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Fascicolo 3, Novembre 2019


«Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale di speciale disperazione / e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità, di verità.   [...] Ricorda Signore questi servi disobbedienti / alle leggi del branco / non dimenticare il loro volto / che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti come una svista / come un'anomalia / come una distrazione / come un dovere».
(Fabrizio de Andrè, Smisurata Preghiera, in Anime salve, 1996)

Famiglia e minori

FAMIGLIA
Ricongiungimento familiare in pendenza del giudizio sulla domanda di protezione internazionale
Con l’ordinanza n. 13104 del 15.5.2019, la prima Sezione della Corte di cassazione è stata chiamata a valutare se il richiedente asilo, nei cui confronti sia ancora pendente il giudizio sulla richiesta di riconoscimento della protezione internazionale, debba essere considerato come persona «regolarmente soggiornante» e abbia quindi diritto di chiedere la «coesione familiare» con il coniuge, ai sensi dell’art. 30, co. 1, lett. b), d.lgs. 286/98:
disposizione che prevede il diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari «agli stranieri regolarmente soggiornanti ad altro titolo da almeno un anno che abbiano contratto matrimonio nel territorio dello Stato [...]».
Secondo la sentenza della Corte d’appello di Roma impugnata per Cassazione, la ricorrente non poteva beneficiare della disposizione di cui alla lett. b) dell’art. 30, non essendo in possesso di un regolare titolo di soggiorno e «non potendo in tal senso valorizzarsi la circostanza che all’epoca delle nozze fosse ancora pendente il giudizio sulla protezione internazionale, il cui effetto sospensivo (ancorché allora previsto dalla legge) non valeva a conferire regolarità al soggiorno, avendo carattere solo provvisorio […]».
Di altro avviso è invece la Suprema Corte, la quale con l’ordinanza in commento ha affermato che la ricorrente, avendo presentato la domanda di coesione familiare quando ancora pendeva nei suoi confronti un giudizio sulla richiesta di riconoscimento della protezione internazionale, doveva considerarsi «“regolarmente soggiornante” nel territorio italiano», essendo autorizzata a norma dell’art. 7, d.lgs. 25/2008 a rimanere nel territorio dello Stato fino alla decisione della Commissione territoriale, i cui effetti poi, in caso di decisione negativa, erano sospesi fino all’esito del giudizio impugnatorio, come allora prevedeva l’art. 35, co. 6, d.lgs. 25/08, poi abrogato.
Di qui l’illegittimità della decisione impugnata per Cassazione, con cui era stato negato l’esercizio del diritto alla coesione familiare, sull’unico presupposto della pretesa mancanza del requisito del regolare soggiorno, necessario per accogliere la domanda di coesione familiare ai sensi dell’art. 30, co. 1, lett. b), d.lgs. 286/98.

 

Segnalazione SIS, presenza di condanne passate in giudicato e ricongiungimento con coniuge italiano
È illegittimo il rifiuto del visto per ricongiungimento familiare di cittadino straniero coniugato con cittadina italiana che sia fondato solo sull’esistenza di una segnalazione nel SIS e sull’esistenza di condanne penali, nel caso in cui non vi sia una verifica che tale persona costituisca una minaccia effettiva, attuale e abbastanza grave per la sicurezza. La convivenza tra i coniugi non costituisce condizione per il rilascio del visto.
Con l’ ordinanza del 17.7.2019, n. 13841, il Tribunale di Roma ha disposto il rilascio del visto per ricongiungimento familiare di un cittadino straniero coniugato con cittadina italiana cui l’Ambasciata italiana di Tunisi aveva negato il visto di ingresso sulla scorta della segnalazione del cittadino straniero nel sistema SIS e della presenza di condanne penali passate in giudicato.
Secondo il Tribunale, il visto richiesto da un coniuge di cittadino italiano può essere rifiutato solo sulla base di una preliminare verifica della circostanza che questa persona costituisca una «minaccia effettiva, attuale e abbastanza grave per un interesse fondamentale della collettività». Precisa l’autorità giudiziaria che la segnalazione nel sistema SIS dello straniero interessato al ricongiungimento, così come l’esistenza di condanne penali non determinano un automatico diniego del visto da parte dell’autorità consolare, essendo appunto necessaria una verifica in concreto della pericolosità dello straniero.
Neppure può avere rilevanza l’assenza di convivenza tra i coniugi, dal momento che, da un lato, la mera assenza di coabitazione non è sintomatica del venir meno dell’affectioconiugalis, dall’altro, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, nel caso di coesione familiare del coniuge del cittadino italiano o dell’Unione europea, non è necessario il requisito della convivenza effettiva, non previsto dal d.lgs. n. 30 del 2007 (Cass. 23.5.2013, n. 12745 e Cass. 6.3.2014, n. 5303).

