigeriana trattenuta per oltre due anni in attesa di essere allontanata dopo il rigetto della domanda di asilo e la condanna subita per violenze nei confronti del figlio. Per quanto il trattenimento fosse periodicamente riconsiderato dalle autorità interne, le richieste di spostare la richiedente in un ambiente ospedaliero adeguato alle deteriorate condizioni mentali non venivano accolte per via del rischio di fuga e della necessità di prevenire la commissione di reati. Confermando che il sistema inglese è sufficientemente accessibile, dettagliato e prevedibile in relazione agli standard richiesti dall’art. 5, la Corte ricorda come la presenza di soggetti vulnerabili richieda alle autorità interne di accertare l’esistenza di misure meno restrittive della detenzione e, in ogni caso, di procedere rapidamente all’allontanamento. Tenuto conto della durata del trattenimento, del fatto che non sussistevano problemi nell’ottenimento dei documenti di viaggio o altri ostacoli al rinvio, vi è stata violazione dell’art. 5, par. 1.
b) 5 par. 2: diritto a essere informati sulle ragioni del trattenimento
Nel caso Babajanov c. Turchia (Corte Edu, sentenza del 10.05.2016), la Corte constata una violazione dell’art. 5, par. 1 e 2 a causa dell’assenza di chiare disposizioni nell’ordinamento turco volte a regolare il trattenimento e la mancata comunicazione dei motivi alla base di quest’ultimo in relazione a un richiedente asilo uzbeco. La Corte constata altresì una violazione dell’art. 3 poiché le autorità turche hanno allontanato il richiedente prima di valutarne la domanda di asilo o, quantomeno, l’esistenza del rischio di esporlo a un refoulement indiretto dall’Iran all’Uzbekistan.
c) 5, par. 4: diritto di ricorso avverso la legalità del trattenimento
Il caso Mefaalani c. Cipro (Corte Edu, sentenza del 23.02.2016) riguarda un cittadino di origine siriana privato della cittadinanza cipriota recentemente acquisita in seguito a una condanna per traffico di migranti e trattenuto per quattro mesi in vista dell’allontanamento in quanto, pur disponibile al rientro volontario, rifiutava di pagare le spese della detenzione. Pur considerando che non vi è stata violazione dell’art. 5 par. 1 sotto il profilo della durata del trattenimento, la Corte constata una violazione dell’art. 5, par. 4, in quanto il ricorso contro l’ordine di detenzione si è concluso solo dopo un mese.
Il caso A.M. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 12.07.2016) riguarda un cittadino tunisino giunto in Francia durante la c.d. primavera araba nel 2011 che, dopo essere stato detenuto una seconda volta, veniva allontanato dopo quattro giorni verso la Tunisia, nonostante avesse presentato ricorso contro la misura di detenzione. Il ricorrente si lamenta in particolare di non aver avuto a disposizione un ricorso sospensivo contro l’allontanamento. La Corte ricorda che l’art. 5, par. 4, riguarda i rimedi per accertare la legalità della detenzione, non imponendo quindi di per sé l’effetto sospensivo dell’allontanamento. Nel caso di specie, la Corte ravvisa comunque una violazione della disposizione in esame in quanto l’autorità giudiziaria era competente a verificare soltanto la competenza e le motivazioni addotte dalla polizia al fine di procedere al trattenimento, ma non le circostanze che avevano condotto a quest’ultimo, comprese le modalità con cui la polizia aveva interpellato il ricorrente.
d) 5 par. 5: diritto al risarcimento in caso di trattenimento illegale
Il caso Richmond Yaw e altri c. Italia (Corte Edu, sentenza del 6.10.2016) è relativo a quattro cittadini del Ghana che, prima di presentare domanda di asilo, venivano posti nel CIE di Ponte Galleria a Roma ai fini della loro identificazione subendo una proroga del trattenimento che la stessa Corte di cassazione riteneva illegittima poiché adottata senza udienza e senza coinvolgimento degli interessati o del loro avvocato. Rigettando l’eccezione del Governo italiano sulla persistenza della qualità di vittime in ragione degli sviluppi interni dinanzi la Corte di cassazione, la Corte osserva che il mancato rispetto del principio del contraddittorio, incluse l’omessa convocazione degli interessati e del loro avvocato e la mancata udienza, costituisca una irregolarità grave e manifesta del procedimento in relazione alla quale, nonostante la decisione della Corte di cassazione, i ricorrenti non hanno avuto a disposizione alcun rimedio di tipo risarcitorio. Vi è stata quindi violazione dell’art. 5, par. 1 e 5.
Art. 8: Diritto al rispetto per la vita privata e familiare
a) Rispetto della vita privata e familiare e divieto di ingresso o allontanamento
Un primo gruppo di casi riguarda il rispetto in particolare della vita familiare in relazione al divieto di ingresso o a un ordine di allontanamento dal territorio dello Stato parte.
Il caso Kolonja c. Grecia (Corte Edu, sentenza del 19.05.2016) riguarda il divieto permanente di ingresso in Grecia di un cittadino albanese nonostante i legami familiari presenti nel Paese in ragione della gravità delle attività criminali commesse. Seguendo principi consolidati, la Corte pondera il diritto al rispetto della vita familiare con il pericolo rappresentato dal richiedente (Corte Edu, 4 dicembre 2012, Butt c. Norvegia, in questa Rivista, XIV, n. 4, 2012, p. 122). Per quanto l’interferenza sia prevista dalla legge e persegua uno scopo legittimo, la Corte ritiene non giustificato il divieto permanente di ingresso tenuto conto della durata del soggiorno in Grecia, pari a 24 anni, del comportamento sostanzialmente corretto tenuto dal ricorrente in particolare durante la detenzione e delle serie conseguenze finanziarie e psicologiche per la moglie e i figli, i quali non vantano legami con l’Albania.
Il caso Salem c. Danimarca (Corte Edu, sentenza dell’1.12.2016) riguarda l’allontanamento e il contestuale divieto di ingresso permanente di un apolide palestinese, sposato e con otto figli tutti danesi, condannato per violenza e traffico di stupefacenti. La Corte conferma il provvedimento delle autorità interne attribuendo un peso fondamentale alla gravità dei reati commessi rispetto ad altri fattori, come le ripercussioni su famiglia e minori, in considerazione della scarsa chiarezza del ruolo, anche educativo, in ambito familiare e della difficoltà a determinare il reale interesse dei figli, che comunque potevano intrattenere comunicazioni elettroniche e/o visitare il richiedente in Libano.
Il caso Ustinova c. Russia (Corte Edu, sentenza dell’8.11.2016) riguarda il divieto di ingresso di una cittadina ucraina sieropositiva revocato dopo la decisione della Corte costituzionale che accertava l’illegittimità della legislazione in materia. Per quanto la questione sia stata risolta a livello nazionale, la Corte riconosce che le autorità interne non hanno posto rimedio all’interferenza subita dalla ricorrente separata dal marito e dal figlio per un periodo di oltre due anni. Se è vero infatti che un’interferenza può ritenersi legittima se prevista dalla legge, è anche vero che quest’ultima deve essere provvista di una particolare qualità ovvero deve essere chiara con riferimento alle ipotesi in cui si applica e alle modalità mediante le quali gli interessati possono difendersi. Nel caso di specie, la misura adottata non specificava i motivi del divieto, mentre il giudice interno non aveva considerato la situazione personale della ricorrente, limitandosi a una valutazione formale basata sul fatto che le persone sieropositive costituiscono di per sé una minaccia alla sicurezza pubblica (Corte Edu, 10.03.2011, Kiyutin c. Russia).
In un caso simile (Corte Edu, Novruk e altri c. Russia, sentenza del 15.03.2016), la Corte ravvisa altresì una violazione del divieto di discriminazione in combinato con l’art. 8 in quanto la Russia non ha avanzato ragioni particolarmente serie per escludere in modo generalizzato le persone sieropositive dalla concessione di un permesso di soggiorno per motivi familiari.
Il caso El Ghatet c. Svizzera (Corte Edu, sentenza dell’8.11.2016) è relativo a un cittadino egiziano cui è stata rigettata la domanda di ricongiungimento familiare a favore di un figlio, ormai adulto, in quanto non presentava legami di dipendenza nonostante la legge egiziana l’avesse affidato al padre. Richiamando la propria giurisprudenza (Corte Edu, 30.07.2013, Berisha c. Svizzera, questa Rivista, XV, n. 4, 2013, p. 107), la Corte ricorda come in tali situazioni occorra considerare se il figlio sia stato lasciato nel Paese di origine volutamente, se il ricongiungimento sia il modo migliore per sviluppare i legami familiari data l’età e la condizione familiare complessiva e se esistano ostacoli insuperabili al rientro del genitore nello Stato di origine. Nel caso di specie, se è vero che il ricorrente ha lasciato volutamente il figlio in Egitto, dove può vivere con la madre, nondimeno non si può chiedere allo stesso di rientrare al Paese di origine in ragione dei legami familiari sviluppati in Svizzera. In mancanza di fattori determinanti in un senso o nell’altro, la Corte attribuisce particolare rilievo all’interesse preminente del minore, non considerato con il dovuto peso dalle autorità svizzere, con conseguente violazione dell’art. 8 (per un esito opposto grazie a tale valutazione, cfr., Corte Edu, I.A.A. e altri c. Regno Unito, decisione dell’8.03.2016).
b) Obblighi procedurali derivanti dall’art. 8 in caso di divieto di ingresso o allontanamento
Altri casi riguardano il rispetto degli obblighi procedurali derivanti dall’art. 8 nel caso di divieto di ingresso o ordine di allontanamento di un membro della famiglia.
