Rapporto tra titolo di soggiorno rilasciato da uno Stato Schengen e decisione di rimpatrio adottata da altro Stato contraente
Nel caso E (CGUE, 16.1.2018, C-240/17) la Corte di giustizia dell’Unione europea è stata chiamata a interpretare l’art. 25, par. 2, della Convenzione d’applicazione dell’accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i governi degli Stati dell’Unione economica del Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese
relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, firmata a Schengen il 19 giugno 1990 ed entrata in vigore il 26 marzo 1995 (di seguito CAAS). La norma stabilisce quanto segue: «qualora risulti che uno straniero titolare di un titolo di soggiorno in corso di validità rilasciato da una delle Parti contraenti è segnalato ai fini della non ammissione, la Parte contraente che ha effettuato la segnalazione consulta la Parte che ha rilasciato il titolo di soggiorno per stabilire se vi sono motivi sufficienti per ritirare il titolo stesso. Se il documento di soggiorno non viene ritirato, la Parte contraente che ha effettuato la segnalazione procede al ritiro di quest’ultima, ma può tuttavia iscrivere lo straniero nel proprio elenco nazionale delle persone segnalate». Il caso riguarda E, cittadino nigeriano beneficiario di un titolo di soggiorno in Spagna che veniva condannato a cinque anni di reclusione in Finlandia. Nonostante il titolo di soggiorno rilasciato dalle autorità spagnole fosse ancora valido nello spazio Schengen, l’ufficio competente finlandese disponeva che E fosse rimpatriato a causa di ragioni di ordine pubblico e sicurezza nazionale; inoltre, tale decisione era accompagnata da un divieto di ingresso di E nello spazio Schengen. A questo punto, l’Ufficio finlandese contattava le autorità spagnole per avviare la consultazione di cui all’art. 25, par. 2, CAAS: l’obiettivo della consultazione era indurre la Spagna a prendere una decisione definitiva sul mantenimento o il ritiro del titolo di soggiorno di E, ancora in corso. Poiché le autorità spagnole non rispondevano, il giudice finlandese adito da E si rivolgeva alla Corte sollevando alcune problematiche relative all’interpretazione della disposizione richiamata. La Corte precisa innanzitutto quando sorge l’obbligo di avviare la consultazione, affermando che esso scatta solo dopo la decisione di rimpatrio; prima, invece, lo Stato che si accinge a decidere sul rimpatrio dell’interessato ha la facoltà di consultare lo Stato che ha rilasciato il titolo di soggiorno, potendo comunque procedere altrimenti. In aggiunta, la Corte chiarisce che l’interessato può invocare dinanzi al giudice nazionale gli effetti giuridici derivanti dalla procedura di consultazione dell’art. 25, par. 2, CAAS, disposizione chiara, precisa e incondizionata, suscettibile di incidere notevolmente sui diritti e gli interessi della persona. Si pone poi il problema più controverso, vale a dire quello degli effetti giuridici derivanti dalla mancata risposta dello Stato consultato. Sul punto, la Corte conferma che di norma è possibile disporre il rimpatrio e il divieto di ingresso dello straniero titolare di un permesso di soggiorno rilasciato da altro Stato membro, qualora lo Stato autore della segnalazione faccia valere la sussistenza di una minaccia per l’ordine pubblico o per la sicurezza nazionale, valutazione che deve essere fatta caso per caso dal giudice nazionale. Il soggetto che subisce la decisione potrà fare valere i diritti derivanti dal proprio titolo di soggiorno recandosi successivamente nel territorio del secondo Stato contraente: ciò in virtù dell’art. 6, par. 2, dir. 2008/115, dal momento che l’art. 23 CAAS è sostituito dalle disposizioni applicabili della direttiva rimpatri. Tuttavia, se lo Stato consultato non risponde in un arco di tempo ragionevole, «spetta allo Stato contraente autore della segnalazione procedere al ritiro della segnalazione di non ammissione inserendo, eventualmente, il cittadino medesimo nel proprio elenco nazionale di segnalazione». Tra l’altro, la Corte aggiunge che una simile inerzia da parte dello Stato che ha rilasciato il titolo di soggiorno, nella fattispecie la Spagna, contrasta con il principio di leale cooperazione ex art. 4, par. 3, TUE.
