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Fascicolo 2, Luglio 2018


«Riflettere sull’immigrazione, in fondo, significa interrogare lo Stato, i suoi fondamenti, i suoi meccanismi interni di strutturazione e di funzionamento. Interrogare lo Stato in questo modo, mediante l’immigrazione, significa in ultima analisi “denaturalizzare”, per così dire, ciò che viene considerato “naturale” e “ristoricizzare” lo Stato o ciò che nello Stato sembra colpito da amnesia, cioè significa ricordare le condizioni sociali e storiche della sua genesi. La “naturalizzazione” dello Stato, come la percepiamo in noi stessi, opera come se lo Stato fosse un dato immediato, come se fosse un oggetto dato di per sé, per natura, cioè eterno, affrancato da ogni determinazione esterna, indipendente da ogni considerazione storica, indipendente dalla storia e dalla propria storia, da cui si preferisce separarlo per sempre, anche se non si smette di elaborare e di raccontare questa storia. L’immigrazione – ed è questo il motivo per cui essa disturba – costringe a smascherare lo Stato, a smascherare il modo in cui lo pensiamo e in cui pensa se stesso».

(A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, prefazione di P. Bourdieu, ed. it. a cura di S. Palidda, Milano, Raffaello Cortina, 2002).

Famiglia e minori

FAMIGLIA
Matrimonio combinato e matrimonio di comodo
I matrimoni di comodo che sono ostativi di per sé al rilascio del visto di ingresso per ricongiungimento famigliare sono quelli contratti allo scopo esclusivo di consentire all’interessato di entrare e soggiornare nel territorio dello Stato. Deve trattarsi di matrimoni cui sia estraneo il fine, proprio del matrimonio, di porre le basi di un nuovo nucleo famigliare, mentre in presenza di tale fine, la presenza dell’ulteriore finalità dell’ingresso nel territorio non è ostativa al rilascio del visto.
 
Con la sentenza 9.2.2018, n. 3234, la Sesta Sezione ha avuto occasione di distinguere i matrimoni combinati dai matrimoni di comodo, chiarendo che questi ultimi solo sono ostativi al rilascio del visto di ingresso per motivi famigliari. I matrimoni combinati sono quelli in cui il contatto tra i due giovani avviene tramite le rispettive famiglie, ma che hanno comunque come fine la costituzione di un nuovo nucleo familiare. I matrimoni di comodo vietati dalla normativa in materia di immigrazione sono invece quelli contratti allo scopo esclusivo di consentire all’interessato di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato. In proposito, la Corte chiarisce che per essere qualificati come matrimoni di comodo, deve trattarsi di unioni cui sia estraneo il fine proprio del matrimonio di porre le basi per un nuovo nucleo familiare, mentre in presenza di tale fine, la presenza dell’ulteriore finalità dell’ingresso nel territorio dello Stato non risulta ostativa al rilascio del visto di ingresso.
 
Ricongiungimento famigliare
Nelle decisioni inerenti il ricongiungimento famigliare, va riconosciuto valore probatorio alla documentazione dello status filiationis proveniente dalle autorità del Paese di nascita dell’interessato, ancorché la stessa non possa dirsi assistita da fede privilegiata.
Con la sentenza 22.2.2018, n. 4379, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata su una fattispecie in cui l’Amministrazione contestava l’insufficienza delle prove portate dallo straniero interessato al ricongiungimento con le figlie, sull’assunto che i documenti dello Stato di origine prodotti avanti all’autorità consolare italiana non erano in grado di superare l’incertezza relativa alla data di nascita delle figlie e dello stesso rapporto di filiazione. La Suprema Corte afferma che l’autorità consolare, pur avendo il potere-dovere di accertare la sussistenza in concreto dei presupposti per il rilascio del visto per ricongiungimento famigliare, non può negare in via di principio valore probatorio alla documentazione ufficiale dello status filiationis proveniente dalle competenti autorità del Paese di nascita dell’interessato. La Corte di Cassazione ribadisce altresì che tale documentazione non è però assistita dalla medesima fede privilegiata riconosciuta agli atti di stato civile adottati dalle autorità italiane. Spetta pertanto all’Amministrazione – e quindi al giudice in caso di contenzioso – valutare, in funzione dell’accertamento dei presupposti di cui trattasi, sia detta documentazione che gli eventuali elementi contrari alle sue risultanze.
 
