>

Fascicolo 3, Novembre 2017


«Quante volte si è detto il mondo deperisce. Quante volte si è detto il mondo fa naufragio.
Dovremmo misurare meglio le parole: ché il mondo deperisce eppure ingrassa; e mentre naufraga galleggia.
È questa la fatica a cui siamo vocati: sostenere un doppio sguardo, capace di fissare in faccia la rovina
e assieme la lamina di sole che accende ogni mattina»

(Franco Marcoaldi, Il tempo ormai breve, Torino, Einaudi, 2008)

Rassegna di giurisprudenza europea: Corte europea dei diritti umani

Artt. 2 e 3: Diritto alla vita e divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti 
Il caso N.A. c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 30.05.2017) riguarda un richiedente asilo sudanese che dichiarava di essersi allontanato legalmente dal suo Paese d’origine dopo aver subito maltrattamenti per il presunto supporto fornito al Mouvement pour la justice et l’égalité (JEM).
Per sostenere la sua domanda, il ricorrente forniva documenti relativi alla sua attività politica dopo l’arrivo in Svizzera come, ad esempio, una fotografia che lo ritraeva con il leader del JEM in occasione del Geneva Summit for Human Rights and Democracy. Le autorità svizzere rigettavano la richiesta di protezione per mancanza di credibilità e ne ordinanvano l’allontanamento. Secondo la Corte, se è vero che tutti coloro che appartengono o sostengono, anche solo in modo presunto, movimenti ribelli come il JEM continuano a essere arrestati e torturati dalle autorità sudanesi (cfr. Corte EDU, A.A. c. Francia, 7.01.2014, in questa Rivista¸ XVI, n. 2, 2014, p. 91, e A.F. c. Francia, 15.01.2015, in questa Rivista¸ XVII, n. 2, 2015, p. 125), è anche vero che il sig. N.A. non ha prodotto alcuna prova a dimostrazione dei maltrattamenti subiti o di avere relazioni strette con qualche membro di spicco del JEM. Considerato il basso profilo politico del ricorrente, il quale non ha mai rappresentato o ha avuto un ruolo significativo all’interno del movimento, che le autorità sudanesi non controllano in modo sistematico tutti coloro che, al di fuori del Paese, si oppongono al Governo in carica e che l’origine etnica del sig. N.A. non lo espone a specifiche persecuzioni, l’allontanamento di quest’ultimo non dà luogo a una violazione degli artt. 2 e 3 Cedu.
 
Art. 3: Divieto di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti
Il caso M.O. c. Svizzera (Corte EDU, sentenza del 20.06.2017) è relativo a un cittadino eritreo che, dopo essere scappato dal suo Paese per non aver prestato servizio militare, vedeva rigettata la sua domanda di protezione internazionale per forti dubbi in merito alla credibilità del suo racconto. Secondo la Corte Edu, se il rispetto dei diritti fondamentali in Eritrea appare tuttora problematico, esso non può essere considerato così grave da dare luogo a una situazione di estrema violenza che impedisca qualsiasi trasferimento in quel Paese (Corte Edu, 27.06.2013, S.A. c. Svezia, in questa Rivista, XV, n. 2, 2013, p. 89). Per quanto riguarda la specifica condizione del ricorrente, la Corte Edu riconosce che in Eritrea i disertori, soprattutto quando si allontanano illegalmente dal Paese, sono ancora puniti duramente. Tuttavia, pur tenendo conto dell’esigenza di concedergli il beneficio del dubbio, il sig. M.O. non aveva fornito documenti sufficienti che potessero confermare la sua appartenenza a tale categoria. Inoltre, nonostante le sollecitazioni delle autorità svizzere che avevano ricostruito in modo plausibile le reali circostanze del suo allontanamento dall’Eritrea, il ricorrente non era stato in grado di chiarire le contraddizioni su aspetti centrali dei maltrattamenti subiti, come la durata e le condizioni della detenzione, o su come aveva attraversato il confine con l’Etiopia senza essere stato catturato. Pertanto, sulla base dell’esame condotto dalle autorità svizzere, ritenuto attento, ragionato e basato su fonti obiettive, la Corte conclude per la non violazione dell’art. 3 Cedu qualora il sig. M.O. venisse allontanato in Eritrea.