Estradizione di cittadino UE verso Stato terzo decisa da parte di uno Stato membro diverso da quello di cittadinanza
La Corte si è occupata anche dell’estradizione di un cittadino europeo verso uno Stato terzo nel caso Pisciotti (CGUE, 10.4.2018, C-191/16). Per il Sig. Pisciotti, cittadino italiano, gli Stati Uniti avevano richiesto l’estradizione. Il Sig. Pisciotti veniva però arrestato dalla polizia tedesca mentre si trovava all’aeroporto di Francoforte ed era proprio la giustizia di questo Stato membro a decidere per l’estradizione dell’interessato negli Stati Uniti. Il Sig. Pisciotti si opponeva alla decisione e il giudice nazionale indirizzava un rinvio pregiudiziale alla Corte per comprendere se e come dovesse essere applicato il diritto UE in materia di libera circolazione in presenza di un apposito accordo sull’estradizione tra UE e Stati Uniti. La Corte conferma da subito che la situazione relativa al Sig. Pisciotti è coperta dal diritto UE: essendo questa un’ipotesi di circolazione di cittadino europeo all’interno dell’Unione, trova applicazione anche l’art. 18 TFUE. Il problema centrale, però, è dato dal diverso regime che la Costituzione tedesca prevede per l’estradizione dei cittadini europei: si autorizza l’estradizione solo per i cittadini europei che non siano anche cittadini tedeschi. Questa differenza potrebbe essere equiparata a una discriminazione sulla base della cittadinanza. D’altronde, l’art. 17, par. 1, dell’accordo UE-USA afferma che lo Stato membro richiesto può fare valere, a norma del più specifico trattato bilaterale di estradizione tra tale Stato e gli Stati Uniti d’America, un motivo di rifiuto dell’estradizione riguardo a una questione non disciplinata da detto accordo: pertanto, la Germania avrebbe la possibilità di invocare il divieto interno di estradizione dei cittadini tedeschi rifacendosi anche all’art. 17, par.1, dell’accordo UE-USA. La Corte, comunque, nota che anche tale accordo deve essere conforme al diritto primario UE, in particolare gli artt. 18 e 21 TFUE. Ora, la distinzione operata dall’ordinamento tedesco si traduce in una restrizione della libertà di circolazione, ai sensi dell’articolo 21 TFUE: ne consegue che la restrizione è giustificata solo se si fonda su considerazioni oggettive ed è proporzionata all’obiettivo legittimamente perseguito, che nello specifico sarebbe evitare il rischio di impunità di una persona che ha commesso un reato. Nel caso in esame, la Corte ritiene che il diritto alla libera circolazione del Sig. Pisciotti sarebbe meno pregiudicato se fosse consegnato in Italia previa richiesta formale del suo Stato di cittadinanza a mezzo di mandato di arresto europeo; questo, va da sé, sempre che lo Stato membro richiedente possa esercitare l’azione penale contro un suo cittadino per fatti commessi al di fuori del suo territorio nazionale. La Corte reputa che tale soluzione, originariamente prospettata nella sentenza Petruhhin (CGUE, 6.9.2016, C‑182/15) in mancanza di accordi internazionali di estradizione tra l’Unione e Stato terzo, può applicarsi anche una situazione in cui l’accordo c’è e conferisce allo Stato membro richiesto la facoltà di non estradare i propri cittadini. In sostanza, la Germania dovrebbe prima di tutto informare l’Italia, affinché emetta un mandato di arresto europeo a carico del Sig. Pisciotti; laddove poi l’Italia non volesse o non potesse provvedere in tal senso, la Germania potrebbe estradare il Sig. Pisciotti negli Stati Uniti, senza che la distinzione anzidetta possa essere considerata discriminatoria.
