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Fascicolo 2, Luglio 2019


«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

(Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1978)

 

Penale

Diversi sono gli ambiti di materia su cui incidono i provvedimenti che di seguito si andranno ad analizzare.
Il primo riguarda la responsabilità per il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare di cui all’art. 12 TU in capo alle ONG che operano soccorsi in mare. Del tema ci eravamo occupati nella rassegna n. 2/2018, ove avevamo dato conto in particolare del sequestro della motonave Iuventa (di proprietà della ONG tedesca Jugend Rettet),

disposto dal Tribunale di Trapani e confermato dalla Cassazione con decisione dell’aprile 2018, le cui motivazioni, qui allegate, sono state depositate nel dicembre 2018 (Cass. pen., sez. I, n. 56138/18, dec. 23.4.2018, dep. 13.12.2018). La Cassazione non prende posizione sulla ricostruzione fattuale operata nel provvedimento impugnato, con il quale il Tribunale del riesame di Trapani aveva ritenuto sufficientemente provata la ricostruzione accusatoria, per cui la ONG si sarebbe resa responsabile di vere e proprie “consegne concordate” dei migranti da parte delle associazioni criminali che gestiscono le partenze (§ 5.2. del considerato in diritto: «È fuori questione che, essendo mancata devoluzione del relativo punto, anche per i limiti posti dall’art. 325 c.p.p. al mezzo proposto, non sono state dedotte specifiche questioni circa l’adeguatezza dell’individuato fumus commissi delicti, punto sul quale i giudici della cautela hanno svolto la rispettiva analisi. Costituirà, quindi, l’oggetto del giudizio di merito, a cognizione piena, l’approfondita verifica di tale snodo, delicatissimo e cruciale, che impone di discernere tra l’attività, meritoria e salvifica, messa in essere da chi si muove nell’ambito segnato dall’art. 12 co. 2 TUI, nella cornice fissata dall’obbligo di salvataggio in mare scolpito dal diritto consuetudinario internazionale e richiamato da molteplici Convenzioni, e l’attività di chi – consapevolmente concorrendo con i trafficanti di esseri umani – agisce nel senso di agevolarne le condotte illecite e consentire la loro concreta perpetrazione»). La prima questione affrontata dalla Cassazione è quella della giurisdizione, contestata dai ricorrenti in quanto le ipotizzate consegne di migranti alle navi delle ONG si sarebbero comunque realizzate in acque internazionali, e dunque al di fuori della giurisdizione del giudice penale italiano. In estrema sintesi, i Supremi giudici respingono tale argomento, mostrando di condividere l’orientamento ormai consolidato che in situazioni di questo genere valorizza l’effettivo sbarco dei migranti in Italia, sulla base di una ricostruzione complessiva della vicenda fondata sul ricorso alla categoria dogmatica dell’autore mediato (§ 3.2: «L’ultimo tratto del viaggio, pure se riferibile all’operazione di soccorso, risulta costituire un fatto artatamente cagionato dagli autori del reato attraverso la determinazione di condizioni di grave pericolo per i soggetti trasportati, con l’effetto che quella condotta posta in essere in acque extraterritoriali si salda con quella da consumarsi e poi consumatasi in acque territoriali e in acque interne, dove l’azione dei soccorritori nella parte finale della concatenazione causale si configura come l’azione di un autore mediato, costretto ad intervenire per scongiurare un male più grave, ovvero la morte dei migranti irregolari trasportati»); il fatto poi che la nave sottoposta a sequestro battesse bandiera olandese non esclude la giurisdizione dei giudici italiani, posto che il sequestro è avvenuto quando la nave si trovava in acque territoriali italiane, ed il reato per cui si è proceduto al sequestro era destinato ad avere ripercussioni nel territorio dello Stato costiero (§ 3.4: «L’art. 27 della Convenzione di Montego Bay, dopo avere stabilito il principio secondo cui lo Stato costiero non dovrebbe esercitare la propria giurisdizione penale a bordo di una nave straniera in transito nel mare territoriale, al fine di procedere ad arresti o condurre indagini connesse con reati commessi a bordo durante il passaggio, eccettua alcuni casi, tra i quali quelli in cui le conseguenze del reato si estendono allo Stato costiero e in cui il reato è di natura tale da disturbare la pace del paese o il buon ordine nel mare territoriale [...]. Non è dubitabile che la condotta di favoreggiamento dell’immigrazione illegale esorbiti dal novero dei fatti di interesse circoscritto alla comunità navale: al contrario, esso attiene pienamente alla sicurezza e all’ordine della comunità territoriale di riferimento, con chiari riflessi sull’interesse generale presidiato dalla Stato costiero»). Il secondo profilo di diritto oggetto della decisione riguarda l’ipotizzata violazione dell’art. 100, co. 2 e 3 d.p.r. 309/1990, richiamato dall’art. 12, co. 8 TUI, in ordine alla mancata convocazione del terzo proprietario per essere sentito e svolgere le sue difese: argomento che viene respinto, dal momento che la necessità di sentire il terzo proprietario sorge solo quando il bene sequestrato venga destinato all’utilizzo da parte della polizia (§ 4.2: «Se – come avvenuto nel caso di specie – all’esecuzione del decreto di sequestro è acceduta soltanto la custodia giudiziaria finalizzata alla mera conservazione del cespite, senza l’assunzione di alcun atto relativo all’impiego della nave da parte della polizia o di organi equiparati, non si è determinata la situazione che, facendo venire in rilievo l’interesse del terzo proprietario a interloquire sul destino del bene, avrebbe richiesto l’attivazione del contraddittorio»). Quanto infine al motivo di ricorso secondo cui i giudici del riesame avrebbero erroneamente escluso l’estraneità al reato del terzo proprietario della nave, la Cassazione ne esclude la fondatezza: «il fatto che la società proprietaria della Iuventa sia un’organizzazione non governativa, all’epoca operante nell’attività di soccorso e salvataggio nell’ambito di eventi SAR (search and rescue), non escludeva che (vieppiù in relazione alla gravità delle azioni poste nell’ordinanza applicativa della misura e nell’ordinanza del Tribunale del riesame) alla stessa incombesse, per l’assoluta importanza e delicatezza dell’attività svolta, di predisporre in modo adeguato e diligente – con le specificità proprie del complesso contesto circostanziale involto dal soccorso umanitario in alto mare – un’organizzazione che garantisse la completa osservanza delle disposizioni impartite dalle autorità preposte al coordinamento dei soccorsi e l’assoluta impermeabilità degli addetti alle relative operazioni (dai responsabili apicali fino agli operatori deputati al contatto con i migranti) alle logiche delittuose dei trafficanti, per prevenire ogni possibile emersione del pericolo dell’illecita confluenza dell’attività di tali addetti con le condotte degli organizzatori ed esecutori del traffico, confluenza invece avvenuta, secondo l’impostazione accusatoria, alla stregua delle modalità fattuali descritte nel provvedimento genetico e riprese nell’ordinanza impugnata. La società ricorrente, oltre alla protesta di piena adesione alle istruzioni impartite dalle autorità competenti in tema di soccorso e salvataggio, non ha, quanto meno allo stato degli atti, fornito, secondo il coerente discorso giustificativo espresso dal Tribunale di riesame, la dimostrazione di aver provveduto a tanto» (§ 5.2).

