The sustained reduction in irregular arrivals in the Eastern Mediterranean and the recent fall in arrivals in the Central Mediterranean, offer an opportunity to work towards more stable solutions. Così, la Commissione europea – nella Comunicazione del 27 settembre 2017 sull’attuazione dell’Agenda europea sulle migrazioni – ha preso atto della riduzione del numero di sbarchi a partire da luglio e sollecitato gli Stati membri a superare la prospettiva emergenziale, fatta di azioni e misure contingenti, in favore di una prospettiva più lungimirante. L’obiettivo dichiarato è individuare soluzioni che sostituiscano i flussi irregolari e incontrollati con percorsi sicuri e ben gestiti.
Ma quell’obiettivo ripropone una serie di domande preliminari, tanto scomode quanto ineludibili: di quanta immigrazione avrebbe bisogno la sempre più “vecchia” Europa per sostenere la sua economia e il suo welfare? Quale sarebbe il livello di flussi socialmente accettabile per comunità arroccate a difesa di una presunta identità e cultura nazionale? Quale ruolo potrebbe o dovrebbe giocare l’Unione europea nel promuovere un dibattito sull’immigrazione “sostenibile”, che non resti prigioniero dei nazionalismi?
Nella Comunicazione del settembre scorso – commentata nel fascicolo da Marco Borraccetti – alla Commissione è mancato il coraggio di porre questi interrogativi e di avanzare proposte innovative. Decine di milioni di migranti africani e mediorientali sono pronti a rischiare la vita pur di arrivare in Europa. Eppure la Commissione si è limitata a raccomandare un programma di resettlement per 50 mila persone in due anni e, sul versante della migrazione economica, ad auspicare l’avvio di progetti pilota con paesi terzi e con sponsor privati. Se il fine è creare percorsi (umanitari e economici) di ingresso legale in Europa che contribuiscano a regolarizzare i flussi nell’area mediterranea, i mezzi indicati appaiono macroscopicamente insufficienti.
La genericità dei propositi e la timidezza delle proposte avanzate riflettono la complessità dell’attuale contesto geopolitico. Dal milione di persone giunte in Europa via mare nel 2015 si è passati a 362 mila nel 2016 e a una proiezione di circa 160 mila nel 2017 (147 mila a fine ottobre). I progressi nel contenimento dei flussi sono però minacciati dalla instabilità della Libia e dalla inaffidabilità di molti partners chiave, dalla Turchia di Erdogan alle tribù e ai clan che presidiano i confini e la linea costiera del Nord Africa. A ciò va aggiunto il sentimento di insicurezza e ostilità verso i migranti che pervade una parte dell’elettorato europeo e che restringe i margini di scelta politica.
Così, la logica difensiva che ha ispirato l’attivismo europeo nell’ultimo biennio continua a guidare l’azione interna ed esterna dell’Unione e dei suoi Stati membri. Un’azione non di rado spregiudicata dal punto di vista giuridico, come dimostra il ricorso a strumenti informali per decisioni che, pur incidendo su diritti fondamentali dei migranti, sono sottratte al controllo di parlamenti e giudici.
L’esempio più noto è la Dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo 2016: un mero “statement” che la Corte di giustizia, con sentenza del 28 febbraio 2017, ha ritenuto estraneo alla sua sfera di giurisdizione, ma che, ciò nondimeno, comprime i diritti di centinaia di migliaia di richiedenti asilo tuttora detenuti in Grecia o bloccati in Turchia.