Allontanamento di cittadino europeo dallo Stato membro ospitante: garanzie in caso di soggiorno ultradecennale
Nei casi B (CGUE, 17.4.2018, C-316/16) e Vomero (CGUE, 17.4.2018, C-424/16), la Corte ha esaminato alcune prerogative delle garanzie accordate dalla direttiva 2004/38 al cittadino europeo che, dopo avere esercitato il diritto di circolazione da uno Stato membro all’altro, diviene oggetto di allontanamento dallo Stato ospitante. Le richieste erano pervenute da giudici nazionali aditi per statuire su decisioni di allontanamento di cittadini europei (B e Vomero) che soggiornavano da più di dieci anni in Stati membri diversi da quello di cittadinanza, nei quali però avevano subito condanne a pene detentive per reati gravi. In prima battuta, la Corte anticipa fino a che punto sussiste il diritto di non essere allontanato del cittadino europeo che abbia esercitato la libertà di circolazione e si trovi in uno Stato membro diverso da quello di cittadinanza, senza tuttavia beneficiare di un soggiorno permanente. Le disposizioni di riferimento sono l’art. 28, par. 2, e l’art. 28, par. 3, lett. a) della direttiva 2004/38. La prima disposizione stabilisce che «(l)o Stato membro ospitante non può adottare provvedimenti di allontanamento dal territorio nei confronti del cittadino dell’Unione o del suo familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, che abbia acquisito il diritto di soggiorno permanente nel suo territorio se non per gravi motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza»: va detto che il soggiorno permanente spetta al cittadino dell’Unione che abbia soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nello Stato membro ospitante (art. 16, par. 1). La seconda disposizione aggiunge che «(i)l cittadino dell’Unione non può essere oggetto di una decisione di allontanamento, salvo se la decisione è adottata per motivi imperativi di pubblica sicurezza definiti dallo Stato membro, qualora: a) abbia soggiornato nello Stato membro ospitante i precedenti dieci anni». Rilevato che la direttiva prevede garanzie contro l’allontanamento a favore del cittadino di altro Stato UE che sia riuscito a integrarsi nel tempo all’interno dello Stato membro in cui soggiorna, la Corte va oltre il senso letterale delle due disposizioni. Stabilisce, in sostanza, che un cittadino dell’Unione può beneficiare del livello di protezione rafforzato garantito dall’articolo 28, par. 3, lett. a), solo se già soddisfa la condizione per la concessione del beneficio della protezione dell’art. 28, par. 2, ossia avere un diritto di soggiorno permanente. Dunque, diviene determinante l’avere soggiornato legalmente nello Stato membro ospitante nei dieci anni che precedono il provvedimento di allontanamento; ma nel silenzio dell’art. 28, par. 3, il calcolo a ritroso dei dieci anni può interrompersi a causa della condotta dell’interessato? La Corte ammette questa eventualità, soprattutto se la persona viene posta in stato di detenzione. Ciò che più conta è la possibile rottura dei legami di integrazione precedentemente creati. La Corte specifica che nel compiere questa valutazione, normalmente di competenza del giudice, occorre sempre considerare la situazione dell’interessato nel suo complesso e alla data in cui viene adottata la decisione iniziale di allontanamento. In particolare, la Corte suggerisce di riferirsi a elementi in grado di indicare con sufficiente attendibilità quanto il condannato si sia allontanato dalla società in cui vive e quale sia il possibile margine di reintegrazione (aspetto che è anche nell’interesse dell’Unione europea in generale): tra questi, spiccano la natura del reato che ha giustificato il periodo di detenzione, le condizioni in cui tale reato è stato commesso e tutti gli elementi rilevanti attinenti alla condotta dell’interessato durante il periodo di incarcerazione.
Regolamento Dublino III: presa in carico di richiedente protezione internazionale
Con il caso Hasan (CGUE, 25.1.2018, C-360/16) la Corte ha avuto l’occasione di soffermarsi su alcune disposizioni del regolamento 604/2013 (Dublino III). Il cittadino siriano Aziz Hasan aveva presentato una prima domanda di protezione internazionale in Italia, salvo poi recarsi in Germania per fare altrettanto. Le autorità tedesche, venute a conoscenza della richiesta effettuata in territorio italiano, richiedevano la presa in carico del Sig. Hasan da parte dell’Italia, che però non rispondeva alla richiesta della Germania. Scaduti i termini previsti dal regolamento, le autorità tedesche dichiaravano che la competenza all’esame della domanda era dell’Italia e decidevano di trasferire in Italia il Sig. Hasan. Questi si opponeva al provvedimento del Tribunale amministrativo adito, ma il suo ricorso era rigettato; veniva dunque trasferito, ma malgrado ciò rientrava nuovamente in Germania in maniera illegale e impugnava la precedente decisione del Tribunale amministrativo. Il giudice interno, allora, sospendeva il procedimento e si rivolgeva alla Corte per avere chiarimenti su certi articoli del regolamento 604/2013 relativi alle condizioni, procedure ed eventuali garanzie applicabili alla richiesta di presa in carico trasmessa da uno Stato membro a un altro (in particolare, artt. 18, 24 e 27 del regolamento). Partendo da considerazioni sul diritto del richiedente protezione internazionale a un ricorso effettivo contro una decisione di trasferimento, la Corte ammette che il controllo giurisdizionale da realizzare ai sensi dell’art. 27 del regolamento deve basarsi sulla situazione di fatto esistente al momento dell’ultima udienza dinanzi al giudice adito o, in mancanza, al momento in cui il giudice si pronuncia sul ricorso. Quindi, la Corte analizza l’art. 24 del “Dublino III”. Secondo la CGUE, l’art. 24 detta una procedura