Nel periodo qui considerato, maggio-agosto 2017, (nonché in alcune sentenze risalenti ad aprile) emerge soprattutto un discreto numero di decisioni in tema di acquisto della cittadinanza italiana per naturalizzazione alle quali si affiancano talune pronunce che confermano il consolidato orientamento sull’acquisto della cittadinanza per filiazione così come quello all’acquisto c.d. per elezione e all’apolidia.
Acquisto della cittadinanza per filiazione.
Non accennano a diminuire le domande di accertamento della cittadinanza italiana per filiazione da parte dei discendenti di cittadini italiani emigrati all’estero, a volte addirittura due secoli orsono. L’effetto retroattivo dell’intreccio tra le due (ormai ben note) sentenze costituzionali 16.4.1975 n. 87 e 9.2. 1983 n. 30, interpretate alla luce di quella della Corte di Cassazione a sezioni unite 25.2.2009 n. 4466, comporta il riconoscimento della cittadinanza italiana ai discendenti di cittadine le quali avevano perso il loro status civitatis originario a seguito dell’acquisto di una cittadinanza straniera per matrimonio.
Dai fatti posti alla base di Trib. Roma, sent. 5.7.2017 n. 13659 (in Banca dati De Jure) risulta che la “catena di trasmissione” della cittadinanza era avvenuta per linea maschile dalla fine del 1800 sino al 1974, anno nel quale una discendente aveva contratto matrimonio con un cittadino straniero. Inevitabile dunque l’accoglimento delle domande, rilevando che «il diritto di cittadinanza in quanto status permanente ed imprescrittibile, salva l'estinzione per effetto di rinuncia da parte del richiedente, è giustiziabile in ogni tempo (anche in caso di pregressa morte dell'ascendente o del genitore dai quali deriva il riconoscimento) per l'effetto perdurante anche dopo l'entrata in vigore della Costituzione dell'illegittima privazione dovuta alla norma discriminatoria dichiarata incostituzionale». Occorre inoltre rilevare che gli attori lamentavano altresì il silenzio, protrattosi per due anni, da parte del Consolato italiano a San Paolo del Brasile ai fini di ottenere tale riconoscimento per via amministrativa. È noto del resto che tale Consolato è sommerso di domande di tal genere, anche se tale situazione non ha impedito in passato ai giudici amministrativi di comminare ad esso una messa in mora riguardo al rilascio dei documenti necessari a comprovare la “catena” suddetta.
Acquisto della cittadinanza "per elezione".
In tema di acquisto volontario della cittadinanza italiana a favore dei cittadini stranieri o apolidi nati e residenti «legalmente» e ininterrottamente in Italia sino al compimento della maggiore età, previsto dall’art. 4, co. 2., l. n. 91/92 e successivamente modificato dall’art. 33 della l. n. 98/2013, è intervenuta
Cass., sent. 17.5.2017 n. 12380. Il ricorso traeva origine dal rigetto, nei due precedenti gradi di giudizio, di una domanda di accertamento della cittadinanza italiana, esclusivamente motivato su una risalente
sottoscrizione (ovvero, iscrizione) della residenza all’estero ad opera del padre della ricorrente, malgrado numerosi documenti attestassero la presenza della famiglia, ivi compresa la figlia sin dalla nascita, in Italia nel periodo utile per il successivo riconoscimento della cittadinanza italiana. Nell’accogliere il suddetto ricorso e confermando il principio della residenza effettiva già largamente applicato dalla giurisprudenza di merito, la Suprema Corte ha così ricostruito la portata dell’art. 4: «La condizione dettata dalla norma relativa alla residenza in Italia fino al raggiungimento del diciottesimo anno di età deve essere interpretata, coerentemente con quanto ritenuto dalla dottrina pressoché unanime, con specifico riferimento all'avverbio "legalmente", come permanenza in Italia non clandestina ovvero in violazione delle norme che regolano l'ingresso, la circolazione e il soggiorno dei cittadini stranieri. L'affacciarsi del fenomeno della migrazione al momento dell'entrata in vigore della legge sulla cittadinanza ha dettato l'esigenza di qualificare come "legale" la condizione costituita dall'ininterrotta residenza, utilizzando un termine del tutto eterogeneo rispetto alla qualificazione normativa della residenza desumibile dall'art. 43 c.c. o dalle norme processuali sulle notificazioni degli atti. Secondo l'art. 43 la residenza è il luogo della dimora abituale. Ugualmente, la definizione giuridica di residenza, mutuabile dalle disposizioni processuali sulla notificazione degli atti giudiziari (artt. 138 e ss. codice di rito), si fonda sul criterio dell'effettività, da ritenersi prevalente ove provata sulla residenza anagrafica. (Cass., n. 2814 del 2000; n. 5726 del 2002). Peraltro, come esattamente sottolineato nel ricorso, nelle circolari esplicative, dettate dal Ministero dell'interno, ed in particolare nella circolare n. 22 del 2007,
ratione temporis applicabile, viene espressamente precisato che l'eventuale iscrizione anagrafica tardiva del minore non può pregiudicare l'acquisto della cittadinanza italiana quando vi sia in concreto la residenza effettiva. L'incidenza quantitativa del fenomeno dell'errore, a danno dei requisiti dell'acquisto della cittadinanza da parte del minore nato da genitori stranieri e residente in Italia dalla nascita, si è rivelata così frequente da richiedere l'intervento del legislatore. Il d.l. n. 69/2013, art. 33, conv. con modif. dalla l. n. 98/2013, rivolto proprio alla "semplificazione del procedimento per l'acquisto della cittadinanza per lo straniero nato in Italia" prevede espressamente che: Ai fini di cui all'art. 4, co. 2, l. 5.2.1992, n. 91, all'interessato non sono imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della Pubblica Amministrazione, ed egli può dimostrare il possesso dei requisiti con ogni altra idonea documentazione».
