LO STATUS DI RIFUGIATO
Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
Il
Tribunale di Milano, con decreto deciso il 3.7.2019 e pubblicato 23.8.2019
, ha riconosciuto lo
status di rifugiato ad un giovane cittadino del Gambia, affetto da un disturbo schizoaffettivo. Nel provvedimento in esame il Collegio, a fronte di una domanda volta ad ottenere la protezione sussidiaria o, in subordine, la protezione umanitaria, ha ritenuto sussistenti i presupposti per la protezione maggiore.
Meritano di essere sottolineate le argomentazioni del Tribunale meneghino relative alla necessità di valutare il “rischio futuro” (e dunque l’irrilevanza dell’accertamento relativo alla manifestazione della malattia psichica prima della partenza dal Paese d’origine) e alla possibilità di individuare i malati mentali come «appartenenti ad un gruppo sociale distinto da quello della restante popolazione» (proprio in considerazione della percezione, da parte della società, di tali persone come “meno esseri umani” e la conseguente assimilazione della malattia mentale alla stregoneria). In merito all’agente di persecuzione, nel provvedimento, si legge che «autori di tali trattamenti, sono, alla luce di quanto sopra esposto in primo luogo, le autorità governative che mantengono in vigore disposizioni discriminatorie nei confronti dei malati mentali, che impattano fortemente sulle concrete condizioni di vita di questi ultimi, impedendone l’accesso ai servizi sanitari e assistenziali, al lavoro, e l’esercizio dei diritti civili e politici. E in secondo luogo la società maggioritaria, che proprio in ragione di credenze diffuse, può rendersi responsabile, di gravissime violazioni anche a danno dell’integrità fisica dei malati». Sulla scorta di un attento e completo esame della normativa del Gambia e delle informazioni relative alle discriminazioni subite dai malati psichici, il Tribunale ha affermato che l’inadeguatezza di un sistema di cura e l’esistenza di gravi atti discriminatori, integrino gli atti persecutori previsti dal d.lgs. 19.11.2007 n. 251, art. 7.
Il
Tribunale di Milano, con decreto del 4.2.2019
– chiamato a decidere sul ricorso proposto da una donna proveniente dalla Costa d’Avorio esposta, ancora minorenne, alla pratica del matrimonio forzato, privata forzosamente della custodia dei figli, per imposizione della famiglia del marito, che non le ha consentito di esercitare alcun diritto, e sottoposta, fin dall’inizio del percorso migratorio a forme di sfruttamento e violenza specificamente caratterizzati dal suo essere donna in condizioni di particolare vulnerabilità –, espressamente richiamando il documento dell’UNHCR
La persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, pubblicata il 7 maggio 2002, ha ritenuto sussistenti plurimi atti persecutori caratterizzati dal fatto di essere specificamente diretti contro una persona in quanto appartenente a un determinato genere (in questo caso femminile). Ad avviso del Collegio tali atti persecutori devono ritenersi oggettivamente inscindibilmente connessi a uno dei motivi previsti per il riconoscimento dello
status di rifugiato, da identificarsi nella appartenenza della ricorrente a un genere (donna e minore).
Ancora il
Tribunale meneghino – con decreto 28.1.2019
– ha riconosciuto lo
status di rifugiato ad una giovane donna fuggita dalla Costa D’Avorio, vittima di mutilazione genitale e di matrimonio forzato. Nel provvedimento, il Collegio afferma la necessità di tenere conto delle conseguenze della passata mutilazione genitale, proprio in considerazione del fatto che «
le conseguenze della FGM non cessano con la pratica iniziale. La ragazza o la donna e permanentemente mutilata e può soffrire altre gravi conseguenze fisiche e mentali di lungo periodo». Peraltro si chiarisce che, proprio l’avere subito la mutilazione ha consentito alla famiglia di proporla in sposa stipulando per lei un accordo per un matrimonio forzato. In merito alla valutazione de rischio futuro, nell’ordinanza si legge che: «si deve inoltre osservare che, considerata l’età della ricorrente e la sua complessiva condizione, appare concreto il rischio di essere reimmessa, in caso di rimpatrio, in una condizione idonea a esporla nuovamente ad atti persecutori sia connessi alla possibilità di vedersi costretta, anche solo per motivi di sostentamento, ad accettare un matrimonio forzato (ad iniziativa della famiglia), ovvero a subire gravi forme di marginalizzazione, non essendovi concrete possibilità di trovare, nella sua condizione, un effettivo aiuto da parte dello Stato».
La discriminazione per l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale (nel caso in esame l’orientamento sessuale del ricorrente, cittadino del Camerun – che, come ribadito dal Collegio costituisce un aspetto fondamentale dell’identità umana che non si deve essere costretti a nascondere o abbandonare) si traduce, ad avviso del Tribunale di Brescia – nell’ordinanza del 17.4.2019 – in una persecuzione, in quanto nel Paese d’origine del ricorrente l’omosessualità è reato ed è punita con la reclusione da sei mesi a cinque anni (nonché con la multa da 20.000 a 200.000 franchi).
Il
Tribunale di Firenze, con decreto dell’8.7.2019
, ha riconosciuto lo
status di rifugiato ad una donna nigeriana,
vittima di tratta. Il Collegio fiorentino ha ravvisato la sussistenza degli elementi necessari per il riconoscimento della forma maggiore di protezione sulla base dei seguenti elementi: il fondato timore soggettivo può ritenersi sussistente sulla base della sottoposizione psicologica della ricorrente alla
madame, nella paura di denunciare la sua sfruttatrice, anche legato alle possibili ritorsioni sulla di lei famiglia; il timore oggettivo può essere desunto dagli atti persecutori subiti dalla ricorrente; l’impossibilità di ricevere protezione da parte della autorità statuali viene affermato in forza dell’elevatissimo numero di vittime di tratta nigeriane; le vittime di tratta possono essere qualificate come un determinato gruppo sociale perché condividono caratteristiche comuni ed immutabili quali l’essere donne, prive di protezione affettiva, giovani, con basso livello di scolarizzazione, provenienti da un contesto socio-economico e familiare precario.
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
Art. 14, lett. c) d.lgs. 251/2007
Il
Tribunale di Firenze, con decreto n. 4945 del 9.7.2019,
ha riconosciuto la protezione sussidiaria –
ex d.lgs. 19.11.2007 n. 251, art. 14, lett. c) – ad un cittadino senegalese, originario della provincia di Ziguinchor, in
Casamance. Ad avviso del Tribunale, la particolare esposizione del ricorrente, il cui fratello aveva partecipato al MFDC, e la moltiplicazione di attacchi armati e di atti di banditismo violenti (come confermati da numerose agenzie di stampa), integrano i presupposti per il riconoscimento dell’invocata protezione sussidiaria.
Il
Tribunale di Brescia, con decreto n. 3783 del 15.7.2019
, chiamato a decidere sul ricorso proposto da un cittadino della Nigeria che aveva vissuto per oltre sette anni in
Libia – instaurando con detto Paese, pertanto, un rapporto tale da non consentire di qualificare la Libia come mero Paese di transito – ha affermato che, in considerazione del fatto che, sin dal 2011, in tale Paese sussiste una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitti armati tutt’ora in corso, devono ritenersi sussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria.
D.lgs. 19.11.2007, art. 14 lett. a) e b)
La Suprema Corte – chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da un cittadino del Ghana che ha allegato di essere stato incolpato e condannato per il ferimento di uno degli addetti alla sicurezza ad una miniera d’oro e di rischiare di subire la
grave situazione carceraria del Ghana – nell’
ordinanza del 19.6.2019 n. 16411 – ha affermato che, ai fini del riconoscimento della misura della protezione sussidiaria, il grave danno alla persona, ai sensi del
d.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14, lett. b), può essere determinato dalla sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti con riferimento alle condizioni carcerarie. Con riferimento a tale aspetto, la Corte di cassazione, ha ribadito che il giudice è tenuto a fare uso del potere-dovere d’indagine previsto dal
d.lgs. 28.1.2008, n. 25, art. 8, co. 3, che impone di procedere officiosamente all’integrazione istruttoria necessaria al fine di ottenere informazioni precise sulla attuale condizione generale e specifica del Paese di origine (nel caso di specie con riferimento alla condizione carceraria in Ghana, al fine di verificare o escludere la dedotta pratica di trattamenti contrari ai diritti umani).