Ancora di natura cautelare è la decisione della Cassazione (Cass. pen., sez. VI, n. 14418/19, dec. 26.2.2019, dep. 2.4.2019) relativa alla misura del divieto di dimora disposta nei confronti del sindaco di Riace Domenico Lucano per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (art. 12 TUI) e di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (art. 353-bis c.p.). La vicenda è ben nota alle cronache, e non è questa la sede ove darne conto (per qualche cenno, cfr. l’editoriale pubblicato sul n. 3/2018 di questa Rivista). Riguardo all’imputazione relativa all’art. 12 TU, la Cassazione rammenta la tradizionale qualificazione del reato come fattispecie di pericolo o a consumazione anticipata, rispetto alla quale risulta irrilevante l’effettivo ingresso irregolare dello straniero in Italia, bastando ai fini della responsabilità penale che «il soggetto attivo ponga in essere, con la propria condotta, una condizione (necessaria o no) teleologicamente connessa al potenziale ingresso illegale dello straniero» (§ 3 del considerato in diritto): ricordata tale premessa in diritto, la Corte respinge il ricorso, ritenendo che, «a fronte di un congruo ed esaustivo apprezzamento delle emergenze procedimentali, esposto attraverso un insieme di sequenze motivazionali chiare e prive di vizi logici, il ricorrente non ha individuato passaggi o punti della decisione tali da inficiare la complessiva tenuta del discorso argomentativo delineato dal Tribunale, ma vi ha sostanzialmente contrapposto una lettura alternativa delle risultanze investigative, facendo leva sul diverso apprezzamento di profili di merito già puntualmente vagliati in sede di riesame cautelare, e la cui rivisitazione, evidentemente, non è sottoponibile al giudizio di questa Suprema Corte» (ibidem). Diversa è invece la valutazione della Cassazione rispetto all’altra imputazione, relativa alle irregolarità riscontrate dagli organi inquirenti nella procedura di assegnazione del servizio comunale di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani: secondo la Cassazione, «non emergono con la necessaria chiarezza di analisi gli atti o i comportamenti che l’indagato avrebbe materialmente posto in essere per realizzare in concreto una serie di condotte che, allo stato, paiono solo assertivamente ipotizzate, e le cui note modali, peraltro, non vengono sotto alcun profilo tratteggiate, rimanendo addirittura contraddette dalla connotazione di collegialità propria di tutti gli atti di affidamento e dalla dedotta circostanza di fatto – non adeguatamente valorizzata dall’ordinanza impugnata nonostante la puntuale allegazione in tal senso offerta dalla difesa in sede di gravame cautelare – relativa alla pacifica presenza, in ciascuna delle pertinenti delibere amministrative adottate nel corso della procedura seguita dai competenti organi municipali, dei prescritti pareri di regolarità tecnica e contabile da parte dei rispettivi responsabili del servizio interessato». (§ 4.1). Fondate risultano altresì, a giudizio della Cassazione, le doglianze relative alla sussistenza delle esigenze cautelari, considerato che «le stesse non sono state specificamente delineate nell’ordinanza, i cui scarni passaggi motivazionali non si dedicano ad illustrare, con puntuali argomentazioni, gli elementi ritenuti, oggettivamente e soggettivamente, sintomatici della concretezza e dell’attualità dell’enunciato pericolo di reiterazione di delitti “della stessa specie di quello per cui si procede”, ma risultano basati, sotto tale profilo, su affermazioni del tutto apodittiche ed irrilevanti ai fini del richiesto vaglio delibativo, perché estranee ai contorni propri delle vicende storico fattuali oggetto dei temi d’accusa» (§ 5).