Il caso Dzhurayev e Shalkova c. Russia (Corte Edu, sentenza del 25.10.2016) riguarda un cittadino del Tagikistan condannato per traffico di droga cui è stato imposto un divieto di ingresso in Russia, senza precisazione della durata o indicazione dei motivi, nonostante i legami familiari sviluppati con la seconda ricorrente. La Corte ricorda che, pur godendo della facoltà di secretare informazioni relative alla sicurezza nazionale, gli Stati parte devono prevedere meccanismi procedurali per tutelare i singoli da interferenze ingiustificate. Il richiedente non ha potuto beneficiare di tali meccanismi nel caso di specie, non avendo i giudici nazionali proceduto alla valutazione dei vari elementi fattuali che potevano militare a favore o contro il divieto di ingresso.
Il caso B.A.C. c. Grecia (Corte Edu, sentenza del 13.10.2016) riguarda un cittadino turco che per 13 anni non riesce a ottenere un provvedimento sulla domanda di asilo, nonostante la Commissione consultativa sull’asilo avesse espresso parere favorevole, in tal modo non potendo esercitare alcuna attività, accedere alla formazione professionale, sposarsi, chiedere il ricongiungimento familiare o aprire un conto bancario, non disponendo peraltro di alcun rimedio per porre fine a tale situazione di precarietà. La Corte ricorda che, pur non garantendo il diritto a ottenere un particolare titolo di soggiorno, l’art. 8 richiede allo Stato di stabilire procedure effettive affinché un individuo possa vedere tutelata la propria vita privata anche in ambito migratorio. Nel caso di specie, la Grecia è venuta meno all’obbligo di prevedere una procedura rapida che limiti la situazione di incertezza in cui si trova il richiedente con la conseguente violazione sia dell’art. 8 Cedu preso isolatamente, sia dell’art. 8 in combinato con l’art. 13. La Corte ravvisa inoltre un rischio di violazione dell’art. 3, in combinato con l’art. 13, nel caso in cui le autorità greche non garantissero un riesame della situazione in caso di rifiuto della domanda di protezione.
c) Rispetto della vita privata e familiare e privazione della cittadinanza
Il caso Ramadan c. Malta (Corte Edu, sentenza del 21.06.2016) riguarda un apolide che, dopo aver rinunciato alla cittadinanza egiziana per acquisire quella maltese, ne veniva privato in seguito all’annullamento del matrimonio. Posto che nei confronti del ricorrente non esiste alcun ordine di allontanamento, la Corte si pronuncia sulle possibile conseguenze della privazione della cittadinanza. Benché il sistema convenzionale non preveda un diritto alla cittadinanza, la privazione di quest’ultima configura comunque un’interferenza nella vita privata che quindi deve essere giustificata. La Corte osserva che il procedimento seguito è regolato dalla legge, la quale prevede le necessarie garanzie, che il ricorrente era sufficientemente edotto delle conseguenze dell’annullamento del matrimonio e che si trova tuttora a Malta dove continua a lavorare senza difficoltà, mentre il medesimo ricorrente non ha tentato di regolarizzare in altro modo la sua presenza a Malta o di riacquistare, se possibile, la cittadinanza egiziana. Non vi è pertanto violazione dell’art. 8.
d) Rispetto della vita privata e familiare di gruppi vulnerabili
Un ulteriore gruppo di casi riguarda il rispetto della vita privata e familiare della minoranza Rom.
Il caso Bagdonavicius e altri c. Russia (Corte Edu, sentenza del 12.04.2016) riguarda un gruppo di persone di etnia Rom stanziatasi nella regione dopo l’obbligo imposto nel 1956 dall’allora Governo sovietico cui sono demolite le abitazioni ancora non regolarizzate. Se i giudici interni non procedevano a un esame della situazione personale dei ricorrenti, la demolizione avveniva in un contesto in cui le autorità etichettavano la zona abitata dai ricorrenti come luogo di criminali e in cui le uniche due case dispensate erano di proprietà di cittadini russi. Considerando che l’art. 8 garantisce il diritto al domicilio secondo un significato autonomo, non condizionato alla legalità prevista dal diritto interno, la Corte si concentra sulla necessità della demolizione. A tal fine, essa nota che l’occupazione dei terreni da parte dei ricorrenti, per quanto illegale, fosse risalente nel tempo tanto da permettere lo sviluppo di legami significativi con l’area e di una comunità. Tenuto conto che i giudici interni non hanno attribuito importanza a questo aspetto, né alla disponibilità di un alloggio alternativo, e considerata la condizione di esclusione sociale vissuta dalla comunità Rom e del significato attribuito dagli interessati alla perdita dell’alloggio (Corte Edu, 17.10.2013, Winterstein e altri c. Francia, in questa Rivista, XV, n. 3, 2013), la Corte conclude per una violazione dell’art. 8.
Il caso R.B. c. Ungheria (Corte Edu, sentenza del 12.04.2016) riguarda invece una donna Rom oggetto di minacce durante una serie di manifestazioni organizzate da un movimento di destra nel suo villaggio e che, nonostante le denunce presentate, non vedeva puniti i responsabili per mancanza di prove. Secondo la Corte, per quanto sia vero che in talune circostanze minacce e insulti a sfondo razzista producono una sofferenza psicologica e sentimenti di inferiorità tali da dare vita a trattamenti degradanti, nel caso della ricorrente il livello di severità richiesto dall’art. 3 non poteva dirsi raggiunto (cfr., Corte Edu, 11.03.2014, Abdu v. Bulgaria, in questa Rivista, XVI, n. 2, 2014, p. 91). Tuttavia, la Corte ravvisa una violazione dell’art. 8 in quanto tale disposizione tutela anche l’identità sociale e fisica di un individuo, compresa la stessa origine etnica, che deve essere protetta dallo Stato anche mediante disposizioni penali contro incidenti a sfondo razzista. Tenuto conto degli effetti che le manifestazioni anti-Rom e gli eventi controversi hanno prodotto nei confronti della ricorrente e della mancanza di diligenza delle autorità interne nell’intraprendere ogni possibile azione per identificare l’esistenza di motivi basati sull’odio interetnico, situazione aggravata dall’assenza di disposizioni penali chiare nell’ordinamento ungherese, vi è stata violazione dell’art. 8.
Art. 10: Libertà di espressione
Il caso Genner c. Austria (Corte Edu, sentenza del 12.01.2016) riguarda un membro dell’associazione austriaca Asyl in Not che aveva pubblicato un comunicato con cui si felicitava della morte della Ministra degli Interni, definita criminale di guerra e Ministra per la tortura e la deportazione, a causa del suo coinvolgimento nell’adozione di riforme volte a inasprire le disposizioni in materia di immigrazione e asilo. Poiché l’articolo alludeva a un particolare momento storico del Paese e suggeriva che la Ministra avesse esercitato le sue funzioni in maniera razzista e xenofoba, le autorità interne ritenevano che il ricorrente e la sua associazione fossero andati oltre il livello accettabile di critica, condannandoli al pagamento di una multa. La Corte ricorda come qualsiasi limitazione della libertà di espressione deve essere prevista dalla legge, perseguire un fine legittimo e essere necessaria in una società democratica. A tal fine, occorre esaminare se l’articolo controverso abbia contribuito al dibattito pubblico, quale è il livello di notorietà della persona oggetto della pubblicazione, nonché il contenuto, il tipo, l’impatto e il momento di quest’ultima (cfr., Corte Edu, 10.10.2013, Print Zeitungsverlag GmbH c. Austria). Nel caso di specie, considerato che l’interferenza era prescritta dalla legge al fine di garantire il rispetto della reputazione altrui, la Corte osserva che le affermazioni controverse, per quanto rientrassero in una discussione più generale sulle riforme in materia di immigrazione e asilo, erano state correttamente identificate come attacchi personali alla Ministra il giorno dopo la sua morte, generando un impatto considerevole che ne ha potuto danneggiare la reputazione. Pertanto, pur tenendo conto degli articoli di stampa in cui apparivano le affermazioni anti-immigrazione della Ministra, la Corte concorda sulla necessità della misura adottata nei confronti del ricorrente, anche in considerazione della lieve entità della stessa.