Non mancano casi più recenti. Si pensi al Codice di condotta per le organizzazioni non governative (ONG) impegnate nel salvataggio di migranti in mare: con questo atto di soft law il governo italiano, approfittando di una lacuna del diritto internazionale (si veda, in proposito, il saggio di Irini Papanicolopulu), ha depotenziato, con la fattiva cooperazione della Guardia costiera libica, l’azione delle ONG, considerate un pericoloso pull factor (le ambiguità della “retorica umanitaria” che l’Unione e i governi nazionali impiegano per giustificare la strategia di contrasto dei traffici illegali nel Mediterraneo, anche a detrimento del ruolo delle ONG, sono ben evidenziate nello scritto di Jennifer Allsopp). Si pensi, poi, al vertice di Parigi del 28 agosto 2017 sulla gestione dei flussi migratori, del quale si occupa, in questo numero, Alessandra Algostino. In occasione del summit parigino, i governi dei “grandi” paesi europei (Germania, Francia, Italia, Spagna) e di strategici partners africani (Libia, Niger e Ciad) hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta che segna un ulteriore passo nella direzione della esternalizzazione delle frontiere, con prevedibili conseguenze per i diritti dei migranti.
Coerente con il quadro esterno è, sul versante interno, la riduzione dei diritti e delle garanzie per i richiedenti asilo decisa con il d.l. 17 febbraio 2017, n. 13, convertito nella legge 13 aprile 2017, n. 46 (c.d. legge Minniti). La coerenza si evince anzitutto dalla scelta di eludere il controllo parlamentare: pur in presenza di un atto legislativo formale, il contingentamento dei tempi di conversione del decreto e la conversione del medesimo con voto di fiducia hanno prodotto – come sottolinea Guido Savio nell’accurato commento contenuto in questo numero – un sostanziale esautoramento del Parlamento.
Sul piano dei contenuti, la legge Minniti contiene alcune previsioni opportune, come l’istituzione di sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, che però non è accompagnata da un riordino complessivo delle competenze giurisdizionali relative al diritto degli stranieri, sempre meno differibile. La legge contribuisce, poi, ad accentuare la specialità di questo ramo del diritto pubblico sotto almeno due profili. Uno è quello procedurale, con la controversa abolizione del giudizio di appello per le controversie in materia di protezione internazionale. L’altro attiene alla tutela della libertà personale dei migranti, degradata non solo dalla perdurante assenza di una base giuridica per il trattenimento negli hotspot, ma anche da nuove previsioni: quella che rende possibile la prosecuzione del trattenimento nei confronti del richiedente asilo che già si trovi in un centro permanente per il rimpatrio (CPR, ex CIE) in attesa dell’esecuzione di un respingimento differito; quella che autorizza il trattenimento per resistenza ai rilievi dattiloscopici, configurato come misura questorile; e quella che, nei procedimenti di convalida del trattenimento dei richiedenti asilo, comprime il diritto di difesa di questi ultimi attraverso l’introduzione della videoconferenza.
Le tensioni con il dettato costituzionale che ne derivano sono conseguenza di un disegno giuridicamente disinvolto ma politicamente ponderato: ridurre i tempi dei procedimenti in materia di protezione internazionale e le garanzie a tutela dei richiedenti asilo è la risposta dell’ordinamento all’aumento del numero di richieste di protezione da parte dei migranti che arrivano sulle coste italiane. Una risposta dall’evidente intento dissuasivo, che, in assenza di canali legali di ingresso a fini di lavoro, non basterà a prevenire l’abuso della protezione internazionale, ma che, intanto, livella verso il basso il trattamento riservato a questa categoria di migranti, assimilandolo sotto alcuni profili al regime dei migranti economici.
In tempi di crisi, dunque, le difficoltà dell’Italia e di altri paesi europei nel distinguere tra flussi economici e umanitari hanno innescato una duplice convergente tendenza. Da un lato, la esternalizzazione delle frontiere rimette il controllo repressivo delle migrazioni a paesi terzi che non riconoscono (o eludono) la distinzione tra migranti economici e umanitari. Dall’altro, la riduzione per via legislativa e amministrativa dei diritti dei richiedenti asilo giunti in Europa rappresenta anch’essa una spinta alla tendenziale equiparazione tra le due categorie di migranti. In assenza di una tempestiva inversione di tendenza, la distinzione tra migranti economici e umanitari – asse portante del diritto (nazionale, europeo e internazionale) delle migrazioni – è destinata ad entrare essa stessa in crisi.