Conversione del permesso di soggiorno in permesso per motivi famigliari entro un anno dalla scadenza
La conversione del permesso in permesso di soggiorno per motivi famigliari può essere chiesta entro un anno dalla data di scadenza del titolo di soggiorno originariamente posseduto dal familiare. L’eventuale adozione di un’ordinanza cautelare sospensiva da parte del Tribunale amministrativo, seguita dal successivo rigetto del ricorso, non vale a rendere regolare il soggiorno della cittadina straniera, alla luce del principio di strumentalità che governa la materia cautelare.
Con la sentenza 19.1.2018, n. 367, il Consiglio di Stato ha rigettato la richiesta di una cittadina straniera di ottenere la conversione del permesso di soggiorno da lavoro a famiglia dopo più di un anno dalla scadenza dell’originario titolo di soggiorno.
Secondo la cittadina straniera, la stessa avrebbe dovuto considerarsi regolarmente soggiornante anche successivamente alla scadenza del permesso di soggiorno per lavoro, avendo ottenuto la sospensiva dal Tribunale amministrativo, precedentemente al rigetto del proprio ricorso.
Per il Supremo Collegio Amministrativo, dall’ordinanza cautelare sospensiva derivano effetti provvisori e interinali che vengono definitivamente meno con la decisione di rigetto del ricorso, alla luce del principio di strumentalità che governa la materia cautelare; sicché al momento della richiesta di conversione la cittadina straniera non poteva considerarsi regolarmente soggiornante.
 
MINORI
Art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 e possibilità di convertire il permesso di soggiorno per assistenza minori in permesso ad altro titolo
Quando la permanenza dello straniero ai sensi dell’art. 31, co. 3, venga autorizzata per numerosi anni, lo straniero, in presenza delle altre condizioni legittimanti, potrà chiedere un permesso di soggiorno per lungo soggiornanti e, in ogni caso, la questura, a fronte di una richiesta di conversione, dovrà valutare se spetti un permesso di soggiorno ad altro titolo.
Con la sentenza 14.3.2018, n. 2935, il Tribunale Amministrativo per il Lazio ha avuto occasione di affrontare una questione molto dibattuta: quella della convertibilità del permesso di soggiorno rilasciato ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, in altro titolo di soggiorno.
Nel caso di specie, si trattava di una straniera giunta in Italia ancora minorenne che, dopo la nascita del figlio, aveva ottenuto numerose autorizzazioni al soggiorno ex art. 31, co. 3. Alla maggiore età del figlio, affidato ad altro nucleo famigliare, non era più possibile ottenere altra autorizzazione. La cittadina straniera chiedeva quindi la conversione del permesso di soggiorno per assistenza minore in permesso di soggiorno per motivi di lavoro e ottenuto il diniego, contestava avanti al Tribunale amministrativo, la circostanza che la questura non avesse valutato se alla ricorrente spettasse eventualmente il soggiorno ad altro titolo. In proposito, il Tribunale amministrativo osserva anzitutto che il divieto di convertibilità del permesso di soggiorno per assistenza minori in lavoro previsto dall’art. 29, co. 6, d.lgs. n. 286/1998 trova il proprio fondamento nella precarietà dell’autorizzazione al soggiorno ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998. Ma il Tribunale afferma anche che i gravi motivi che giustificano il rilascio dell’autorizzazione ex art. 31 e, quindi, del permesso per assistenza minore ex art. 29 possono permanere per numerosi anni, legittimando l’ininterrotta presenza in Italia dello straniero per lungo tempo. Tale circostanza – secondo il Tribunale – non può essere irrilevante per l’ordinamento, perché determina una stabilizzazione di fatto della posizione dello straniero. In tal caso, lo straniero in presenza delle altre condizioni legittimanti, potrà chiedere un permesso di soggiorno per lungo soggiornanti e, in ogni caso, la questura, a fronte di una richiesta di conversione, dovrà valutare se spetti un permesso di soggiorno ad altro titolo.
La posizione del Tribunale amministrativo è pienamente conforme al parere reso, in sede consultiva, dalla prima sezione del Consiglio di Stato in merito alla possibilità per il titolare di permesso di soggiorno per assistenza minori prorogato per cinque anni di ottenere il rilascio del permesso di soggiorno per lungo soggiornanti. In tale parere (parere numero 17097/2016 del 22.7.2016), il Consiglio di Stato, alla luce di un’ampia ricognizione degli argomenti favorevoli e contrari alla conversione del permesso per assistenza minori in permesso per lungo soggiornanti, afferma che tale permesso deve ritenersi titolo idoneo al rilascio di un permesso per lungo soggiornanti. Le ragioni sono quelle di carattere letterale e logico indicate dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 14.4.2015, n. 1909. In tale arresto, il Consiglio di Stato aveva osservato che da un lato, «il permesso per assistenza minori non rientra nei casi di inapplicabilità dell’art. 9, co. 1, previsti dal co. 3 dello stesso articolo, non essendo espressamente indicato nell’elenco ivi contenuto che va dalla lett. a) alla lett. e), né potendo essere sussunto sotto la lett. d), tenuto anche conto come non possa ritenersi consentito estendere ad ipotesi non testuali le specifiche cause di esclusione poste in via di eccezione al ripetuto primo comma», dall’altro, «la sussistenza degli altri requisiti e condizioni stabiliti da quest’ultima disposizione, nonché dal co. 2bis, in uno con la mancanza degli accennati elementi ostativi di cui al co. 4, attesta l’avvenuta, effettiva, protratta e proficua integrazione sociale, familiare ed economica dell’interessato, costituente il presupposto sostanziale della premialità insita nella stabilizzazione nascente dal rilascio del permesso UE».
Tali principi sono stati confermati dal Consiglio di Stato nel parere sopra richiamato e, da ultimo, dal Tribunale Amministrativo del Lazio, nella sentenza esaminata, che estende la ratio alla possibile conversione del permesso per assistenza minori anche ad altro titolo (con la sola esclusione del permesso per motivi di lavoro, espressamente escluso dall’art. 29, co. 6, TU).
 