che deve essere applicata anche nel caso in cui l’interessato abbia già subito una decisione di trasferimento in uno Stato presso il quale è poi rientrato illegalmente in un secondo momento: significa che la Germania deve riattivare la procedura ex art. 24 anche se il Sig. Hasan era già stato trasferito in Italia in forza di un’apposita decisione, per poi ritornare in Germania in maniera illegale. Questo perché gli artt. 18 e 24 del regolamento non fanno distinzioni tra primo e secondo soggiorno in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata presentata la prima domanda di protezione internazionale. Perciò, il ricorrente nel caso di specie non può essere assimilato a una persona che abbia presentato una nuova domanda di protezione internazionale; la stessa considerazione vale anche se non è ancora terminata la procedura di ricorso contro una decisione che ha respinto una prima domanda di protezione internazionale presentata in uno Stato membro. Restano dunque validi i termini sanciti dall’art. 24, par. 2, che decorrono tuttavia quando è certo che lo Stato chiamato ad attivarsi dispone di informazioni che gli consentono di rivolgere una richiesta di ripresa in carico a un altro Stato membro: in altre parole, non è possibile che i termini dell’art. 24, par. 2, inizino a decorrere se lo Stato non è al corrente della presenza (illegale) dell’interessato nel suo territorio. Una volta avuta la certezza della sussistenza di questa circostanza, se tale Stato non osserva i termini dell’art. 24, par. 2, per la Corte è da considerarsi competente all’esame della domanda del richiedente; ecco che quindi se la Germania diviene competente in luogo dell’Italia se ha lasciato decorrere invano i predetti termini, calcolati a partire dal momento in cui le autorità competenti hanno avuto notizia del secondo soggiorno del Sig. Hasan. Da ultimo, la Corte isola l’art. 24, par. 3, secondo cui «se la richiesta di ripresa in carico non è presentata entro i termini prescritti al paragrafo 2, lo Stato membro sul cui territorio l’interessato soggiorna senza titolo di soggiorno gli offre la possibilità di presentare una nuova domanda». La Corte precisa che se la persona non si avvale della facoltà dell’art. 24, par. 3, lo Stato membro in questione potrà ancora formulare una richiesta di ripresa in carico; resta il fatto che, senza la formulazione di tale richiesta, non potrà eseguire il trasferimento automatico del richiedente verso lo Stato che si assume essere competente.
Direttiva qualifiche: ammissibilità di test della personalità per valutare l’orientamento sessuale del richiedente protezione internazionale
Il caso F (CGUE, 25.1.2018, C-473/16) è importante perché la Corte ha avuto modo di tornare sulla questione delle audizioni di richiedenti protezione internazionale appartenenti alla categoria LGBT. Il sig. F è un cittadino di Stato terzo richiedente asilo in Ungheria. Dopo avere lamentato il rischio di persecuzioni nel paese di origine a causa della propria omosessualità, il sig. F è stato sottoposto dalle autorità competenti a una serie di test della personalità condotti da uno psicologo e finalizzati alla valutazione dell’effettiva sussistenza o meno di tale condizione soggettiva. La relazione del professionista incaricato concludeva che le dichiarazioni di F sulla sua presunta omosessualità non erano attendibili; di conseguenza, la domanda di F veniva rigettata per mancanza di un elemento essenziale ai fini del riconoscimento dello status richiesto. F impugnava il provvedimento a lui sfavorevole e il giudice ungherese rivolgeva alla Corte dei quesiti volti a chiarire le procedure che le autorità competenti, alla luce dell’art. 4, par. 3, direttiva 2011/95 (la nuova versione della direttiva qualifiche) devono osservare quando in gioco vi è l’esame delle dichiarazioni dell’interessato circa la propria omosessualità. La Corte muove dalla sentenza X, Y e Z (CGUE, 5.12.2014, C-199/12, C-200/12 e C-201/12) per ammettere che, in linea generale, è possibile avvalersi di perizie di esperti per comprovare la veridicità delle dichiarazioni di un richiedente protezione internazionale in merito all’asserita omosessualità; in teoria, secondo la Corte, una perizia potrebbe essere utile ad appurare le reali necessità della persona, come affermato peraltro dal legislatore UE nella direttiva 2011/95. Naturalmente, l’intero esame posto in essere per conto dell’autorità competente non deve intaccare i diritti dell’interessato, specialmente la dignità e il rispetto della vita privata e familiare, sanciti dagli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In secondo luogo, la decisione di status non potrà fondarsi solo sui contenuti della perizia. Tuttavia, la Corte sottolinea che sottoporre il richiedente a test come quelli effettuati nel caso di specie integra una violazione dell’art. 7 della Carta. Ad avviso della Corte, tre sono i problemi principali. Primo, data l’importanza della decisione attesa e stante il timore del richiedente al momento dell’esame, il suo consenso a sottoporsi a test della personalità non può certo dirsi libero. Secondo, anche se non si tratta di veri e propri esami corporali, né di test fallometrici, questi test costituiscono ugualmente un’intrusione eccessiva nella sfera interiore della persona. Terzo, il loro fondamento scientifico pare discutibile, quindi essi non sarebbero idonei a raggiungere l’obiettivo prefigurato dalle autorità competenti, cioè avere certezze in relazione alla veridicità di quanto dichiarato dall’individuo che dice di essere perseguitato nel Paese di origine in ragione della sua omosessualità; semmai, più che per produrre prove, test come quelli realizzati ai danni di F potrebbero fornire soltanto mere indicazioni sul suo orientamento sessuale.
