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Fascicolo 3, Novembre 2019


«Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale di speciale disperazione / e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità, di verità.   [...] Ricorda Signore questi servi disobbedienti / alle leggi del branco / non dimenticare il loro volto / che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti come una svista / come un'anomalia / come una distrazione / come un dovere».
(Fabrizio de Andrè, Smisurata Preghiera, in Anime salve, 1996)

Cittadinanza e apolidia

Nel periodo qui considerato (maggio-agosto 2019) permangono alcuni orientamenti giurisprudenziali ormai consolidati, quale ad esempio il riconoscimento, da parte del giudice civile, dell’acquisto della cittadinanza iure sanguinis o l’atteggiamento restrittivo del giudice amministrativo riguardo all’acquisto della stessa per naturalizzazione. Piuttosto rare (e poco conosciute) risultano invece le pronunce sull’acquisto della cittadinanza da parte dei figli minorenni dei neo cittadini,
soprattutto quando sorgono problemi relativi alla convivenza, come richiesto dall’art. 14 della legge organica. Ancora più rare sono poi le sentenze che affrontano i problemi collegati al riconoscimento dello status civitatis italiano a favore di coloro che nascono sul nostro territorio e non acquistano nessuna (altra) cittadinanza alla nascita. Addirittura eccezionali sono poi i casi di applicazione delle norme che attribuiscono la cittadinanza, dietro domanda, ai discendenti degli emigrati ai tempi dell’Impero austro-ungarico, soprattutto quando si verte in tema di legittimità costituzionale. Certamente non sporadiche sono invece le pronunce in materia di apolidia.

 

Riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di acquisto della cittadinanza italiana. Differenza tra le ipotesi in cui l’istante ha un interesse legittimo all’acquisto della cittadinanza e quelle in cui è titolare di un diritto soggettivo. Requisito relativo alla permanenza del vincolo coniugale; differenza rispetto alle cause ostative all’acquisto; principio del tempus regit actum.
Sul problema del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, già oggetto di pronunce sia del giudice civile sia di quello amministrativo (v. questa Rassegna, fasc. 2/2019), è intervenuto il Consiglio di Stato, chiamato a decidere su un ricorso presentato dal Ministero dell’interno in riferimento all’art. 5 della l. 91/92, dunque in materia di acquisto della cittadinanza per matrimonio. Il Ministero lamentava infatti che il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez. II-Salerno, nella sentenza n. 1153/2012, aveva erroneamente accolto il ricorso contro il provvedimento di diniego della cittadinanza italiana, presentata da una cittadina straniera, con una decisione fondata sulla norma testé citata. I giudici di Palazzo Spada (Cons. St., sez. III, sent. 29.4.2019 n. 2768) non possono ovviamente che condividere l’assunto del ricorrente e distinguere perciò il contenuto dell’art. 5, il quale contempla i presupposti attinenti al matrimonio e alla residenza ai fini della relativa richiesta, dal contenuto dell’art. 6, co. 1 lett. c, che invece prevede una valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione circa la sussistenza di gravi motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica. Di conseguenza, mentre nel primo caso si sarebbe in presenza di un diritto soggettivo, tutelabile di fronte all’autorità giudiziaria ordinaria, solo nel secondo caso si tratterebbe di un interesse legittimo, per la violazione del quale è competente il giudice amministrativo. Una ulteriore doglianza presente nel medesimo ricorso offre inoltre al Consiglio di Stato lo spunto per ribadire il principio del tempus regit actum in questa specifica materia, già enucleato nella recente decisione n. 1211 del 21.2.2019 (vedila anch’essa in questa Rassegna, fasc. 2/2019), malgrado venga giustamente sottolineato che la nuova formulazione dell'art. 5 è cristallina nello stabilire che la cessazione degli effetti civili del matrimonio non deve essere intervenuta fino al momento dell'adozione del decreto di attribuzione della cittadinanza di cui all'art. 7, alla luce della nuova formulazione dello stesso art. 5 ad opera del co. 11 dell'art. 1 della l. 94/2009.

 