In S.G. c. Grecia (Corte EDU, sentenza del 18.05.2017) la Corte Edu è chiamata a pronunciarsi ancora una volta sulla presunta violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti subita da un richiedente asilo iraniano a causa delle carenze generali del sistema di asilo greco. Il sig. S.G. dichiarava, da un lato, di non aver visto prontamente registrata la sua domanda di protezione correndo il rischio di essere rinviato indirettamente in Iran attraverso la Turchia e, dall’altro, di essere stato costretto a vivere in condizioni degradanti in attesa che il ricorso contro il rigetto della sua domanda venisse esaminato nonostante le richieste di sostegno presentate alle autorità greche. Rigettando come manifestamente infondate le parti del ricorso relative al rischio di refoulement, poichè il ricorrente ha infine ottenuto lo status di rifugiato nel Regno Unito, la Corte Edu concentra il suo esame sulla compatibilità con l’art. 3 Cedu delle condizioni di vita del ricorrente dopo la fine del periodo di trattenimento (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 21.01.2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, in questa Rivista, XIII, n. 2, 2011, p. 111). Proprio tenendo conto che il Ministero competente non aveva risposto alla richiesta di alloggio e supporto finanziario presentata formalmente dal ricorrente e che le autorità greche erano comunque a conoscenza della sua condizione di estrema precarietà, aggravata dall’impossibilità di accedere al mercato del lavoro, la Corte Edu ritiene che il sig. S.G. ha subito un trattamento degradante per via delle privazioni materiali cui è stato costretto quantomeno dal momento della presentazione della domanda di supporto alla data in cui si è recato nel Regno Unito. Vi è quindi stata una violazione dell’art. 3 Cedu.

Il caso E.T. e N.T. v. Svizzera e Italia (Corte EDU, decisione del 22.06.2017) riguarda due cittadini eritrei (madre e figlio) che lamentavano l’eventuale violazione dell’art. 3 in caso di rinvio in Italia, dove la prima ricorrente aveva ottenuto lo status di rifugiata, a causa delle carenze del sistema di accoglienza. La Corte Edu nota come, diversamente dai casi esaminati in precedenza (Corte Edu, Grande Camera, 4.11.2014, Tarakhel c. Svizzera, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154), la prima ricorrente ha già ottenuto la protezione richiesta e che l’art. 3 Cedu non obbliga gli Stati parte a garantire uno specifico standard di vita ai rifugiati, salvo i casi in cui un rifugiato dipenda totalmente dall’aiuto statale. Considerato che in Italia coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiato possono accedere al mercato del lavoro e a misure di assistenza sociale, che il Governo italiano ha fornito garanzie sul collocamento dei ricorrenti in una struttura SPRAR dedicata a madri con minori e che le autorità svizzere organizzerebbero il trasferimento in stretto coordinamento con le controparti italiane e in modo appropriato all’età del minore e all’esigenza di mantenere unito il loro nucleo familiare, la Corte ritiene che le eventuali sofferenze che i ricorrenti potrebbero comunque subire non raggiungono un livello di severità tale da rientrare tra i trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu. Pertanto, il ricorso è stato rigettato per manifesta infondatezza.