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione.
Come di consueto, anche le pronunce qui considerate non possono che soffermarsi sull’ampiezza della discrezionalità, attribuita da questo modo di acquisto della cittadinanza, previsto dall’art. 9, co.,1 lett. f) della l. n. 91/92, alla valutazione della Pubblica Amministrazione nonché sul grado di trasparenza dei motivi di rigetto delle relative domande.
A proposito di quest’ultima merita di essere richiamata (anche se anteriore al periodo qui considerato) la vicenda sottostante a
Tar Lazio, sez. II, sent. 10.4.2017 n. 4416, anche perché da essa risulta che il Ministero dell’interno, dapprima restio a produrre la documentazione relativa al rifiuto della cittadinanza giustificato da motivi inerenti alla sicurezza dello Stato, aveva poi adempiuto a tale obbligo dietro una seconda sollecitazione da parte dei giudici. La correttezza di tale rifiuto viene avvalorata dal Tribunale unitamente alle “cautele” con le quali la documentazione è stata versata in atti, a causa della natura riservata di quest’ultima in relazione alle posizioni di «radicalismo islamico anti-occidentale» evidenziate dagli «organismi preposti ai servizi di sicurezza dello Stato». Infatti, sulla attendibilità delle notizie da essi comunicate «non è dato ragionevolmente dubitare, sia perché come detto provengono dagli organi specificamente preparati e adibiti alle indagini della specie sia perché alcun certo e sicuro elemento contrario è stato prodotto dalla parte in proposito. Non può dunque essere ravvisato alcun vizio nell'operato degli uffici istruttori né da parte del Ministero, atteso che quest'ultimo, nel respingere l'istanza per il rilascio della cittadinanza italiana, ha fondato il suo giudizio negativo su quelle attività di indagine ed ha prestato fede alla loro provenienza istituzionale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 28 novembre 2011 n. 6289) né sarebbe stata opportuna l'esternazione di maggiori dettagli. Si può richiamare in proposito su questi temi la giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato (cfr., tra le tante, Sez. VI, 3 ottobre 2007, n. 5103 e 19 luglio 2005, n. 3841) ad avviso della quale il provvedimento di diniego non deve necessariamente riportare le notizie che potrebbero in qualche modo compromettere l'attività preventiva o di controllo da parte degli organi a ciò preposti, essendo sufficiente l'indicazione delle ragioni del diniego senza dover indicare tutte le valutazioni interne che hanno condotto al giudizio sfavorevole dell'amministrazione. La Sezione ha già affermato anche il principio di diritto, per cui, nei casi in cui il diniego di cittadinanza è fondato su ragioni inerenti la sicurezza della Repubblica, il provvedimento di diniego è sufficientemente motivato, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, quando consente di comprendere l'
iter logico seguito dall'amministrazione nell'adozione dell'atto, non essendo necessario che vengano espressamente indicate tutte le fonti ed i fatti accertati sulla base dei quali è stato reso il parere negativo (Tar Lazio II quater, 3 marzo 2014, n. 2453). Gli accertamenti sulla sicurezza pubblica sono, infatti, naturalmente riservati e quando non sono posti a base di misure limitative della libertà o di altri diritti costituzionalmente garantiti ma danno luogo alla formulazione di una valutazione riferibile al potere sovrano dello Stato di ampliare il numero dei propri cittadini (e che può essere risollecitata dopo cinque anni dall'emanazione del diniego, ai sensi dell'art. 8, comma 1, della legge n. 91 del 1992), ben possono essere esternati con formule sintetiche che, piuttosto che configurarsi meramente apodittiche, hanno l'obiettivo di evitare il disvelamento di notizie che potrebbero compromettere anche solo attività di
intelligence in corso».
