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Fascicolo 2, Luglio 2020


Questa è un'altra delle cose degli immigranti (rifugiati, emigranti, viaggiatori): non possono sfuggire alla loro storia più di quanto voi possiate perdere la vostra ombra.

(Zadie Smith, «Denti bianchi», Mondadori, 2000) 

Asilo e protezione internazionale

LO STATUS DI RIFUGIATO
Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
La persecuzione per l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale (nel caso in esame l’orientamento sessuale del ricorrente, cittadino della Costa D’Avorio) giustifica, nella decisione del Tribunale di Firenze – decreto del 4.3.2020 – ,
il riconoscimento dello status di rifugiato. Nel caso portato all’attenzione del Collegio fiorentino, il ricorrente ha affermato di non essere omosessuale, ma di essere stato ritenuto tale in ragione della temporanea convivenza con un esponente in vista della comunità omosessuale e del suo lavoro alle sue dipendenze. Correttamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che il solo fatto di essere ritenuto appartenente al gruppo di persone di orientamento omosessuale – a prescindere dal fatto che il ricorrente avesse precisato di essere eterosessuale – rendesse fondato il timore, sia da un punto di vista soggettivo che oggettivo, di subire atti persecutori per appartenenza al detto gruppo sociale.
 
Il Tribunale di Milano – con decreto del 1.7.2019/24.4.2020 – ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino nigeriano in ragione del suo fondato timore di essere perseguitato a causa del proprio orientamento sessuale. In particolare il ricorrente, dichiaratosi bisessuale, aveva dichiarato di essere riuscito a tenere nascoste per un certo periodo le proprie relazioni sentimentali, vietate in Nigeria, ma di essere stato scoperto nel 2016, di essere stato arrestato e poi rilasciato su cauzione. Nella motivazione del Collegio meneghino – molto accurata nella valutazione della coerenza interna ed esterna delle dichiarazioni – appare particolarmente significativo il riferimento ai cd. Principi di Yogyakarta sull’applicazione del diritto internazionale dei diritti umani in relazione all’orientamento sessuale e all’identità di genere, che, sebbene non vincolanti, affermano il quadro della tutela dei diritti umani applicabile in relazione all’orientamento sessuale e all’identità di genere.
 
Con riferimento agli atti persecutori compiuti contro le persone ritenute omosessuali, la Suprema Corte (Cass. 14.10.2019 n. 25892) ha precisato che per persecuzione debba intendersi una forma di lotta radicale contro una minoranza che può anche essere attuata sul piano giuridico e specificatamente con la semplice previsione del comportamento che si intende contrastare come reato punibile con la reclusione. In particolare la Corte ha affermato che tale situazione si concretizza allorché le persone di orientamento omosessuale sono costrette a violare la legge penale del loro Paese e a esporsi a gravi sanzioni per poter vivere liberamente la propria sessualità, così che ben si può ritenere che ciò costituisca una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini che compromette grandemente la loro libertà personale.
Con una precedente decisione, la Corte di Cassazione – accogliendo un ricorso proposto avverso una decisione di rigetto emessa nei confronti di un cittadino omosessuale della Costa D’Avorio in ragione del fatto che in detto Paese l’omosessualità non era considerata un reato – aveva già chiarito che «l’assenza di norme che vietino direttamente o indirettamente i rapporti consensuali tra persone, dello stesso sesso, non è, di per sé, risolutivo ai fini di escludere la protezione internazionale, dovendo altresì accertarsi se lo Stato, in tale situazione, riconducibile alla previsione dell’art. 8, lett. d), non possa o non voglia offrire adeguata protezione alla persona omosessuale, d.lgs. n. 251 del 2007, ex art. 5, lett. c), e dunque se, considerata la concreta situazione del richiedente e la sua particolare condizione personale, questi possa subire, a causa del suo orientamento sessuale, ex art. 8, lett. d), la minaccia grave ed individuale alla propria vita o alla persona e dunque l’impossibilità di vivere nel proprio Paese d’origine senza rischi effettivi per la propria incolumità psico-fisica la propria condizione personale» (Cass. 23.4.2019 n. 11176).
 
LaSuprema Corte, con ordinanza n. 30031/2019 – all’esito di un’accurata ed analitica disamina della fattispecie dell’obiezione di coscienza, delle Linee guida n. 10 dell’UNHCR e delle pertinenti ed aggiornate informazioni sull’Ucraina – ha ribadito che sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato nel caso di un richiedente asilo, che rifiuti di prestare il servizio militare nello Stato di origine, ove la renitenza alla leva è sanzionata penalmente, per evitare il concreto rischio di essere arruolato in un conflitto caratterizzato da crimini di guerra e contro l’umanità, dovendo in questo caso ritenersi motivo di persecuzione l’appartenenza al gruppo sociale degli obiettori di coscienza, tenuto conto che l’art. 7, co. 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007 si applica a tutto il personale militare, anche logistico e di sostegno, e riguarda le situazioni in cui il servizio militare comporta la possibilità di partecipazione anche solo indiretta alla commissione di crimini di guerra in un determinato conflitto, senza che sia necessario che tali crimini siano stati già commessi o che rientrino nella sfera di competenza della Corte penale internazionale, essendo sufficiente che il richiedente asilo sia in condizioni di dimostrare l’esistenza di un’alta probabilità che siffatti crimini siano commessi.
 
Nel solco della decisione della Suprema Corte, anche il Tribunale di Roma (decreto del 5.9.2019/5.12.2019) ha riconosciuto lo status di rifugiato ad una cittadina ucraina – chiamata dal governo per lavorare come medico in un’area di guerra – in ragione della “ragionevole probabilità” che, in caso di rientro in Ucraina, sarebbe stata inviata al fronte di guerra del conflitto del Donbass in un ruolo che la avrebbe coinvolta – seppure indirettamente in quanto medico – nella commissione di crimini di guerra di cui, come risulta dalle numerose fonti citate dal Tribunale capitolino, l’esercito ucraino si è macchiato nei confronti di separatisti, prigionieri e popolazione civile. Nel provvedimento il Collegio ha precisato che il rifiuto alla chiamata del governo sarebbe il solo mezzo per evitare la partecipazione a tale conflitto e che tale rifiuto sarebbe punito, dal codice penale ucraino, con la reclusione da 1 a 5 anni. Nella decisione in esame la renitenza alla leva assume rilievo sia ai fini dell’individuazione di un “particolare gruppo sociale” (sulla base delle Linee guida n. 10 dell’UNHCR) sia come comportamento che attua un’opinione politica.
 
L’aver subito una mutilazione genitale (all’età di 10 anni) e il pericolo di essere costretta ad un matrimonio forzato costituiscono elementi idonei a riconoscere l’esistenza di un particolare gruppo sociale. Nella decisione del 3.2.2020 il Tribunale di Bologna ha ritenuto che la mutilazione subita dalla ricorrente (giovane donna della Sierra Leone costretta ad entrare a far parte della società segreta Bondo) rappresenti una grave violazione della vita umana e che detta mutilazione e le altre violenze fisiche e morali subite dalla ricorrente, per la sua condizione di donna, siano da considerarsi una vera e propria forma di persecuzione e discriminazione, a cui la ricorrente correrebbe il rischio di essere nuovamente sottoposta nel caso di rientro in Sierra Leone. Con riferimento al rischio futuro in caso di rimpatrio, il Tribunale bolognese ha considerato, in particolare, il pericolo della reiterazione di condotte tese a costringerla ad assumere il ruolo della nonna materna (nella società segreta Bondo) e il matrimonio forzato.
Ancora con riferimento alla fattispecie del matrimonio forzato e all’individuazione dell’agente di persecuzione, la Suprema Corte (sentenza 6573 del 9.3.2020) ha ribadito che, ai fini della persecuzione di genere, gli atti di violenza domestica (consistiti nel cercare di costringere il ricorrente, originario del Mali, a sposare la vedova del proprio fratello), anche se posti in essere da autorità non statuali, integrano i presupposti della persecuzione, di cui all’art. 7 del d.lgs. 19.11.2017 n. 251, se le autorità statuali non le contrastino o non garantiscano protezione, in quanto ritenute regole consuetudinarie locali. Nella pronuncia in esame è stato, inoltre, richiamato l’orientamento della Suprema Corte (Cass. 25463/2016; Cass. 25873/2013) secondo il quale la costrizione ad un matrimonio non voluto rappresenta una grave violazione della dignità e, dunque, un trattamento degradante, che integra un grave danno.
 
