Art. 3: Divieto di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti1
Il caso X c. Svezia (Corte Edu, sentenza del 9.01.2018) riguarda un cittadino marocchino che, dopo aver ottenuto un titolo di soggiorno permanente per motivi familiari, veniva sospettato di avere legami con gruppi terroristici.
Considerando tra l’altro l’assenza di procedimenti a suo carico e le visite effettuate in Marocco, le autorità svedesi rigettavano come insussistenti i rischi lamentati dal ricorrente di essere esposto, in caso di allontanamento, a trattamenti contrari all’art. 3 Cedu in base a quanto accadeva a coloro che, nel suo Paese di origine, venivano identificati come presunti terroristi. Al contempo, tenendo conto delle informazioni sul Marocco in cui si evidenziava un progressivo miglioramento in materia di tutela dei diritti umani, le autorità rigettavano anche la sua domanda di protezione internazionale e ne ordinavano l’allontanamento con un contestuale divieto permanente di reingresso in Svezia. Pur ricordando le difficoltà che devono affrontare gli Stati parte nel rispondere alla minaccia terroristica, la Corte Edu ricorda come la valutazione effettuata dalla autorità nazionali per dissipare ogni dubbio sull’eventuale esposizione di una persona a trattamenti inumani o degradanti debba essere fondata su informazioni oggettive e provenienti da fonti affidabili. Se è vero che la situazione in Marocco può ritenersi in via di miglioramento (cfr. report del Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite, 4 agosto 2014, e del Comitato sui diritti umani, 6 novembre 2016) e che le autorità marocchine non hanno dimostrato uno specifico interesse per il ricorrente in passato, è anche vero che i servizi segreti svedesi sono entrati in contatto con tali autorità riferendo loro le accuse mosse nei confronti del sig. X. Poichè questo aspetto essenziale non è stato considerato dalle competenti autorità svedesi e i rapporti internazionali dimostrano che le detenzioni arbitrarie e le torture nei confronti di presunti terroristi non sono del tutto cessate, per la Corte Edu esiste il concreto rischio, non dissipato dallo Stato convenuto, di esporre il ricorrente a trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’art. 3 Cedu se allontanato nel suo Paese di origine.
In A.S. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 19.04.2018) un cittadino francese di origini marocchine lamentava una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti per essere stato allontanato in Marocco. Condannato per attività legate al terrorismo internazionale, tra cui il finanziamento, il reclutamento di combattenti da inviare in Iraq, Afghanistan e Somalia e la preparazione di attentati in Francia, il ricorrente veniva privato della cittadinanza francese e, dopo il rigetto della sua domanda di protezione internazionale, veniva prontamente trasferito in Marocco dove, condannato per reati collegati, veniva detenuto per poco più di un anno. Dopo aver riaffermato la natura assoluta del divieto di refoulement di cui all’art. 3 Cedu e sottolineato la gravità della minaccia posta oggi dal terrorismo internazionale (cfr. Corte Edu, 7.11.2017, X c. Germania, dec., in questa Rivista, XX, n. 1, 2018), la Corte Edu concorda con le autorità interne nel ritenere che l’attività di sorveglianza cui il ricorrente poteva essere sottoposto una volta rinviato in Marocco, alla luce dei suoi precedenti penali, non poteva costituire di per sè un trattamento proibito dalla Cedu tale da ostacolarne l’allontanamento. Tenuto peraltro conto del trattamento effettivamente riservatogli dalle autorità marocchine all’arrivo (accesso a un avvocato e periodo limitato di detenzione), dall’insieme di iniziative concrete adottate dal Marocco per limitare l’esposizione dei presunti terroristi a torture e trattamenti inumani e degradanti (cfr. supra), e della mancata produzione di prove da parte dello stesso ricorrente sui rischi che avrebbe incontrato nel Paese di origine, la Corte Edu conclude che le autorità francesi non hanno esposto il sig. A.S. a una violazione dell’art. 3 Cedu. Ciononostante, poichè l’allontamento era avvenuto in contrasto alla richiesta della stessa Corte di sospenderne l’esecuzione ai sensi dell’art. 39 del suo Regolamento, indirizzata alle autorità francesi il giorno della liberazione del sig. A.S. dal carcere e della notifica del suo trasferimento in Marocco, la Francia ha impedito a quest’ultimo di godere in modo effettivo del suo diritto di chiedere la sospensione provvisoria dell’allontamento venendo meno, quindi, agli obblighi derivanti dall’art. 34 Cedu.