Acquisto della cittadinanza iure sanguinis. Accertamento del possesso della cittadinanza per discendenza da cittadino italiano. Acquisto della cittadinanza a favore dei figli conviventi di chi acquista la cittadinanza; interpretazione della nozione di convivenza.
Riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e già residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico e ai loro discendenti.
Ancora una volta il Tribunale di Roma si è pronunciato sul riconoscimento della cittadinanza italiana nei confronti di discendenti di ex cittadine italiane, le quali – nel vigore della precedente legge organica del 1912 – avevano perduto il loro status civitatis di origine a causa del matrimonio con un cittadino straniero, salvo poi “recuperare” tale status grazie alle sentenze di illegittimità costituzionale delle relative norme (n. 87/75 e n. 30/83). La presente decisione (Trib. Roma, sent. 9.7.2019, in Banca dati De Jure) non si discosta dalle usuali motivazioni ripetutamente messe in luce nelle precedenti Rassegne.
Merita invece particolare attenzione una pronuncia del Tribunale di Milano relativa all’acquisto della cittadinanza italiana da parte dei figli di neo cittadini ai sensi dell’art. 14 della l. 91/92 ( Trib. Milano, ord. 30.8.2019 ). Questa norma prescrive appunto tale acquisto a favore dei suddetti figli qualora minorenni e conviventi. Sotto quest’ultimo profilo, il caso all’esame dei giudici milanesi presentava alcune anomalie, dovute anzitutto alla sottrazione internazionale del figlio e al suo trasferimento in Francia da parte della madre, al successivo affidamento ai servizi sociali di quel Paese e ad una successiva sentenza di affidamento al padre neo cittadino italiano da parte del giudice francese. Il Tribunale di Milano nega anzitutto, anche alla stregua di alcune precedenti decisioni di merito, che il requisito della convivenza possa essere ravvisato nella semplice coabitazione di fatto. Una lettura costituzionalmente orientata del contenuto della norma identifica invece il legame familiare sottostante in quel complesso di rapporti che attengono alla condivisione, all’aiuto materiale ed al sostegno morale. Dunque, la convivenza va intesa come effettività del rapporto genitoriale, del vincolo affettivo, della condivisione materiale e morale delle vicende di vita che interessano il genitore ed il minore. Nel caso di specie, la sussistenza di queste condizioni era testimoniata dai continui contatti del padre con i servizi sociali francesi, dai viaggi in Francia del padre e da quelli in Italia della figlia, dal procedimento instaurato davanti al giudice francese e dal suo esito favorevole: in conclusione, il rapporto del ricorrente con la figlia minore non è mai cessato sul piano sostanziale.
Pur se in una diversa prospettiva, del tutto inusuale risulta l’applicazione ad opera della giurisprudenza dell'art. 1 della l. 14.12.2000, n. 379 (Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e già residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico e ai loro discendenti). Tale norma contempla i soggetti che – dopo essere nati e aver risieduto in territori appartenuti all'Impero austro-ungarico – sono da quei territori emigrati prima del 16 luglio 1920, data coincidente con l'entrata in vigore del Trattato di Saint Germain en Laye, stipulato tra le potenze alleate e l'Austria alla fine del primo conflitto mondiale, in virtù del quale, a causa della dissoluzione dell'Impero austro-ungarico, alcuni territori già appartenenti a quest'ultimo furono trasferiti al Regno d'Italia. Ai soggetti che da tali territori erano emigrati prima del 16 luglio 1920 – e oggi, evidentemente, ai loro discendenti – la l. 379/2000 concede la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana, qualora abbiano reso una dichiarazione di acquisto della cittadinanza stessa, con le modalità previste dall'art. 23 della l. 91/92, entro il termine di cinque anni dall'entrata in vigore della legge stessa; tale termine è stato successivamente prorogato di ulteriori cinque anni dall'art. 28-bis del d.l. 30.12.2005, n. 273, recante «Definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti», convertito, con modificazioni, dalla l. 23.2.2006, n. 51.
Ancor più inusuale appare poi che la suddetta legge sia sottoposta ad un vaglio di costituzionalità: eppure una recente sentenza costituzionale affronta tale questione.
In particolare, i giudici del Palazzo della Consulta, sono stati chiamati a decidere la questione di legittimità della norma sopra citata unitamente a quella dell'art. 6 del d.l. 286/1998, sollevate in riferimento all'art. 3 Cost. dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino Alto-Adige, sede di Trento. Il nucleo centrale di tali questioni risiedeva nella mancata previsione di uno speciale permesso di soggiorno che consentisse all’istante regolarmente residente in Italia di svolgere una attività lavorativa durante il lungo periodo di attesa del provvedimento accertativo del Ministero dell’interno. Non a caso il ricorrente chiedeva al giudice rimettente il risarcimento dei danni per la forzata interruzione di questa sua attività.
Nella loro dettagliata pronuncia (Corte Cost., sent. 19.6.2019, n. 149) i giudici costituzionali esaminano in modo approfondito l’incidenza del Trattato di pace del 1920 sullo status civitatis delle persone residenti nei territori passati sotto la sovranità delle c.d. Potenze vincitrici, ivi compresa l’Italia, e di quelle che erano invece emigrate all’estero dopo aver risieduto nei territori suddetti senza farvi ritorno nonché i ripetuti provvedimenti normativi volti ad offrire anche a questi ultimi (sia pure tardivamente) la possibilità di acquistare la cittadinanza italiana. Ed altrettanto minuziosamente vengono analizzate le norme legislative e regolamentari in tema di permesso di soggiorno «in attesa di cittadinanza». Pur riconoscendo l’iniquità della disciplina complessivamente considerata, la Corte dichiara inammissibili le questioni ad essa sottoposte in quanto fondate su norme inconferenti con la fattispecie sottostante, talune delle quali di fonte regolamentare, dunque esenti da ogni controllo di costituzionalità. Viene tuttavia contestualmente suggerita una lettura interpretativa estensiva, la qual consenta di garantire il diritto al lavoro anche in tali circostanze.