In linea con la giurisprudenza precedente (Corte Edu, 12.01.2016, A.G.R. c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVIII, n. 1, 2017), la Corte Edu ha ritenuto inammissibili una serie di ricorsi contro i Paesi Bassi avanzati da cittadini afghani che rischiavano l’allontanamento in seguito all’applicazione della causa di esclusione prevista all’art. 1F della Convenzione sullo status di rifugiato (M.M. e altri c. Paesi Bassi, decisione dell’8.06.2017; E.K. c. Paesi BassiE.P. e A.R. c. Paesi BassiG.R.S. c. Paesi BassiSoleimankheel e altri c. Paesi Bassi, decisioni del 3.08.2017). Per le autorità olandesi i ricorrenti risultavano, a vario titolo, coinvolti nelle gravi violazioni dei diritti umani commesse dal regime comunista afghano. La Corte Edu osserva, da un lato, come tutti i ricorrenti fossero rimasti in Afghanistan dopo la caduta del regime comunista senza correre alcun rischio di persecuzione e, dall’altro, che l’UNCHR non include coloro che avevano collaborato con quel governo tra i gruppi tuttora vulnerabili in Afghanistan. Ora, poichè non esiste in quel Paese neppure una situazione di violenza generale tale da subire, per il fatto stesso di ritornare a viverci, un trattamento vietato dall’art. 3 Cedu e che, in considerazione della particolare gravità dei crimini commessi, i ricorrenti che lamentavano anche un’eventuale violazione del diritto al rispetto della vita familiare non possono comunque utilizzare il diritto di cui all’art. 8 Cedu per ottenere protezione (cfr le linee guida dell’UNHCR: Guidelines on International Protection No. 5: Application of the Exclusion Clauses: Article 1F of the 1951 Convention relating to the Status of Refugees, 2003), tutti i ricorsi sono stati rigettati come manifestamente infondati. 

Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza
In S.M.M. c. Regno Unito (Corte EDU, sentenza del 22.06.2017) un richiedente asilo dello Zimbawe, affetto da problemi mentali e già detenuto per varie condanne, lamentava una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza a causa del trattenimento subito in vista del suo allontanamento. Tale trattenimento si era protratto per oltre due anni e mezzo non solo per ritardi attribuibili alle autorità competenti ma anche perchè lo stesso ricorrente aveva chiesto di usufruire di tempi più lunghi per raccogliere tutta la documentazione medica al fine di supportare meglio la sua seconda domanda di asilo, poi rigettata. Rilasciato su cauzione, il sig. S.M.M. rimaneva infine nel Regno Unito per motivi umanitari. La Corte Edu ribadisce come, in via di principio, il sistema inglese di trattenimento dei migranti soggetti ad allontanamento, caratterizzato dall’assenza di tempi massimi e del riesame periodico della decisione di trattenimento, sia compatibile con la Cedu (cfr. Corte EDU, 19.05.2016, J.M. c. Regno Unito, in questa Rivista, XIX, 2017, n. 1). In effetti, il ricorrente poteva rivolgersi in qualsiasi momento a un giudice, il quale sarebbe stato chiamato a valutare, tra l’altro, la lunghezza della detenzione alla luce delle specifiche circostanze individuali. Ora, se è vero che i giudici interni avevano condotto un esame siffatto e stabilito che non erano praticabili misure alternative alla detenzione, è anche vero che le autorità accertanti lo status di rifugiato non avevano agito con la dovuta diligenza. Infatti, per quanto il ricorrente abbia contribuito all’allungamento dei tempi, la sua condizione di vulnerabilità imponeva di accellerare l’esame della domanda di asilo e porre fine a una lunga detenzione (diversamente da Corte EDU, 2.03.2017, Ahmed c. Regno Unito, in questa Rivista, XIX, 2017, n. 2). Pertanto, nel caso del sig. S.M.M., vi è stata una violazione dell’art. 5, par. 1, Cedu.
 
Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare
Il caso Külekci c. Austria (Corte EDU, sentenza del 1.06.2017) riguarda un cittadino turco che aveva soggiornato regolarmente in Austria per gran parte della sua vita ma dalla quale, in seguito ad alcune condanne, veniva allontanato con un contestuale divieto di reingresso. Nonostante la sua giovane età, diciannove anni, le autorità interne giustificavano l’interferenza nel godimento del suo diritto al rispetto della vita familiare ritenendo prevalente l’interesse generale di prevenzione del crimine. Nel suo esame, la Corte Edu pone l’attenzione proprio sulla giovane età del ricorrente e se questo elemento possa o meno giocare un ruolo significativo nel bilanciamento di interessi tipico della giurisprudenza in materia di allontanamenti di stranieri lungo soggiornanti (Corte Edu, 6.6.2013, Uner c. Svizzera, in questa Rivista, XV, 2013, n. 2, p. 89). A tal fine, occorre verificare la natura e la serietà dei reati commessi dal minore poichè, anche a fronte dell’obbligo degli Stati parte di reintegrare il minore autore di reati in linea con il principio del best interests, la condanna per reati gravi a carattere violento può giustificare comunque l’allontanamento. Così, considerati il suo coinvolgimento in organizzazioni criminali, le varie condanne subite già in età adolescenziale, la possibilità di mantenere i suoi legami familiari dalla Turchia anche tramite mezzi informatici, nonchè la breve durata del divieto di reingresso (5 anni), la Corte Edu ritiene che il bilanciamento effettuato dalle autorità austriache nel caso del sig. Külekci risulta corretto. Pertanto, non vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu.

Seguendo un ragionamento analogo in merito al bilanciamento degli interessi in gioco, in Alam c. Danimarca (Corte EDU, decisione del 6.06.2017) la Corte ritiene inammissibile il ricorso di una cittadina pakistana, lungo soggiornante, che lamentava una violazione dell’art. 8 Cedu in caso di allontanamento nel suo Paese di origine come conseguenza, tra l’altro, di una condanna per omicidio. Per la Corte Edu, l’interferenza nel godimento del diritto al rispetto della vita familiare della ricorrente risulta giustificata dalla gravità dei reati commessi e dalla possibilità di ricollocazione in Pakistan. Tale conclusione non può essere messa in discussione dalla presenza di figli in Danimarca poichè, oltre a essere stati già affidati alla cure di un familiare, questi utimi raggiungeranno presto la maggiore età venendo meno il legame familiare protetto dall’art. 8 Cedu. Il ricorso è stato quindi rigettato come manifestamente infondato.

In Barnea e Caldararu c. Italia (Corte EDU, sentenza del 22.06.2017) i ricorrenti, dopo essersi installati in un campo Rom nei pressi di Torino, vedevano allontanata dalle autorità italiane la loro figlia minore per un periodo di oltre sette anni. Dopo aver dato la minore in affido, il Tribunale per i minorenni di Torino ne dichiarava lo stato di adottabilità non ritenendo possibile il rientro nel suo ambiente familiare per la presunta incapacità genitoriale dei ricorrenti. Ritenendo, invece, che ai ricorrenti non era stata data la possibilità di provare le loro capacità genitoriali e che la loro situazione era aggravata dallo stato di povertà, la Corte d’appello ordinanava l’avvio di un percorso di reintegrazione nella famiglia di origine con l’aiuto dei servizi sociali. Questi ultimi, opponendosi a tale decisione, avviavano un’ulteriore procedura dinanzi al Tribunale per i minorenni che congelava, di fatto, la situazione fino al rientro definitivo della minore in famiglia in uno stato di salute precario. La Corte Edu ricorda come, ai sensi dell’art. 8 Cedu, gli Stati parte siano obbligati a adottare in tempi rapidi tutte le misure necessarie per riunire un minore con la sua famiglia e a prevedere la separazione solo nelle situazioni più estreme, come in presenza di abusi (cfr. Corte Edu, 16.07.2015, Akinnibosun c. Italia, in questa Rivista¸ XVII, n. 3-4, 2015, p. 178). Nel caso dei ricorrenti, pur non essendo presenti tali gravi motivi, le autorità italiane non hanno tentato alcun percorso di reintegrazione della minore nel suo ambiente familiare prima di dichiararne lo stato di adottabilità. Tale posizione era erroneamente basata sulle privazioni materiali cui era soggetta nel campo Rom e, peraltro, contraria al parere degli esperti. Inoltre, nell’ostacolare il rientro in famiglia anche in seguito alla decisione della Corte d’appello, le autorià competenti hanno dimostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei sigg. Barnea e Caldararu e contribuito esse stesse a rafforzare il legame della minore con la famiglia affidataria. Ora, poichè tali nuovi legami non possono costituire una ragione eccezionale per mantenere separati un minore e la sua famiglia, nel caso dei ricorrenti vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu.