Religione
Il Tribunale di Bologna, con decreto del 18.1.2020 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad una cittadina della Cina, originaria della provincia di Henan, fuggita dal Paese d’origine per sfuggire alle persecuzioni religiose che avrebbe potuto subire in quanto praticante del culto definito del giustificazionismo mediante fede. Il Collegio, sulla base delle dichiarazioni della ricorrente (ritenute coerenti ed attendibili) e delle verifiche circa il trattamento delle House Churches in Cina, ha ritenuto che la ricorrente, tornando nel proprio Paese, verosimilmente sarebbe esposta al rischio di subire limitazioni nell’esercizio della propria libertà religiosa ed addirittura di essere arrestata, a causa dei controlli che vengono praticati – seppure con diffusione ed intensità varia a seconda dei gruppi religiosi – nei confronti degli appartenenti alle house churches. Il rischio è stato ravvisato anche nel pericolo di essere imprigionata perché appartenente ad un gruppo religioso non riconosciuto.
 
Ancora con riferimento alla religione, la Suprema Corte (ord. n. 5225 del 26.2.2020) ha cassato una decisione dei giudici di merito nella parte in cui avevano ricavato elementi a sostegno della ritenuta non credibilità del ricorrente dal fatto che egli non fosse stato in grado di descrivere, in modo particolareggiato, il percorso personale di avvicinamento alla fede e le pratiche religiose. In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che: «la scelta di fede costituisce, al pari di quella sull’orientamento sessuale, una delle primarie modalità di estrinsecazione della personalità umana: di conseguenza non può mai essere consentito al giudice di spingersi sino alla pretesa di valutare criticamente il percorso personale di avvicinamento alla fede seguito da un determinato soggetto, ovvero le modalità con le quali costui sceglie, in assoluta libertà – e fermi restando soltanto i limiti di ordine pubblico e sicurezza nazionale – di professare la propria fede». Nella pronuncia in esame viene ribadito come la «naturale molteplicità delle modalità di atteggiarsi della fede personale» e l’impossibilità per il decisore di poter contare sul possesso di conoscenze teologiche che non appartengono al naturale bagaglio del giudice civile portano a ritenere che l’attendibilità del ricorrente non possa essere valutata sulla base della descrizione del percorso di avvicinamento alla fede e sulla descrizione delle pratiche e conoscenze religiose.
 
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b)
Il Tribunale di Brescia, con decreto del 7.1.2020 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria, ex art. 14, lett. a) d.lgs. 19.11.2007 ad un cittadino del Benin accusato del reato di incendio doloso. Nel Paese d’origine, sulla base delle fonti aggiornate e pertinenti citate dal Collegio, tale reato è punibile (dagli artt. 812, 813 e 814), a seconda delle varie fattispecie, con una pena che parte de un minimo di 10 anni fino alla previsione più grave dell’ergastolo. Tale previsione legislativa, considerata unitamente alle gravissime condizioni delle carceri in Benin, costituisce un elemento che, alla luce della ritenuta credibilità delle dichiarazioni del ricorrente in merito alla sua partecipazione all’incendio doloso, porta a ritenere sussistente il pericolo, in caso di rimpatrio, di essere sottoposto ad una pena inumana o degradante. Particolarmente interessante, inoltre, la valutazione dell’insussistenza di una causa di esclusione, proprio alla luce della pena edittale prevista, nel nostro ordinamento, per il reato di incendio.
Il rischio effettivo di subire un grave danno – rappresentato dal lancio della fatwa nei confronti del ricorrente, cittadino pakistano – giustifica, nel decreto del Tribunale di Brescia (decreto dell’11.12.2019) il riconoscimento della protezione sussidiaria. In particolare, il richiedente era accusato di aver donato il proprio sperma ad una donna sposata, la quale poi era rimasta incinta. Il Tribunale bresciano – richiamate le fonti che confermano come, secondo la religione musulmana, la donazione di sperma sia equiparata alla “zina” (e, dunque, all’adulterio) e come l’utilizzo della fecondazione artificiale sia ritenuto religiosamente proibito e altamente peccaminoso – ha ritenuto che, alla luce dei precetti della religione musulmana, aventi forza di legge nella Repubblica islamica del Pakistan, debba ritenersi fondato il timore del ricorrente in merito all’effettiva esecuzione, ad opera di un qualsiasi musulmano, della pena di morte comminata con la fatwa.
 
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14, lett. c)
Il Tribunale di Milano – con decreto del 15.4.2020 – ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino del Mali, originario di Bamako, in ragione del rischio di essere coinvolto nella violenza da conflitto armato generalizzato. Nella decisione in esame, il Collegio ha esaminato le più aggiornate informazioni sul Paese d’origine per concludere che l’estensione del conflitto a pressoché tutto il Mali, compresa la capitale, rende assolutamente ragionevole ritenere che tutto lo Stato sia caratterizzato da una situazione di conflitto armato con violenza indiscriminata nei confronti dei civili ai sensi dell’art. 14, lett. c) del d.lgs. 19.11.2017 n. 251. Proprio alla luce dell’estensione del conflitto, il Tribunale ha ritenuto di non poter escludere singole zone ovvero città geograficamente collocate all’interno della zona di conflitto, evidenziando l’impossibilità di definire in modo certo i confini del conflitto.
La Corte di cassazione, nell’ordinanza n. 2954 del 7.2.2020 – con riferimento al tema del dovere di cooperazione del giudice nel caso di situazione di violenza indiscriminata da conflitto armato – ha ribadito che il pericolo di danno grave in caso di rimpatrio debba essere considerato in linea meramente oggettiva, a prescindere dalle ragioni che hanno indotto il richiedente asilo ad emigrare e con riferimento all’attualità. Nella pronuncia in esame, la Suprema Corte ha precisato come sia del tutto irrilevante il fatto che la situazione pericolosa di danno grave possa essere sorta in un momento successivo alla partenza del richiedente dal Paese di origine e come sia ininfluente il motivo che aveva originato la sua partenza. Con particolare riferimento al dovere di cooperazione, la Suprema Corte ha chiarito come tale potere-dovere non trovi ostacolo nella non credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente (ad eccezione del caso in cui si ritenga proprio non credibile la provenienza da una determinata area geografica), nel caso in cui oggetto di valutazione sia proprio la situazione generale di sicurezza del Paese d’origine.
 