 

Diritto al rilascio del permesso di soggiorno per cure mediche e richiesta di certificato di matrimonio tradotto e legalizzato da un’autorità consolare italiana
Al termine del procedimento avviato a seguito della richiesta di rilascio del permesso per cure mediche, da parte del marito convivente con la moglie in stato di gravidanza, la questura di Roma rigettava la richiesta perché alla domanda non era allegato un certificato di matrimonio tradotto e legalizzato da un’autorità consolare italiana ai sensi dell’art. 2 del d.p.r. 394/99, ma un estratto del certificato rilasciato dall’Ambasciata straniera e legalizzato dalla prefettura di Roma.
Dopo aver ripercorso i principi fondamentali dell’attuale disciplina del diritto all’unità familiare e della tutela dei minori, il Tribunale di Roma, con decreto del 26.7.2019 ex art. 700 c.p.c., adottato inaudita altera parte, ha riconosciuto in capo al ricorrente il diritto al rilascio del permesso di soggiorno, sussistendo la condizione di inespellibilità di cui all’art. 19, co. 2, lett. d), d.lgs. 286/98 e risultando invece «priva di pregio» la pretesa della questura di vedersi produrre un certificato di matrimonio tradotto e legalizzato presso l’autorità consolare italiana nel Paese di origine dei coniugi. Secondo l’autorità giudiziaria, il documento prodotto nel corso del procedimento (estratto del certificato di matrimonio, rilasciato dall’Ambasciata estera in Italia e legalizzato dalla prefettura di Roma) «ha valore di piena prova del matrimonio legalmente contratto», essendo del tutto equipollente al certificato nelle forme richieste dalla questura, certificato quest’ultimo che può essere ottenuto in tempi molto più lunghi e con maggiori difficoltà.

 

Richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari e pericolosità sociale
Con ordinanza del 10.7.2019, il Tribunale di Torino ha accolto il ricorso avverso al decreto di rigetto della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari, adottato dal questore per motivi di pericolosità sociale, accertando e dichiarando il diritto dell’interessato al rilascio del permesso di soggiorno e conseguentemente ordinando al questore di disporne il rilascio.
Il Tribunale rileva che, a fronte di alcune denunce e condanne per fatti assai risalenti nel tempo e per ipotesi di reato non particolarmente gravi, il diritto del ricorrente a mantenere l’unità del nucleo familiare va ravvisato innanzitutto nella sua posizione di padre di due minori che sono cittadini italiani. Trattasi di un diritto che può venire meno solo nel caso in cui il genitore, ancorché non convivente con il figlio minore italiano, sia stato privato della potestà genitoriale (art. 30, co. 2, lett. d), d.lgs. 286/98).
Al ricorrente deve inoltre essere riconosciuto il fatto di trovarsi in una condizione di inespellibilità, in quanto convivente con i due figli minori, cittadini italiani. Il Tribunale osserva come quando ricorra una tale condizione di inespellibilità, l’allontanamento dello straniero dal territorio italiano possa essere disposto solo dal Ministro dell’interno e solo per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato (art. 13, co. 1, d.lgs. 286/98).

 