La maggior parte delle decisioni di questa Rassegna affronta tuttavia il problema relativo all’incidenza di sentenze o di procedimenti penali a carico del richiedente giungendo a soluzioni interpretative piuttosto restrittive.
La premessa di tali decisioni è sempre costituita dalla ben nota motivazione secondo cui «l'amplissima discrezionalità dell'Amministrazione in questo procedimento si esplica in un potere valutativo che si traduce in un apprezzamento di opportunità circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulla base di un complesso di circostanze, atte a dimostrare l'integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta (Cons. Stato sez. VI n. 5913 del 9.11.2011; id. n. 52 del 10.1.2011; n. 282 del 26.1.2010; T.a.r. Lazio sez. II quater n. 3547 del 18.4.2012)”. Inoltre, “trattandosi di esercizio di potere discrezionale da parte dell'amministrazione, il sindacato sulla valutazione compiuta dall'Amministrazione non può che essere di natura estrinseca e formale; non può spingersi, quindi, al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole (Cons. Stato sez. VI 9.11.2011, n. 5913; T.a.r. Lazio II quater n. 5665 del 19.6.2012)». Così si esprime
Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 13.4.2017 n. 4552 sia pure in un caso che evidenziava due risalenti condanne per guida in stato di ebbrezza; in ogni caso, sulla motivazione del rigetto concernente “la scarsa affidabilità” del richiedente deve avere certamente influito “la mancata dichiarazione sulla sussistenza di tali condanne nella domanda di concessione della cittadinanza italiana, che integra il reato di falso”.
Negli stessi termini relativi alla discrezionalità della Pubblica Amministrazione e al rilievo dei comportamenti penalmente rilevanti si è pronunciato successivamente
Tar Lazio, sez. I ter, sent. 6.6.2017, n. 6649 (rispetto al quale vale forse la pena di sottolineare che il ricorso era stato presentato nel 2005), a fronte di una serie di denunce per lesioni volontarie e di condanna per furti a danno della moglie, sia pure risalenti agli anni Novanta.
Meritano poi di essere poste in evidenza due decisioni del Consiglio di Stato che hanno valutato il ruolo dell’istituto della riabilitazione nella prospettiva in esame. Nella prima,
Cons. di Stato, sez. III, sent. 5.5.2017 n. 2082, lo straniero appellante deduceva l’illegittimità del provvedimento di diniego della cittadinanza da parte della Pubblica Amministrazione convalidato dal Tar Lazio; tale provvedimento era fondato su una sola condanna penale inflitta nel 2008 dal giudice di pace per condotte risalenti ad epoca ancora precedente, senza considerare, sempre ad avviso dell’appellante, gli altri elementi positivi di integrazione sociale (lunga permanenza in Italia, adeguata capacità lavorativa, presenza di figli nati in Italia); era altresì pendente un procedimento per la riabilitazione. Secondo il Consiglio di Stato questi argomenti tuttavia non reggono di fronte al comportamento del richiedente, il quale, alla luce del provvedimento del Ministero, «all'atto di presentazione dell'istanza, ha autocertificato di non aver mai subito condanne penali, condotta che potrebbe andare a configurare una ulteriore ipotesi di reato». Questa omissione «ha indotto l'autorità amministrativa a ritenere inaffidabile il comportamento del richiedente ai fini del riconoscimento della cittadinanza, con una valutazione che appare logica, coerente ed espressiva di un corretto esercizio del potere ampiamente discrezionale, comunque, da parte del Ministero dell'Interno nel riconoscere o meno la cittadinanza». Dunque, la lunga permanenza in Italia, la stabile occupazione lavorativa e la presenza di figli nati in Italia «sono apparsi all'Amministrazione e appaiono, in questa sede, del tutto recessivi. Rientra, infatti, nella insindacabile discrezionalità del Ministero dell'Interno ritenere che il richiedente possa essere accolto nella comunità italiana (Cons. Stato, Sez. I, 4.5.1966, n. 914), con la concessione della cittadinanza, solo se non risultino la sua pericolosità ed il suo coinvolgimento in vicende aventi rilevanza penale (cfr.,
ex plurimis, Cons. St., sez. III, 25.8.2016, n. 3696; Cons. St., Sez. III, 28.11.2011, n. 6289; Cons. St., sez. I, 14.1.2004, n. 5267), soprattutto quando esse si caratterizzino di per sé per l'obiettiva gravità delle accuse, come nel caso di specie, relative comunque a fatti di violenza contro la persona». Né può assumere rilievo la riabilitazione dell’interessato, ottenuta «sul presupposto delle prove effettive e costanti di buona condotta», in ragione ancora della mancata menzione della precedente condanna penale.
