In S.G. c. Grecia (Corte EDU, sentenza del 18.05.2017) la Corte Edu è chiamata a pronunciarsi ancora una volta sulla presunta violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti subita da un richiedente asilo iraniano a causa delle carenze generali del sistema di asilo greco. Il sig. S.G. dichiarava, da un lato, di non aver visto prontamente registrata la sua domanda di protezione correndo il rischio di essere rinviato indirettamente in Iran attraverso la Turchia e, dall’altro, di essere stato costretto a vivere in condizioni degradanti in attesa che il ricorso contro il rigetto della sua domanda venisse esaminato nonostante le richieste di sostegno presentate alle autorità greche. Rigettando come manifestamente infondate le parti del ricorso relative al rischio di refoulement, poichè il ricorrente ha infine ottenuto lo status di rifugiato nel Regno Unito, la Corte Edu concentra il suo esame sulla compatibilità con l’art. 3 Cedu delle condizioni di vita del ricorrente dopo la fine del periodo di trattenimento (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 21.01.2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, in questa Rivista, XIII, n. 2, 2011, p. 111). Proprio tenendo conto che il Ministero competente non aveva risposto alla richiesta di alloggio e supporto finanziario presentata formalmente dal ricorrente e che le autorità greche erano comunque a conoscenza della sua condizione di estrema precarietà, aggravata dall’impossibilità di accedere al mercato del lavoro, la Corte Edu ritiene che il sig. S.G. ha subito un trattamento degradante per via delle privazioni materiali cui è stato costretto quantomeno dal momento della presentazione della domanda di supporto alla data in cui si è recato nel Regno Unito. Vi è quindi stata una violazione dell’art. 3 Cedu.
Il caso E.T. e N.T. v. Svizzera e Italia (Corte EDU, decisione del 22.06.2017) riguarda due cittadini eritrei (madre e figlio) che lamentavano l’eventuale violazione dell’art. 3 in caso di rinvio in Italia, dove la prima ricorrente aveva ottenuto lo status di rifugiata, a causa delle carenze del sistema di accoglienza. La Corte Edu nota come, diversamente dai casi esaminati in precedenza (Corte Edu, Grande Camera, 4.11.2014, Tarakhel c. Svizzera, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154), la prima ricorrente ha già ottenuto la protezione richiesta e che l’art. 3 Cedu non obbliga gli Stati parte a garantire uno specifico standard di vita ai rifugiati, salvo i casi in cui un rifugiato dipenda totalmente dall’aiuto statale. Considerato che in Italia coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiato possono accedere al mercato del lavoro e a misure di assistenza sociale, che il Governo italiano ha fornito garanzie sul collocamento dei ricorrenti in una struttura SPRAR dedicata a madri con minori e che le autorità svizzere organizzerebbero il trasferimento in stretto coordinamento con le controparti italiane e in modo appropriato all’età del minore e all’esigenza di mantenere unito il loro nucleo familiare, la Corte ritiene che le eventuali sofferenze che i ricorrenti potrebbero comunque subire non raggiungono un livello di severità tale da rientrare tra i trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu. Pertanto, il ricorso è stato rigettato per manifesta infondatezza.
In linea con la giurisprudenza precedente (Corte Edu, 12.01.2016, A.G.R. c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVIII, n. 1, 2017), la Corte Edu ha ritenuto inammissibili una serie di ricorsi contro i Paesi Bassi avanzati da cittadini afghani che rischiavano l’allontanamento in seguito all’applicazione della causa di esclusione prevista all’art. 1F della Convenzione sullo status di rifugiato (M.M. e altri c. Paesi Bassi, decisione dell’8.06.2017; E.K. c. Paesi Bassi, E.P. e A.R. c. Paesi Bassi, G.R.S. c. Paesi Bassi, Soleimankheel e altri c. Paesi Bassi, decisioni del 3.08.2017). Per le autorità olandesi i ricorrenti risultavano, a vario titolo, coinvolti nelle gravi violazioni dei diritti umani commesse dal regime comunista afghano. La Corte Edu osserva, da un lato, come tutti i ricorrenti fossero rimasti in Afghanistan dopo la caduta del regime comunista senza correre alcun rischio di persecuzione e, dall’altro, che l’UNCHR non include coloro che avevano collaborato con quel governo tra i gruppi tuttora vulnerabili in Afghanistan. Ora, poichè non esiste in quel Paese neppure una situazione di violenza generale tale da subire, per il fatto stesso di ritornare a viverci, un trattamento vietato dall’art. 3 Cedu e che, in considerazione della particolare gravità dei crimini commessi, i ricorrenti che lamentavano anche un’eventuale violazione del diritto al rispetto della vita familiare non possono comunque utilizzare il diritto di cui all’art. 8 Cedu per ottenere protezione (cfr le linee guida dell’UNHCR: Guidelines on International Protection No. 5: Application of the Exclusion Clauses: Article 1F of the 1951 Convention relating to the Status of Refugees, 2003), tutti i ricorsi sono stati rigettati come manifestamente infondati.
Seguendo un ragionamento analogo in merito al bilanciamento degli interessi in gioco, in Alam c. Danimarca (Corte EDU, decisione del 6.06.2017) la Corte ritiene inammissibile il ricorso di una cittadina pakistana, lungo soggiornante, che lamentava una violazione dell’art. 8 Cedu in caso di allontanamento nel suo Paese di origine come conseguenza, tra l’altro, di una condanna per omicidio. Per la Corte Edu, l’interferenza nel godimento del diritto al rispetto della vita familiare della ricorrente risulta giustificata dalla gravità dei reati commessi e dalla possibilità di ricollocazione in Pakistan. Tale conclusione non può essere messa in discussione dalla presenza di figli in Danimarca poichè, oltre a essere stati già affidati alla cure di un familiare, questi utimi raggiungeranno presto la maggiore età venendo meno il legame familiare protetto dall’art. 8 Cedu. Il ricorso è stato quindi rigettato come manifestamente infondato.