Art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 e valutazione del danno per il minore in caso di allontanamento del genitore
Nella valutazione del danno conseguente all’allontanamento dei genitori o allo sradicamento del minore ai fini dell’autorizzazione al soggiorno ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, deve essere effettuato un giudizio prognostico che non trascuri in primo luogo l’età del minore, il grado di radicamento nel nostro Paese e le prospettive, riferite agli anni immediatamente successivi, di concrete possibilità di rapporto con i genitori nell’ipotesi di rimpatrio dei medesimi.
Con la sentenza 5.3.2018, n. 5084, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha ribadito che nella valutazione del danno conseguente all’allontanamento dei genitori o allo sradicamento del minore, deve essere effettuato un giudizio prognostico che non trascuri in primo luogo l’età del minore, il grado di radicamento nel nostro Paese e le prospettive, riferite agli anni immediatamente successivi, di concrete possibilità di rapporto con i genitori nell’ipotesi di rimpatrio dei medesimi. Tra questi indici, quello dell’età, se prescolare, costituisce un elemento significativo che non può essere trascurato.
Si osserva che nella fattispecie sembrerebbe che la Corte di Cassazione abbia preso in considerazione l’ipotesi che il genitore richiedente l’autorizzazione temporanea al soggiorno potesse essere allontanato, con permanenza in Italia del minore. In questa ipotesi, l’età prescolare del minore appare particolarmente significativa, dal momento che in caso di allontanamento, il padre non riuscirebbe a instaurare o a mantenere con il figlio un rapporto significativo.
 
Art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 ed espulsione a titolo di misura di sicurezza obbligatoria
Ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero, è necessario non solo il previo accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato, ma anche l’esame comparativo della condizione familiare dell’imputato, in una prospettiva di bilanciamento tra interesse generale alla sicurezza sociale e interesse del singolo alla vita familiare. Tale verifica va effettuata davanti al giudice – Tribunale di Sorveglianza e in caso di esito negativo, lo straniero non può ottenere l’esclusione dell’esecuzione della misura espulsiva, ricorrendo al Tribunale per i minorenni, ai sensi dell’art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998.
Con la sentenza 16.2.2018, n. 3916, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha avuto occasione di affrontare la questione relativa alla possibilità per lo straniero, espulso a titolo di misura di sicurezza obbligatoria, di adire il Tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 31, d.lgs. n. 286/1998 per ottenere l’esclusione dell’esecuzione della misura espulsiva allegando il rapporto con i figli. Sul punto, il Supremo Collegio ricorda in primo luogo che, in base alla propria giurisprudenza consolidata, il bilanciamento tra l’interesse dello Stato all’allontanamento e quello dello straniero al mantenimento della vita famigliare è una delle valutazioni che devono essere compiute dal Giudice – Tribunale di Sorveglianza, insieme a quella della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato. Laddove tale verifica sia stata effettuata con esito negativo per lo straniero, questi non può chiedere al Tribunale per i minorenni l’esclusione dell’esecuzione della misura espulsiva, seppure attraverso l’applicazione dell’art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, perché il sistema nazionale dell’espulsione misura di sicurezza non consente al giudice civile di svolgere alcun ulteriore sindacato, essendo ogni valutazione devoluta al sistema giurisdizionale articolato nel doppio grado di merito costituito dal Giudice di Sorveglianza – Tribunale di sorveglianza (nonché da quello di legittimità: la Cassazione penale).

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