QUESTIONI PROCESSUALI
Valutazione di credibilità e dovere di cooperazione del giudice
La Suprema Corte, con ordinanza n. 7546 del 27.3.2020, ha cassato una decisione di merito nella parte in cui aveva ritenuto non credibili le dichiarazioni rese da una giovane donna fuggita dalla Cina perché perseguitata in ragione del suo credo religioso (la ricorrente aveva riferito di essere osservante del culto della Chiesa di Dio Onnipotente). Con specifico riferimento alla valutazione di credibilità, la Corte di cassazione ha affermato che nei giudizi di protezione internazionale, tale valutazione non può tradursi in un atomistico esame degli elementi della narrazione o nella capillare ricerca di elementi di contraddizione, atteso che la «funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale deve ritenersi quella – del tutto autonoma rispetto alla precedente procedura amministrativa, della quale esso non costituisce in alcun modo prosecuzione impugnatoria – di accertare, secondo criteri legislativamente predeterminati, la sussistenza o meno del diritto del richiedente al riconoscimento di una delle tre forme di asilo».
Nella decisione in esame, i giudici di legittimità richiamano la pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. SU n. 10531/2013) sul tema della giustizia della decisione, sottolineandosi come la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni in senso lato (tematica “classica” di diritto processuale) faccia «leva sul valore della giustizia della decisione, che deve ritenersi valore primario del processo (valore primario che, a più forte ragione, permea quei procedimenti nei quali i valori in gioco hanno riguardo alle persone, alla loro storia, ai loro diritti fondamentali, sempre e comunque garantiti dalla Carta costituzionale e dalle Convenzioni internazionali)».
La Suprema Corte, infine, ricorda che ove, rispetto ad alcuni dettagli, residuino all’organo giudicante dubbi in parte qua, possa trovare legittima applicazione il principio del beneficio del dubbio, codificato nell’art. 3 del d.lgs. 19.11.2017 n. 251, indicato nel manuale Beyond Proof Credibility Assessment in EU Asylum Systems dell’UNHCR e più volte richiamato nella giurisprudenza sull’onere della prova della Corte europea dei diritti dell’uomo.
 
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 6879 dell’11.3.2020 – chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da un cittadino del Pakistan fuggito dal Paese di origine perché il padre era stato sfruttato dai propri datori di lavoro ed egli era stato costretto sin da piccolo a lavorare per i proprietari del terreno, ove lavorava il padre, abbandonando la scuola – ha ravvisato, nella decisione dei giudici di merito che avevano escluso la riconducibilità dei fatti narrati ai fattori di inclusione nelle fattispecie di protezione internazionale, una violazione del disposto dell’art. 3 del d.lgs. 19.11.2017 n. 251. In particolare la Suprema Corte ha ribadito che la storia narrata dal ricorrente – privato del diritto allo studio e costretto, sin dalla giovane età a lavorare nei terreni ove lavorava il padre da un agente di persecuzione privato – fosse qualificabile come riduzione in schiavitù e ben potesse, pertanto, essere astrattamente inquadrata nelle forme della protezione invocata.
 
Nell’ordinanza n. 8819 del 12.5.2020, la Suprema Corte si è soffermata sulle caratteristiche delle domande di protezione internazionale, sul contenuto del dovere di cooperazione istruttoria e sulla valutazione di credibilità.
Con riferimento al primo tema gli Ermellini hanno affermato che qualora l’originario petitum introdotto dinanzi al Tribunale risulti specificamente circoscritto alle (sole) forme di protezione sussidiaria e/o umanitaria, il giudice ha, comunque, l’obbligo di valutare anche la possibilità di riconoscere al ricorrente lo status di rifugiato, ove ne ricorrano i presupposti, qualora i fatti storici addotti a fondamento dell’istanza risultino pertinenti a quella forma di protezione, vertendosi, nella specie, in tema di domande autodeterminate avente ad oggetto diritti fondamentali.
In merito al rapporto tra dovere di cooperazione e valutazione di credibilità, nella decisione in esame è stato affermato che il giudizio di credibilità, eventualmente negativo, non può in alcun modo essere posto a base, ipso facto, del diniego di cooperazione istruttoria cui il giudice è obbligato ex lege, atteso quel giudice non sarà mai in grado, ex ante, di conoscere e valutare correttamente la reale ed attuale situazione del Paese di provenienza del ricorrente.
Nella decisione in esame, infine, la Suprema Corte – contrariamente rispetto a quanto affermato nella precedente pronuncia n. 3340/2019 – ha chiarito che costituisce errore di diritto, come tale censurabile anche in sede di legittimità, la valutazione delle dichiarazioni che si sostanzi nella capillare e frazionata ricerca delle singole, eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione, atteso che il procedimento di protezione internazionale è caratterizzato, per sua natura, da una sostanziale mancanza di contraddittorio (stante la sistematica assenza dell’organo ministeriale), con conseguente impredicabilità della diversa funzione – caratteristica del processo civile ordinario – di analitico e perspicuo bilanciamento tra posizioni e tesi contrapposte intra pares.
 
Con decreto del 28.2.2020, il Tribunale di Perugia , accogliendo l’istanza di sospensiva proposta da un cittadino ucraino in fase di reiterazione della domanda, ha affermato che la «concreta possibilità di essere impiegato, quale infermiere, nel corso delle operazioni militari in corso sul confine orientale dell’Ucraina» – fatto nuovo confermato dalla cartolina di precetto con la quale gli è stato intimato di presentarsi al commissariato militare – integri l’elemento nuovo, suscettibile di positiva valutazione ai fini dell’accoglimento dell’istanza cautelare.
 
Il Tribunale di Milano – con decreto del 1.4.2020 – chiamato a decidere su un’istanza di sospensiva proposta ai sensi dell’art. 35-bis, co. 13, del d.lgs. 28.1.2008 n. 25 – ha ritenuto che, ai fini dell’accoglimento dell’istanza cautelare, i «fondati motivi» possono essere integrati anche in via esclusiva dal requisito del periculum, rappresentato, nel caso esaminato dal Collegio, dall’eccezione emergenza sanitaria determinata dall’epidemia da virus COVID-19 e dalle eccezionali misure adottate dal Governo per contrastarla. In particolare il Tribunale, richiamati gli artt. 17 e 32 Cost., le istruzioni dell’Istituto superiore della sanità, i d.p.c.m. emanati dal Governo nel mese di marzo 2020, l’art. 34 del Testo Unico immigrazione e la circolare del 24 marzo 2000 n. 5 del Ministero della sanità, ha affermato che il rigetto della sospensione comporterebbe la revoca in capo al richiedente del permesso di soggiorno temporaneo per richiesta di asilo e che tale revoca determinerebbe l’impossibilità di osservanza delle prescrizioni dell’Istituto superiore della sanità a tutela della salute individuale e collettiva perché la revoca del permesso di soggiorno precluderebbe l’accesso del richiedente al Servizio sanitario nazionale e alle cure del medico di famiglia.
 
Con decreto del 22 gennaio 2020 il Tribunale di Firenze si è pronunciato sull’istanza di sospensiva dell’effetto esecutivo di un provvedimento di rigetto presentata da un ricorrente che, proveniente dal Senegal, aveva allegato dinanzi alla Commissione territoriale del capoluogo toscano di essere omosessuale e di correre per tale motivo un rischio nel Paese di origine. Nonostante la tempestiva allegazione del ricorrente in fase amministrativa, la domanda era stata respinta per manifesta infondatezza all’esito della procedura accelerata, in quanto il Senegal era indicato nella lista dei Paesi designati come sicuri. Il Tribunale, acquisita ed esaminata la “scheda Paese” sul Senegal predisposta dalla Commissione nazionale per il diritto d’asilo ha rilevato come in essa fosse chiaramente indicato che il Senegal non poteva essere considerato sicuro per gli appartenenti alla comunità Lgtbi (in ragione sia della perdurante criminalizzazione dell’omosessualità e del clima di ostilità e violenza sociale nei loro confronti). Ad avviso dei giudici fiorentini l’art. 2-bis del d.lgs. 25/2008 deve essere interpretato nel senso di imporre al decreto ministeriale attuativo, nel caso di inserimento in lista del Paese di origine non interamente sicuro, la previsione dell’esplicita esclusione, dalla procedura accelerata, delle categorie di persone a rischio. In conclusione, nel decreto in esame, si afferma che, essendo la designazione del Senegal illegittima sotto il profilo indicato, essa non è idonea ad assoggettare al regime procedurale speciale previsto per i cittadini di Paesi designati e, si dispone la sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto di rigetto.
 