Art. 14: Divieto di discriminazione
Il caso Biao c. Danimarca (Corte Edu, Grande Camera, sentenza del 24.05.2016) è relativo a un cittadino danese di origine togolese e sua moglie, cittadina del Ghana, cui è stata rigettata la domanda di ricongiungimento familiare poiché quest’ultima non poteva vantare legami particolarmente forti con la Danimarca. L’introduzione di una riforma con cui si esentavano da tale requisito coloro che si ricongiungono a una persona nata o cresciuta in Danimarca o avente la cittadinanza danese da almeno 28 anni non risultava ugualmente applicabile al ricorrente in quanto quest’ultimo sarebbe ricaduto nella nuova previsione normativa nel 2030, a 28 anni dall’acquisizione della cittadinanza danese. La Corte si concentra sul concetto di discriminazione indiretta in ragione dell’origine etnica e sulla sussistenza prima facie di un trattamento differenziato tra chi è nato danese e chi ha acquisito la cittadinanza in età adulta, come il ricorrente. Per quanto possa essere plausibile che con la nuova normativa le autorità interne volessero garantire ai danesi espatriati il ricongiungimento familiare anche in assenza di forti legami con il Paese di origine, la Corte constata come l’applicazione concreta di tale normativa pone i cittadini di origine straniera in una situazione particolarmente sfavorevole (cfr. Corte Edu, 29.01.2013, Horváth e Kiss c. Ungheria, in questa Rivista, XV, n. 2, 2013, p. 89). Spetta pertanto al Governo danese dimostrare che la distinzione introdotta non è riconducibile al fattore dell’origine etnica. A tal proposito, la Corte considera che il Governo danese sembra basarsi sull’idea che i cittadini danesi espatriati e i loro coniugi possano integrarsi immediatamente in Danimarca, senza la necessità di prevedere alcun decorso temporale, mentre invece tutti i cittadini di origine straniera possano integrarsi solo dopo 28 anni l’acquisto della cittadinanza. Ora, tenuto conto dei toni utilizzati durante l’approvazione della normativa controversa, del fatto che la Danimarca si trova in una posizione isolata nel prevedere una normativa che discrimina tra cittadini e non ai fini del ricongiungimento familiare e dello stretto margine di apprezzamento di cui godono gli Stati parte quando entra in gioco l’origine etnica, la Corte ritiene che l’impossibilità di considerare la situazione specifica di ogni richiedente dia luogo a un trattamento discriminatorio vietato dall’art. 14. Visto anche il legame sufficientemente solido tra il ricorrente e la Danimarca, la Corte conclude quindi per una violazione dell’art. 14, in combinato con l’art. 8.
Il caso Pajić c. Croazia (Corte Edu, sentenza del 23.02.2016) riguarda una cittadina della Bosnia-Herzegovina cui è stato negato il ricongiungimento familiare con la compagna, cittadina croata, in quanto la legislazione interna non contempla le coppie dello stesso sesso, impedendo, al contempo, la valutazione della situazione personale delle interessate. Mentre la Corte costituzionale croata rigettava ogni ipotesi di discriminazione basata sull’orientamento sessuale, la Corte ricorda come l’ampio margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati in materia migratoria si restringe quando entrano in gioco fattori come l’orientamento sessuale o l’origine etnica con la conseguenza che sono necessarie ragioni particolarmente serie per giustificare trattamenti differenziati. Poiché la relazione delle ricorrenti rientra nel concetto di vita familiare e come tale deve essere tutelata senza discriminazioni, la Corte nota che solo le coppie di fatto eterosessuali possono ottenere il ricongiungimento familiare in Croazia. La normativa croata dà luogo quindi a una distinzione basata unicamente sull’orientamento sessuale, senza che nessuna giustificazione particolarmente seria sia adotta dalle autorità croate, con conseguente violazione dell’art. 14 in combinato con l’art. 8.
Il caso Taddeucci e McCall c. Italia (Corte Edu, sentenza del 30.06.2016) riguarda anch’esso una coppia dello stesso sesso, formata da un cittadino italiano e un cittadino neozelandese, cui le autorità interne negavano il permesso di soggiorno per motivi familiari, costringendo la coppia a trasferirsi nei Paesi Bassi, per un periodo di almeno quattro anni e nove mesi al momento del ricorso. Mentre le autorità interne escludevano sia l’applicazione del concetto di vita familiare sia ritenevano che non vi fosse violazione del divieto di discriminazione, dato che tutte le coppie conviventi erano trattate allo stesso modo, la Corte ravvisa nella negazione del permesso di soggiorno un’ingerenza nella vita familiare dovuta a una discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Infatti, se diversamente dal caso Pajić sopra esaminato tutte le coppie non sposate in Italia sono trattate egualmente ai fini del ricongiungimento, solo alle coppie dello stesso sesso non è permesso sposarsi con la conseguenza che non vi è per esse alcuna possibilità di ottenere il beneficio controverso. In particolare, la Corte osserva che, pur apparendo una misura generale essenzialmente neutra, il rifiuto del ricongiungimento genera effetti negativi sproporzionati su un gruppo di persone accomunate da un determinato orientamento sessuale e che non godono, in ragione dell’interpretazione restrittiva della nozione di vita familiare, di alcuna valutazione della loro situazione personale. Tale situazione dà pertanto luogo a un caso di discriminazione indiretta per la cui giustificazione non vi sono ragioni sufficientemente serie, non potendo ritenersi tale la difesa della famiglia tradizionale. Vi è quindi violazione dell’art. 14 in combinato con l’art. 8.
Art. 1, Protocollo 7: Diritto a garanzie procedurali in caso di allontanamento
Il caso Sharma c. Lettonia (Corte Edu, sentenza del 24.03.2016) riguarda un cittadino indiano che, dopo aver ottenuto un permesso di soggiorno permanente in seguito al matrimonio con una cittadina lettone, viene dichiarato un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico, trattenuto in vista dell’allontanamento e, infine, rinviato in India con divieto di reingresso per cinque anni. Il ricorrente lamenta una violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 7, in virtù del quale uno straniero legalmente presente nel territorio dello Stato parte non può essere allontanato se non in seguito a una decisione adottata in conformità alla legge, aver avuto la possibilità di avanzare le proprie ragioni contro l’allontanamento e di ricorrere contro tale decisione. Ricordando come le garanzie previste da tale disposizione si aggiungono agli obblighi derivanti dagli artt. 3, 8 e 13 Cedu, la Corte constata che la legge lettone prevede che l’ordine di allontanamento diventi esecutivo solo dopo la formale notifica al ricorrente. Poiché l’allontanamento del ricorrente è avvenuto prima che la decisione resa in appello fosse notificata a quest’ultimo, vi è stata violazione delle garanzie di cui all’art. 1 del Protocollo.
[1] La rassegna relativa agli articoli 3 e 4 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli articoli 5 Cedu-1, Prot. 7 è di C. Danisi.
Corte di giustizia dell'Unione europea
Diritto di asilo e protezione internazionale
Nel caso Mirza (CGUE, 17.3.2016, causa C-695/15/PPU) sono stati esplorati alcuni aspetti del potere dello Stato competente ad esaminare una domanda di protezione internazionale di disporre il rimpatrio del richiedente verso un paese terzo sicuro. Al vaglio della CGUE vi erano principalmente l’art. 3, par. 3, reg. 604/2013/UE (regolamento “Dublino III”), che permette ad ogni Stato membro di inviare un richiedente in un paese terzo sicuro nel rispetto delle norme e delle garanzie previste dalla direttiva 2013/32/UE, e l’art. 18, par. 2, dello stesso regolamento, che impone allo Stato membro competente che abbia ripreso in carico l’originario richiedente protezione internazionale di esaminare la domanda o di portare a termine l’esame. Il caso era sorto poiché il sig. Mirza, cittadino pachistano, era entrato illegalmente in Ungheria dalla Serbia e aveva presentato domanda di protezione internazionale, salvo poi allontanarsi dal luogo di soggiorno assegnatogli. Rintracciato in Repubblica Ceca e ricondotto dalle autorità di quel paese verso l’Ungheria, che aveva accettato la competenza ad esaminare la domanda di protezione internazionale, il sig. Mirza decideva di presentare una seconda domanda; tale ultima richiesta, considerata in autonomia dalla precedente, veniva respinta. In effetti, il diritto ungherese aveva introdotto una presunzione di irricevibilità della domanda di protezione internazionale presentata dal cittadino di Stato terzo entrato attraverso la Serbia; a fronte di ciò, il sig. Mirza non riusciva a dimostrare i motivi per i quali non sarebbe potuto ritenersi al sicuro in un paese come la Serbia, che per l’Ungheria era invece da considerarsi sicuro. Il sig. Mirza proponeva allora ricorso avverso la decisione che rigettava la sua domanda di protezione internazionale e disponeva per il rimpatrio in Serbia. Il giudice nazionale adito sottoponeva varie questioni alla CGUE. In primo luogo, il giudice a quo chiedeva alla CGUE se, ai fini dell’art. 3, par. 3, reg. 604/2013, il rinvio del richiedente protezione internazionale verso uno Stato terzo sicuro poteva essere disposto anche dopo che lo Stato membro competente aveva deciso, nelle more dell’esame della domanda, di riprendere in carico il richiedente nel frattempo fuggito altrove in territorio UE. I giudici di Lussemburgo, che avevano preliminarmente accolto la richiesta del giudice remittente di trattare il rinvio pregiudiziale con urgenza in base all’art. 107 del regolamento di procedura della Corte, non sono arrivati a scorgere un limite di questo tipo nell’art. 3, par. 3 del Dublino III e si sono limitati ad affermare i contenuti esplicitamente previsti dalla disposizione; né, ad avviso della Corte, la facoltà accordata dall’art. 3, par. 3, ad ogni Stato membro potrebbe essere limitata dall’art. 18, par. 2, o dalla direttiva 2013/32. Anzi, la Corte fa presente che, se in un caso come quello del sig. Mirza all’Ungheria fosse preclusa la possibilità di applicare validamente l’art. 3, par. 3, reg. 604/2013/UE, si finirebbe per costringere lo Stato che abbia ripreso in carico il richiedente allontanatosi dopo il deposito della domanda a non rinviarlo mai verso un paese terzo sicuro: se così stessero le cose, il richiedente protezione internazionale sarebbe paradossalmente incentivato ad allontanarsi dallo Stato membro competente per poi ritornarvi. Oltre a questo, il giudice remittente constatava che, al momento del trasferimento del sig. Mirza in Ungheria, le autorità ceche erano all’oscuro della presunzione di irricevibilità che il diritto ungherese applicava alle richieste di protezione internazionale di cittadini di paesi terzi giunti dalla Serbia; preso atto della circostanza, il giudice ungherese chiedeva alla CGUE se l’art. 3, par. 3, ammettesse o meno il rimpatrio verso un paese sicuro del richiedente protezione internazionale trasferito allo Stato competente dalle autorità di altro Stato membro che ignoravano tale normativa. Di nuovo, la Corte ha propugnato un’interpretazione letterale della disposizione considerata, negando che essa potesse inibire il potere di rinvio verso uno Stato sicuro a causa dell’omessa trasmissione di informazioni come quelle menzionate pocanzi. L’ultimo quesito indirizzato alla CGUE verteva sui confini dell’obbligo di portare a termine l’esame della domanda, stabilito dall’art. 18, par. 2, reg. Dublino III: il giudice si chiedeva se tale obbligo implicasse, in una situazione come quella del sig. Mirza, l’esigenza per lo Stato competente di riprendere l’esame della domanda dal momento della prima interruzione (quindi senza aprire una seconda procedura). La Corte risponde in pochi passaggi e attenendosi ancora alla lettera della disposizione richiamata: non solo, per la Corte, l’obbligo non sussiste a tenore di regolamento, ma non sarebbe evincibile nemmeno se ci si riferisse alla direttiva 2013/32, che all’art. 28 concepisce la ripresa di una procedura dal punto della sua sospensione in termini tutt’altro che vincolanti.