MINORI
Art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998
L’autorizzazione al soggiorno in Italia prevista dall’art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, può essere negata in caso di attività del genitore incompatibili con la sua permanenza in Italia; tuttavia, la condanna per un determinato reato non è automaticamente ostativa al rilascio dell’autorizzazione, ma il Tribunale per i minorenni, una volta accertata la sussistenza di gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore, a fronte del compimento da parte del familiare istante di attività incompatibili con la permanenza in Italia, dovrà effettuare un esame complessivo della condotta, cui segua un attento giudizio di bilanciamento tra l’interesse statuale alla tutela dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale e il preminente interesse del minore.
Come è noto, l’art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 è una delle disposizioni più tormentate del TU: sulla sua esatta portata è stato chiesto alla Corte di cassazione di pronunciarsi in numerosissime occasioni.
L’articolo, prevedendo la possibilità per il Tribunale per i minorenni di autorizzare la permanenza sul territorio italiano del genitore (o familiare) in deroga alle altre disposizioni in materia di immigrazione, in caso di gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico del figlio è una disposizione che, per la sua ampiezza, si presta infatti alle più diverse interpretazioni, come dimostra la sussistenza di orientamenti molto diversi da parte dei Tribunali per i minorenni.
Nel tempo la Corte di legittimità ha svolto il suo ruolo nomofilattico chiarendo numerosi punti dubbi.
Una delle questioni che, tuttavia, rimaneva aperta era quella del rilievo di eventuali comportamenti di rilievo penale tenuti dal familiare istante e quale peso dovessero avere nel procedimento instaurato avanti il Tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 31, comma 3.
Su tale questione si sono pronunciate le Sezioni Unite della Corte di cassazione con l’ampia sentenza del 12.6.2019, n. 15750 .
Con tale pronuncia, vengono fornite ai Tribunali per i minorenni indicazioni fondamentali quanto al giudizio che deve in concreto svolgersi nei procedimenti in esame.
In primo luogo, le Sezioni Unite chiariscono che la condotta pregiudizievole tenuta dal genitore istante può essere ragione non solo di revoca di un’autorizzazione già concessa, ma anche di mancato rilascio di una prima autorizzazione. Benché, infatti, il tenore letterale dell’art. 31, co. 3, secondo periodo, sembrerebbe avere ad oggetto solo la revoca dell’autorizzazione, «tale disposizione non consente di ritenere che l’attività incompatibile con la permanenza in Italia sia destinata a rilevare soltanto se sopravvenuta, dunque, in sede di revoca dell’autorizzazione già concessa, mentre sia ininfluente in fase di rilascio della stessa. Tale soluzione ermeneutica «presterebbe il fianco a dubbi di tenuta sul piano logico-sistematico»: per le Sezioni Unite, «con il comma 3 dell’art. 31, il legislatore del Testo unico ha inteso perseguire l’interesse del minore nel grado più elevato possibile, assicurandogli il godimento pieno del suo diritto fondamentale all’effettività della vita familiare e della relazione con i propri genitori, ma nel rispetto della basilare esigenza di protezione dalla criminalità del Paese che offre accoglienza».
Ciò precisato, le Sezioni Unite chiariscono quanto al giudizio da seguire che il giudice, investito della richiesta di autorizzazione ai sensi dell’art. 31, comma 3, «è chiamato in primo luogo ad accertare la sussistenza di gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore che si trova nel territorio italiano; esaurito positivamente tale accertamento, a fronte del compimento da parte del familiare istante di attività incompatibili con la permanenza in Italia, potrà negare l’autorizzazione soltanto all’esito di un esame complessivo, svolto in concreto e non in astratto, della sua condotta, cui segua un attento giudizio di bilanciamento tra l’interesse statuale alla tutela dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale e il preminente interesse del minore».
Conseguentemente, «il diniego non può essere fatto derivare automaticamente dalla pronuncia di condanna per uno dei reati che lo stesso Testo unico considera ostativi all’ingresso o al soggiorno dello straniero; nondimeno tale condanna è destinata a rilevare, al pari delle attività incompatibili con la permanenza in Italia, in quanto suscettibile di costituire una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, e può condurre al rigetto della istanza di autorizzazione all’esito di un esame circostanziato del caso e di un bilanciamento con l’interesse del minore, al quale la detta norma, in presenza di gravi motivi connessi con il suo sviluppo psicofisico, attribuisce valore prioritario, ma non assoluto».

 

Minori non accompagnati. Competenza all’apertura della tutela
Spetta al Tribunale per i minorenni la competenza all’apertura della tutela di un minore non accompagnato, anche nel caso in cui un minore risulti affidato al fratello maggiorenne, con procura notarile dei genitori, non essendo tale atto idoneo a conferire la rappresentanza legale ad un soggetto diverso dai genitori, secondo la legislazione italiana.
La Corte di cassazione, con la decisione 3.4.2019, n. 9199 , è stata chiamata a chiarire se rientri nella condizione di minore non accompagnato, il minore che sia affidato in Italia alle cure di un parente diverso dal genitore. Nel caso concreto, si trattava di un minore albanese, affidato con atto notarile dai genitori al fratello maggiorenne che risiedeva regolarmente in Italia.
Il giudice tutelare, cui si era rivolto il fratello per l’apertura di una tutela, aveva trasmesso gli atti per competenza al Tribunale per i minorenni, ritenendo applicabile la legge n. 47/2017, in materia di minori non accompagnati.
Il Tribunale per i minorenni aveva sollevato regolamento d’ufficio di competenza, a norma dell’art. 47 c.p.c., co. 4, ritenendo che il caso trasmesso esulasse «dalla definizione legislativa (di “minore non accompagnato”) che richiede la contemporanea sussistenza di due elementi: la mancanza di assistenza per il minore e l’assenza di uno suo rappresentante legale sul territorio italiano». Il minore in questione non sarebbe stato però privo di assistenza sul territorio, essendo affidato alle cure e alla custodia di un parente dimorante in Italia, come risultava da atto notarile a firma dei genitori. Ne discendeva la competenza del giudice tutelare all’apertura e alla nomina del tutore.
La Corte di cassazione dichiara di non condividere tale conclusione, osservando che deve considerarsi minore non accompagnato il minore «privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano» e che l’uso della disgiuntiva «e» indicherebbe la necessità della concorrenza di entrambe le condizioni.
Secondo la Suprema Corte, quando si parli di rappresentanza legale, la verifica va fatta alla stregua delle leggi vigenti nell’ordinamento italiano, «il quale la conferisce ai soli genitori, ai quali non è consentito di delegarla in forma privatistica ad altri soggetti, neppure a prossimi parenti, qual è il fratello, mentre è consentita la partecipazione di costoro (genitori, parenti e affini) nel procedimento giurisdizionale previsto per la nomina del tutore» (art. 348 c.c.). Conseguentemente, in un caso come quello indicato, la competenza spetta al Tribunale per i minorenni.

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