Come si è anticipato, gli effetti della riabilitazione sono stati analizzati anche da
Cons. di Stato, sez. III, sent. 20.6.2017 n. 2997. Si tratta di una decisione alquanto sintetica, dato che le parti non avevano sollevato obiezioni di fronte alla prospettata possibilità di definire il giudizio mediante sentenza in forma semplificata. Pure in questa occasione il Consiglio di Stato respinge il ricorso di una cittadina straniera e conferma la precedente decisione del Tar Lazio e perciò la validità del provvedimento ministeriale di diniego di cittadinanza. Dopo aver semplicemente ricordato «il pacifico orientamento che riconosce all'Amministrazione amplissima discrezionalità nell'esame delle domande di concessione della cittadinanza italiana», è stato ritenuto che «tale discrezionalità è stata, nella specie, esercitata legittimamente atteso che l'esistenza dei precedenti penali, gli ultimi dei quali risalgono a data recente, imputati all'appellante non è contestata, e la riabilitazione, intervenuta successivamente all'adozione del provvedimento impugnato, potrà, a tutto voler concedere, essere presa in considerazione qualora l'appellante apra un nuovo procedimento volto alla concessione della cittadinanza italiana ma non inficia la legittimità del provvedimento oggetto del presente giudizio».
Accertamento dell’apolidia.
I requisiti attinenti alla dichiarazione dello status di apolide sono stati ancora una volta affrontati da Trib. Roma, sent. 1.6.2017, n. 11197 (in Banca dati De Jure) riguardo ad un individuo non riconosciuto come proprio cittadino né dalla Serbia, Stato nel quale si trovava la città di origine della madre che a sua volta però non risultava iscritta all'anagrafe, né dall'Italia, Stato di nascita. Il Tribunale ha affermato anzitutto la propria giurisdizione, richiamando l’orientamento consolidato secondo cui «appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario il giudizio contenzioso instaurato con la domanda volta ad ottenere l'accertamento dello status di apolide di cui alla convenzione di New York del 28/9/1954 ed all'art. 17 del d.p.r. 12/10/1993 n. 572, trattandosi di un procedimento sullo stato e capacità delle persone, attribuito in via esclusiva al Tribunale dall'art. 9 c.p.c., nonché relativo ad un diritto civile e politico, la cui tutela è sempre ammessa ex art. 113 Cost. davanti al giudice ordinario (cfr. Cass. Sez. Un., n. 28873/08)». Altrettanto consolidato nella prassi giurisprudenziale risulta, da un lato, il richiamo dell’art. 1 della suddetta Convenzione (resa esecutiva con l. 1° febbraio 1962, n. 306), secondo cui deve considerarsi apolide la persona che nessuno Stato, sulla base del proprio ordinamento giuridico, considera come suo cittadino; dall’altro – e soprattutto – il costante indirizzo dei giudici di legittimità e di merito in base al quale, ai fini della prova dello status di apolide, non è necessario che l'individuo fornisca la prova che nessuno Stato lo consideri suo cittadino (prova definita "diabolica"). Ampliando tale orientamento i giudici negano per di più la necessità di dimostrare, con riferimento alla normativa attualmente in vigore nei paesi con cui l’interessato dichiara di avere legami di appartenenza, di non essere in possesso e di non poter acquistare la cittadinanza dì quegli Stati: si introdurrebbe altrimenti, a loro avviso, «un regime probatorio particolarmente gravoso per una persona che non ha più legami con il paese di origine. In sostanza, proprio in ragione delle tipologie di procedimenti concernenti l'accertamento di status personali per il riconoscimento di diritti civili e politici (come quello in oggetto), il regime probatorio richiesto non deve essere particolarmente gravoso ed oneroso, si da poter rendere più agevole ed accessibile lo strumento di tutela». Nel caso di specie, è stata esclusa la cittadinanza serba del ricorrente in seguito all’esame dell’art. 6 della legge del relativo Stato concernente appunto tale cittadinanza, in quanto non sussisteva nessuna delle condizioni ivi indicate, soprattutto quella dell’acquisto per origine, ovvero per filiazione, a causa della mancata iscrizione anagrafica della madre nei relativi registri e risultando il padre ignoto. Piuttosto inusuale appare invece l’ulteriore verifica, che il Tribunale ha ritenuto di condurre prima della dichiarazione di apolidia, sull’assenza di precedenti penali in capo all’interessato; ed appare oscuro il richiamo dell'art. 12 della Convenzione di New York. Questa norma si riferisce infatti allo statuto giuridico dell’apolide e si limita a prescrivere che esso è regolato dalla legge del domicilio o, in mancanza, della residenza aggiungendo che i relativi diritti saranno riconosciuti una volta rispettate le formalità prescritte dallo Stato locale e alle medesime condizioni previste per i cittadini stranieri.