Ancora la gravissima situazione delle condizioni carcerarie è stata presa in esame, con riferimento ad un cittadino della
Costa D’Avorio, dal
Tribunale di Venezia nel decreto n. 5337 del 27.6.2019
. Nella decisione in esame, il Collegio ha ritenuto che il rischio di incarcerazione del ricorrente (accusato ingiustamente di ricettazione), alla luce del rapporto EASO (che dà conto del sovraffollamento delle carceri, delle cure mediche inadeguate, delle estorsioni da parte delle guardie e di abusi di fatto impuniti) porti a ravvisare l’esistenza di un rischio effettivo di essere sottoposto ad un trattamento degradante e giustifichi il riconoscimento della protezione sussidiaria.
Il rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, posti in essere da un usuraio, in conseguenza della mancata restituzione di un debito contratto da un cittadino del
Bangladesh giustifica, ad avviso del
Tribunale di Milano
e del
Tribunale di Firenze
il riconoscimento della protezione sussidiaria. Nei provvedimenti in esame, ritenute credibili le dichiarazioni del ricorrente, sono stati esaminati i profili relativi all’individuazione dell’agente di persecuzione, al rischio di essere imprigionato e torturato per debito, alle possibili ripercussioni sulla famiglia del ricorrente, nonché all’impossibilità di ricevere protezione dalle autorità bengalesi (ravvisata alla luce delle numerose fonti internazionali citate nelle decisioni). Particolarmente interessante, nella decisione del Collegio meneghino, il riferimento al fatto che la frequenza del fenomeno dei
prestiti a tassi usurai deve ritenersi strettamente legata alla conseguente diffusione di situazioni di sfruttamento e maltrattamento nei confronti dei debitori inadempienti da parte dei loro creditori. In particolare, osservano i giudici milanesi, come un fenomeno piuttosto diffuso in Bangladesh, soprattutto nelle aree rurali – la cui possibile rilevanza deve essere tenuta in considerazione dall’organo giudicante –, consiste in forme di sfruttamento assimilabili alla schiavitù, legate a situazioni di indebitamento e che prendono il nome di
bonded labour o
debt bondage.
Il
Tribunale di Trento, con decreto 1125 del 5.6.2019,
ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad una donna nigeriana a causa delle continue violenze e dei maltrattamenti subiti da parte del marito. Ad avviso del Collegio trentino la ricorrente, costretta ad un matrimonio coatto in forza di un accordo sottoscritto dal di lei padre e ridotta in condizioni disumane, a causa delle continue violenze da parte del marito (confermate anche dalla relazione prodotta, in merito alla compatibilità delle cicatrici con ustioni e traumi), in caso di rientro in Nigeria, correrebbe il rischio di subire una minaccia grave per la sua vita.
QUESTIONI PROCESSUALI
Valutazione di credibilità e dovere di cooperazione del giudice
La
Suprema Corte, con ordinanza del 30.4.2019 n. 11397, ha affermato che la valutazione del giudice deve prendere le mosse da una versione precisa e credibile, benché sfornita di prova (perché non reperibile o non richiedibile) e che se le dichiarazioni del richiedente risultano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al
d.lgs. n. 251 del 2007, art. 3, le stesse non richiedono un approfondimento istruttorio officioso, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (cfr.
Cass. n. 16295 del 2018;
Cass. n. 7333 del 2015).
Con riferimento all’attenuazione del principio dispositivo in cui la “cooperazione istruttoria” consiste, occorre precisare che, come chiarito dalla Suprema Corte (nella
sentenza 31.1.2019 n. 3016) la stessa si colloca non dal versante dell’allegazione, ma esclusivamente da quello della prova: che, anzi, l’allegazione deve essere adeguatamente circostanziata, dovendo il richiedente presentare «tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la ... domanda», ivi compresi «i motivi della sua domanda di protezione internazionale» (
d.lgs. n. 251 del 2007, art. 3, co. 1 e 2), con la precisazione che l’osservanza degli oneri di allegazione si ripercuote sulla verifica della fondatezza della domanda medesima, sul piano probatorio. Nella pronuncia in esame si ribadisce che il potere-dovere del giudice di cooperare con il richiedente sorge quando colui che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto l’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto.
Ancora in merito alla valutazione di credibilità, la Suprema Corte, nell’ordinanza n. 21142 del 7.8.2019 afferma che, se le dichiarazioni del richiedente non sono suffragate da prove, le stesse devono essere sottoposte ad un giudizio di credibilità, che implica un controllo di coerenza (intrinseca ed estrinseca) ed un «equiordinato controllo di plausibilità». In forza di tale ultimo controllo, la Corte di cassazione afferma che «detto giudizio di plausibilità, direttamente riferito alle dichiarazioni, si risolve infine nel complessivo scrutinio di attendibilità del richiedente previsto alla lett. e) della disposizione, da compiersi a mezzo dei “riscontri effettuati”, espressione da intendersi riferita non soltanto ad eventuali riscontri esterni, ove disponibili, ma anche alla verifica di logicità del racconto».
Deve sottolinearsi come, per la prima volta, la Suprema Corte correli in modo diretto il «controllo di logicità» all’aumento dei ricorsi in Cassazione, giungendo ad affermare che: tale controllo appare essere la principale «se non la sola difesa dell’ordinamento avverso narrazioni, come emerge per esperienza del Collegio, a seguito dell’aumentare esponenziale dei ricorsi per Cassazione in materia di protezione internazionale, determinata dall’abolizione dell’appello, sovente stereotipate e tessute intorno a canovacci fin troppo ricorrenti: quello del giovane musulmano che ha messo incinta una ragazza cristiana, o del giovane cristiano che ha fatto lo stesso con una musulmana (le religioni possono peraltro variare), e scappa dalle furie dei genitori di lei; quella dell’uomo che il capo-villaggio ha destinato a sacrifici umani (il caso in esame appare una variante di questa trama) o ad altra non commendevole sorte; quella del sedicente omosessuale che, se lo fosse, sarebbe per questo perseguitato al suo Paese; quello della lite degenerata in fatti di sangue in cui il richiedente ha, si intende senza volerlo, ferito o ucciso il proprio contendente, in un contesto in cui, quale che sia il Paese di provenienza, le forze di polizia del luogo sono sempre e irrimediabilmente corrotte ed astrette da oscuri vincoli alla potente famiglia della vittima, e così via».
Sospensione feriale dei termini
La
Sezione sesta civile, in composizione Prima, con ordinanza n. 22304 del 5.9.2019, chiamata a pronunciarsi sulla questione della sospensione feriale dei termini nel regime anteriore a quello introdotto dal
d.lgs. 28.1.2008 n. 25, art. 35-bis, co. 14, ha affermato che l’inapplicabilità del principio della sospensione dei termini feriali ai giudizi aventi ad oggetto il riconoscimento della protezione internazionale del cittadino straniero, introdotta con la predetta norma, non opera rispetto ai ricorsi avverso decisioni delle Commissioni territoriali emesse e comunicate (o notificate) anteriormente alla data del 17 agosto 2017, essendo la vigenza della nuova disciplina legislativa processuale differita a tale data.
Rito applicabile alle domande volte ad ottenere esclusivamente la protezione umanitaria
Con
ordinanze n. 16458 e
16459, depositate il 19.6.2019, la Corte di cassazione – chiamata a pronunciarsi sul rito da seguire nel caso di proposizione della domanda avente ad oggetto esclusivamente il riconoscimento della protezione umanitaria (domande proposte in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge 1.12.2018 n. 132 e disciplinate dalla legge 13.4.2017 n. 46) – ha, in primo luogo, ribadito che la domanda esclusivamente rivolta ad ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari deve ritenersi ammissibile, considerato che la situazione giuridica soggettiva sottesa a tale domanda è riconducibile alla categoria dei diritti umani fondament
ali garantiti dall’art. 2 Cost. e art. 3 CEDU e che, con l’attuale sistema pluralistico di misure riconducibili alla protezione internazionale, realizzatosi all’esito del recepimento delle Direttive europee con i citati d.lgs. n. 251 del 2007 e d.lgs. n. 25 del 2008, si è data completa attuazione al diritto di asilo previsto dall’art. 10 Cost., co. 3 (in questo senso si erano già pronunciate Cass. 10686 del 2012; 16362 del 2016). Tanto chiarito, la Corte ha precisato che il rito da applicare ai procedimenti in esame deve essere individuato secondo le regole generali ed è quello ordinario di cui agli artt. 281-bis c.p.c. e ss. o, a scelta del ricorrente e ricorrendone i presupposti, il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis c.p.c. e ss. (e che entrambi i giudizi si concludono con provvedimento, sentenza o ordinanza, impugnabile in appello). La ricostruzione operata dalla Suprema Corte, oltre che rispettosa della lettera delle norme, «risulta coerente sotto il profilo sistematico, dato che l’esplicita volontà legislativa di attribuire, nelle controversie di cui trattasi, la competenza all’organo giudicante in composizione monocratica è bilanciata dal mantenimento del doppio grado di merito». A diverse conclusioni si deve giungere, invece, nel caso in cui il ricorso venga proposto con più domande, dirette ad ottenere in via principale rifugio e protezione sussidiaria ed in via subordinata la protezione umanitaria. In queste ipotesi «si applica per tutte le domande il rito camerale di cui al d.lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, davanti alla Sezione specializzata del Tribunale in composizione collegiale, in ragione della connessione esistente tra dette domande e della prevalenza della composizione collegiale del Tribunale in forza del disposto de
ll’art. 281-nonies c.p.c., tenuto altresì conto del carattere unitario dell’accertamento dei presupposti dei vari tipi di tutela, dell’esigenza di evitare contrasto di giudicati e del principio della ragionevole durata del processo».