Il Tribunale di Milano, con decreto del 5.2.2020 , è stato adito, in via cautelare, da una donna proveniente dalla Tunisia (fuggita, insieme alle due figlie minori, per episodi di violenza domestica perpetrati dalla famiglia del marito) la cui domanda è stata rigettata per manifesta infondatezza, proprio perché proveniente da un Paese designato come sicuro. Al modello C3 non risultava allegato alcun opuscolo informativo e, nel verbale di audizione, si leggeva che la ricorrente «è stata resa edotta delle novità normative principali sulle domande accelerate». Nella decisione in esame i giudici meneghini hanno richiamato espressamente la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – che ha identificato nel mancato accesso ad informazioni relative alla procedure, e sulle conseguenze di tale omissione, uno dei maggiori ostacoli all’efficacia delle procedure d’asilo (sent. M.S.S. c. Belgio e Grecia, cit., paragrafi 301 e 304, e sent. 23 febbraio 2012 (grande camera) Hirsi Jamaa et al. c. Italia, ricorso n. 27765/09, par. 204), censurando casi in cui questa era priva di efficacia per condizioni personali dei richiedenti (sent. Ilias e Ahmed, cit., par. 124) – per poi concludere che l’omessa informazione in merito agli elementi necessari per comprendere le peculiarità della procedura seguita dall’amministrazione e le conseguenze, sul piano procedurale, di tale scelta, giustifichino il riconoscimento dell’invocata sospensiva.
 
Vizio di motivazione
La Suprema Corte, con ordinanza 7519/2020 del 25.3.2020 – chiamata a decidere sul ricorso di un richiedente asilo che aveva riferito di essere fuggito dal Paese d’origine per paura di essere perseguitato dai sostenitori del partito governativo, in quanto suo padre aveva collaborato con il partito avversario – ha affermato che l’incomprensibilità del percorso argomentativo seguito dal giudice di merito per dar conto della non credibilità del richiedente, tale da determinarne la mera apparenza, è riconducibile a una delle ipotesi in cui il provvedimento prospetta una anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, attinente all’esistenza della motivazione in sé ed è, di conseguenza, suscettibile di essere denunciata per Cassazione.
 
Procura alle liti
Il giudice, a fronte dell’omesso deposito della procura alle liti nel giudizio d’appello (che sia richiamata negli atti di parte) è tenuto, secondo quanto affermato dalla Suprema Corte con ordinanza 6884/2020 dell’11.3.2020 – anche in forza del richiamo a numerosi precedenti di legittimità – ad invitare la parte a produrre l’atto mancante, e tale invito può e deve essere fatto, in qualsiasi momento, anche dal giudice d’appello e solo in esito ad esso il giudice deve adottare le conseguenti determinazioni circa la costituzione della parte in giudizio, reputandola invalida soltanto nel caso in cui l’invito sia rimasto infruttuoso.
 
LA PROTEZIONE UMANITARIA NEL PROCEDIMENTO DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Autonomia dell’esame della protezione umanitaria
L’importante ordinanza n. 8819/2020 della Corte di cassazione (rassegnata anche nella precedente parte, tra le questioni processuali) consolida, rafforzandolo, l’orientamento giurisprudenziale (controverso in Cassazione) che afferma l’autonomia dell’esame della protezione umanitaria rispetto a quello che il giudice deve compiere per l’eventuale riconoscimento della protezione internazionale e precisa che i fatti da considerare possono essere i medesimi della protezione internazionale (tra i precedenti si ricordano Cass. n 26566/2013; n. 21903/2015; n. 23604/2017). Decisione che segue di poco l’ulteriore importante pronuncia della Corte n. 1104/2020 (rassegnata nel proseguo, anche sotto altri profili), entrambe le quali affermano «che i presupposti necessari ad ottenere la protezione umanitaria devono identificarsi autonomamente rispetto a quelli previsti per le due protezioni maggiori, e che le due valutazioni non sono sovrapponibili, il che è a dire che i fatti funzionali ad una positiva valutazione della condizione di vulnerabilità ben potrebbero essere gli stessi già allegati per le protezioni maggiori».
L’ordinanza si discosta espressamente dalla giurisprudenza della stessa Corte che per la protezione umanitaria vorrebbe l’allegazione di fatti diversi, ritenendolo in contraddizione con «il basilare dovere del giudice di qualificazione della domanda sulla base degli stessi fatti storici allegati dalla parte istante», su cui nella precedente parte motiva è stato ampiamente argomentato (cfr. punti 2 e 5 dell’ordinanza). Ricordando i principi espressi dal Giudice di legittima sulla natura della protezione umanitaria – che non è ricompresa in ipotesi tipizzate abbracciando, invece, una platea ampia di diritti fondamentali, con evoluzione elastica della norma, clausola generale di sistema le cui basi normative «non sono affatto fragili» ma «a compasso largo» (Cass. SU 29460/2019; Cass. 4455/2018) –, la pronuncia riafferma la necessità di una comparazione tra la condizione attuale del richiedente e le conseguenze del suo rimpatrio a cui deve conseguire un giudizio di «bilanciamento di tipo ipotetico», rispetto al quale la condizione di vulnerabilità è uno dei requisiti per il riconoscimento della tutela umanitaria (principi riassunti a pag. 17 della ordinanza).
Come già la pronuncia n. 1104/2020, anche questa ordinanza non solo censura le valutazioni “seriali” dei giudici, tenuti invece ad esaminare caso per caso, ma conferma il principio di «comparazione attenuata» cioè «concettualmente caratterizzato da una relazione di proporzionalità inversa tra fatti giuridicamente rilevanti, che impone un peculiare bilanciamento tra condizione soggettiva del richiedente asilo e situazione oggettiva del Paese di eventuale rimpatrio», con la conseguenza che quanto più risulta accertata in giudizio una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità oggettiva (riferita, cioè, al Paese di rimpatrio), minore sarà il rigore del giudizio di comparazione.
 