Simile, quantunque apparentemente più ristretto, è l’oggetto del successivo caso Ghezelbash. (CGUE, 7.6.2016, causa C-63/15), nel quale la CGUE è stata chiamata a pronunciarsi sull’art. 27 reg. Dublino III, che disciplina la possibilità di esperire un ricorso effettivo contro decisioni di trasferimento rivolte a richiedenti protezione internazionale. La Corte era stata sollecitata da un giudice olandese in procinto di decidere sulla conferma o l’annullamento di una decisione con cui l’autorità nazionale competente aveva rigettato la richiesta di permesso temporaneo per asilo presentata dal sig. Ghezelbash, cittadino iraniano già in possesso di un visto valido concessogli dalla Francia, che poi aveva acconsentito a riprenderlo in carico. Il ricorrente lamentava che il Segretario di Stato olandese non aveva accettato di trattare la sua domanda nell’ambito del procedimento di asilo ampliato e gli aveva impedito di produrre elementi idonei a dimostrare che la competenza ad esaminare la domanda non spettava allo Stato francese. Il giudice adito nel corso della vertenza, attuava l’art. 267 TFUE, indirizzando alla CGUE un rinvio pregiudiziale di interpretazione. Riassumendo i quesiti inviati, il giudice nazionale di fatto intendeva sapere se l’articolo 27, par, 1, reg. 604/2013, consente a un richiedente asilo di invocare, in un ricorso presentato avverso una decisione di trasferimento adottata nei suoi confronti, l’errata applicazione di un criterio di competenza di cui al capo III del regolamento 604/2013. Per rispondere al quesito, la Corte questa volta ha posto in essere un’interpretazione sistematico-teleologica. Evidenzia, la Corte, l’evoluzione del sistema Dublino III rispetto alla normativa previgente, chiarendo che l’applicazione del nuovo regolamento riposa specificamente sulla procedura di determinazione dello Stato membro competente sulla base dei criteri fissati al capo III. Inoltre, tra gli indicatori del cambiamento voluto dal legislatore europeo rilevano, secondo la Corte, la previsione di nuove forme di partecipazione dell’interessato alla procedura, anche ai fini dell’individuazione dello Stato membro competente ad esaminare la domanda, e l’inserimento di svariati obiettivi, ivi compresa una maggiore tutela giurisdizionale del richiedente protezione internazionale. La riforma del 2013 avvolge anche l’art. 27 reg. Dublino III, da leggere alla luce del considerando 19, che estende la portata di un ricorso effettivo contro una decisione di trasferimento del richiedente anche al controllo della corretta applicazione dello stesso regolamento. Per la Corte, quindi, da tutto ciò non può che ricavarsi l’obbligo degli Stati membri di informare i richiedenti protezione internazionale dei criteri di competenza e di offrire loro l’opportunità di presentare le informazioni che consentano la corretta applicazione di tali criteri; perciò, un ricorso contro la decisione di trasferimento non potrà dirsi effettivo se, all’occorrenza, all’interessato venga precluso di fare valere tali elementi, dovendosi rispondere in maniera affermativa al quesito del giudice del rinvio. Infine, la Corte si premura di escludere che questa conclusione sia suscettibile di aprire una breccia nel nuovo sistema, favorendo il tanto osteggiato “forum shopping”, perché assicurare la corretta applicazione del regolamento è altro dal permettere al richiedente protezione internazionale di scegliere incondizionatamente a quale Stato membro sottoporre la propria domanda.
Qualche analogia ai casi Mirza e Ghezelbash si rinviene nel caso Karim (CGUE, 7.6.2016, causa C-155/15). Il sig. Karim, cittadino di uno Stato terzo, presentava domanda di protezione internazionale in Svezia nel 2014, ma dall’esame della sua situazione risultava che egli aveva già richiesto protezione internazionale in Slovenia l’anno precedente; sennonché, dopo tale prima domanda, il sig. Karim si era allontanato per più di tre mesi dal territorio dell’Unione europea, per poi farvi ritorno recandosi, appunto, in Svezia. Seguiva uno scambio di missive tra autorità svedesi e slovene, in esito alle quali la Slovenia accettava di prendere in carico il sig. Karim per esaminarne la richiesta di protezione internazionale in ossequio all’art. 18, par. 1, reg. 604/2013; in virtù di ciò, le autorità svedesi rigettavano la (seconda) domanda del sig. Karim e ne disponevano il trasferimento il Slovenia. Adducendo la violazione degli artt. 19, co. 2, e 27 reg. 604/2013, il sig. Karim si rivolgeva alla giurisdizione svedese, pretendendo che fosse accertata la competenza della Svezia ad esaminare la domanda di protezione internazionale ed invocando il diritto a non essere trasferito in Slovenia, a causa delle presunte disfunzionalità del relativo sistema di asilo. L’ultimo giudice adito sospendeva il procedimento e rivolgeva un rinvio pregiudiziale alla CGUE per sapere se l’articolo 19, par. 2, reg. 604/2013 dovesse essere interpretato di modo da applicarsi ad una situazione come quella del caso concreto e se l’art. 27, par. 1, consentisse al ricorrente di invocare la violazione dei criteri ex capo III del regolamento sull’individuazione dello Stato competente ad esaminare la domanda. Rispondendo dapprima alla seconda questione, la Corte si rifà al puro dato testuale dell’art. 19, par. 2, del regolamento Dublino III e rileva che l’assenza di tre mesi dal territorio UE del cittadino di uno Stato terzo che abbia precedentemente presentato una domanda di protezione internazionale in uno Stato membro è da intendersi quale circostanza avente l’effetto di fare venire meno la competenza di detto Stato ad esaminare quella domanda. Se la stessa persona dopo il predetto periodo di tre mesi rientra in territorio UE, ma in altro Stato membro, e lì effettua nuovamente una richiesta di protezione internazionale, siffatta domanda si considera nuova: ne deriva che l’obbligo di esaminarla graverà sull’ultimo Stato membro in cui è stata presentata, a nulla rilevando quanto accaduto in precedenza, e che quindi la decisione dell’autorità svedese contrasta con l’art. 19, par. 2, del regolamento 604/2013. Da questa conclusione la Corte trae gli elementi necessari per rispondere al secondo quesito e conferma che l’art. 27 reg. Dublino III è applicabile alla fattispecie, poiché il diritto a un ricorso effettivo contro una decisione di trasferimento del richiedente protezione internazionale risulterebbe compromesso se non venisse riconosciuta all’interessato la possibilità di ricorrere contro una simile decisione in presenza di violazioni, da parte di tale Stato membro, dei presupposti sulla competenza ad esaminare la domanda; il tutto a prescindere dalle carenze che possono affliggere il sistema sloveno in materia di asilo. Va detto che nel concludere in tal senso la Corte si richiama alla sent. Ghezelbash, ma allo stesso tempo si spinge oltre. Invero, il caso di specie ruota attorno all’ art. 19, par. 2, collocato nel capo V del Dublino III e dunque formalmente estraneo alle norme sulle quali si regge l’applicazione del regolamento, vale a dire quelle che, al capo III, declinano i criteri per determinare lo Stato membro competente a esaminare una domanda di protezione internazionale; tuttavia, nella sentenza Karim la Corte intravede nell’art. 19, par. 2, la norma quadro della procedura per determinare la competenza.