LA PROTEZIONE UMANITARIA NEL PROCEDIMENTO DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Con
decisione n. 18541/2019 la Corte di cassazione ha rigettato, per infondatezza, il ricorso proposto da un richiedente asilo del
Ghana nella parte in cui lamentava che il Tribunale di Ancona non avesse correttamente valutato il timore di persecuzione collegato alla conversione alla religione dominante nel Paese ma non nella propria comunità etnica; infondatezza motivata in quanto egli «
avrebbe potuto invocare la libertà di culto accertata, a maggior ragione perché con la sua conversione aveva fatto propria la fede maggiormente diffusa in Ghana, il cristianesimo, praticata dal 71% della popolazione». Ha, altresì, dichiarato infondato il ricorso in relazione alla protezione sussidiaria, rilevando che il Tribunale aveva motivatamente escluso il rischio di danno grave sulla base di specifiche fonti di informazione.
Inoltre, la Corte di legittimità ha rigettato il ricorso anche nella parte in cui il richiedente lamentava la mancata valutazione del diritto d’asilo ex art. 10, co. 3 Cost. richiamando, in proposito, la consolidata giurisprudenza di legittimità che ritiene l’asilo costituzionale interamente attuato attraverso le 3 forme di protezione contemplate dall’ordinamento vigente e dunque non rilevabile autonomamente.
La Cassazione ha, invece, accolto l’impugnazione nella parte relativa alla protezione umanitaria perché il Tribunale ha omesso di valutare le gravi ragioni di salute documentate dal richiedente (in particolare la certificata depressione cronicizzata) e l’impossibilità in Ghana di ricevere adeguate cure (il Tribunale «non si è posto il problema rilevante, ossia la possibilità per il ricorrente di ricevere adeguate cure nel Paese di origine in relazione alla patologia psichica in atto (depressione cronicizzata), con riferimento alla normativa all’epoca esistente del permesso per ragioni umanitarie ex art. 5, co. 6, d.lgs. 286/1998»).
Decisione con cui la Corte ha preso, preliminarmente, in considerazione la riforma attuata con il d.l. n. 113/2018 – di abrogazione dell’art. 5, co. 6, TU 286/98 e del richiamo ad esso contenuto nell’art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008, con introduzione di nuove fattispecie di permessi per casi speciali (tra i quali il nuovo art. 19, co. 2 lett. d)-bis, TU 286/98 per motivi di salute) – ritenendola inapplicabile alle domande presentate prima della sua entrata in vigore, pur dando atto che la questione intertemporale è stata rinviata alle Sezioni Unite.
Con la
pronuncia n. 23757/2019 la Corte di cassazione ha affrontato la questione della compatibilità tra la
povertà e la protezione umanitaria, giungendo, con invero sintetica motivazione, alla conclusione negativa. Il ricorso era stato proposto da un richiedente asilo della
Nigeria, che aveva invocato «
il “diritto dalla libertà dalla fame” ex art. 11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali di New York del 16 dicembre 1996, facendo valere, a sostegno, le caratteristiche socio-economiche della Nigeria, Paese con circa centottanta milioni di abitanti per oltre il 60% al di sotto della soglia di povertà e con rischio per la loro stessa sopravvivenza».
Diritto che è stato diniegato facendo richiamo al conforme orientamento della Cassazione, secondo cui «le situazioni di difficoltà, anche estrema, di carattere economico e sociale, non sono sufficienti in se stesse, in assenza di specifiche condizioni di vulnerabilità, a giustificare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (cfr. Cass. 7.2.2019 n. 3681)».
NOTA di Nazzarena Zorzella
L’ordinanza n. 23757/2019 reca una motivazione assertiva (come altre che l’hanno preceduta) e dunque perde l’occasione di spiegare perché la povertà non sia tutelabile nell’ambito dell’art. 5, co. 6, TU 286/98, se non addirittura all’interno della protezione internazionale.
La preoccupazione di aprire la strada, o spalancarla, ad una infinità di situazioni (e l’aumento dei ricorsi in Cassazione una volta soppresso l’appello: in questo senso è emblematica l’ordinanza n. 21142/2019 della Cassazione, rassegnata nella precedente parte di questa rubrica) sta forse alla base di queste decisioni, sia nella giurisprudenza di legittimità che in quella di merito.
Orientamento che, tuttavia, non pare ragione sufficiente per omettere di affrontare la
questione giuridica della povertà, che, secondo i
Principi guida delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, adottati dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite il 27 settembre 2012 «
attiene alla sfera dei diritti umani» che «
deve essere considerata come parte degli obblighi degli Stati ai sensi del diritto internazionale» (par. 11). In quanto obbligo internazionale degli Stati membri delle Nazioni Unite (tra i quali l’Italia), contemplato anche nei Patti internazionali del 1966 (sottoscritti e ratificati dall’Italia), questi ultimi espressamente richiamati nel ricorso esaminato nella pronuncia della Cassazione, il correlato diritto a non vivere in povertà dovrebbe indubbiamente rientrare quantomeno nell’ambito di applicazione dell’art. 5, co. 6, TU 286/98, che tali obblighi richiama. Così non è, in quanto la povertà viene costantemente esclusa dal mondo giudiziario, anche se nelle molteplici pronunce che la riguardano mancano argomentazioni che consentano di comprendere il ragionamento sotteso.
Con
ordinanza n. 24394/2019 la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso proposto da un richiedente asilo del
Senegal, ritenendolo inammissibile perché finalizzato a chiedere un giudizio di credibilità del racconto diverso da quello effettuato dal giudice di merito. Nell’occasione il giudice di legittimità ha ribadito non solo che, in difetto di credibilità delle dichiarazioni, debba attivarsi il potere istruttorio officioso del giudice, ma che la
credibilità è presupposto anche per il riconoscimento della protezione umanitaria.
Afferma, infatti, detta pronuncia, che «secondo la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. ord. n. 17072 del 28.6.2018, Cass. sent. n.4455 del 23.2.2018), non solo l’intrinseca inattendibilità del racconto del ricorrente, affermata dai giudici di merito, costituisce ragione sufficiente per negare anche la protezione di cui trattasi, ma la riscontrata non individualizzazione dei motivi umanitari non può essere surrogata dalla situazione generale del Paese di provenienza, perché, altrimenti, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma, piuttosto, quella del suo Stato d’origine in termini del tutto generali ed astratti».
Sempre più, dunque, si pone l’accento sulla individualizzazione della lesione di diritti umani, come se non fosse oggettivamente percepibile nella stessa storia migratoria dei richiedenti asilo, nessuno dei quali arriva sul suolo italiano o europeo con un biglietto aereo ma affrontando, senza scelta, un percorso che spesso porta alla morte, ma reso necessario proprio dalla condizione di grave lesione dei diritti umani vissuta nel Paese di origine.
Con
sentenza n. 1194/2019 la Corte d’appello di Bologna
ha riconosciuto la protezione umanitaria, ad un richiedente asilo della
Guinea Conakry (cui sia la Commissione territoriale ed il Tribunale avevano negato la protezione internazionale), emigrato all’età di 12 anni e costretto a lavorare, spesso in condizioni estreme, in vari Paesi, tra i quali la Libia, prima di approdare in Italia.
Dopo avere ricostruito tutto il percorso migratorio del giovane, la Corte bolognese ha, innanzitutto, rigettato l’eccezione del Ministero dell’interno di difetto di cooperazione per non avere prodotto documenti di identità, ritenendola inammissibile per tardività ex art. 345 c.p.c. e comunque giustificata l’assenza proprio dalla emigrazione risalente alla minore età. Ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ex art. 14, lett. b), d.lgs. 251/2007, perché «il fatto che lo Stato di provenienza dell’appellante non sia in grado di adottare misure volte all’aiuto dell’infanzia e della famiglia, per superare la condizione di estrema povertà nella quale vive la popolazione».