Donne nigeriane richiedenti asilo e violenze subite in Libia
In questa sezione della Rubrica pubblichiamo alcune significative pronunce della Corte di cassazione, le quali hanno ad oggetto non solo i criteri per la valutazione della credibilità del/della richiedente asilo – questione, è noto, di massima importanza nel giudizio di protezione internazionale ed umanitaria – ma che, nello specifico, trattano della credibilità di donne nigeriane richiedenti protezione e della rilevanza delle violenze sessuali subite nel percorso migratorio, in specie in Libia (profilo esaminato, in generale, anche nell’ordinanza n. 2558/2020 pubblicata nella successiva sezione). Profilo di per sé estremamente interessante, che si discosta dall’orientamento, sin qui espresso dalla prevalente giurisprudenza, di irrilevanza di quanto avvenuto nel percorso migratorio ed è tanto più importante tenuto conto della notorietà, rilevante giuridicamente, della gravissima violazione dei diritti umani in Libia ai danni delle persone migranti, che prosegue nella pressoché generale indifferenza istituzionale.
Sono pronunce, inoltre, interessanti perché evidenziano l’imprescindibilità, per un corretto esame della richiesta di tutela delle donne nigeriane, della valutazione della condizione femminile in Nigeria, la cui discriminazione e violenza sono descritti in numerose fonti di informazione.
Con ordinanza n. 29603/2019 la Corte di cassazione (2) ha accolto il ricorso di una richiedente asilo nigeriana, a cui il Tribunale di Brescia ha negato ogni forma di protezione per ritenuto difetto di credibilità delle sue dichiarazioni, qualificate contraddittorie ed inverosimili ed in quanto non aveva espresso alcun timore nei riguardi dell’amica «che l’aveva venduta». Richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, la Corte afferma che l’allegazione del/della richiedente di violenze subite nei Paesi di transito, in specie la Libia, è circostanza che deve essere valutata per la ricostruzione della vicenda personale e «di conseguenza, della credibilità del dichiarante e della sua condizione di fragilità», ovverosia della sua condizione di vulnerabilità, quantomeno al fine di riconoscimento della protezione umanitaria. Senza, tuttavia, potere escludere a priori una forma di protezione internazionale «se, in concreto, nella vicenda umana posta a base della domanda e ivi narrata (al di là di aspetti meramente di dettaglio) risulti che l’attraversamento ed il soggiorno in un Paese di transito (come la Libia) e i trattamenti inumani e degradanti nonché le violenze ivi subite abbiano un importante ruolo nell’ambito nucleo essenziale della richiesta di protezione internazionale, che è quello che deve essere esaminato nelle due fasi del procedimento (arg. ex Cass. 20 novembre 2018, n. 29875)».
Fatte queste premesse, la Corte censura la decisione del Tribunale lombardo che, pur non mettendo in dubbio che la richiedente sia stata “venduta” per lo sfruttamento sessuale, «non risulta che abbia dato alcun peso a questo fatto», omettendo di accertare se quella “raccapricciante” vendita sia stata effettuata in Nigeria o in Libia, nonostante la notorietà del traffico di donne nigeriane tra i due Paesi. La Cassazione censura anche il fatto che il Tribunale «non ha neppure considerato che spesso le vittime di tratta non denunciano le violenze subite per timore di ritorsioni e che, quindi, la ricorrente per la medesima ragione, potrebbe aver dichiarato di non avere alcun timore rispetto alla vicenda vissuta in Libia». Per effetto di siffatto errato esame della domanda, secondo la Corte il giudice di 1^ grado non solo ha dato risalto ad elementi delle dichiarazioni del tutto secondari, ma ha omesso di attivare quei poteri officiosi che caratterizzano il giudizio sulla protezione internazionale, addivenendo ad un giudizio privo di effettiva motivazione.
Con ordinanza n. 1104/2020 la Corte di cassazione ha delineato importanti principi in materia di riconoscimento della protezione umanitaria, relativamente ad un ricorso ricadente nell’ambito di applicazione della normativa precedente la riforma recata dal d.l. n. 113/2018, trattandosi di domanda presentata precedentemente. La vicenda oggetto di giudizio riguardava una donna nigeriana, richiedente asilo, che aveva riferito di essere stata oggetto di violenze sessuali in Nigeria per un’accusa di furto subita insieme al marito e di essere dunque fuggita in Libia, ove era stata segregata e costretta a prostituirsi. Dopo avere ribadito l’irretroattività della riforma 2018 (Cass. SU 29459/2019), la suprema Corte ha rigettato i primi due motivi di ricorso, escludendo la rilevanza, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, del rischio di retrafficking in quanto lo sfruttamento sessuale è avvenuto in Libia e non nel Paese di origine, rispetto al quale ultimo va considerato il rischio di rimpatrio.
La Cassazione ha, invece, censurato il provvedimento del Tribunale di Milano nella parte in cui ha negato anche la tutela umanitaria mancando di effettuare quella valutazione comparativa tra la condizione attuale della ricorrente, pienamente integrata in Italia, e la sua esposizione al rischio di violazione dei diritti fondamentali in caso di rientro in Nigeria, secondo i parametri individuati dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 4455/2018). Comparazione che, diversamente dalla valutazione che deve essere effettuata per la protezione internazionale, nel caso della umanitaria prescinde dal luogo in cui sono state consumate le violenze, qualora ad esse sia conseguita una vulnerabilità soggettiva, precisando, altresì, che la «condizione di vulnerabilità […] alla luce dell’insegnamento delle sezioni unite, rappresenta soltanto una delle ipotesi per le quali può riconoscersi la protezione umanitaria». L’ordinanza sintetizza i principi giuridici ricavabili dalla giurisprudenza, i quali, per la loro importanza ed utilità, meritano di essere qui integralmente riportati, comprese le evidenziazioni in grassetto del relatore: «1) Che non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano.
2) Che gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali, sicché l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (ex multis, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096).
3) Che le relative basi normative non sono, allora, “affatto fragili” (come opinato, ancora una volta infondatamente, nell’ordinanza di rimessione), ma “a compasso largo”: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della CEDU, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione.
4) Che andava pertanto condiviso l’orientamento di questa Corte (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, e seguito, tra le altre, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19, cit., nonché dalla prevalente giurisprudenza di merito) che assegna rilievo centrale alla valutazione comparativa, ex art. 8 CEDU, tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale.
5) Che, con riferimento all’ipotesi che precede, non poteva, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, “né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072). Si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass. 3 aprile 2019 n. 9304)» (pp. 6-7).
Concretizzando quei principi nel caso oggetto di ricorso, la Corte ricorda la necessità di effettuare caso per caso detta valutazione comparativa, senza che il giudice possa declinare valutazioni seriali «improntate ai più disparati quanto opinabili criteri altrettanto seriali, a mò di precipitato di una chimica incompatibile con valori tutelati dalla Carta costituzionale e dal diritto dell’Unione».
Un ulteriore importante principio evincibile dalla pronuncia in esame riguarda l’intensità della valutazione comparativa che il giudice deve effettuare, che, secondo la Cassazione, è attenuato, in analogia a quanto avviene per la protezione sussidiaria. Dunque, una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità (riferite alla vicenda personale del/della richiedente asilo) consente al giudice di «valutare con minor rigore il secundum comparationis, costituito dalla situazione oggettiva del Paese di rimpatrio, onde la conseguente attenuazione dei criteri – predicati, si ripete, con esclusivo riferimento alla comparazione del livello di integrazione raggiunto in Italia – rappresentati “dalla privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale».
Rapportando quei principi al caso oggetto di giudizio, la Corte trova occasione per affermare un ulteriore importate principio, spesso disatteso nei giudizi, ovverosia che nella valutazione della credibilità soggettiva assume rilievo anche la «condizione emotiva» della persona, quale «mezzo di prova di pari dignità rappresentativa rispetto alla prova storica o documentale».
In conclusione, la Cassazione accoglie il ricorso proposto dalla richiedente asilo nigeriana chiedendo al giudice di rinvio di valutare, alla luce delle specifiche fonti di informazione, quale sia la condizione della donna in Nigeria e quanto essa possa esporre la richiedente al rischio di violazione dei diritti umani, tenendo conto della «residua capacità di una donna assoggettata a tali esperienze di essere sottoposta, e di poter ancora accettare, sopportare e subire una qualsiasi ulteriore forma di violenza - benché di tipo e di intensità sicuramente diversa»
Indubbiamente una straordinaria evoluzione dell’elaborazione giurisprudenziale di un diritto fondamentale che ha la persona al centro.
 