Diversamente, nel caso M.A. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 1.02.2018), riguardante un cittadino algerino anch’esso implicato in azioni terroristiche e allontanato in Algeria con divieto permanente di reingresso in Francia, la Corte Edu ritiene che vi è stata una violazione dell’art. 3 Cedu poichè le autorità nazionali avevano prove concrete dei rischi cui poteva essere esposto il ricorrente in seguito all’allontanamento. A tal fine, la Corte considera le informazioni disponibili sul trattamento riservato dalle autorità algerine a presunti terroristi (ad esempio, Amnesty International, Report on Algeria, 2016), le quali riportano tanto la mancata adozione di misure volte a modificare la situazione già osservata dinanzi la Corte (cfr. Corte Edu, 3.12.2009, Daoudi c. France) quanto il persistere di detenzioni arbitrarie e torture nonchè l’assenza di garanzie procedurali, così come poi effettivamente accaduto al ricorrente cui è stato negato l’accesso a un avvocato e al mondo esterno. Inoltre, oltre a venire meno agli obblighi derivanti dall’art. 34 Cedu per aver reso di fatto inefficace il ricorso alle misure provvisorie ex art. 39 del Regolamento della Corte, visto il brevissimo lasso di tempo tra la notifica dell’ordine di allontanamento al ricorrente e il suo trasferimento in Algeria, la Francia è stata chiamata, ai sensi dell’art. 46 Cedu, a intraprendere tutte le azioni possibili per ottenere assicurazioni dalle autorità algerine in merito al fatto che il sig. M.A. non ha subito e non subirà trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu.
Infine, con il caso I.K. c. Svizzera (Corte Edu, decisione del 18.01.2018), la Corte Edu torna a occuparsi di un richiedente asilo che riteneva di essere perseguitato in ragione del suo orientamento sessuale (Corte Edu, 26.6.2014, M.E. c. Svezia, in questa Rivista, XVI, n. 2, 2014, p. 91) Il ricorrente, cittadino del Sierra Leone, aveva affermato davanti le autorità svizzere di aver scoperto la sua omosessualità durante l’adolescenza, di aver ottenuto il sostegno della famiglia e di aver partecipato a manifestazioni per i diritti delle persone LGBTI nel quadro di un’associazione di attivisti, di cui però non sapeva indicare dettagli, e di essere stato denunciato alla polizia locale a seguito di un tentativo di estorsione. Le autorità svizzere rigettavano la richiesta di protezione internazionale per mancanza di credibilità e ritenevano, in ogni caso, insufficiente ai fini dell’identificazione della persecuzione l’esistenza di una legislazione interna volta a criminalizzare l’omosessualità in assenza di prove relative alla sua applicazione nei confronti del ricorrente. Ne ordinavano quindi l’allontanamento in Sierra Leone contro cui il sig. I.K. ricorreva per lamentare una possibile violazione dell’art. 3 Cedu. Pur affermando che l’orientamento sessuale è una caratteristica fondamentale dell’identità personale tale per cui non si può chiedere a un richiedente asilo di dissimularla per evitare la persecuzione (cfr. para. 24 della decisione; Cgue, 7 novembre 2013, X, Y e Z, cause riunite C-199/12, C-200/12 e C-201/12, in questa Rivista, XV, n. 4, 2013, p. 107; contra Corte Edu, M.E c. Svezia, cit.), la Corte Edu nota che la legislazione rilevante non risulta applicata in Sierra Leone e che il ricorrente non ha prodotto una documentazione tale per cui si possa ritenere sussistente un rischio di violazione dell’art. 3 Cedu in caso di allontanamento. Pertanto, alla luce dell’attento esame condotto dalle autorità interne, dimostrato tra l’altro dal suo riascolto e dall’offerta di aggiustamenti procedurali, il ricorso del ricorrente è stato ritenuto inammissibile.
Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza
In J.R. e altri c. Grecia (Corte Edu, sentenza del 25.01.2018) tre cittadini afgani, con due minori al seguito, lamentavano la violazione dell’art. 5, parr. 1 e 2, relativi al diritto alla libertà e sicurezza e al diritto di ricevere comunicazione del motivo per cui vi è privazione della libertà, per il trattenimento subito nell’hotspot di Vial una volta giunti in Grecia. Le decisioni di convalida del trattenimento e del successivo ordine di allontanamento, sospeso poi per permettere la valutazione delle loro domande di protezione internazionale, menzionavano che i ricorrenti avevano ricevuto un depliant in cui erano indicati i loro diritti e la ragione per la quale erano stati privati della loro libertà. La Corte Edu innanzitutto rigetta le eccezioni sollevate dallo Stato convenuto sia per la mancanza da parte dell’avvocato di una procura firmata dai ricorrenti, accettando di fatto che la comunicazione tra questi sia avvenuta tramite messaggi WhatsApp confermati successivamente da lettere scritte dai ricorrenti, sia per il mancato esaurimento dei ricorsi interni, non ritenendo effettivo il ricorso per legge disponibile per l’assenza di un tribunale amministrativo nell’isola in cui si trovavano i ricorrenti e di qualsiasi assistenza legale aggravata dalla mancata comunicazione di informazioni utili in una lingua a loro comprensibile. Venendo al merito, la Corte Edu precisa come il mantenimento di stranieri in un centro di identificazione rappresenta certamente una restrizione della libertà ma non paragonabile a quella volta a permettere l’esecuzione dell’allontanamento, anche se rispetto a entrambi i casi il trattenimento dei ricorrenti non risultava arbitrario essendo finalizzato a prevenire il soggiorno irregolare in Grecia e dare attuazione agli impegni relativi alla cd. Dichiarazione Ue-Turchia. Proprio per questa ragione e per la durata complessiva poco superiore a un mese, ritenuta dalla Corte Edu “non eccessiva” per compiere tutte le formalità necessarie, quest’ultima non ravvisa alcuna violazione dell’art. 5, par. 1. Invece, pur potendo immaginare il motivo per cui erano privati della libertà, la mancata comunicazione di informazioni utili a tal fine in una lingua a loro comprensibile ha dato luogo a una violazione dell’art. 5, par. 2, rendendo peraltro ineffettivo anche il diritto di ricorrere contro il trattenimento stesso ai sensi dell’art. 5, par. 4. Significativamente, chiamata a valutare anche una presunta violazione dell’art. 3 per le condizioni del centro in cui i ricorrenti erano stati trattenuti, la Corte Edu ricorda la grave emergenza affrontata all’epoca dei fatti dalle autorità greche (2016) e presta particolare attenzione ai rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura che non sollevavano gravi critiche, diversamente dai resoconti pubblicati dalle organizzazioni non governative (cfr. parr. 140-144). Così, seguendo la giurisprudenza precedente (Corte Edu, GC, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017) e tenendo conto della brevità del trattenimento, la Corte Edu ritiene che la soglia di gravità richiesta dall’art. 3 non è stata raggiunta nel caso dei ricorrenti. Pertanto, non vi è stata alcuna violazione di tale disposizione.
Il caso M.K. c. Russia (Corte Edu, sentenza del 27.02.2018) riguarda un cittadino siriano che, dopo essere entrato in Russia con un permesso per motivi di studio, chiedeva protezione internazionale in ragione del conflitto nel suo Paese. In seguito al rigetto di tale domanda e prima di raggiungere il Libano, veniva trattenuto in vista del suo allontanamento. Ritenendo arbitraria la privazione della sua libertà personale e dato il mancato accesso a un ricorso attraverso cui vedere valutata la legittimità della sua detenzione, il sig. M.K. lamentava una violazione dell’art. 5, par. 1 e 4. Sottolineando la relativa brevità del trattenimento, pari a sette mesi, la Corte Edu osserva, da un lato, che la restrizione della libertà del ricorrente era finalizzata a dare esecuzione al suo allontanamento e, dall’altro, che le autorità russe avevano rivalutato a cadenza mensile la sua situazione, in particolare rispetto alla concreta realizzazione di tale allontanamento. Pertanto, nel caso del sig. M.K., non vi è stata alcuna violazione dell’art. 5.
Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare
Nel periodo in esame il diritto al rispetto della vita privata e familiare è venuto in considerazione sotto diversi profili.
Il caso Bistieva e altri c. Polonia (Corte Edu, sentenza del 10.04.2018) riguarda una cittadina russa e i suoi tre figli, i quali, dopo aver visto rigettata la domanda di protezione internazionale, venivano trattenuti per circa sei mesi, ai fini del loro allontanamento, in un centro riservato a nuclei familiari. I ricorsi, con i quali la sig.ra Bistieva lamentava anche l’inapplicabilità dell’ordine di trattenimento nei confronti del terzo figlio essendo questo cittadino tedesco libero di soggiornare in Polonia, venivano rigettati dalle autorità adducendo, tra l’altro, che la realizzazione del preminente interesse dei figli ne ostacolava la separazione dalla madre. Rigettata la parte del ricorso relativa alla lamentata violazione dell’art. 5, par. 1 e 4, per il mancato esaurimento dei ricorsi interni, la Corte Edu valuta la presunta violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dovuta, seconda la principale ricorrente, al carattere non necessario del trattenimento rispetto al fine preseguito dalle autorità polacche. Dopo aver ritenuto che il trattenimento in questione rappresentava senza dubbio un’interferenza nel godimento del diritto di cui all’art. 8, la Corte Edu ritiene che siffatta interferenza non soddisfa i requisiti previsti dal par. 2 della medesima disposizione. Infatti, pur essendo previsto dalla legge e volto a perseguire un fine legittimo, quale la prevenzione dell’immigrazione irregolare, il trattenimento non poteva ritenersi necessario dato che le autorità polacche non avevano cercato soluzioni a esso alternative. Queste si imponevano alla luce del principio del preminente interesse del minore e del periodo relativamente lungo di trattenimento, nonostante i seri rischi di fuga e le buone condizioni di vita all’interno del centro in cui i ricorrenti erano ospitati (cfr., tra gli altri, Corte Edu, 12.07.2016, casi R.M. e altri c. Francia, A.B. e altri c. Francia, A.M. e altri c. Francia, R.K. e altri c. Francia e R.C. e V.C. c. Francia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017; 7.12.2017, S.F. e altri c. Bulgaria, in questa Rivista, XX, n. 1, 2018). Per queste ragioni, vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu.
Il caso Guliyev e Sheina c. Russia (Corte Edu, sentenza del 17.04.2018) riguarda una coppia, formata da una cittadina russa e da un cittadino azero, che vedeva imporsi l’allontanamento di quest’ultimo e un contestuale divieto di reingresso per cinque anni per non aver richiesto nei termini di legge il rinnovo del suo permesso di soggiorno. I ricorsi risultavano vani poichè le autorità interne non tenevano conto della sua vita familiare alla luce dell’assenza di un vincolo formale di matrimonio e della mancata registrazione del padre nei registri civili, circostanze entrambe mutate solo poco prima dell’esecuzione dell’allontanamento. Ricordando che la nozione di vita familiare include tanto le relazioni di fatto quanto quelle tra padre e figli dal momento della loro nascita indipendentemente da requisiti formali, la Corte Edu nota come le autorità interne non abbiano condotto alcun esame circa la proporzionalità dell’allontanamento controverso ritenendo insussistente la vita familiare con la conseguenza di ignorare qualsiasi bilanciamento degli interessi in gioco alla luce dei criteri indicati dalla Corte stessa (Corte Edu, 4 dicembre 2012, Butt c. Norvegia, in questa Rivista, XIV, n. 4, 2012, p. 122). Pertanto, i sigg. Guliyev e Sheina hanno subito una violazione dell’art. 8 Cedu.