Ha riconosciuto, invece, la protezione umanitaria (ritenuto applicabile l’art. 5, co. 6 TU 286/98 anche dopo la riforma di cui al d.l. n. 113/2018, richiamando la pronuncia della Cassazione n. 3845/2017, n. 4455/2018 e 4890/2019), quale diritto soggettivo fondamentale che preserva la persona dal rischio di reimmissione in un contesto sociale in cui possa essere leso nell’esercizio di diritti fondamentali (Cass., SU, n. 19393/2009, Cass. 4455/2018), valorizzando nel caso specifico che «le difficili esperienze di vita, che l’appellante ha dovuto affrontare soprattutto in Ciad e in Libia, permettono senz’altro di affermare che è stata la situazione di povertà e la necessità di trovare mezzi di sostentamento a spingere […] ad espatriare, non offrendogli la situazione nella quale versava ed attualmente versa la Guinea Conakri altre alternative».
La Corte ha, altresì, richiamato anche la conflittualità ancora esistente in Guinea Conakry tra gruppi etnici contrapposti, dando rilievo nel contempo il positivo percorso di integrazione e lavorativo del richiedente, evidenziando la sproporzione tra la condizione attuale e quella a cui egli sarebbe esposto in caso di rimpatrio nel Paese di origine: «a fronte delle concrete prospettive di integrazione in Italia, il rientro in patria dell’appellante comporterebbe, per quest’ultimo, l’impossibilità di far fronte alle minime esigenze di vita, in ragione della già rilevata situazione di grave povertà della Guinea Conakri e della circostanza che […] ha lasciato il suo Paese di origine all’età di dodici anni, che induce a ritenere estremamente difficile, come si è già rilevato, un reinserimento dell’appellante nel contesto sociale di tale Paese».
Con
decreto 19.2.2019 il Tribunale di Firenze
ha riconosciuto la protezione umanitaria ad un richiedente asilo della
Costa d’Avorio, dopo avere escluso la sussistenza dei presupposti per la protezione internazionale, in entrambe le sue forme, in quanto nel Paese le fonti di informazione dimostrano, ad avviso del Tribunale, l’inesistenza di una situazione di grave conflittualità politica.
Ha riconosciuto, invece, la protezione umanitaria ponendo l’accento sia sul vissuto, durante la minore età, nel Paese di origine («condizione di vulnerabilità dettata dalla giovane età, dal radicale sradicamento del ricorrente dalla Costa d’Avorio proprio Paese di origine, nonché dall’assenza di legami familiari significativi. Invero, sebbene nel Paese di origine sia ancora presente la madre del ricorrente, questi ha lasciato il paese nel 2011 ad appena 13 anni: il padre, trasferitosi per lavoro in Libia, lo aveva portato con sé affinché il figlio non fosse sottoposto a maltrattamenti da parte del secondo marito della madre»), sia sull’emigrazione in Libia dal 2011, insieme al padre, ove questi era stato ucciso durante un’aggressione di criminali, dando rilievo proprio alla violenza indiscriminata accertata nel Paese libico.
La pronuncia è significativa per la valorizzazione dell’emigrazione in Libia, anche se non spiega la relazione tra essa e la possibile violazione dei diritti umani in caso di rientro in un Paese diverso da quello di appartenenza e in cui il richiedente aveva vissuto a lungo. Si tratta, tuttavia, di un’apertura importante, che lascia intravedere la possibilità di dare rilievo giuridico al diritto di emigrare, che trova fondamento anche nella Costituzione italiana, all’art. 35, co. 4.
LE MISURE DI ACCOGLIENZA NEL SISTEMA DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE
La cessazione delle misure di accoglienza alla luce del d.l. n. 113/2018
Il
Tribunale amministrativo per la Lombardia, sede di Brescia, con sentenza n. 649/2019 ha accolto il ricorso proposto da un cittadino straniero cui era stata riconosciuta la
protezione umanitaria, il quale era stato originariamente accolto in una struttura pubblica di accoglienza e che, dopo detto riconoscimento,
aveva chiesto di essere inserito in una struttura dello SPRAR (oggi SIPROIMI). Nei suoi confronti, tuttavia, era stata dichiarata la cessazione delle misure di accoglienza e poco dopo rifiutato l’accesso nello SPRAR/SIPROIMI motivato in ragione della riforma attuata dal d.l. 113/2018, che ha escluso i titolari di protezione umanitaria tra le categorie che possono beneficiare dell’accoglienza nello SPRAR.
Il Tar lombardo ha richiamato la giurisprudenza della Corte di cassazione sulla irretroattività delle nuove disposizioni recate dal d.l. 113/2018 (Cass. 4890/2019) e pertanto dichiarato illegittimo il provvedimento di cessazione dell’accoglienza «in considerazione dell’illegittima applicazione retroattiva della normativa sopravvenuta, in contrasto con l’art. 11 delle preleggi».
Il Tar ha, inoltre, censurato il provvedimento nella parte in cui le autorità competenti in materia di accoglienza hanno omesso di comunicare l’avvio del procedimento per la cessazione delle misure di accoglienza, in violazione degli artt. 7 e 10-bis legge 241/90 e s.m., con conseguente violazione del diritto di difesa e del giusto procedimento amministrativo, in quanto il titolare di protezione umanitaria «avrebbe potuto sottoporre all’Amministrazione le ragioni – come espresse nel ricorso – che avrebbero potuto condurre la medesima ad una determinazione diversa da quella che ha invece concretamente assunto.», in difetto di esplicitazione delle ragioni di urgenza che potevano legittimare tale violazione procedimentale.
In senso analogo il medesimo Tar Brescia
n. 676/2019,
n. 453/2019,
n. 406/2019,
n. 407/2019, secondo cui «
se la disciplina di cui al d.l. n. 113 del 2018 non trova applicazione ai procedimenti per il riconoscimento del titolo per motivi umanitari che sono già stati avviati (e non ancora conclusi), tanto più essa non potrà avere rilievo con riferimento ad una ipotesi in cui la protezione umanitaria è già stata riconosciuta al richiedente, al fine di elidere un beneficio – l’erogazione delle misure di accoglienza – collegato al detto riconoscimento».
Sempre in materia di
cessazione dell’accoglienza ai titolari di permesso di soggiorno umanitario (oggi «casi speciali») va segnalata la
sentenza n. 275/2019 del Tribunale amministrativo regionale della Basilicata, che ha dichiarato illegittimo il provvedimento con cui la prefettura di Matera aveva dichiarato cessate le misure di accoglienza a richiedente asilo a cui il Tribunale aveva riconosciuto la protezione umanitaria. Cessazione disposta sulla base della modifica recata dal d.l. 113/2018.
Il Tar Basilicata ha, innanzitutto, dichiarato la competenza del giudice amministrativo con riguardo ai provvedimenti relativi alle misure di accoglienza, come stabilito dall’art. 15, co. 6, d.lgs. 142/2015, ma ha ritenuto illegittimo il provvedimento oggetto di ricorso perché la protezione umanitaria era stata riconosciuta prima dell’entrata in vigore del d.l. 113/2018 e pertanto «non può essere applicato nei confronti del ricorrente, perché ha ottenuto il riconoscimento del permesso di soggiorno di carattere umanitario con provvedimento della Commissione territoriale di Bari del 5.3.2018.
A riprova di ciò, va rilevato che l’art. 1, co. 9, dello stesso d.l. n. 113/2018 conv. nella l. n. 132/2018 statuisce che “nei procedimenti in corso, alla data di entrata in vigore del presente decreto, per i quali”, come nella specie, “la Commissione territoriale non ha accolto la domanda di protezione internazionale e ha ritenuto sussistenti gravi motivi di carattere umanitario allo straniero è rilasciato un permesso di soggiorno recante la dicitura ‘casi speciali’ ai sensi del presente comma, della durata di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato».
Par di comprendere dal testo della pronuncia che l’illegittimità sia stata pronunciata in relazione alla cessazione di misure di accoglienza nei CAS (Centro di accoglienza straordinaria) e non nello SPRAR/SIPROIMI.