Con riguardo ai criteri di valutazione della credibilità soggettiva di richiedente asilo, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, la Corte di cassazione ha pronunciato l’ordinanza n. 2453/2020 , in un giudizio proposto da una giovane richiedente asilo nigeriana, a cui il Tribunale di Torino aveva negato la tutela per difetto di credibilità delle dichiarazioni. La Corte ha annullato la decisione di 1^ grado perché il Tribunale non ha fatto buon uso dei criteri legali per l’esame della domanda di protezione, innanzitutto fermandosi alla sola verifica della credibilità soggettiva, ritenuta erroneamente preclusiva «di un qualunque esame ulteriore in tema di protezione umanitaria». Secondo la Cassazione, infatti, il giudice deve valutare la credibilità prendendo in considerazione tutte le circostanze che concretizzano «una situazione di “vulnerabilità”, da effettuarsi su base oggettiva», eventualmente integrando officiosamente le allegazioni del richiedente.
La Cassazione ha censurato il Tribunale piemontese che, esaminando singoli frammenti delle dichiarazioni, non ha valutato l’insieme delle stesse ed ha omesso di considerare la giovane età, l’assenza di scolarizzazione e l’essere stata vittima di sfruttamento sessuale, cioè sia il contesto sociale di provenienza e le specifiche caratteristiche individuali della richiedente, come invece affermato dalla giurisprudenza (Cass. n. 18128/2017; n. 26921/2017).
La Corte censura anche la parte della decisione di 1^ grado ove si esclude, ma non motivazione solo apparente, la verosimiglianza delle violenze subite nel percorso migratorio, la loro rilevanza ai fini del riconoscimento della protezione e ove si qualifica stereotipato il racconto della richiedente. Secondo il Giudice di legittimità «la diffusione – ripetuta nei modi e nelle forme – di violenze e maltrattamenti materiali su persone di “piccola” età non sembra per sé fattore in grado di determinare la non credibilità di chi assume di essere stato costretto a subirli».
 
Protezione umanitaria e ragioni di salute
La Corte di cassazione ha esaminato il ricorso proposto da un richiedente asilo del Ghana, cui era stato negata dal Tribunale di Ancona ogni forma di protezione, compresa quella umanitaria, rispetto alla quale era stata negata rilevanza alle serie condizioni di salute del richiedente. Con ordinanza n. 2558/2020 la Cassazione ha annullato detta decisione di 1^ grado e, dopo avere ritenuto applicabile ratione temporis, la disciplina previgente la riforma del d.l. n. 113/2018, nonché censurato l’indifferenza del giudice di 1^ grado alle violenze subite in Libia, ha posto in luce la differenza tra il permesso per cure mediche, preceduto dallo specifico visto e di cui all’art. 36 TU d.lgs. 286/98, e la tutela umanitaria che trova legittimazione nella condizione di vulnerabilità soggettiva del richiedente motivata anche da ragioni di salute. La Corte ha così pronunciato il principio di diritto secondo cui «[…] ai fini del riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie la vulnerabilità del richiedente può anche essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute adeguatamente allegata e dimostrata né tale primario diritto della persona può trovare esclusivamente tutela nell’art. 36 del d.lgs. n. 286 del 1998 (Ingresso e soggiorno per cure mediche) in quanto la ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano la dignità, come il fondamentale diritto alla salute laddove ricorrano i suddetti presupposti, e al contempo di essere posti nella condizione di integrarsi nel Paese ospitante anche attraverso lo svolgimento di un’attività lavorativa, mentre il permesso di soggiorno per cure mediche di cui all’art. 36 cit. si può ottenere esclusivamente mediante specifico visto d’ingresso e pagamento delle spese mediche da parte dell’interessato, sicché non consente di iscriversi al Servizio sanitario nazionale e neppure di lavorare in Italia (salvo casi particolari di cui all’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998), avendo una durata pari al tempo definito in base alle documentate necessità di salute per le quali viene consentito il soggiorno, cioè pari alla durata presunta del trattamento terapeutico cui si riferisce essendo rinnovabile prima della scadenza esclusivamente finché durano le necessità terapeutiche indifferibili ed erogabili soltanto in Italia».
 
Con ordinanza n. 7599/2020 la Corte di cassazione ha accolto il ricorso di un richiedente asilo nigeriano, a cui il Tribunale di Ancona aveva rifiutato il riconoscimento di ogni forma di protezione, compresa quella umanitaria, pur ritenendo credibile la sua vicenda. Il giudice di 1^ grado, infatti, aveva escluso il rischio concreto in caso di rientro in Nigeria, poiché l’accadimento che aveva originato la fuga del richiedente (aggressione da parte di un gruppo di pastori Fulani) era del tutto occasionale nello Stato nigeriano ove egli abitava (Edo State).
La Corte ha respinto l’impugnazione nella parte relativa alla protezione internazionale, confermando il giudizio del Tribunale, ma accogliendola, invece, per quanto riguarda la protezione umanitaria. Dopo avere tracciato il percorso giurisprudenziale in materia di tutela umanitaria, applicandone i principi al caso oggetto di ricorso, la Cassazione ha censurato la decisione del Tribunale perché ha compiuto una «valutazione atomistica e frammentaria dei componenti della fattispecie» senza valutarli «complessivamente e unitariamente» e ritenendo che la condizione di fragilità psicologica del richiedente poteva essere protetta con il rilascio di un permesso per cure mediche. Approccio errato, secondo il Giudice di legittimità, perché «il concorso di singole circostanze, di per sé insufficienti a determinare una condizione di vulnerabilità, può ben determinarla allorché esse si cumulino e interagiscano, alla stregua di un criterio logico di giudizio che ha trovato espressione nella giurisprudenza di questa Corte nei più vari ambiti, dalla responsabilità disciplinare a quella sanitaria, dalla diffamazione al licenziamento».
Il principio di diritto affermato dalla Cassazione è, dunque, quello secondo cui «[…] il giudice deve valutare la sussistenza di situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale capace di determinare una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti inviolabili, evitando di addivenire ad una considerazione atomistica e frammentata dei singoli elementi fattuali a tal fine accertati dovendoli invece considerare globalmente e unitariamente».
 
QUESTIONI PROCEDIMENTALI e DIRITTI CIVILI
Il titolo di viaggio per i titolari di protezione
Le pronunce di seguito rassegnate riguardano una questione che sta diventando sempre più problematica, ovverosia il rilascio del titolo di viaggio per i titolari di protezione sussidiaria o umanitaria, quando non sia possibile il rilascio del passaporto da parte delle Rappresentanze diplomatiche in Italia del Paese di origine. La prima delle ordinanze pubblicate riguarda, tuttavia, il rinnovo del permesso per protezione sussidiaria, diniegato dalla questura per mancanza del passaporto ma è interessante in quanto il Tribunale di Brescia chiarisce la diversità dei presupposti per il rinnovo del permesso, rispetto alla disciplina del titolo di viaggio.
Un ulteriore aspetto che emerge dalla rassegna riguarda la giurisdizione, divisa tra quella ordinaria e quella amministrativa e che viene espressamente affrontata dal solo Tribunale di Firenze, che lo declina a favore del giudice ordinario, in quanto questione che sottende una misura di protezione internazionale rispetto alla quale la PA non può vantare alcun potere discrezionale.
 
Con ordinanza cautelare 31.1.2020 (RG. 18250/2019) il Tribunale di Brescia , sezione specializzata immigrazione ed asilo, ha censurato il diniego di rilascio del permesso di soggiorno per protezione sussidiaria (riconosciuto dalla Commissione territoriale) opposto dalla questura di Brescia per mancanza di passaporto. Dopo avere esaminato la normativa, sia generale che speciale, il Tribunale ha escluso che il rilascio del permesso per protezione sussidiaria possa essere condizionato dal possesso del passaporto, in quanto non previsto dall’art. 23 d.lgs. 251/2007, in una materia, la protezione internazionale, che non consente alcuna valutazione discrezionale all’autorità di P.S. (Cass. SU n. 11535/2009). Secondo la pronuncia in esame il passaporto può rilevare se il titolare della protezione chieda il sostitutivo titolo di viaggio, di cui all’art. 24 d.lgs. 251/2007, indicando le fondate ragioni dell’impossibilità di conseguirlo dalle autorità del Paese di origine, ma è fattispecie, del tutto diversa da quella contemplata nell’art. 23. In tal senso depone anche l’art. 9, co. 6, d.p.r. 394/99 (regol. di attuazione del TU immigrazione), che esenta i richiedenti asilo dall’onere di esibire il passaporto e, sembra evincersi dalla pronuncia in commento, a maggior ragione vale per i titolari di protezione.
Precisa, altresì, il Tribunale che non può essere attribuita al passaporto la finalità identificativa posta a motivazione dal Ministero costituitosi in giudizio, «trattandosi di soggetto già identificato più volte nell’ambito della procedura e munito di codice CUI e Vestanet, sulla base della documentazione già in possesso della stessa Questura e della competente Commissione per il Riconoscimento della Protezione Internazionale (ved. in senso conforme Tribunale di Palermo decreto collegiale n. 15122/2017 e ordinanza Tribunale di Napoli 35170/2018)».
 