Si segnalano poi due decisioni di legittimità in materia di espulsioni disposte dal giudice penale. Nella prima (Cass. pen., sez. I, n. 16385/19, dec. 15.3.2019, dep. 15.4.2019), in materia di espulsione a titolo di misura alternativa alla detenzione, la Corte conferma il principio per cui «la convivenza more uxorio con un cittadino italiano, laddove accertata come sussistente al momento in cui deve porsi in esecuzione il provvedimento, è ostativa all’espulsione, avendosi ai fini in questione una condizione del tutto omogenea rispetto a quella del “coniuge” specificamente menzionata dal d.lgs. n. 286 del 1998, art. 19, co. 2». Nella seconda (Cass. pen., sez. III, n. 19662/19, dec. 19.3.2019, dep. 8.5.2019), in tema di espulsione a titolo di misura di sicurezza ex art. 86, co. 2, d.p.r. 309/1990, la Corte, rinviando ai numerosi precedenti in materia di divieto di refoulement, ricorda come, quale che sia il profilo di pericolosità del destinatario della misura, l’esecuzione della stessa sia subordinata alla verifica che lo straniero espellendo non sia esposto nel Paese di destinazione al rischio di trattamenti contrari all’art. 3 CEDU («La sentenza impugnata, nel confermare la misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, ha pretermesso la valutazione, che le competeva, di verifica, in concreto, alla luce delle allegazioni difensive, se l’esecuzione della misura di sicurezza dell’espulsione avesse esposto l’imputato a rischi per la sua incolumità, come allegato, ritenendo superabile la valutazione della sussistenza delle condizioni che impediscono il refoulement, dalla ritenuta preminenza della pericolosità sociale dello stesso, valutazione che costituisce il primo presupposto da verificare, cui segue la valutazione della situazione soggettiva, come allegata nel caso concreto, della sussistenza di un divieto di espulsione, secondo la cornice normativa interna interpretata alla luce delle fonti sovranazionali»: § 8 del considerato in diritto).

Per quanto riguarda infine la giurisprudenza di merito, la prima decisione allegata ( Trib. Torino, dec. 30.10.2018, dep. 8.11.2018 ) riguarda la responsabilità ex art. 583-bis c.p. di una donna egiziana che aveva sottoposto le figlie minori a pratiche rientranti nella nozione medica di mutilazione degli organi genitali femminili. La difesa aveva posto in evidenza come tali pratiche facessero parte di tradizioni consolidate nel Paese d’origine dell’imputata; il Tribunale, all’esito di una documentata ricostruzione dei principi consolidati nella giurisprudenza di legittimità in tema di reati culturalmente orientati, ha respinto l’allegazione difensiva, ritenendo conclusivamente che l’imputata «per quanto influenzata dalla sua tradizione etnica, fosse capace di cogliere e percepire i valori fondamentali della nostra cultura giuridica e di comprendere l’illiceità della sua condotta, il che rende inescusabile l’ignorantia legis» (§ 5.3).