 

Acquisto della cittadinanza iure soli. Accertamento effettuato a distanza di molti anni di distanza dalla nascita. Nascita in territorio italiano in base all’atto formato anch’esso molto tardivamente. Impossibilità di reperire i genitori al fine di verificarne la possibilità di trasmettere la propria cittadinanza.
Risultano altrettanto insolite le sentenze in tema di applicazione dell’art. 1 c. 1 lett. b) della l. 91/92: ovvero, della norma che attribuisce la cittadinanza a chi nasce in territorio italiano se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono. Il caso sottoposto alla Corte di Appello di Firenze traeva origine per di più da una domanda avanzata da un individuo ormai maggiorenne il cui atto di nascita era stato formato in Italia assai tardi e in base a dati presunti, dopo anni di vane ricerche effettuate su una presunta madre cittadina britannica, mai rintracciata. Per tutti questi motivi, era stato dichiarato apolide. Tuttavia, con il passar del tempo e nella consapevolezza della sua nascita in Italia il medesimo individuo rivendica la propria cittadinanza italiana, che potrebbe aver acquisito iure soli appunto alla nascita in quanto figlio di ignoti. Al rifiuto opposto dal Tribunale di Firenze, che ritiene prevalente il suo status di apolide, ma nel contempo possibile lo stato di filiazione dalla cittadina del Regno Unito, fa seguito invece l’esito vittorioso dell’appello. In una scarna ma incisiva pronuncia ( App. Firenze, sent. 9.4.2019, n. 860 ) la Corte, dopo aver constatato che dall’atto di nascita del ricorrente risulta che questa è avvenuta in Firenze e che non vi è prova dell’esistenza della madre, dichiara lo status di cittadino italiano del soggetto in base appunto al criterio dello ius soli.

 

Accertamento dell’apolidia
Nel giugno del 2019 la Sez. I della Corte di Cassazione (sia pure in diversa composizione) ha affrontato due volte i problemi collegati all’accertamento dello status di apolide. Anzitutto, in una prima pronuncia (Cass., sent. 14.6.2019, n. 16114) ha censurato l’operato della Corte di Appello di Roma, la quale aveva dichiarato tale status nei confronti di un individuo nato e residente in Italia, figlio di una presunta cittadina bosniaca, anch’essa qui residente.
Secondo la Suprema Corte era necessario esigere dall’interessato la produzione di un certificato maggiormente dettagliato sulla cittadinanza della madre, rilasciato dalle autorità bosniache anziché limitarsi a vagliare il contenuto della legge di quello Stato in materia di cittadinanza (unica forma di collaborazione ottenuta dalle suddette autorità). Si può tuttavia ricordare che spesso sono proprio le leggi degli Stati della ex Iugoslavia che indicano il mancato acquisto delle rispettive cittadinanze per coloro che non tornano a risiedere nel territorio di origine.
Viceversa, la successiva pronuncia (Cass., sent. 19.6.2019, n. 16489) muove dal duplice ricorso di un individuo, anch’esso originario della Bosnia (che peraltro aveva abbandonato dopo la nascita, senza farvi più ritorno), sottoposto a molteplici provvedimenti di espulsione a volte annullati a volte trasformati in un forzoso trattenimento nel CIE di Ponte Galeria a causa della mancata collaborazione della rappresentanza diplomatica in Italia di quello Stato che non l’aveva mai riconosciuto come proprio cittadino. Il Supremo Collegio ripercorre le vicende relative alla dissoluzione della ex Iugoslavia anche alla luce dei provvedimenti normativi emessi in materia di cittadinanza. Esso ricorda poi la definizione enucleata, da parte delle Sezioni Unite, dall’art. 1 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1954 sullo statuto degli apolidi, secondo la quale è tale colui che si trova in un Paese di cui non è cittadino provenendo da altro Paese del quale ha perso formalmente o sostanzialmente la cittadinanza. La Corte giunge così a constatare lo status di apolide di fatto del ricorrente al quale estende (alla luce del principio universalistico relativo alla tutela universalistica della persona umana) la protezione prevista dall’art. 31 della Convenzione suddetta, ovvero il divieto di espulsione, anche muovendo dalla constatazione che i relativi provvedimenti erano stati assunti non sulla base di una pericolosità sociale, ma semplicemente dell’irregolarità del soggiorno dell’interessato sul territorio italiano.

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