In Ejimson c. Germania (Corte Edu, sentenza dell’1.03.2018) un cittadino nigeriano, padre di una minore cittadina tedesca, lamentava una violazione del diritto al rispetto della vita familiare in caso di allontanamento nel suo Paese di origine a casua della negazione di un permesso di soggiorno per motivi familiari in seguito alle condanne subite per traffico illegale di stupefacenti. Le autorità tedesche avevano ritenuto che, sostanzialmente, l’interferenza nel godimento dell’art. 8 Cedu imposta al ricorrente era giustificata dalla gravità dei reati commessi e dalla possibilità di mantenere comunque contatti con la figlia attraverso canali elettronici. Valutando il caso sotto il profilo degli obblighi positivi (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154), la Corte Edu si sofferma sulla precarietà dello status del ricorrente nel momento in cui ha dato vita a una vita familiare in Germania, sull’età quasi adulta della figlia, sulla possibilità di visitarla a intervalli regolari anche nel periodo in cui non gli è permesso risiedere nello Stato convenuto e sul tentativo di raggiungere un accordo volto a limitare temporalmente il divieto di reingresso. Pertanto, non avendo attribuito un peso eccessivo all’interesse generale rispetto a quello del ricorrente (cfr. Corte Edu, 14.09.2017, Ndid c. Regno Unito, in questa Rivista, XX, n. 1, 2018), secondo la Corte Edu la Germania non darebbe luogo a una violazione dell’art. 8 Cedu in caso di allontanamento del sig. Ejimson in Nigeria.
Il caso Hoti c. Croazia (Corte Edu, sentenza del 26.04.2018) riguarda un ricorrente apolide, nato in Kosovo da genitori rifugiati albanesi, che non era in grado di regolarizzare il proprio status per non riuscire a soddisfare alcuni requisiti formali proprio in virtù della sua condizione di apolidia. Così, nonostante risiedesse in Croazia da oltre venti anni e non avesse significativi contatti con nessun altro Paese, il suo soggiorno rimaneva legato alla discrezionalità delle autorità croate di concedergli, con cadenza annuale, un permesso per motivi umanitari. Lamentava quindi la violazione del diritto al rispetto della sua vita privata. Dopo aver stabilito la sua giurisdizione ratione temporis e sottolineato la specificità del caso, frutto della dissoluzione dell’ex Yugoslavia, la Corte Edu distingue innanzitutto il ricorrente da un migrante di lungo periodo (Corte Edu, Grande Camera, Jeunesse c. Paesei Bassi, cit.) rispetto al quale, di solito, risulta necessario valutare la legittimità dell’interferenza nel godimento dell’art. 8 Cedu generata da un’eventuale allontanamento. Nel caso del sig. Hoti, è piuttosto in discussione l’obbligo positivo dello Stato convenuto di limitare la condizione di incertezza, generata dalla mancata regolarizzazione del suo soggiorno, che non gli permette di godere in modo effettivo del diritto al rispetto della vita privata nella quale rientrano anche tutte le relazioni sociali che lo stesso ricorrente ha stabilito con la comunità di accoglienza (cfr. Corte Edu, 13.10.2016, B.A.C. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, n. 1, 2017). Se è vero che l’art. 8 non tutela il diritto a ottenere uno specifico status giuridico e le autorità nazionali restano libere di scegliere quale permesso di soggiorno concedere, la garanzia del titolo umanitario non può essere ritenuta una misura in grado di limitare la situazione di incertezza del ricorrente. Le stesse autorità nazionali chiamate a valutare la questione non hanno proceduto a un esame specifico tenendo conto, ad esempio, della sua età avanzata o che la sua presenza era stata tollerata di fatto per lungo tempo. Al contrario, esse hanno effettuato il loro esame in base a criteri puramente formali e alla mancanza di interesse da parte della Croazia di garantire al ricorrente un titolo permanente di soggiorno. A tal proposito, la Corte nota come le autorità competenti non avessero nemmeno supportato il sig. Hoti nel prendere contatti con i Paesi che, a loro avviso, potevano rilasciargli un titolo di viaggio utile ai fini della regolarizzazione richiesta e anche la previsione di disposizioni di legge contradditorrie che, di fatto, impedivano a un apolide di ottenere protezione in contrasto con quanto richiesto dalla Convenzione internazionale relativa allo status degli apolidi. Nel caso del ricorrente, vi è stata dunque violazione dell’art. 8 Cedu.