Il Tar Basilicata ha, tuttavia, mutato orientamento a partire dalla
sentenza n. 717/2019, cui sono seguite le
pronunce nn. 720,
721,
722,
723 e
729 del 2019
, ritenendo inapplicabile il principio di irretroattività in quanto inconferente, poiché già anteriormente alla riforma del d.l. n. 113/2018 l’art. 14 d.lgs. 142/2015 limitava l’accoglienza alla fase amministrativa ed eventualmente giudiziaria sulla decisione sulla domanda di protezione del richiedente asilo. Secondo il Tar, infatti, che espressamente si discosta dal precedente orientamento, «
L’art. 14, co. 4, del d.lgs. n. 142 del 2015 è netto nello stabilire che “le misure di accoglienza sono assicurate per la durata del procedimento di esame della domanda da parte della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di cui all’art. 4 del decreto legislativo 28.1.2008, n. 25, e successive modificazioni, e, in caso di rigetto, fino alla scadenza del termine per l'impugnazione della decisione”. Tale disposizione, che non è stata interessata da alcuna sostanziale modificazione a opera del d.l. 113 del 2018, reca una ben definita limitazione temporale del periodo di fruizione delle cennate misure di accoglienza, circoscrivendolo alle sole fasi dell’iter amministrativo sotteso all’adozione della decisione sull’istanza di riconoscimento della protezione internazionale e dell’eventuale esperimento dei rimedi giurisdizionali all’uopo apprestati dall’ordinamento, senza in alcun modo implicare, come fa mostra di ritenere parte deducente, estensioni di sorta finalizzate a supportare i percorsi di inserimento sociale dei beneficiari».
Sempre in tema di
cessazione delle misure di accoglienza, va segnalato l’orientamento del
Tar Calabria, Catanzaro, che in un primo momento, con le
sentenze nn. 1492,
1493,
1494,
1495,
1496,
1497 del 2019, investito della questione della cessazione delle misure di accoglienza a seguito di riconoscimento della protezione umanitaria e motivate dall’autorità prefettizia in applicazione del d.l. 113/2018, ha annullato i provvedimenti di cessazione in quanto «
l’art. 1, co. 8, stabilisce l’intangibilità dei permessi umanitari validi ed efficaci alla data di entrata in vigore della nuova legge, indicando, tuttavia, come dies ad quem, la scadenza legale del titolo di soggiorno (cfr. Cass. civ., sez. I, 19.2.2019 n. 4890 e 3.5.2019 n. 11749-11750-11751); in ogni caso, il successivo comma 9 prevede che debba essere rilasciato un peculiare permesso di soggiorno recante la dicitura “casi speciali”, anche per l’ipotesi in cui, alla data di entrata in vigore del decreto, la Commissione territoriale abbia valutato come sussistenti gravi motivi di carattere umanitario, ma il relativo permesso non sia ancora stato emesso». In sostanza, l’illegittimità era stata pronunciata per contrasto con la disciplina transitoria recata dalla indicata disposizione del d.l. 113.
Tuttavia, con successive pronunce –
sentenze nn. 1639,
1641,
1642,
1643 del 2019 – il medesimo
Tar Calabria, Catanzaro, ha mutato espressamente orientamento affermando che «
a una più meditata analisi, tale soluzione non si manifesta condivisibile», perché l’art. 14 d.lgs. 142/2015 limita l’accoglienza fino alla decisione definitiva. Secondo il nuovo orientamento, infatti, «
una volta che sia stata concessa una forma di protezione, nel caso di specie la protezione umanitaria, la misura di accoglienza cessa, salva la possibilità di accesso ai servizi di accoglienza di secondo livello forniti nell’ambito del Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati di cui all’art. 1-sexies d.l. 30.12.1989, n. 416, conv. con mod. con l. 28.2.2990, n. 39.
Il d.l. n. 113 del 2018 non ha mutato tale aspetto della disciplina, sicché non ha ragione d’essere la discussione circa la retroattività o meno delle novità normative apportate dalla nuova legislazione».
Decisione che suscita perplessità, perché non considera che la riforma recata dal d.l. 113/2018 ha abrogato i due “livelli” del Sistema di accoglienza (oggi solo Centri di accoglienza straordinaria – CAS – per i richiedenti asilo, e SIPROIMI/ex SPRAR per i titolari di protezione internazionale, minori stranieri non accompagnati, e parte dei nuovi permessi introdotti dalla riforma 2018) e non prevede più l’ingresso nei SIPROIMI (ex “secondo livello”) dei titolari di permessi umanitari/casi speciali.
Questione affatto affrontata dal Tar calabrese.
La revoca delle misure di accoglienza
Con
sentenza n. 5091/2019 il Consiglio di Stato ha accolto l’appello proposto dal Ministero dell’interno avverso una pronuncia del
Tar Molise (n. 502/2018) con cui era stato dichiarato illegittimo il provvedimento di revoca delle misure di accoglienza perché aveva applicato l’art. 23, d.lgs. 142/2015 ad un richiedente asilo accolto in un CAS, mentre detta norma sarebbe riservata ai soli richiedenti ospitati in uno SPRAR.
Il Consiglio di Stato censura detta statuizione affermando che, pur nella disciplina previgente la riforma di cui al d.l. 113/2018, il richiamo operato dall’art. 23, d.lgs. 142/2015 ai Centri di cui all’art. 14 del medesimo d.lgs. (all’epoca: gli SPRAR) non giustifichi una disparità di trattamento rispetto a coloro che sono ospitati in un CAS. Secondo il Giudice di legittimità, infatti, «I CAS costituiscono misure straordinarie, ma la loro straordinarietà non ne modifica la funzione. Essi, come del resto previsto dall’art. 11 co. 2, d.lgs. 142/2015, devono pertanto rispettare gli stessi principi prescritti per i Centri governativi di prima accoglienza, in primis sul versante della sicurezza.» e differenziare le regole alle quali tutti i richiedenti sono tenuti, nelle strutture che li ospitano, comporterebbe «un’inevitabile disparità di trattamento dei cittadini richiedenti protezione internazionale in ragione della – non programmabile – collocazione nelle diverse strutture di accoglienza».
Precisa il Consiglio di Stato che nel regime previgente la riforma del 2018 (che ha abrogato il richiamo all’art. 14, d.lgs. 142/2015 per i richiedenti asilo, da allora ospitabili solo nei CAS e non più negli SPRAR), «l’equivoco riferimento dell’art. 23, co. 1, d.lgs. 142/2015, all’art. 14 della medesima fonte, deve leggersi quale riferito all’intero Sistema dell’accoglienza e dunque all’ospitalità fornita presso i Centri straordinari in aggiunta ai Centri governativi saturi».
Il Consiglio di Stato afferma di non condividere la tesi esposta dal Ministero dell’interno, appellante, secondo cui un solo mancato rientro comporta automaticamente la revoca delle misure di accoglienza, escludendo ogni automatismo e dovendo, invece, valutato la specificità del caso (in quello oggetto di ricorso il richiedente aveva giustificato il mancato rientro notturno a causa della perdita del mezzo di trasporto per raggiugerlo e della mancanza di credito telefonico).
Interessante la parte della sentenza ove si distingue il concetto di “abbandono” da quello di “allontanamento”: «[…]l’art. 23, co. 1, lett. a), d.lgs. 18.8.2015, n. 142 fa inequivoco riferimento all’“abbandono” del Centro di accoglienza, espressione distinta da quella di “allontanamento” e nella quale è insito il riferimento implicito ad un coefficiente di tipo soggettivo implicante l’intenzionalità della scelta dello straniero di fare a meno in modo definitivo del dispositivo di accoglienza. Tale volontà appare contraddetta, nel caso di specie, dalla brevità e dalla occasionalità della condotta di allontanamento posta in essere dallo straniero, mai accompagnata da manifestazioni di rifiuto dell’accoglienza prestatagli o da comportamenti di altro tipo in tal senso concludenti».
Viene, dunque, valorizzata non solo la non vincolatività della revoca ma la stessa volontà del richiedente per come emerge dai concreti accadimenti.
Il Consiglio di Stato evidenzia un ulteriore aspetto, ovverosia l’importanza di valutare, ai fini della verifica della legittimità della revoca, l’incidenza che l’abbandono della struttura di accoglienza ha sulla struttura stessa. Infatti, «Sempre sul piano dei principi, se riguardato sotto il profilo della ratio della disposizione normativa, deve ritenersi che il comportamento di abbandono preso in considerazione dall’art. 23 integri una violazione delle regole al cui rispetto è subordinata l'accoglienza, nella misura in cui tale condotta non consenta all'Amministrazione di disporre effettivamente del posto occupato presso la struttura per le esigenze di un altro ospite (cfr. Tar Napoli, sez. VI, 24.5.2018, n. 3419; Tar Molise, sez. I, 21.6.2018, n. 400)».
Secondo il Giudice amministrativo d’appello l’occasionale ed isolata assenza notturna dalla struttura avrebbe potuto, al più, far rientrare il caso nell’ipotesi della cd. revoca discrezionale, di cui all’art. 23, lett. e), d.lgs. 142/2015 («violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture»), che proprio perché discrezionale necessita di adeguata ed approfondita motivazione, insussistente nel caso esaminato.