In Barnea e Caldararu c. Italia (Corte EDU, sentenza del 22.06.2017) i ricorrenti, dopo essersi installati in un campo Rom nei pressi di Torino, vedevano allontanata dalle autorità italiane la loro figlia minore per un periodo di oltre sette anni. Dopo aver dato la minore in affido, il Tribunale per i minorenni di Torino ne dichiarava lo stato di adottabilità non ritenendo possibile il rientro nel suo ambiente familiare per la presunta incapacità genitoriale dei ricorrenti. Ritenendo, invece, che ai ricorrenti non era stata data la possibilità di provare le loro capacità genitoriali e che la loro situazione era aggravata dallo stato di povertà, la Corte d’appello ordinanava l’avvio di un percorso di reintegrazione nella famiglia di origine con l’aiuto dei servizi sociali. Questi ultimi, opponendosi a tale decisione, avviavano un’ulteriore procedura dinanzi al Tribunale per i minorenni che congelava, di fatto, la situazione fino al rientro definitivo della minore in famiglia in uno stato di salute precario. La Corte Edu ricorda come, ai sensi dell’art. 8 Cedu, gli Stati parte siano obbligati a adottare in tempi rapidi tutte le misure necessarie per riunire un minore con la sua famiglia e a prevedere la separazione solo nelle situazioni più estreme, come in presenza di abusi (cfr. Corte Edu, 16.07.2015, Akinnibosun c. Italia, in questa Rivista¸ XVII, n. 3-4, 2015, p. 178). Nel caso dei ricorrenti, pur non essendo presenti tali gravi motivi, le autorità italiane non hanno tentato alcun percorso di reintegrazione della minore nel suo ambiente familiare prima di dichiararne lo stato di adottabilità. Tale posizione era erroneamente basata sulle privazioni materiali cui era soggetta nel campo Rom e, peraltro, contraria al parere degli esperti. Inoltre, nell’ostacolare il rientro in famiglia anche in seguito alla decisione della Corte d’appello, le autorià competenti hanno dimostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei sigg. Barnea e Caldararu e contribuito esse stesse a rafforzare il legame della minore con la famiglia affidataria. Ora, poichè tali nuovi legami non possono costituire una ragione eccezionale per mantenere separati un minore e la sua famiglia, nel caso dei ricorrenti vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu.
Medesime conclusioni sono raggiunte in Dakir c. Belgio (Corte Edu, sentenza dell’11.07.2017), relativo a una cittadina belga che lamentava una violazione degli stessi diritti a causa di una regolamentazione locale che aveva anticipato il divieto contenuto nella legge, sopra menzionata, poi adottata a livello statale e alla quale fa riferimento la Corte Edu nella sua valutazione del caso per ritenere che non vi è stata, in particolare, violazione dell’art. 9 Cedu.
Il caso Metodiev e altri c. Bulgaria (Corte EDU, sentenza del 15.06.2017) è relativo al rifiuto delle autorità bulgare di registrare un’associazione culturale, di cui il ricorrente era stato eletto presidente, promossa da un movimento religioso derivante dall’Islam sunnita. Alla base di tale rifiuto vi erano, da un lato, la necessità di evitare la diffusione in Bulgaria di una corrente dell’Islam non tradizionale e, dall’altro, le caratteristiche stesse del movimento ritenuto dalle autorità interne intollerante, contrario alla modernità e sostenitore della poligamia. Nell’esaminare la presunta violazione delle libertà di religione e di associazione, protette dagli artt. 9 e 11 Cedu, la Corte Edu ricorda come solamente ragioni imperative possono giustificare la restrizione della libertà di associazione, specialmente quando è in gioco l’autonomia delle comunità religiose quale nucleo essenziale della stessa libertà di religione. Nel caso del ricorrente, la Corte non ritiene che esistessero tale ordine di ragioni poichè l’ingerenza subita a causa della mancata registrazione, seppur prevista dalla legge, non risulta necessaria in una società democratica, definita come quella società in cui uno Stato, quale attore neutro e imparziale, non adotta misure volte a difendere una corrente religiosa ritenuta maggioritaria. Considerando anche le carenze dell’iter di registrazione sfavorevoli al ricorrente, la Corte Edu ritiene che vi è stata una violazione dell’art. 9 Cedu, interpretato in conformità alla libertà di associazione.
In Boudelal c. Francia (Corte EDU, decisione del 6.07.2017) un cittadino algerino lamentava la violazione della libertà di espressione per via del rigetto della sua richiesta volta a riottenere la cittadinanza francese basato, a suo avviso, su ragioni legate al coinvolgimento in un movimento vicino al radicalismo religioso. Ribadendo che ogni Stato parte è libero di stabilire i criteri per la concessione della cittadinanza, la Corte Edu non ritiene che il ricorrente sia stato punito per aver esercitato la sua libertà di espressione manifestando particolari posizioni politiche o religiose o che, in conseguenza del rigetto della sua domanda, ha dovuto rinunciare a esprimere le sue opinioni o a partecipare alle associazioni di cui condivide i fini. Al contrario, il rigetto della sua domanda riguarda un criterio che non è stato soddisfatto dal ricorrente, ossia la lealtà nei confronti dello Stato francese e della relativa Costituzione. Pertanto, non trovando applicazione l’art. 10, così come le libertà di religione o di associazione pur richiamate dal sig. Boudelal, il ricorso è stato ritenuto inamissibile.
La rassegna relativa agli artt. 2-5 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 8-10 è di C. Danisi.