Qualifiche e status
Nel caso Alo e Osso (CGUE, 1.3.2016, cause C‑443/14 e C‑444/14), la CGUE ha fornito delucidazioni sulle condizioni che possono legittimare l’imposizione di un preciso obbligo di residenza al beneficiario di protezione sussidiaria. Per l’esattezza, la Corte si è soffermata sugli articoli 33 e 29 della direttiva 2011/95/CE, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (direttiva qualifiche). L’art. 33 dir. 2011/95 afferma quanto segue: “(g)li Stati membri concedono ai beneficiari di protezione internazionale la libertà di circolazione all’interno del territorio nazionale secondo le stesse modalità e restrizioni previste per altri cittadini di paesi terzi soggiornanti regolarmente nei loro territori”. L’art. 29 obbliga gli Stati membri a fornire, nei rispettivi territori, adeguata assistenza sociale ai beneficiari di protezione internazionale; gli Stati possono limitarsi all’erogazione di prestazioni essenziali, ma qualsiasi forma assistenziale per i beneficiari di protezione sussidiaria dovrà essere offerta allo stesso livello e alle stesse condizioni di ammissibilità previste per i cittadini dello Stato membro erogante. Nel caso in commento, la CGUE era stata interpellata da un giudice tedesco che voleva sincerarsi della conformità agli artt. 33 e 29 dir. 2011/95 di una normativa interna ai sensi della quale i beneficiari dello status di protezione sussidiaria che avevano ricevuto assistenza sociale in Germania erano sottoposti ad un regime più restrittivo di quello applicabile, in linea generale, ai cittadini tedeschi e tutti gli altri stranieri legalmente soggiornanti in territorio tedesco: segnatamente, la normativa contemplava un obbligo di residenza in area circoscritta per i soli beneficiari di protezione sussidiaria. Tale obbligo era stato imposto ai sig.ri Alo e Osso, cittadini siriani che in Germania avevano ottenuto assistenza sociale e lo status di beneficiari di protezione sussidiaria. Il raffronto richiesto alla Corte doveva essere eseguito da più punti di vista. In primis, la Corte ha ristretto la sua indagine all’art. 33 della direttiva qualifiche e ha sentenziato che l’obbligo di residenza costituisce una restrizione al diritto di libera circolazione in senso lato che la citata norma riconosce e garantisce al beneficiario di protezione sussidiaria nello Stato membro che gli abbia attribuito questo status. Il ragionamento della Corte si articola in più passaggi logici. Preso atto della parziale ambiguità del testo dell’art. 33, la Corte interpreta la norma conformemente alla Convenzione di Ginevra del 1951, in particolare al suo art. 26, che include il diritto di scelta del luogo di residenza nel più ampio diritto di libera circolazione del rifugiato. Parimenti, la Corte aggiunge che, malgrado la Convenzione di Ginevra di per sé valga esclusivamente per i rifugiati, la direttiva qualifiche è espressione di un percorso che ha portato l’Unione a consolidare la regola tale per cui ai beneficiari di qualsivoglia forma di protezione internazionale devono essere riconosciuti gli stessi diritti, salve espresse eccezioni. L’art. 33 dir. 2011/95 non rientra tra queste possibili eccezioni e deve quindi essere interpretato in armonia con l’articolo 26 della Convenzione di Ginevra. Sempre su sollecitazione del giudice del rinvio, la Corte ha poi verificato se gli artt. 33 e 29 dir. 2011/95 abilitano gli Stati membri a prospettare un regime più oneroso per i soli beneficiari di protezione sussidiaria; e la conclusione tratta dalla CGUE è che nessuno dei due articoli ammette la fissazione di un trattamento peggiorativo per i beneficiari di protezione sussidiaria, a meno che la distinzione non operi tra beneficiari di protezione internazionale ed altri cittadini stranieri legalmente soggiornanti e sempre che nel caso specifico le due categorie di cittadini di Stati terzi non versino in situazioni oggettivamente paragonabili. Al di fuori di questa ipotesi, la Corte individua tanto nella direttiva quanto nelle norme di riferimento della Convenzione di Ginevra (artt. 26 e 23) la necessità che beneficiari di protezione sussidiaria in uno Stato membro, cittadini di Stati terzi legalmente soggiornanti in quello stesso Stato e cittadini del medesimo Stato membro siano assoggettati a identiche condizioni sia in punto di libera circolazione, sia relativamente all’accesso all’assistenza sociale. A margine, la Corte nota che uno degli obiettivi dell’obbligo di residenza posto a carico dei beneficiari di protezione internazionale dalla suesposta normativa tedesca è facilitare l’integrazione dei cittadini di paesi terzi in Germania. Accantonando l’art. 29 dir. 2011/65, limitato alla parità di trattamento tra beneficiari di protezione sussidiaria e cittadini dello Stato membro ospitante, la CGUE prende spunto dall’art. 33 per ipotizzare che sarebbe astrattamente possibile attendersi differenze nel livello di integrazione tra beneficiari di protezione sussidiaria e altri cittadini di Stati terzi legalmente soggiornanti nello steso Stato membro e che se nel caso specifico queste due categorie di cittadini di Stati terzi non si trovano in una situazione oggettivamente paragonabile, un obbligo di residenza come quello di specie non sarebbe aprioristicamente illegittimo. In tal senso, la Corte statuisce che il giudice del rinvio dovrà accertare se il fatto che un cittadino di un paese terzo percettore dell’aiuto sociale benefici della protezione internazionale, nella fattispecie quella sussidiaria, implichi che costui si troverà maggiormente esposto a difficoltà di integrazione rispetto a un altro cittadino di un paese terzo legalmente residente in Germania e percettore dell’aiuto sociale.
Estradizione
Il tema dell’estradizione è stato trattato nel caso Petruhhin (CGUE, 6.9.2016, causa C-182/15), che rileva in tanto in quanto ha avuto ad oggetto la posizione di un cittadino dell’Unione europea. Il sig. Petruhin è un cittadino estone che aveva commesso crimini nel territorio della Federazione russa; per il sig. Petruhin, l’Interpol aveva pubblicato un avviso di ricerca prioritaria. L’arresto del ricercato avveniva in Lettonia: era allora alle autorità lettoni che il Procuratore generale della Federazione russa rivolgeva domanda di estradizione. Siccome la domanda veniva accettata con apposita decisione, il sig. Petruhin non esitava ad adire le autorità giudiziarie competenti della Lettonia per chiedere che la decisione di estradizione fosse annullata. Il punto nodale della vicenda era rappresentato da un accordo tra Estonia, Lettonia e Lituania in materia di assistenza giudiziaria, finalizzata anche all’estradizione dei cittadini delle tre Repubbliche baltiche, dal quale, nel complesso, emergeva un regime più favorevole per i cittadini lettoni: solo i cittadini lettoni potevano evitare l’estradizione verso Stati terzi, mentre lo stesso grado di protezione non veniva garantito ai cittadini dell’Estonia (e della Lituania). In aggiunta, contrariamente alle doglianze del sig. Petruhhin, un identico grado di protezione tra cittadini estoni e lettoni non era sancito neppure dal diritto lettone applicabile al caso concreto, né tantomeno dagli accordi di estradizione intercorrenti tra la Lettonia e la Federazione russa. Malgrado il giudice nazionale non potesse desumere dagli strumenti appena citati il diritto del sig. Petruhhin ad essere trattato dalle autorità lettoni alla stregua di un cittadino lettone, sorgeva il dubbio sulla possibilità che tale diritto potesse essere desunto dal diritto primario dell’Unione europea. Era per queste ragioni che il giudice nazionale sospendeva il procedimento interno e chiedeva alla CGUE se gli articoli 18 e 21 TFUE, ai fini dell’applicazione di un accordo di estradizione concluso tra uno Stato membro e uno Stato terzo, permettevano ai cittadini di un altro Stato membro di potersi giovare della regola che vieta l’estradizione da parte del primo Stato membro dei propri cittadini, e se l’estradizione non potesse essere concessa che previa verifica delle condizioni enucleate dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Quanto all’applicabilità alla fattispecie degli art. 18 e 21 TFUE, la Corte riprende la giurisprudenza Rottman (CGUE, 2.3.2010, causa C-135/08 ) per ribadire che quando una situazione ricade nel diritto dell’UE gli Stati membri devono osservare le norme sovrannazionali di riferimento anche se la materia è riservata a competenze nazionali. In altre parole, benché le norme sull’estradizione siano oggetto di competenza degli Stati membri per via della mancanza di una convenzione di estradizione tra UE E Federazione russa, questi non possono esercitare i poteri che gli derivano contravvenendo al diritto primario UE sulla libera circolazione dei cittadini europei. Di conseguenza, nel caso di specie occorrerebbe rispettare il divieto di discriminazione in base alla nazionalità ex art. 18 TFUE, evitando che il diritto di circolazione e soggiorno di cui all’art. 21, par. 1, sia ristretto dall’imposizione di un regime nazionale più sfavorevole all’estradando di altro Stato membro. In realtà, la Corte non dimentica che la regola generale, che nello specifico premierebbe il sig. Petruhhin, può essere derogata per ragioni oggettive e laddove siano perseguibili soluzioni necessarie a perseguire lo scopo della normativa nazionale, ma al contempo meno pregiudizievoli per il cittadino europeo che abbia esercitato il diritto di libera circolazione. Trovandosi nelle condizioni di dovere bilanciare esigenze di proporzionalità a favore del titolare del diritto di libera circolazione con la necessità evitare il rischio di impunità di un reo (a sua volta collocata nell’obiettivo generale dello spazio di libertà sicurezza e giustizia dell’art. 3, par. 2, TFUE), la Corte decide di percorrere una “terza via”: la soluzione viene individuata nella decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato d’arresto europeo. Per la Corte, lo Stato membro di cui il presunto autore del reato ha la cittadinanza potrebbe emettere un mandato d’arresto europeo, inducendo le autorità dello Stato membro che abbia preso temporaneamente in consegna il ricercato a trasferirlo verso il primo Stato, così che questo possa esercitare l’azione penale. Significa, insomma, che nel caso in esame dovrebbe essere data precedenza alle norme di diritto primario invocate, sostituendo l’estradizione verso la Federazione russa con l’obbligo di cooperazione tra Lettonia ed Estonia sotteso al mandato d’arresto europeo, che nello specifico potrebbe tradursi nel trasferimento del sig. Petruhhin in Estonia (sempre che l’Estonia emani un mandato d’arresto europeo, ben inteso) e nel conseguente e necessario esercizio dell’azione penale per le autorità giudiziarie estoni. Meno complessa appare la questione relativa all’applicazione dell’art. 19 della Carta. La Corte, come era lecito attendersi, ne riconosce l’applicabilità al caso del sig. Petruhhin, aggiungendo che la valutazione che spetta all’autorità chiamata a decidere sull’estradizione verso uno Stato terzo dovrà appurare il rischio menzionato supra, tenendo conto di elementi certi e oggettivi. Rimane il fatto che nel caso Petruhhin l’eventuale emissione del mandato d’arresto europeo da parte dell’Estonia, accompagnata dal trasferimento del soggetto dal territorio lettone al territorio estone, renderebbe superflua tale ultima valutazione.