Il Tribunale di Firenze ha esaminato il caso di un rifugiato politico somalo a cui la questura di Firenze non ha rilasciato il titolo di viaggio, opponendo un lungo silenzio dopo 2 anni dalla richiesta. Con ordinanza 23.2.2020 (RG. 13202/2019) il giudice fiorentino ha, innanzitutto, dichiarato la giurisdizione ordinaria, respingendo l’eccezione del Ministero dell’interno secondo cui la causa doveva essere proposta davanti al Tar, affermando che è «devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario ogni controversia inerente il rilascio ovvero il rinnovo di documenti di soggiorno che vedano in una sottostante misura di protezione internazionale la relativa ragione giustificativa, posto che in simili casi all’Autorità di Pubblica Sicurezza non è riconosciuto alcun margine di discrezionalità valutativa in ordine alla sussistenza (ovvero alla permanenza) dei relativi presupposti di fatto (il cui apprezzamento è invece rimesso in via esclusiva alla cognizione delle competenti Commissioni Territoriali».
Nel merito, il Tribunale fiorentino ha accolto il ricorso, ordinando alla questura il rilascio del titolo di viaggio, dopo avere esaminato la normativa in materia di passaporto (legge n. 1185/1987) alla luce delle previsioni della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, il cui art. 28 esclude il rilascio del titolo di viaggio solo per ragioni di sicurezza dello Stato o ordine pubblico.
 
Sempre in materia di titolo di viaggio, è intervenuto il Consiglio di Stato, con ordinanza cautelare n. 917/2020 (RG. 528/2020), ma con riguardo a titolare di permesso umanitario, ritenendo che «la interpretazione costituzionalmente orientata del sistema di tutela previsto dal d.lgs. n. 251/2017, in materia di rilascio di un titolo di viaggio, comporta l’estensione della previsione di cui all’art. 24 del citato d.lgs. anche ai titolari di protezione umanitaria, qualora vi siano fondate ragioni alla base della impossibilità di ottenere il passaporto», come confermato anche dalle circolari ministeriali allegate in giudizio dal cittadino straniero.
 
Con ordinanza in sede cautelare, n. 44/2020, il Tar Sardegna, Cagliari , ha accolto la sospensiva in un ricorso proposto da un cittadino maliano, titolare di permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, cui la questura aveva negato il rilascio del titolo di viaggio nonostante la produzione in giudizio di dichiarazione dell’Ambasciata italiana del Mali in Italia di non potere rilasciare in Italia il passaporto, pur avendo riconosciuto la cittadinanza maliana dell’interessato.
Il Tar ha ritenuto «sussistenti i presupposti per l’applicazione della norma che dispone il rilascio da parte della Questura del “titolo di viaggio” richiesto, in applicazione dell’art. 24 comma 2 del d.lgs. 251/2007.», tenuto conto che «il ricorrente risulta, in questo contesto, sostanzialmente privato della possibilità di conseguire il titolo di viaggio richiesto» e considerato che «per l’ordinamento italiano il ricorrente è già titolare di permesso di soggiorno “peculiare” (rilasciato il 15.10.2018 dalla Questura di Cagliari), carta d’identità, tessera sanitaria e codice fiscale, in forza dell’avvenuto riconoscimento della “protezione internazionale sussidiaria”, ex art. 14 lett. c) del d.lgs. 251/2007 (per conflitto armato interno)».
 
La formalizzazione della domanda di protezione internazionale
Il Tribunale di Torino ha accolto il ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., proposto da un richiedente asilo, detenuto presso la Casa circondariale piemontese, il quale aveva inoltrato via PEC alla questura di Torino la domanda di riconoscimento della protezione internazionale, senza ricevere alcun riscontro. Con ordinanza 6.4.2020 (RG. 5262/2020) il Tribunale ha escluso che la questura abbia poteri discrezionali in materia di protezione internazionale, a partire dalla ricezione della domanda e sua formalizzazione, avendo la posizione del richiedente natura di diritto soggettivo «(ex multis Cass. civ. sez. I, 25.11,2005, n. 25028; Cass. civ. sez. I Sent. 28.8.2006, n. 18549; Cass. civ. SU, ord., 28.2.2017, n. 5059)». Rispetto alla domanda, comunque proposta, la questura è tenuta solo a svolgere attività materiale, nel rispetto degli artt. 6 e 26 d.lgs. 25/2008 e con rilascio del permesso di soggiorno o dell’attestato nominativo di cui all’art. 4 d.lgs. 142/2015.
Precisa il Tribunale che «La richiesta di protezione internazionale non è soggetta ad alcun vincolo di forma, limitandosi l’art. 6 co. 1 d.lgs. 25/2008 a richiedere unicamente che la domanda sia presentata “personalmente” dal richiedente» ciò che nel caso di specie era stato assolto mediante sottoscrizione da parte del ricorrente della PEC inviata alla questura torinese» e pertanto la domanda non può essere subordinata alla presenza fisica del richiedente, «requisito che non solo non è prescritto dalla legge, ma nel caso di specie sarebbe anche di difficile attuazione, essendo il ricorrente detenuto».
Accertato, dunque, l’inutile decorso del termine di legge per la verbalizzazione della richiesta, il Tribunale ha ordinato alla questura di Torino di ricevere la domanda di protezione ei formalizzarla ai sensi dell’art. 26 d.lgs. 25/2008. Afferma il giudice piemontese che solo con il rilascio del permesso di soggiorno per richiesta asilo, all’esito dell’attivazione della procedura, il richiedente può avere certezza della regolarità della sua presenza sul territorio nazionale, evitando dunque il rischio di espulsione, rispetto al quale il Ministero non ha provato nemmeno l’impossibilità di eseguire l’eventuale ordine durante l’emergenza da COVID-19.
 
Con ordinanza cautelare, ex art. 700 c.p.c., del 7.4.2020 (RG. 17275/2020) il Tribunale di Roma ha ordinato alla questura romana di formalizzare entro 6 gg. la domanda di protezione internazionale di un nucleo familiare, dopo che, a seguito di tentativi personali o effettuati attraverso associazioni ed avvocati fin dal 13 marzo 2020, la questura aveva fissato l’appuntamento per maggio 2020. Affermata la giurisdizione ordinaria e ribadita la natura di diritto soggettivo della pretesa posta in giudizio (Cass. SU 5059/2017), di rilevanza anche costituzionale (art. 10, co. 3 Cost.), il Tribunale ha ripercorso la normativa che delinea iter e competenze procedurali, a partire da quella europea (Direttiva 2005/85/CE mod. con Direttiva 2013/32/UE), che impone di registrare la domanda entro 6 gg., evidenziando che secondo la Corte di giustizia UE gli Stati membri devono adottare procedure che non rendano impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dal diritto europeo, per concludere richiamando il d.lgs. 142/2015 (attuativo della Direttiva 2013/33/UE) di pari ratio. Il giudice romano non ha rinvenuto nell’attuale emergenza sanitaria da COVID-19 una giustificazione per il ritardo della formalizzazione della domanda, che lasciava il nucleo familiare (con tre minori) sfornito di permesso di soggiorno e senza potere accedere al sistema di accoglienza. Secondo il Tribunale, infatti, «Certamente, l’eccezionale emergenza sanitaria in atto giustifica il potere discrezionale della questura di adottare soluzioni organizzative che risultino attuative di un bilanciamento tra le esigenze dell’utenza e quelle di salute pubblica e senza che, in linea di principio, la posizione di diritto soggettivo della persona che intende presentare domanda di protezione internazionale e che legittimamente aspira ad acquisire lo status di richiedente asilo possa, nell’attuale contesto, ritenersi di per sé violato». Tuttavia, nel caso di specie la presenza di tre minori esponeva l’intero nucleo familiare ad essere privo di accoglienza «lasciandoli in una condizione di precarietà, rischio per la salute ed incertezza che, nel predetto bilanciamento, non risulta giustificata nemmeno dalla emergenza sanitaria».
 