La seconda decisione di merito ( Trib. Catania, dec. 19.12.2018, dep. 26.2.2019 ) riguarda invece la responsabilità penale di un cittadino nigeriano che, giunto in Italia dopo essere stato soccorso da una nave della Guardia costiera svedese, era stato riconosciuto da diversi compagni di viaggio come il soggetto che aveva guidato l’imbarcazione salpata dalla Libia e soccorsa in alto mare (oltre all’art. 12 TU, vengono contestati l’art. 416 c.p., in quanto l’imputato viene ritenuto partecipe dell’associazione criminale che aveva organizzato il viaggio dalla Libia, e l’art. 586 c.p., in relazione alla morte di 7 migranti deceduti nel corso del viaggio). Due sono in particolare gli elementi di interesse della decisione. La sentenza conferma innanzitutto il principio per cui i migranti soccorsi in acque internazionali e giunti in Italia a bordo delle imbarcazioni dei soccorritori non rispondono del reato di cui all’art. 10-bis TU, che in quanto fattispecie contravvenzionale non è punibile a titolo di tentativo, e possono dunque essere sentiti come testimoni, invece che come indagati di reato connesso (§ 6.1). Quanto poi alla responsabilità per il reato associativo, il Tribunale non ritiene provata la partecipazione dell’imputato all’impresa criminale, reputando gli elementi di prova forniti dall’accusa (il fatto che l’imputato avesse guidato l’imbarcazione verso l’Italia, e il trattamento di favore che allo stesso era stato riservato dai componenti del gruppo criminale prima della partenza) non sufficienti a ritenere provato oltre ogni ragionevole dubbio l’inserimento dell’imputato nell’organizzazione criminale (§ 6.3.2).

Quando questa rassegna era già stata ultimata, è stata depositata una importante decisione del Tribunale di Trapani (dec. 23-5, dep. 3-6-2019) , che ha riconosciuto la legittima difesa (rispetto ai contestati reati di resistenza a pubblico ufficiale e di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare) in capo ai migranti che si erano ribellati alla prospettiva di essere riportati in Libia dalla nave, battente bandiera italiana, che li aveva soccorsi in acque internazionali. Daremo conto in un commento nel prossimo numero delle numerose ed importanti affermazioni contenute nella decisione, la cui rilevanza va ben al di là del caso concreto. Qui basti accennare a come, rispetto alla tradizionale applicazione dell’art. 54 c.p. sullo stato di necessità, il riconoscimento della legittima difesa cambi totalmente i termini della questione, posto che la scriminante riconosciuta ai migranti presuppone un’aggressione ingiusta, che in questo caso secondo il Tribunale è rappresentata dalla decisione del capitano della nave di riportare i migranti in Libia, in adempimento delle istruzioni ricevute dalla Guardia costiera libica, d’accordo con le autorità italiane. In estrema sintesi, Il Tribunale ritiene che il diritto internazionale applicabile in tema di soccorsi in mare (ed in particolare la Convenzione di Amburgo sulle zone SAR) configuri a carico dei naufraghi il diritto all’individuazione da parte delle autorità responsabili dei soccorsi di un place of safety, e ritiene altresì che la Libia non può ritenersi tale, considerate le atroci condizioni dei campi libici di detenzione dei migranti (la sentenza contiene al riguardo una lunghissima citazione, di 20 pagine, di un rapporto dell’UNHCR proprio sulla situazione attuale dei migranti in Libia). Il rimpatrio verso la Libia, cui con la forza si sono opposti gli imputati, configura così quell’«offesa ingiusta», di fronte al cui «pericolo attuale» gli imputati possono invocare di essersi legittimamente opposti con una difesa «necessaria» (visto che il ricorso alla minaccia dell’uso della forza era l’unica possibilità che avevano i naufraghi per imporre all’equipaggio della nave l’inversione di rotta) e «proporzionata» (considerata la gravità delle lesioni all’integrità fisica e psichica cui gli imputati e gli altri migranti sarebbero stati esposti al ritorno in Libia). 

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