Diritto al ricongiungimento familiare
Con la sentenza Kachab (CGUE, 21.4.2016, causa C-558/14), la CGUE ha arricchito la sua giurisprudenza sui requisiti e i limiti dell’elemento economico nel quadro della direttiva 2003/86/CE sul ricongiungimento familiare. Si rammenta che l’elemento economico rappresenta uno dei potenziali ostacoli al ricongiungimento familiare, poiché l’art. 7, par. 1, lett. c) dir. 2003/86 prevede che il richiedente soggiornante, al momento della presentazione della domanda di ricongiungimento, debba possedere “risorse stabili e regolari sufficienti per mantenere se stesso e i suoi familiari senza ricorrere al sistema di assistenza sociale dello Stato membro interessato”. La peculiarità del caso Kachab risiede nella scelta della Corte di interpretare estensivamente la deroga che l’art. 7, par. 1, lett. c) oppone alla regola dell’autorizzazione al ricongiungimento; questo approccio a tratti si discosta da alcune pronunce recenti (CGUE, 6.12.2012, cause riunite C-356/11 e C-357/11, sentenza O. e a.; CGUE, 4.3.2010, causa C-578/08, sentenza Chakroun). Va detto che nel caso Kachab la normativa spagnola applicabile consentiva alle autorità nazionali di negare il beneficio del ricongiungimento familiare e, quindi, il rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo ad un familiare del soggiornante, qualora si fosse ritenuto che quest’ultimo, in base all’evoluzione del reddito percepito nel corso dei sei mesi precedenti alla data di presentazione della domanda di ricongiungimento familiare, non sarebbe stato probabilmente in grado di conservare, nell’anno successivo a tale data, lo stesso livello di risorse. Si trattava allora di appurare la conformità di siffatta normativa nazionale al più generico testo dell’art. 7, par. 1, lett. c) dir. 2003/86. La risposta della CGUE è stata positiva. In via generale, la Corte ammette che la valutazione dell’elemento economico possa essere fatta pro futuro. Non basta che le risorse di cui il richiedente deve disporre siano sufficienti, ma occorre altresì che siano “stabili” e “regolari”, cosa che sottintende un certo grado di permanenza e continuità nel tempo: ciò può essere meglio valutato se si compie un esame in prospettiva. Il parere della Corte si fonda anche sul combinato disposto di altre disposizioni della direttiva, specialmente gli artt. 3, par. 1, e 16, par. 1: da tale operazione, infatti, si ottiene che il diritto che costituisce l’oggetto in senso stretto della direttiva 2003/86/CE dipende dalla fondata prospettiva per il soggiornante munito di permesso di potere continuare a soggiornare stabilmente. Proseguendo nella sua analisi, la Corte estrapola i singoli elementi della controversa disposizione nazionale per assicurarsi che non integrino una violazione del principio di proporzionalità o una modalità di attuazione irragionevole e parziale della direttiva; ma la Corte conclude affermando che non sussiste nessuna di queste criticità. Pertanto, una normativa che, per valutare se le risorse che il richiedente il ricongiungimento familiare deve dimostrare ex art. 7, par. 1, lett. c), preveda un esame prospettico su base annuale e parametrato sui redditi percepiti dal richiedente nei soli sei mesi antecedenti la richiesta di ricongiungimento, è da ritenersi ammissibile. Da segnalare che, contrariamente ai giudici, l’Avvocato generale ha reso considerazioni piuttosto approfondite e circostanziate sulla necessità che una normativa nazionale come quella in questione garantisca il rispetto del principio di proporzionalità. In particolare, l’Avvocato generale ha specificato che la risoluzione del caso concreto non dovrebbe prescindere da una valutazione, ad opera del giudice nazionale, degli elementi menzionati all’art. 17 della direttiva, secondo cui “(i)n caso di rigetto di una domanda (…) nei confronti del soggiornante o dei suoi familiari, gli Stati membri prendono nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine”.
Soggiorno
Frontiere
La domanda di pronuncia pregiudiziale, che verte sull’interpretazione della direttiva rimpatri (dir. 2008/115/CE), è stata presentata nell’ambito di una controversia che riguarda una cittadina ghanese, la sig.ra Affum (CGUE, 7.6.2016, causa C-47/15) entrata irregolarmente in Francia dal Belgio, quindi attraverso una frontiera interna comune, e scoperta mentre stava per fare ingresso nel territorio del Regno Unito, Stato membro non aderente a Schengen. In breve, alla Corte di giustizia venivano poste tre questioni pregiudiziali: con la prima questione il giudice del rinvio chiede l’interpretazione degli l’articoli 2, par. 1, e 3, par. 2, della direttiva rimpatri, per avere chiarezza sul significato di ‘soggiorno irregolare’; 2. con la seconda e terza questione si chiede se la direttiva rimpatri sia contraria ad una normativa di uno Stato membro che reprime con la pena della reclusione l’ingresso irregolare di un cittadino di un paese terzo, al quale non sia stata ancora applicata la procedura di rimpatrio, anche nel caso in cui tale cittadino possa essere ripreso da un altro Stato membro, in applicazione di un accordo o di un’intesa ai sensi dell’art. 6, par. 3, della direttiva. I giudici rispondono alla prima domanda precisando che l’art. 2, par. 1, dispone che la direttiva si applica ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro è irregolare, mentre la nozione di «soggiorno irregolare» è definita all’art. 3, par. 2. Ne risulta che soggiorni irregolarmente chiunque, cittadino di un paese terzo, non soddisfi le condizioni d’ingresso, di soggiorno o di residenza, senza che tale presenza sia subordinata alla condizione di una durata minima o dell’intenzione di restare in tale territorio. Ciò vale anche per chi viaggia a bordo di un autobus attraverso il territorio di uno Stato membro, ricadendo così nell’ambito di applicazione della direttiva, ai sensi del suo art. 2. La seconda e terza questione erano dirette a valutare la compatibilità della direttiva rimpatri con una disposizione nazionale che reprime con la pena della reclusione l’ingresso irregolare di un cittadino di Stato terzo, al quale non sia stata ancora applicata la procedura di rimpatrio, anche nel caso in cui tale cittadino possa essere ripreso da un altro Stato membro, in applicazione di un accordo o di un’intesa, secondo quanto stabilisce l’art. 6, par. 3, della direttiva. I giudici, richiamando la sentenza Achughbabian (CGUE, 6.12.2011, causa C‑329/11), ricordano come la dir. 2008/115 si opponga a disposizioni che reprimono il soggiorno irregolare mediante sanzioni penali, qualora consentano la reclusione di chi, pur soggiornando in modo irregolare nel territorio di detto Stato membro e non essendo disposto a lasciare tale territorio volontariamente, non sia stato sottoposto alle misure coercitive previste dall’art. 8 della direttiva e, nel caso di trattenimento, questo non abbia superato la durata massima (punto 50). La persona in posizione irregolare, oggetto di procedura di rimpatrio, potrà subire il trattenimento in un apposito centro, nel rispetto degli artt. 15 e 16 e, soprattutto, dei diritti fondamentali dei soggetti interessati (CGUE, 28.4.2011, causa C‑61/11 PPU, sentenza El Dridi, punti 41 e 42). Non si potrà prevedere, dunque, la reclusione per coloro verso i quali la procedura di rimpatrio non è conclusa, visto che cosi facendo si ostacolerebbe l’applicazione della procedura stessa, si ritarderebbe il rimpatrio, venendo meno l’effetto utile della direttiva medesima (Achughbabian). Quanto alla possibile non applicazione della direttiva a coloro che sono sorpresi ad attraversare la frontiera esterna dell’UE, viene osservato come la direttiva riguardi l’ipotesi in cui detti cittadini siano entrati nel territorio dello Stato membro in questione e non quella in cui lo stiano lasciando. Inoltre, il fermo o la scoperta di cittadini di paesi terzi deve avvenire “in occasione dell’attraversamento irregolare” di una frontiera esterna, il che implica uno stretto legame temporale e spaziale con tale attraversamento della frontiera. In specie, la sig.ra Affum è stata scoperta e fermata non già al momento del suo ingresso