A conclusioni diverse è pervenuto lo stesso
Consiglio di Stato, nella sentenza n. 7018/2019, in cui è stata ritenuta legittima la revoca delle misure di accoglienza a seguito di un solo mancato rientro notturno del richiedente asilo nella struttura di accoglienza, poiché non fornita la prova dell’unicità dell’episodio e dei tentativi vani di rientrare tempestivamente nella struttura, In ogni caso, secondo l’Alto Consesso, anche un singolo episodio va sanzionato, perché il richiedente si sottrare al “controllo dell’autorità” ed essendo la sanzione automatica.
Così il Consiglio di Stato (che evidentemente non ha un omogeno orientamento): «la circostanza (peraltro, giova ribadirlo, meramente allegata dall’appellato ma della quale non è fornita alcuna prova) per cui si sarebbe trattato di un solo episodio non varrebbe a mutare il predetto quadro, dal momento che anche un solo mancato pernottamento nel Centro, integra comunque una grave violazione delle regole della struttura, in quanto per tale via lo straniero si sottrae del tutto al controllo dell’autorità, per finalità e ragioni che non sono state adeguatamente chiarite, e provate, nemmeno in questa sede. La circostanza genericamente indicata della perdita dell’unico treno disponibile non vale, di certo, con la pretesa automaticità, a costituire un’esimente, vieppiù in mancanza di una circostanziata ricostruzione dei tentativi di rientro asseritamente svolti e soprattutto di qualsivoglia tempestivo sforzo per avvertire la struttura del suddetto impedimento».
Palese, nelle due pronunce qui rassegnate, la diversità di approccio e di lettura della normativa vigente, l’una sostanziale l’altra formale. Preoccupa il richiamo alla esigenza che il richiedente non si sottragga al “controllo dell’Autorità”, evocata nella sentenza n. 7018/2019, che pare più pertinente ai luoghi di detenzione che a strutture alloggiative per persone, i richiedenti asilo, che dovrebbero godere della liberà di movimento, alla pari di tutte le persone libere.
I PROVVEDIMENTI ex REGOLAMENTO n. 604/2013 DUBLINO III
Obbligo informativa scritta per il richiedente asilo destinatario di un provvedimento di rinvio Dublino
A seguito della pronuncia della
Cassazione a Sezioni Unite n. 8044/2018, che ha statuito la competenza del giudice ordinario anche per i provvedimenti di rinvio adottati in base al regolamento cd. Dublino III, n. 604/2013, assunti prima della riforma attuata con il d.l. n. 13/2017 (il cui art. 3 assegna espressamente la competenza al giudice ordinario), le pronunce da rassegnare riguardano decisioni assunte dal Tribunale, sezione specializzata immigrazione ed asilo.
Va, comunque ricordato che i principi espressi in precedenza dalla giurisprudenza amministrativa sono rilevanti anche davanti al giudice ordinario, tra i quali, per la loro importanza, quelli che riguardano la violazione del diritto del richiedente ad un effettivo colloquio, di cui agli artt. 4 e 5 regolamento Dublino, e del diritto ad avere un’informativa scritta sui diritti esercitabili, poiché solo nel rispetto delle precise ed autonome regole procedimentali il richiedente asilo, astrattamente rinviabile in un Paese diverso dall’Italia perché ritenuto competente all’esame della domanda di protezione, ha la possibilità di far valere criteri alternativi a quello del Paese di primo arrivo. In questo senso si richiamano le pronunce del Consiglio di Stato
nn. 4200 e
4199 del 2015,
nn. 6054 e
6055 del 2018
, secondo le quali è imprescindibile l’effettività dell’informativa scritta, la cui mancanza rende totalmente illegittimo il provvedimento di rinvio.
La competenza territoriale per i ricorsi avverso i provvedimenti di rinvio Dublino
Una nuova questione si è posta nel nuovo regime processuale con riguardo alla competenza territoriale. Dopo la riforma del 2017, infatti, tutte le controversie afferenti un provvedimento di rinvio Dublino sono state promosse davanti al Tribunale di Roma, sezione specializzata immigrazione ed asilo, ai sensi dell’art. 3, co. 1 lett. e-bis d.l. 13/2017, introdotto in sede di conversione dalla legge n. 46/2017 (e-bis) per le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti adottati dall’autorità preposta alla determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale, in applicazione del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013) e dell’art. 4 del medesimo d.l., il cui comma 1 stabilisce che «Le controversie e i procedimenti di cui all’art. 3, co. 1, sono assegnati alle sezioni specializzate di cui all’art. 1. È competente territorialmente la sezione specializzata nella cui circoscrizione ha sede l’autorità che ha adottato il provvedimento impugnato», precisando, tuttavia, al comma 3 che nel caso di richiedenti ospitati presso strutture pubbliche di accoglienza il Tribunale competente è quello ove ha sede detta struttura.
Nulla di specifico conteneva l’art. 4 d.l. n. 13/2017 con riguardo ai provvedimenti cd. Dublino ed è solo con il d.l. n. 118/2018 che è stato introdotto, al suddetto art. 4, il co. 2-bis a mente del quale «Per l’assegnazione delle controversie di cui all’art. 3, co. 3-bis, del decreto legislativo 28.1.2008, n. 25, l’autorità di cui al comma 1 è costituita dall’articolazione dell’Unità Dublino operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno nonché presso le prefetture-uffici territoriali del Governo che ha adottato il provvedimento impugnato».
Il Tribunale di Roma, sezione specializzata immigrazione ed asilo, con varie pronunce del 2018 ha declinato la propria competenza territoriale, a favore di quella del Tribunale nel cui distretto ha sede la struttura di accoglienza se il richiedente asilo sia in essa ospitato, ritenendo applicabile anche a questi specifici provvedimenti la clausola di prossimità delineata dall’art. 4 d.l. n. 13/2017.
Altri Tribunali, invece, davanti ai quali sono state proposte impugnazioni per l’annullamento dei rinvii Dublino, si sono dichiarati territorialmente incompetenti ed altri ancora hanno accettato la loro competenza ma le decisioni sono state impugnate davanti alla Corte di cassazione, davanti a cui è, dunque, arrivata la questione a seguito di regolamento di competenza.
Con varie pronunce
la Cassazione ha affermato che la
competenza vada attribuita al Tribunale di Roma e ciò in applicazione della previsione normativa di cui all’art. 4 d.l. n. 13/2017, inapplicabile
ratione temporis la riforma recata con il d.l. n. 113/2018. In questo senso si vedano le ordinanze
nn. 18755,
18756,
18757 del 2019, nelle quali il giudice di legittimità ha escluso una competenza diversa da quella di Roma, nel caso di decisioni adottate dall’Unità Dublino, che ha sede presso il Ministero (ma anche per quelle che saranno articolate presso le prefetture, ancora inattuate), in quanto l’art. 4 d.l. n. 13/2017 non pone alcuna deroga nel caso di questi specifici provvedimenti. Secondo la Cassazione, infatti, «
non può operare alcun collegamento territoriale tra la struttura di accoglienza e l’autorità che ha emesso il provvedimento perché tale autorità ha un’unica sede ed anche per il futuro il legislatore ha escluso un’articolazione distribuita territorialmente secondo il modello delle Commissioni territoriali, ma soltanto una ripartizione delle competenze in tre prefetture» (Cass. 18757/2019).
Successivamente alle decisioni della Cassazione il Tribunale di Roma ha, tuttavia, continuato a ritenersi incompetente, dichiarando espressamente di dissentire da esse, ciò che non potrà che determinare il rinvio alle Sezioni Unite.
Con
decreto 22.7.2019 il Tribunale di Roma
ha, infatti, affermato che nel mentre l’art. 4, co. 1 d.l. n. 13/2017 descrive la generale competenza territoriale del Tribunale, sezione specializzata, quando siano impugnati i provvedimenti indicati nell’art. 3 ed attribuiti alle sezioni specializzate, tra i quali i provvedimenti cd. Dublino, l’art. 4, co. 3 del medesimo d.l. n. 13 individua una autonoma determinazione del foro territorialmente competente nel caso in cui il richiedente sia accolto in una struttura pubblica, senza distinguere a seconda del tipo di provvedimento impugnato ed al comma.
Precisa il Tribunale di Roma che l’introduzione del comma 2-bis a detto art. 4, ad opera del d.l. n. 113/2018, si è resa necessaria poiché nella riforma è stata ipotizzata un’articolazione dell’Unità Dublino anche presso 3 prefetture da individuarsi con successivo decreto, ma non ha inciso affatto sulla competenza territoriale già delineata.