Precisazioni sul concetto di “minore non accompagnato”
Il caso A e S (CGUE, 12.4.2018, C-550/16) ha avuto ad oggetto il concetto di minore non accompagnato. Una ragazza cittadina di Stato terzo arrivava nei Paesi Bassi in qualità di minore non accompagnata e presentava una domanda di asilo. Nelle more delle procedure diveniva maggiorenne. Mesi dopo otteneva un permesso di soggiorno a titolo di asilo e presentava domanda di ricongiungimento familiare per i genitori (A e S) e tre fratelli minori. La richiesta veniva rigettata perché le autorità competenti ritenevano inapplicabile alla ragazza l’art. 2, parte iniziale e lett. f), della direttiva 2003/86 (direttiva sui ricongiungimenti familiari). La disposizione stabilisce che il minore non accompagnato è un soggetto d’età inferiore ai diciotto anni, ma le autorità olandesi constatavano che al momento della presentazione della domanda di ricongiungimento familiare la ragazza era già diventata maggiorenne; viceversa, l’interessata ribatteva che ai fini dell’applicazione di quella disposizione fosse decisiva la data della presentazione della domanda di asilo. Il giudice nazionale adito nell’occasione si rivolgeva alla CGUE per capire come interpretare nella fattispecie l’art. 2, parte iniziale e lett. f), della direttiva 2003/86. La Corte inizia il suo ragionamento premettendo che il momento da considerare per ricostruire la qualità di minore non accompagnato non può essere deciso autonomamente dagli Stati membri; se ciò fosse possibile, la direttiva lo farebbe presente, come accade con riferimento ad altre disposizioni. La Corte poi introduce l’art. 10, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2003/86, che impone agli Stati membri di autorizzare l’ingresso e il soggiorno a titolo di ricongiungimento familiare degli ascendenti diretti di primo grado se il richiedente è un rifugiato minore non accompagnato. Fatte queste premesse, la Corte ricorda che il riconoscimento dello status di rifugiato non è un atto costitutivo, ma meramente ricognitivo: significa che il diritto del richiedente, in presenza delle condizioni richieste dal diritto UE, sussiste già da prima che la domanda di asilo sia stata presentata. Pertanto, se si ammettesse la tesi secondo la quale la minore età del richiedente il ricongiungimento familiare va valutata dal momento (o in un momento successivo a quello) in cui l’interessato ha ricevuto una decisione sul suo status, si giungerebbe a un’incoerenza sostanziale: il diritto ex art. 10, par. 3, lett. a), della direttiva 2003/86 non dipenderebbe più dalla natura stessa dello status di rifugiato, status che è antecedente al suo effettivo riconoscimento, ma da un elemento del tutto aleatorio, quale la durata della procedura che deve condurre alla decisione sulla qualifica del richiedente. Un effetto simile si porrebbe in contrasto con l’obiettivo della direttiva e pregiudicherebbe i principi di parità di trattamento e di certezza del diritto. La Corte allora conclude che la data da tenere in considerazione per capire se chi intende esercitare il diritto dell’art. 10, par. 3, lett. a) è davvero un minore (non accompagnato) è quella della presentazione della domanda di asilo. Infine, la Corte aggiunge che un termine ragionevole entro il quale la richiesta di ricongiungimento familiare dovrebbe essere presentata in un caso come quello della figlia di A e S potrebbe essere tre mesi dalla data della concessione dello status di rifugiato; in tal senso, la Corte si riallaccia all’art. 7, par. 1, della direttiva 2003/86.