Art. 9: Libertà di religione
Con il caso Belcacemi e Oussar c. Belgio (Corte Edu, sentenza dell’11.07.2017), la Corte Edu torna a pronunciarsi su una lamentata violazione della libertà di religione per via del divieto di utilizzare in pubblico indumenti posti a copertura integrale del viso. Entrambe le ricorrenti sostenevano di indossare liberamente il cd. niqab e di essere sempre state disponibili a toglierlo per agevolare il loro riconoscimento. Per rispettare le nuove disposizioni, invece, erano costrette ad andare contro la loro religione oppure a limitare considerevolmente i loro movimenti in luoghi pubblici con pesanti conseguenze sulla loro vita privata e sociale. Tutti i ricorsi intentati contro la legge controversa risultavano inefficaci. Ravvisando un’interferenza nella libertà di religione delle ricorrenti, la Corte Edu verifica se essa sia giustificata ai sensi dell’art. 9, par. 2, Cedu e, in particolare, se sia volta a perseguire un obiettivo legittimo e risulti necessaria in una società democratica. A tal fine, la Corte ripropone i principi espressi nella giurisprudenza precedente (Corte Edu, Grande Camera, 1.07.2014, S.A.S. c. Francia, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154) per affermare che nell’imporre il divieto controverso il legislatore belga, al pari di quello francese, abbia voluto porre in essere le condizioni per lo sviluppo della vita sociale (il cd. “vivre ensemble”) quale elemento del più generale obiettivo della “protezione dei diritti e delle libertà altrui”. Quanto alla necessità della misura, la Corte richiama come di consueto l’ampio margine di apprezzamento di cui godono gli Stati parte in materia e la necessità che certe questioni trovino una soluzione attraverso il dibattito parlamentare interno ove, auspicabilmente, tutti i punti di vista vengono presi in considerazione. Pertanto, se è vero che possa in qualche modo fomentare l’intolleranza religiosa e abbia un effetto prevalente su una categoria specifica di persone alle quali appartengono le ricorrenti, la legge belga rappresenta la manifestazione di una precisa scelta della società interna sul modo di intendere le interazioni sociali. Tenuto anche conto dell’entità della pena nel caso di violazione del divieto, ritenuta proporzionale rispetto allo scopo perseguito, la Corte Edu conclude per la non violazione dell’art. 9 Cedu. Per le stesse ragioni, non vi è nemmeno una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, protetto all’art. 8 Cedu, o del divieto di discriminazione nel godimento dei diritti di cui agli artt. 8 e 9 Cedu poichè la misura controversa è giustificata da ragioni obiettive.

Medesime conclusioni sono raggiunte in Dakir c. Belgio (Corte Edu, sentenza dell’11.07.2017), relativo a una cittadina belga che lamentava una violazione degli stessi diritti a causa di una regolamentazione locale che aveva anticipato il divieto contenuto nella legge, sopra menzionata, poi adottata a livello statale e alla quale fa riferimento la Corte Edu nella sua valutazione del caso per ritenere che non vi è stata, in particolare, violazione dell’art. 9 Cedu.