Infine, in Mohamed Hasan c. Norvegia (Corte Edu, sentenza del 26.04.2018), una cittadina irachena soggiornante dal 2006 in Norvegia lamentava una violazione del diritto al rispetto per la vita familiare per essere stata privata della responsabilità genitoriale nei confronti dei due figli nati dalla relazione con l’ex marito e successivamente dati in adozione. Tali decisioni erano state adottate dalle autorità interne sulla base dell’interesse dei minori interessati dopo una lunga serie di episodi di violenza domestica e di denunce, spesso ritirate, da parte della ricorrente nei confronti dell’ex marito, nonchè del tentativo di sequestro da parte di quest’ultimo quando i figli venivano dati in affido. Pur ritenendola capace di svolgere le funzioni genitoriali e di essersi progressivamente integrata nella società ospitante, specie in seguito al divorzio, le autorità interne continuavano a sostenere che la ricorrente non fosse comunque in grado di garantire la necessaria sicurezza ai figli rispetto alle possibili ingerenze dell’ex marito, anche dopo il trasferimento di quest’ultimo in Iraq. Posto che le misure controverse costitutivano un’ingerenza nel godimento del diritto di cui all’art. 8, per la Corte Edu questa interferenza risulta prevista dalla legge, volta a realizzare un fine legittimo e, soprattutto, necessaria in una società democratica ai sensi del par. 2 della stessa disposizione. Infatti, se è vero che la separazione dei figli dai genitori rappresenta una delle forme più gravi in cui tale ingerenza si concretizza (cfr. Corte Edu, 24.10.2017, Achim c. Romania, in questa Rivista, XX, n. 1, 2018), nel caso della sig.ra Hasan essa appare giustificata da ragioni eccezionali basate sul perseguimento del preminente interesse dei minori. Tra questi motivi, per la Corte Edu assumono particolare rilevanza il pericolo per l’incolumità fisica e psicologica generato dalle possibili interferenze del padre e dalla presunta incapacità della ricorrente di riconoscere e di contrastare tale rischio, il peso da riconoscere al nuovo rapporto instauratosi tra i minori e la famiglia affidataria e la necessità di evitare ogni trauma, nonchè l’assenza di ogni contatto con la ricorrente per un periodo prolungato. Poichè le autorità interne avevano adeguatamente esaminato la situazione nella sua complessità e bilanciato gli interessi in gioco ascoltando, anche le ragioni della sig.ra Hasan, e ritenuto le misure controverse utili a consolidare giuridicamente i nuovi legami familiari dei minori stessi al fine di crescere in un ambiente sicuro, la Corte Edu non ravvisa la violazione dell’art. 8 Cedu.