Inoltre, non è convincente neppure il passaggio motivazionale delle pronunce della Cassazione ove si richiama la ratio della prossimità del Tribunale, sia per il richiedente asilo accolto in una struttura pubblica che per la Commissione territoriale, che sarebbe però limitata alle impugnazioni avverso i provvedimenti che negano il riconoscimento della protezione internazionale perché solo in tali ipotesi si rinviene un preciso collegamento territoriale. Il giudice romano ritiene, invece, che tale prospettazione non sia corretta, perché non tiene conto che il collegamento territoriale viene meno, ad esempio, in caso di trasferimento del richiedente asilo in una struttura collocata geograficamente fuori dal distretto giudiziale originariamente competente se egli abbia già svolto l’audizione davanti alla Commissione territoriale (art. 4, co. 5, d.lgs. 25/2008); oppure nel caso in cui la Commissione nazionale asilo decida di assegnare l’esame ad Commissione territoriale diversa da quella esistente nel luogo ove il richiedente è accolto.
In conclusione, il Tribunale di Roma ritiene che la ratio effettiva, di prossimità del ricorrente al luogo ove vive per agevolare il suo diritto di difesa, debba essere inteso per tutti i provvedimenti che lo riguardano, relativi all’intera condizione di richiedente asilo.
In termini analoghi al Tribunale romano si pone anche il Tribunale di Milano, che, adito in riassunzione a seguito di rinvio da Roma, ha dichiarato la propria competenza territoriale (
Trib. Milano 26.7.2019
).
Si vedrà come la questione verrà risolta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, davanti a cui inevitabilmente verrà rinviata la questione, tenuto conto che vari Tribunali si stanno adeguando ai principi della Cassazione rinviando nuovamente i ricorsi davanti al Tribunale di Roma, che potrà/dovrà sollevare d’ufficio il regolamento di competenza. Nell’attesa, è indubbio che a rimetterci sono i richiedenti asilo a rischio rinvio, i quali dovranno aspettare molto tempo prima di avere certezza della loro condizione.
Il rinvio verso Paesi che non garantiscono condizioni idonee o nei quali vi sia rischio di rinvio in Paesi di origine nei quali possano verificarsi trattamenti inumani o degradanti
Con
decreto 12.4.2019 il Tribunale di Genova
ha annullato il provvedimento con cui una richiedente asilo e la figlia minore erano state destinatarie di un provvedimento di rinvio Dublino
verso la Croazia, ove avevano formulato domanda di riconoscimento della protezione internazionale ma avevano lasciato il Paese e la struttura di accoglienza ove erano ospitate a causa della totale inadeguatezza delle stesse.
In applicazione dell’art. 3, par. 2 regolamento n. 604/2013 («qualora sia impossibile trasferire un richiedente verso lo Stato membro inizialmente designato come competente in quanto si hanno fondati motivi di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, lo Stato membro che ha avviato la procedura di determinazione dello Stato membro competente prosegue l’esame dei criteri di cui al capo III per verificare se un altro Stato membro possa essere designato come competente») il Tribunale ha accertato, attraverso molteplici fonti di informazione che in Croazia l’inadeguatezza del sistema di accoglienza e comunque un «sistema amministrativo e giudiziario, in materia di migrazione, nel quale sono assenti i principi della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, oltre che un confronto, anche solo consultivo, con l’Alto Commissariato e con le ONG», richiamando anche la sentenza della «Corte di Giustizia dell’UE [che] ha deciso che la Croazia ha agito in violazione del regolamento di Dublino, consentendo il transito di migranti attraverso il Paese nel corso del 2015, senza esaminare le domande di protezione internazionale», evidenziando che, nonostante l’impego assunto di accogliere 1600 richiedenti asilo in ricollocazione, dopo mesi ne sono stati ricollocati solo 100 e che «nel mese di giugno è stato introdotto in Croazia un emendamento alla legge sulla migrazione che prevede il divieto di accesso all’assistenza base (alloggio, salute, cibo) per gli irregolari, con eccezione ai casi di emergenza».
Il Tribunale mostra di avere esaminato numerosi Report attestanti le gravissime condizioni dei Centri di accoglienza, le violenze perpetrate ai danni dei richiedenti asilo, la chiusura delle frontiere, ecc. ecc.
All’esito dell’approfondito accertamento, il giudice ligure ha annullato il provvedimento di rinvio della richiedente asilo e della figlia minore in Croazia per proteggerle dal «rischio che il provvedimento impugnato esponga il ricorrente alla possibilità di subire trattamenti in contrasto con i principi umanitari e con l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE».
Con
decreto del 10.5.2019 il Tribunale di Roma
ha annullato il provvedimento di rinvio di un richiedente asilo del
Pakistan verso l’Austria, sia per violazione dell’obbligo di informativa effettiva, di cui agli artt. 4 e 5 reg. n. 604/2013, sia per evitare il rischio di rimpatrio in Pakistan ove secondo il Tribunale è accertata una situazione di violenza indiscriminata.
Decisione cui il Tribunale è pervenuto in applicazione dell’art. 17 regolamento Dublino (cd. clausola discrezionale, in deroga ai criteri ordinari di determinazione dello Stato competete all’esame della domanda di protezione internazionale) in quanto «La Corte di giustizia UE ha più volte ribadito (v da ultimo la pronuncia su rinvio pregiudiziale della Quinta sezione del 16 febbraio 2017 nella causa C- 578/16 PPU C.K., H.F., ed A.S.), che il potere discrezionale attribuito agli Stati membri dall’art. 17, par. 1, del regolamento Dublino III, fa parte integrante del sistema di determinazione dello Stato membro competente elaborato dal legislatore dell’Unione, o in altre parole costituisce esso stesso un criterio di competenza stabilito dal diritto dell’Unione».
Accertata, dunque, la situazione in Pakistan di estrema conflittualità, sociale e politica, attraverso pertinenti fonti di informazione, il provvedimento di rinvio in Austria è stato annullato.
Con
decisione del 5.6.2019 il Tribunale di Roma
ha annullato un provvedimento di rinvio di un richiedente asilo dell’
Afghanistan verso la Norvegia, dopo che in questo Paese egli aveva già presentato domanda di asilo, che era stata rigettata, e rischiava pertanto di essere rinviato in Afghanistan in caso di suo ri-trasferimento in Norvegia. Si evince dal decreto qui in rassegna che la protezione internazionale era stata esclusa dalla Norvegia per ritenuta insussistenza di una situazione di violenza generalizzata ed indiscriminata nell’area del Paese afghano di provenienza del richiedente.
Partendo dal presupposto secondo cui in caso di rinvio in Norvegia (che aveva accettato la ripresa in carico) con certezza il richiedente sarebbe stato rimpatriato in Afghanistan, il Tribunale di Roma ha applicato l’art. 17 del regolamento n. 604/2013 (cd. clausola discrezionale), richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia secondo cui la verifica del rischio di assoggettamento a trattamenti inumani e degradanti rappresenta uno dei criteri di determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale. Richiamando specifiche fonti di informazioni sulla situazione in Afghanistan e ritenuto che in esso vi siano svariate violazioni di diritti umani, il Tribunale ha annullato la decisione di rinvio in Norvegia.
DIRITTI DEI RICHIEDENTI ASILO E DEI TITOLARI DI PROTEZIONE
Il rinnovo del permesso per protezione internazionale
Con
ordinanza del 2.7.2019 il Tribunale di Roma
ha censurato il comportamento della questura di Roma che aveva rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno per asilo, di cui l’interessata era titolare dal 2008, sul presupposto della mancanza di un domicilio, ritenuto inidoneo quella virtuale nel Comune di Roma per i cd. senza fissa dimora e dunque sostanzialmente irreperibile la cittadina straniera.
La censura del Tribunale è motivata innanzitutto sul difetto di competenza della questura in relazione al rinnovo del permesso di soggiorno per asilo, «essendo tenuta obbligatoriamente al rilascio del titolo (Cass. SU, ord. n. 11535/09; Cass. n. 26641/2016; Cass. n. 16221/2012; Cass. n. 26481/2011)».
Inoltre, la questura non poteva neppure qualificare negativamente il domicilio virtuale delle persone senza fissa dimora stabilito dal Comune di Roma, che solo ha il potere di accertare la fittizietà o meno della dimora nel proprio territorio.
Infine, poiché la residenza è un diritto soggettivo «l’indirizzo virtuale che i Comuni assegnano alle persone senza fissa dimora costituisce uno strumento di attuazione di un diritto soggettivo (ad esercitare i diritti che discendono dalla residenza) e non può costituire un ostacolo all’esercizio di tali diritti, ivi compreso quello al rinnovo del permesso di soggiorno».