Il caso Metodiev e altri c. Bulgaria (Corte EDU, sentenza del 15.06.2017) è relativo al rifiuto delle autorità bulgare di registrare un’associazione culturale, di cui il ricorrente era stato eletto presidente, promossa da un movimento religioso derivante dall’Islam sunnita. Alla base di tale rifiuto vi erano, da un lato, la necessità di evitare la diffusione in Bulgaria di una corrente dell’Islam non tradizionale e, dall’altro, le caratteristiche stesse del movimento ritenuto dalle autorità interne intollerante, contrario alla modernità e sostenitore della poligamia. Nell’esaminare la presunta violazione delle libertà di religione e di associazione, protette dagli artt. 9 e 11 Cedu, la Corte Edu ricorda come solamente ragioni imperative possono giustificare la restrizione della libertà di associazione, specialmente quando è in gioco l’autonomia delle comunità religiose quale nucleo essenziale della stessa libertà di religione. Nel caso del ricorrente, la Corte non ritiene che esistessero tale ordine di ragioni poichè l’ingerenza subita a causa della mancata registrazione, seppur prevista dalla legge, non risulta necessaria in una società democratica, definita come quella società in cui uno Stato, quale attore neutro e imparziale, non adotta misure volte a difendere una corrente religiosa ritenuta maggioritaria. Considerando anche le carenze dell’iter di registrazione sfavorevoli al ricorrente, la Corte Edu ritiene che vi è stata una violazione dell’art. 9 Cedu, interpretato in conformità alla libertà di associazione.

Art. 10: Libertà di espressione
Il caso Belkacem c. Belgio (Corte EDU, decisione del 20.07.2017) riguarda la violazione della libertà di espressione, protetta dall’art. 10 Cedu, lamentata dal portavoce dell’organizzazione Sharia4Belgium in seguito alle infrazioni comminategli per aver diffuso video via internet inneggianti alla jihad e alla presa di Bruxelles e dei non credenti da parte dei moudjahidines. Tenuto conto della particolare aggressività manifestata nei video, le autorità interne decidevano infatti di sanzionare il ricorrente per incitamento alla discriminazione, alla segregazione, all’odio e alla violenza non solo contro i non musulmani ma anche contro coloro che, pur aderenti all’Islam, desiderano professare la loro religione in modo pacifico. La Corte Edu ricorda come la libertà di espressione costituisca un aspetto essenziale di ogni società democratica e, per tale ragione, ogni interferenza risulta difficilmente giustificabile. Tuttavia secondo la Corte, in virtù dell’art. 17 Cedu, per cui nessun diritto protetto dalla Cedu può essere utilizzato per compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella stessa Convenzione, il ricorrente non può utilizzare la sua libertà di espressione per lanciare attacchi generalizzati contro i valori di tolleranza, di pace sociale e di non discriminazione su cui si fonda la Cedu. Pertanto, il ricorso del sig. Belkacem è stato rigettato dalla Corte come incompatibile ratione materiae.

In Boudelal c. Francia (Corte EDU, decisione del 6.07.2017) un cittadino algerino lamentava la violazione della libertà di espressione per via del rigetto della sua richiesta volta a riottenere la cittadinanza francese basato, a suo avviso, su ragioni legate al coinvolgimento in un movimento vicino al radicalismo religioso. Ribadendo che ogni Stato parte è libero di stabilire i criteri per la concessione della cittadinanza, la Corte Edu non ritiene che il ricorrente sia stato punito per aver esercitato la sua libertà di espressione manifestando particolari posizioni politiche o religiose o che, in conseguenza del rigetto della sua domanda, ha dovuto rinunciare a esprimere le sue opinioni o a partecipare alle associazioni di cui condivide i fini. Al contrario, il rigetto della sua domanda riguarda un criterio che non è stato soddisfatto dal ricorrente, ossia la lealtà nei confronti dello Stato francese e della relativa Costituzione. Pertanto, non trovando applicazione l’art. 10, così come le libertà di religione o di associazione pur richiamate dal sig. Boudelal, il ricorso è stato ritenuto inamissibile.

La rassegna relativa agli artt. 2-5 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 8-10 è di C. Danisi.

Sito realizzato con il contributo della Fondazione "Carlo Maria Verardi"

© 2017-2023 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza. Tutti i diritti riservati. ISSN 1972-4799
via delle Pandette 35, 50127 Firenze

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.