Art. 13: Diritto a un ricorso effettivo
In A.E.A. c.Grecia (Corte Edu, sentenza del 15.03.2018) la Corte Edu è chiamata a pronunciarsi sulla lamentata violazione del diritto a un ricorso effettivo per l’impossibilità del ricorrente, cittadino sudanese nato in Darfur, di presentare domanda di protezione internazionale in Grecia attraverso il quale fare valere il rischio di refoulement. In effetti, fuggito dal Sudan dopo i maltrattamenti subiti per le sue attività politiche, veniva registrato come rifugiato sotto il mandato dell’UNHCR in Turchia. Entrato successivamente in Grecia nel 2009, vedeva registrata la sua domanda di protezione internazionale solo tre anni dopo e, infine, rigettata. Lungo tutto questo periodo, il sig. A.E.A. aveva vissuto nei pressi di Atene in condizioni estremamente precarie. Riaffermando l’obbligo per gli Stati parte di porre in essere procedure effettive che garantiscano un esame particolamente attento, rapido e imparziale del rischio di refoulement, dotato anche di carattere sospensivo dell’eventuale allontanamento (cfr. Corte Edu, 21.10.2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014, p. 154), la Corte Edu sottolinea le carenze strutturali del sistema greco che aveva impedito, proprio nel periodo riguardante il ricorrente, a un numero elevato di richiedenti protezione internazionale di far valere, attraverso la procedura di asilo, il rischio di essere rinviati in Paesi in cui avrebbero potuto subire trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 21.01.2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia, in questa Rivista, XIII, n. 2, 2011, p. 111). Poichè il sig. A.E.A. ha fornito elementi da cui si deduce prima facie l’esistenza di tale rischio in caso di allontanamento in Sudan, la mancata registrazione con tutte le implicazioni successive ha dato origine a una violazione dell’art. 13 Cedu, letto in combinato all’art. 3. Invece, in relazione alla lamentata violazione dell’art. 3 Cedu per le condizioni di vita cui era stato costretto il ricorrente durante l’intero periodo in Grecia, la Corte Edu ritiene questa parte del ricorso manifestamente non fondata poichè, pur avendone la facoltà, quest’ultimo non aveva nè richiesto supporto alle autorità competenti, nè aveva sufficientemente dimostrato la lamentata condizione di precarietà.
Art. 14: Divieto di discriminazione
In Enver Şahin c. Turchia (Corte Edu, sentenza del 30.01.2018) la Corte Edu è chiamata da un cittadino turco, studente universitario paraplegico, a valutare la presunta violazione del suo diritto all’istruzione, letto in combinato con il divieto di discriminazione (rispettivamente, art. 2, Protocollo n. 1 alla Cedu e art. 14 Cedu), per la mancata adozione da parte dell’Università di misure volte a garantirgli l’accesso a tutte le lezioni previste dal suo piano di studi al pari dei suoi colleghi privi di disabilità. Pur sollecitati dal ricorrente, gli organi esecutivi dell’Università affermavano l’impossibilità di apportare le modifiche essenziali alle strutture coinvolte per ragioni finanziarie e temporali e gli offrivano un accompagnatore che lo avrebbe potuto sollevare per raggiungere le aule a lui inaccessibili. Senza procedere ad alcuna valutazione della situazione individuale del ricorrente, le autorità giudiziarie interne ne rigettavano i ricorsi ritenendo le strutture coinvolte conformi alla legislazione interna allora applicabile. Ritenendo di dover valutare il caso sotto il profilo del principio di non discriminazione, letto in combinato con l’art. 2 del Prot. 1 alla Cedu, poichè questo comprende tanto il divieto di trattamenti discriminatori in ragione della disabilità quanto l’obbligo di adottare le “soluzioni ragionevoli” finalizzate a correggere le ineguaglianze di fatto, la Corte Edu afferma la necessità di leggere la Cedu alla luce degli altri strumenti applicabili in materia, in particolare della Convenzione delle NU sui diritti delle persone con disabilità. Per quanto sia compito delle autorità nazionali scegliere quali misure, non comportanti un onere eccessivo, debbano essere adottate per garantire un sistema di istruzione inclusivo, il rifiuto di adottare tali soluzioni può comportare esso stesso una violazione del divieto di discriminazione. Se è vero che le promesse astratte legate alle risorse finanziarie non assumono rilevanza, la Corte Edu si concentra sulla natura del supporto offerto al ricorrente tramite un accompagnatore dedicato. Per la Corte tale soluzione non si conciliava con la garanzia di poter effettuare scelte autonome nè con l’esigenza di favorire un’esistenza dignitosa e indipendente, affermata anche nella menzionata Convenzione delle NU, e non era nemmeno basata su un esame individualizzato della situazione del ricorrente, la quale era stata ignorata anche dai giudici interni intervenuti sulla questione. Pertanto, ritenendo che le autorità nazionali non hanno agito con la dovuta diligenza per garantire il godimento del diritto allo studio del sig. Şahin senza alcuna discriminazione, la Corte ravvisa nel suo caso la violazione dell’art. 14, letto in combinato all’art. 2 del Prot. 1.