nel territorio francese attraverso una frontiera interna, bensì mentre tentava di lasciare tale territorio e lo spazio Schengen attraverso il tunnel sotto la Manica: tale circostanza non consente di sottrarla dall’ambito di applicazione della dir. 2008/115, in forza del suo art. 2, par. 2, lett. a). Per ciò che riguarda la vigenza di accordi o intese bilaterali che abbiano per oggetto la ripresa in carico, da parte di uno Stato membro, di cittadini irregolari in un altro Stato membro, questo non comporta una deroga all’ambito di applicazione della direttiva, poiché la deroga prevista dal suo art. 6, par. 3, riguarda unicamente l’obbligo di adottare la decisione di rimpatrio e di farsi quindi carico del suo allontanamento, obbligo che in tal caso incombe allo Stato membro che abbia ripreso tale cittadino. Se ne deduce che la situazione di un cittadino terzo in soggiorno irregolare, ripreso da uno Stato membro diverso da quello in cui sia stato fermato, resta disciplinata dalla direttiva. In tale contesto, infliggere ed eseguire una pena detentiva nei suoi confronti in attesa del trasferimento ritarderebbe l’avvio della procedura e dunque l’effettivo allontanamento del cittadino stesso, pregiudicando quindi l’effetto utile della direttiva. Infine, quanto all’interpretazione dell’art. 4, par. 3, del codice frontiere Schengen, viene ricordato che gli Stati membri impongono sanzioni per l’attraversamento non autorizzato delle frontiere esterne, al di fuori dei valichi di frontiera e degli orari di apertura stabiliti. Proprio per questa ragione, la Corte osserva che non si può applicare al caso della sig.ra Affum. Così, rispondendo alla seconda e terza questione poste dal giudice francese, la Corte afferma che la direttiva rimpatri è contraria alla normativa di uno Stato membro che consenta la reclusione di un cittadino non europeo, in posizione irregolare poiché’ entrato irregolarmente attraverso una frontiera interna, e nei confronti del quale non sia stata ancora conclusa la procedura di rimpatrio. Ciò, anche nel caso in cui tale persona possa essere ripresa da un altro Stato membro. In breve, la sentenza della Corte si può cosi riassumere: un cittadino di un paese terzo soggiorna in modo irregolare nel territorio di uno Stato membro -ricadendo, quindi, nell’ ambito di applicazione della direttiva rimpatri- quando, senza soddisfare le condizioni d’ingresso, soggiorno o residenza, transita in tale Stato membro in quanto passeggero di un autobus, proveniente da uno Stato membro appartenente allo spazio Schengen, e diretto in un altro Stato membro ad esso non appartenente (artt. 2, par. 1, e 3, par. 2, della direttiva rimpatri). In secondo luogo, la direttiva 2008/115 è contraria alla normativa di uno Stato membro che consenta la reclusione di un cittadino non europeo in posizione irregolare, nei confronti del quale non sia stata ancora conclusa la procedura di rimpatrio. Questo anche nel caso in cui tale persona possa essere ripresa da un altro Stato membro, sulla base un accordo o di un’intesa ai sensi dell’articolo 6, par. 3, della direttiva medesima.
Diritti sociali
Nel caso Wieland e Rothwangl (CGUE, 27.10.2016, causa C‑465/14), frutto di un rinvio pregiudiziale, la Corte si è dovuta occupare di prestazioni sociali in un contesto peculiare, benché in parte già noto alla giurisprudenza UE. Entrambi i ricorrenti nei procedimenti principali erano cittadini austriaci e negli anni ’60 avevano lavorato per una compagnia olandese; le loro prestazioni lavorative erano state realizzate prima dell’adozione del regolamento CEE n. 1408/71, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori dipendenti e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, e prima dell’adesione dell’Austria all’UE, avvenuta nel 1995. Terminato il rapporto di lavoro con la compagnia olandese, il sig. Rothwangl manteneva la cittadinanza austriaca, mentre il sig. Wieland diveniva cittadino statunitense, anche se poi stabiliva la sua residenza principale in Austria. Tra il 2008 e il 2009, scattato il limite del sessantacinquesimo anno d’età previsto dalla legge generale olandese sull’assicurazione per la vecchiaia, i sig.ri Wieland e Rothwangl avevano chiesto invano al Consiglio di amministrazione della cassa di previdenza sociale di essere ammessi al percepimento di una pensione di vecchiaia. L’ostacolo che si frapponeva tra i ricorrenti e l’ottenimento delle prestazioni sociali richieste era dato dal fatto che nessuno di loro era in grado di soddisfare una condizione disposta dalla normativa olandese applicabile: non erano assicurati nei Paesi Bassi, perché la citata legge escludeva che potessero essere assicurati naviganti cittadini di paesi (allora) terzi. Il quadro giuridico prospettato alla CGUE dal giudice del rinvio era dunque composito: i periodi di lavoro che i ricorrenti avevano compiuto nei Paesi Bassi prima dell’adesione dell’Austria all’UE erano regolati dalla normativa nazionale, in quanto esauritisi quando il reg. 1408/71/CEE non era ancora stato adottato ed in suo luogo vigeva il reg. 3/58/CEE, che non si applicava ai lavoratori marittimi; invece, le richieste di pensione di vecchiaia erano state presentate in costanza di reg. 1408/71/CEE e dopo l’adesione dell’Austria. Alla CGUE toccava dunque risolvere principalmente un problema, posto alle fondamenta di tre quesiti: bisognava accertare se i periodi durante i quali i signori Wieland e Rothwangl erano stati lavoratori marittimi nei Paesi Bassi costituivano periodi di assicurazione compiuti sotto la legislazione olandese prima che fosse possibile applicare il regolamento 1408/71 nello territorio di quello stesso Stato membro. Il problema originava dall’art. 94, par. 2, reg. 1408/71, secondo cui “(o)gni periodo di assicurazione e, eventualmente, ogni periodo di occupazione o di residenza compiuto sotto la legislazione di uno Stato membro prima della data di entrata in vigore del presente regolamento, è preso in considerazione per la determinazione dei diritti acquisiti in conformità delle disposizioni del presente regolamento”. La Corte ha escluso il diritto alle prestazioni di vecchiaia nel caso concreto, essendo ineluttabilmente applicabile la preclusione della normativa olandese, per opera del rinvio fatto dal reg. 1408/71 alla legislazione interna ai fini, in particolare, della totalizzazione dei periodi di assicurazione. Perciò, il giudice del rinvio non potrebbe omettere di dare seguito alla distinzione che la legge olandese applicabile fa tra cittadini di Stati membri e cittadini di paesi terzi, senza che il ricorrente austriaco possa essere trattato come se avesse compiuto un periodo di assicurazione vecchiaia nei Paesi Bassi, dal momento che negli anni ’60 l’Austria non era uno Stato membro della CEE e che il diritto CEE ai tempi non vietava una simile distinzione; e di certo il sig. Rothwangl in quegli anni non avrebbe potuto godere dei diritti derivanti dalle disposizioni che disciplinavano la libera circolazione dei lavoratori, in quanto dall’Atto di adesione all’UE dell’Austria non risulta alcun obbligo per gli altri Stati membri di trattare i cittadini austriaci nello stesso modo in cui avevano trattato i cittadini di altri Stati membri prima dell’adesione dell’Austria. La Corte ha seguito la linea interpretativa tracciata in altre sentenze pronunciate in esito a casi analoghi, come Duchon (CGUE, 18.4.2002, C-290/00) e Kauer (CGUE, 7.2.2002, causa C-28/00); tuttavia, contrariamente a quanto documentato in tali casi, in Wieland e Rothwangl i ricorrenti nei procedimenti interni non erano assicurati in ossequio alla normativa nazionale pertinente. Stessa sorte ha subito la posizione del cittadino statunitense, analizzata in considerazione del regolamento CE n. 85972003, che estende le disposizioni del regolamento 1408/71 cittadini di paesi terzi cui tali disposizioni non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità. La Corte ha constatato che l’art. 2 reg. 859/2003 ha contenuto pressoché identico all’art. 94, par. 2, reg. 1408/71, così anche il sig. Wieland incontra lo stesso limite di diritto interno in cui era incorso il sig. Rothwangl.