La formalizzazione della domanda per il riconoscimento della protezione internazionale
Con
ordinanza 29.7.2019 il Tribunale di Napoli
ha censurato il comportamento della questura di Napoli che, essendosi dotata di un sistema di prenotazione
on line degli appuntamenti per la formalizzazione della domanda di protezione internazionale, non aveva di fatto consentito ad un richiedente asilo del Salvador di formalizzare la sua domanda e conseguentemente di essere immesso nel sistema pubblico di accoglienza, stante la sua indigenza. Il richiedente ha dimostrato di avere provato, da marzo a giugno 2019, a prenotare l’appuntamento senza riuscirci e a nulla sono valse anche le diffide inoltrate attraverso un legale, costretto, pertanto, a rivolgersi al Tribunale con un ricorso d’urgenza
ex art. 700 c.p.c.
Il Tribunale di Napoli ha, innanzitutto, ritenuto la propria giurisdizione, essendo la formalizzazione della domanda di protezione propedeutica all’esame e pertanto diritto soggettivo espressamente previsto dalla legge e da esercitarsi in termini ragionevoli (art. 6, direttiva 2013/32/UE), afferente diritti fondamentali.
Ha, inoltre, ritenuta provata l’impossibilità di avere un appuntamento per la formalizzazione della domanda di protezione internazionale e quanto al periculum in mora (danno grave ed irreparabile), presupposto per la tutela cautelare ex art. 700 c.pc., è stato ravvisato nel rischio di espulsione conseguente alla irregolarità del soggiorno, nonché in quello di lesione grave dei diritti umani in caso di rimpatrio in El Salvador.
Il Tribunale ha quindi ordinato alla questura di Napoli di «ricevere e registrare la domanda di protezione internazionale di […] nato a El Salvador il 26.11.96, nei tempi e nei modi indicati dall’art. 26 d.lgs 25/08, al più tardi entro 10 giorni dalla comunicazione del presente provvedimento».
Sulla medesima impossibilità di prenotare un appuntamento per la formalizzazione della domanda di protezione internazionale, si veda anche Tribunale di Napoli 2.5.2019 nella Rassegna in questa Rivista n. 2.2019.
Con
decreto 21.8.2019 il Tribunale di Milano
ha
ordinato alla questura di Milano di ricevere e formalizzare la domanda di riconoscimento della protezione internazionale di un richiedente asilo che, recatosi in questura dopo avere segnalato per iscritto, attraverso una associazione, la volontà di chiedere protezione internazionale, si è visto trattenere in questura e destinatario di un ordine di espulsione dall’Italia.
Il Tribunale ha censurato il comportamento della questura meneghina poiché solo la Commissione territoriale è competente all’esame della domanda, mentre la questura ha la sola competenza/obbligo di ricevere e formalizzare la domanda, anche qualora ritenga trattarsi di domanda reiterata (nel caso esaminato, peraltro non dimostrata una precedente domanda di asilo in Italia).
Il giudice ha, altresì, censurato la pretesa della questura di Milano di formalizzare la domanda di protezione internazionale solo se il richiedente sia in possesso di residenza o di domicilio, in quanto la normativa richiede esclusivamente l’indicazione della dimora ai fini delle comunicazioni della procedura amministrativa (art. 6, d.lgs. 142/2015, artt. 10 e 11, d.lgs. 25/2008).
L’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo
La questione della iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo, postasi a seguito della riforma recata dal d.l. n. 113/2018, ha continuato ad essere oggetto di contenzioso giudiziale (si vedano le prime pronunce nella Rassegna in questa Rivista n. 2.2019).
Molti Tribunali hanno seguito il solco aperto dalle decisioni del Tribunale di Firenze, nel febbraio 2019, e del Tribunale di Bologna, nel maggio 2019, ritenendo di potere offrire una interpretazione sistematica al diritto di iscrizione anagrafica del richiedente asilo anche dopo che il d.l. n. 113/2018 aveva affermato che il permesso di soggiorno per richiesta asilo non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica.
I vari Tribunali, davanti ai quali sono stati promossi ricorsi d’urgenza
ex art. 700 c.p.c., hanno sostanzialmente ribadito che per l’iscrizione anagrafica non esiste un “titolo” ma è necessaria la verifica dell’effettività della dimora e della regolarità di soggiorno, quest’ultima attestabile anche attraverso il permesso di soggiorno per richiesta asilo. Secondo i giudici, la riforma attuata con il d.l. n. 113/2018 ha inciso sulla procedura semplificata che il d.lgs. 142/2015 aveva introdotto per i richiedenti asilo accolti nelle strutture pubbliche di accoglienza, ma non aveva modificato né il regolamento anagrafico d.p.r. 223/89 né l’art. 6, co. 7, TU 286/98, che stabilisce la parità di trattamento tra cittadini e stranieri in materia di iscrizione anagrafica, con l’unica differenza dell’obbligo, per questi ultimi, di dimostrare la regolarità del soggiorno in Italia. I Tribunali hanno richiamato i principi internazionali in materia di diritto alla residenza (Patto internazionale sui diritti civili del 1966 – Protocollo n. 2 alla CEDU, ecc.) e ritenuto che anche in forza di essi debba essere garantita l’iscrizione anagrafica al richiedente asilo, poiché persona regolarmente soggiornante (
Trib. Genova 22.5.2019
–
Trib. Prato 28.5.2019
–
Trib. Lecce 4.7.2019
–
Trib. Cagliari 31.7.2019
–
Trib. Parma 2.8.2019
–
Trib. Bologna 23.9.2019
–
Trib. Bologna 23.9.2019
).
Da evidenziare che, dopo il Tribunale di Firenze, anche il
Trib. di Bologna, con decreto 1-8-82019
, adito in sede di reclamo dal Ministero dell’interno che lamentava di non essere stato coinvolto nel giudizio proposto dal richiedente asilo, ha affermato che il Ministero non è un contraddittore necessario nelle cause relative all’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, poiché la funzione amministrativa è di competenza del Sindaco, pur nella sua qualità di ufficiale d’anagrafe.
Infatti «se è vero che il Sindaco, in qualità di ufficiale di governo, non agisce come organo di vertice e legale rappresentante dell’Amministrazione comunale, ma nell’esercizio di una funzione dell’Amministrazione statale, è altrettanto vero che il Sindaco, nello svolgimento di tali funzioni, non perde la sua veste di parte, restando titolare della posizione sostanziale e conseguentemente della legittimazione ad agire a tutela delle funzioni a lui attribuite dalla legge. E invero la giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. III, 1.12.2016 n. 5048), pur ritenendo sussistente un generale potere di annullamento da parte della “autorità superiore” quando sussista un rapporto di sovraordinazione di natura gerarchica, esclude tassativamente il potere del prefetto di annullare l’atto dell’ufficiale di stato civile». Le due autorità (Sindaco e Ministero) sono dunque in rapporto di simmetria e non di gerarchia, in quanto il Ministero ha funzioni di vigilanza ed indirizzo.
Stante l’autonomia delle funzioni, il Ministero dell’interno può solo intervenire volontariamente nelle cause che afferiscono al diritto all’iscrizione anagrafica.
Altri Tribunali hanno ritenuto impossibile offrire una lettura della riforma del 2018 nel senso di garantire il diritto anche al richiedente asilo di iscrizione anagrafica, rivenendo nella nuova disciplina una discriminazione ai danni di una specifica categoria di cittadini stranieri – i richiedenti asilo – non giustificata da alcuna da ragionevolezza, rinviando pertanto alla Corte costituzione per lo scrutinio di legittimità.
Secondo detti Tribunali, la riforma del d.l. n. 113/2018 ha inteso negare che il permesso di soggiorno per richiesta asilo dimostri la regolarità di soggiorno del richiedente stesso, ai fini dell’iscrizione anagrafica, sia per la collocazione della norma introdotta, sia perché si deve tenere conto che la ratio del legislatore è stata espressamente quella di non consentire l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo (Relazione alla legge).
Ritenendo di non potere offrire un’interpretazione costituzionalmente orientata delle nuove previsioni normative, i Tribunali hanno rinvenuto in esse svariati profili di sospetta illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 2 e ss. Costituzione e di varie norme internazionali, e pertanto rinviando alla Corte costituzionale per lo scrutino della legittimità o meno della norma introdotta dal d.l. n. 113/2018.
L’iscrizione del richiedente asilo al S.S.N. in difetto di residenza
Con
ordinanza 10.7.2019 il Tribunale di Napoli
, adito con azione antidiscriminazione
ex art. 44 TU 286/98, ha dichiarato illegittimo il rifiuto dell’ASL di Napoli di iscrizione al Servizio sanitario nazionale di un richiedente asilo titolare di specifico permesso di soggiorno in difetto di residenza, evidenziando che la vigente normativa non richiede affatto tale requisito ma la dimora nel territorio (art. 34, TU 286/98).