Nel caso Linares Verruga (CGUE, 14.12.2016, causa C-238/15), la Corte si è pronunciata in via pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 7, par. 2, del reg. 492/2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione; ciò in relazione al diniego da parte del governo lussemburghese alla concessione di un sussidio economico dello Stato per gli studi superiori. Il sig. Linares Verruga, studente all’Università di Liegi (Belgio), risiede con i genitori a Longwy (Francia): la madre ha un’occupazione in Lussemburgo come lavoratrice subordinata dal 15 maggio 2004, il padre anche come lavoratore autonomo. In quanto studente, Linares Verruga ha chiesto la concessione di un sussidio economico per studi superiori in relazione alla preparazione del diploma di laurea, ma la domanda è stata respinta. La sentenza segue la precedente pronuncia Giersceh e a. (20.6.2013, causa C‑20/12), che riguardava proprio la normativa lussemburghese relativa al sussidio economico dello Stato per studi superiori. In quel caso la Corte aveva statuito che la disparità di trattamento, risultante dal fatto che un requisito di residenza era richiesto agli studenti figli di lavoratori frontalieri, costitutiva una discriminazione indiretta in base alla cittadinanza: vietata in linea di principio, avrebbe potuto beneficiare di una deroga se obiettivamente giustificata (punto 46) per ragioni di carattere generale. I giudici avevano così statuito che il requisito della residenza era idoneo di per sé a realizzare l’obiettivo di interesse generale della promozione dello svolgimento di studi superiori e dell’incremento significativo della proporzione di titolari di diplomi di istruzione superiore residenti in Lussemburgo (punti 53, 56 e 68). Valutandone la necessarietà, invece, la Corte aveva ritenuto che il requisito della residenza eccedesse in relazione ai fini del raggiungimento dell’obiettivo di incrementare la percentuale dei residenti titolari di un diploma di istruzione superiore, considerato che impediva di tener conto di altri elementi potenzialmente rappresentativi del reale grado di collegamento del richiedente con la società o con il mercato del lavoro lussemburghese, come ad esempio, il fatto che uno dei genitori fosse un lavoratore frontaliero, stabilmente occupato in tale Stato membro, e vi avesse già lavorato per un significativo periodo di tempo (punto 83). A seguito della sentenza Giersch, il Lussemburgo ha modificato la legge relativa al sussidio economico dello Stato per studi superiori in modo da estendere il beneficio di tale sussidio agli studenti non residenti: ha posto, tuttavia, la condizione che siano figli di un lavoratore subordinato o autonomo, cittadino lussemburghese o dell’Unione europea, occupato o esercente la propria attività in Lussemburgo, e che detto lavoratore sia stato occupato o abbia esercitato la propria attività in Lussemburgo per un periodo ininterrotto di almeno cinque anni al momento in cui lo studente presenta la domanda di sussidio economico per studi superiori. Il caso in esame porta, dunque, la Corte a valutare se la nuova norma possa costituire una discriminazione e, nel caso, se sia oggettivamente giustificata. Nel valutare la sussistenza o meno della discriminazione, i giudici richiamano l’art. 7, par. 2, reg. 492/2011, secondo il quale il lavoratore cittadino di uno Stato membro gode, sul territorio degli altri Stati membri, degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali. Tale disposizione non distingue tra lavoratori residenti e frontalieri (Giersch e a., punto 37, e CGUE, 27.11.1997, causa C‑57/96, sentenza Meints, punto 50). In secondo luogo, si ricorda come in passato la stessa Corte abbia riconosciuto la natura di vantaggio sociale, ai sensi del reg.1612/68, ad un sussidio concesso per il mantenimento e la formazione, allo scopo di compiere studi universitari sanciti da un titolo qualificante all’esercizio di un’attività professionale (Giersch e a., punto 38, e sentenza Commissione/Paesi Bassi, 14.6.2012, causa C‑542/09, punto 34), del quale può avvalersi, in prima persona, il figlio del lavoratore migrante qualora, in forza del diritto nazionale, tale sussidio sia concesso direttamente allo studente (Giersch e a., punto 40, Commissione/Paesi Bassi, punto 48, e CGUE, 26.2.1992, causa C‑3/90, sentenza Bernini, punto 26). Infine, i giudici ricordano come il principio di parità di trattamento, sancito anche dall’articolo 45 TFUE, oltre che dall’art. 7 reg. 1612/68, vieta non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi discriminazione dissimulata (v. CGUE, 13.4.2010, causa C‑73/08, sentenza Bressol e a., punto 40). In specie, la norma lussemburghese subordina la concessione di un sussidio economico per studi superiori al requisito della residenza dello studente nel territorio lussemburghese o, per gli studenti non residenti in tale territorio, al requisito di essere figlio di lavoratori impiegati o che abbiano esercitato la propria attività professionale in Lussemburgo per un periodo minimo e ininterrotto di cinque anni alla data della domanda di sussidio economico. Tale requisito, però, non è previsto per gli studenti che risiedono nel territorio lussemburghese, col rischio quindi di operare maggiormente a sfavore dei cittadini di altri Stati membri (Giersch e a., punto 44, Commissione/Paesi Bassi, punto 38). La disposizione costituisce, dunque, una discriminazione indiretta fondata sulla cittadinanza, ammissibile soltanto a condizione di essere oggettivamente giustificata: perché ciò abbia luogo, dev’essere idonea a garantire il conseguimento di un obiettivo legittimo e non eccedere quanto necessario al suo conseguimento. In Giersch, punti 53 e 56, la Corte si era già espressa sulla sussistenza dell’obiettivo sociale, poiché finalizzato a garantire un livello elevato di formazione nell’ambito della propria popolazione residente; risultava dunque opportuno che la Corte si pronunciasse su adeguatezza e necessarietà. In via preliminare, la Corte ricorda come l’accesso al mercato del lavoro determina il nesso di integrazione sufficiente e idoneo a consentire ai lavoratori frontalieri o migranti di avvalersi del principio della parità di trattamento rispetto ai lavoratori nazionali nel beneficiare di vantaggi di natura sociale (Giersch e a., punto 63, nonché Commissione/Paesi Bassi, punto 65): anche i lavoratori migranti contribuiscono al finanziamento delle politiche sociali di detto Stato; pertanto, devono potersene avvalere alle stesse condizioni dei lavoratori nazionali (Giersch e a., punto 63, Commissione/Paesi Bassi, punto 66). Tuttavia, come precisato, una disposizione nazionale indirettamente discriminatoria, che limita la concessione di vantaggi sociali ai lavoratori frontalieri, può essere oggettivamente giustificata e proporzionata all’obiettivo perseguito (Giersch e a., punto 64; CGUE, 11.9.2007, causa C-287/05, punti 54 e 55, sentenza Hendrix; CGUE, 18.7.2008, causa C‑212/05, sentenza Hartmann, punti da 30 a 35 e 37; CGUE, 18.7.2007, causa C‑213/05, sentenza Geven, punto 26). In Giersch, il requisito della previa residenza in Lussemburgo era considerato come l’unico requisito atto a stabilire un collegamento con tale Stato membro e, secondo la Corte, era idoneo a realizzare l’obiettivo della promozione del proseguimento di studi superiori e dell’incremento significativo della proporzione di titolari di diplomi di istruzione superiore residenti in Lussemburgo, presentando tuttavia un carattere troppo esclusivo (Giersch e a., punto 76). In luogo della residenza, anche l’occupazione di un impiego da parte dei genitori per un periodo di tempo significativo nello Stato erogatore dell’aiuto, poteva essere adeguata a dimostrare il grado reale di collegamento con la società o il mercato del lavoro di tale Stato (Giersch e a., punto 78). Per il lavoratore frontaliero, il requisito del periodo di lavoro minimo in Lussemburgo, consentiva di stabilire il collegamento dei lavoratori con la società nonché una ragionevole probabilità di vedere rientrare lo studente in Lussemburgo dopo aver concluso i suoi studi. Per ciò che riguarda la necessità del requisito richiesto, ovvero un periodo di lavoro minimo e ininterrotto alla data della domanda di sussidio economico, non si deve eccedere quanto necessario al conseguimento dell’obiettivo perseguito. In tal senso, i giudici riconoscono che il sufficiente collegamento dello studente con il Granducato di Lussemburgo, che consenta di dedurne la sussistenza di una ragionevole probabilità che egli torni ad installarsi in tale Stato membro e si metta a disposizione del mercato del lavoro dello stesso, può essere dedotto anche dal fatto che tale studente risieda in uno Stato membro frontaliero del Lussemburgo e che, da un periodo di tempo significativo, i suoi genitori qui svolgano attività lavorativa, vivendone in prossimità (Giersch e a., punto 78). Inoltre, la condizione che lo studente che ne benefici faccia ritorno in Lussemburgo dopo aver compiuto i propri studi all’estero, per ivi lavorare e risiedere, potrebbe consentire il raggiungimento dell’obiettivo perseguito senza ledere i figli dei lavoratori frontalieri (Giersch e a., punto 79). Tuttavia, la norma in esame –che richiede un periodo minimo e ininterrotto di lavoro del genitore pari a cinque anni, senza consentire la concessione del sussidio qualora i genitori, pur se con alcune brevi interruzioni, abbiano lavorato in Lussemburgo per un lasso di tempo significativo precedente tale domanda- comporta una restrizione che eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo legittimo di incrementare il numero di titolari di diplomi di istruzione superiore nell’ambito della popolazione residente, in quanto interruzioni siffatte non sono idonee ad interrompere il collegamento tra il richiedente il sussidio finanziario e il Granducato di Lussemburgo. Pertanto, i giudici concludono nel senso della contrarietà dell’art.7, par. 2, del reg. 492/2011, alla disposizione lussemburghese che promuove l’incremento della percentuale di residenti titolari di un diploma di istruzione superiore. Costituisce infatti un requisito che va oltre la necessità rispetto all’obiettivo conseguito, oltre ad essere discriminatorio, il subordinare la concessione di un sussidio economico per studi superiori per gli studenti non residenti al fatto che, alla data della domanda di sussidio economico, almeno uno dei loro genitori abbia lavorato in tale Stato membro per un periodo minimo e ininterrotto di cinque anni, senza prevedere lo stesso requisito per gli studenti residenti nel territorio di detto Stato membro.
[2] La redazione della presente rassegna è il risultato di un lavoro congiunto; tuttavia i commenti alle sentenze Affum e Linares Verrug vanno attribuiti a Marco Borraccetti, tutti gli altri a Federico Ferri.