La formalizzazione della domanda reiterata di protezione internazionale
Con ordinanza 30.1.2020 (RG. 12253/2019) il Tribunale di Brescia ha accolto il ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., proposto da un richiedente asilo a cui la questura di Bergamo aveva rifiutato la formalizzazione della domanda reiterata di protezione internazionale, nell’occasione notificandogli un provvedimento di espulsione. Dopo avere accertato documentalmente che il richiedente aveva espressamente chiesto alla questura, anche attraverso un avvocato, di formalizzare la richiesta reiterata di protezione, il giudice ha richiamato gli art. 33 e 41 della Direttiva 2013/32/UE, secondo i quali le domande reiterate devono essere sottoposte a esame preliminare prima di essere dichiarate inammissibili e solo se presentata una seconda domanda reiterata può essere disposta una deroga al diritto di rimanere sul territorio nazionale, fatto salvo l’obbligo di verificare se, in tal caso, non vi sia contrasto con il divieto di refoulement diretto o indiretto. Per quanto riguarda il diritto nazionale, il Tribunale richiama l’art. 3 d.lgs. 25/2008 secondo cui la competenza all’esame, anche preliminare, delle reiterate è della Commissione territoriale e la questura è tenuta a formalizzare la domanda non essendoci differenze rispetto alla procedura relativa alla prima domanda di protezione internazionale.
 
Sempre il Tribunale di Brescia, con ordinanza 31.1.2020 (RG. 17260/2019) , ha accolto il ricorso proposto da un richiedente asilo che aveva presentato una domanda reiterata di protezione internazionale, ritenuta dalla questura di Brescia inammissibile ex art. 29-bis d.lgs. 25/2008 poiché proposta in fase di espulsione. Il giudice lombardo ha ricostruito la normativa, sia europea che nazionale, relativa alla disciplina delle domande reiterate di protezione, arrivando alla conclusione della difformità dell’art. 29-bis d.lgs. 25/2008 (introdotto dal d.l. n. 113/2018) alla direttiva 2013/32/UE, con conseguente sua disapplicazione. Infatti, la Direttiva definisce in cosa consista la domanda reiterata (art. 2, lett. q) e art. 33, lett. d) direttiva 2013/32) e prevede che non sia ritenuta di per sé inammissibile ma di essere esaminata preliminarmente; esame che va effettuato dall’organo amministrativo competente per l’esame della domanda (art. 40 Direttiva), nel caso dell’Italia dalla Commissione territoriale. Il Tribunale bresciano, che ha richiamato precedenti giurisprudenziali sul punto, ha dunque ordinato alla questura di Brescia di formalizzare la domanda reiterata di protezione internazionale, onde consentire alla competente Commissione territoriale di effettuare il prescritto esame preliminare, non residuando alcune competenza all’autorità di P.S.
 
L’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale dopo la riforma del d.l. n. 113/2018
Il Tribunale di Verona, adito da un richiedente asilo a cui il Comune di Sona aveva negato l’iscrizione anagrafica, con ordinanza 30.1.2020 (RG. 1115/2019) ha ordinato detta iscrizione, confermando la maggioritaria giurisprudenza secondo cui la riforma agli artt. 4 e 5 d.lgs. 142/2015, operata con il d.l. n. 113/2018, non ha determinato alcun divieto di iscrizione anagrafica. Nella pur sintetica motivazione che richiama i numerosi precedenti giurisprudenziali, il giudice veronese ha, altresì, ribadito che unico contraddittore giudiziale è il Sindaco, nella sua qualità di Ufficiale di stato civile, mentre il Ministero può, eventualmente, intervenire in giudizio ma non come parte principale.
Il Tribunale di Torino ha affrontato la questione, sempre in materia di iscrizione anagrafica, che ha riguardato una cittadina straniera già riconosciuta rifugiata, alla quale la questura di Torino doveva ancora rilasciare il permesso per asilo allorquando ha inoltrato la dichiarazione anagrafica, rifiutata dal Comune di Torino per mancanza del permesso di soggiorno elettronico, nonostante l’interessata avesse prodotto copia del provvedimento di riconoscimento dello status. Con ordinanza 18.1.2020 (10) il Tribunale torinese ha ordinato al Comune l’iscrizione anagrafica, evidenziando che era certamente comprovata la stabile dimora sul territorio della ricorrente, che non vi è norma che escluda ad un titolare di status detta iscrizione e che ciò vale anche nel caso in cui l’interessata fosse stata semplicemente richiedente asilo, richiamando sul punto le numerose pronunce intervenute.
 
Anche il Tribunale di Bari, con ordinanza 28.2.2020 (RG. 16814/2019) ha accolto il ricorso di un richiedente asilo a cui il Comune di Bari aveva negato l’iscrizione anagrafica a seguito della riforma all’art. 4 d.lgs. 142/2015 apportata dal d.l. n. 113/2018. Ritenuta sussistente la giurisdizione ordinaria (Cass. SU n. 449/2000 - Cons. St. n. 310/2015), il giudice pugliese ripercorrendo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ha ritenuto che la riforma del 2018 non abbia inciso sui presupposti per l’iscrizione/dichiarazione anagrafica in quanto «il diritto soggettivo all’iscrizione anagrafica trova la sua disciplina nel d.p.r. n. 233/1989, che all’art. 1, comma 3 dispone che “le posizioni anagrafiche sono desunte dalle dichiarazioni degli interessati, dagli accertamenti d’ufficio e dalle comunicazioni degli uffici di stato civile” e da ciò consegue che il d.l. n. 113/2018 ha introdotto il presupposto del possesso di un titolo valido, non identificabile in un permesso di soggiorno temporaneo, che di fatto non trova alcuna corrispondenza nelle diverse previsioni regolatrici della materia, già esistenti».
 
Il rinnovo del permesso di soggiorno umanitario ed il parere della Commissione territoriale in materia di protezione speciale
Con ordinanza 22.4.2020 (RG. 4266/2020), ex art. 5 d.lgs. 150/2011, il Tribunale di Firenze ha sospeso gli effetti del provvedimento con cui il questore di Firenze ha negato il rinnovo del permesso umanitario, richiesto da una cittadina ghanese con modificazione in protezione speciale, come previsto dall’art. 1, co. 8 d.l. n. 113/2018. Diniego questorile adottato sulla base del parere negativo della Commissione territoriale dopo la nuova audizione della interessata.
Il Tribunale fiorentino ha censurato l’automatismo della decisione del questore, che ha adottato il diniego sulla base del solo parere della Commissione territoriale, senza considerare i legami familiari dell’interessata e pertanto senza applicare quanto previsto dall’art. 5, co. 5 TU 286/98, come da ultimo interpretato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 202/2013.
Da evidenziare che l’ordinanza è stata assunta nell’ambito del procedimento di sospensione previsto dall’art. 5 d.lgs. 150/2011 in un giudizio proposto ex art. 702-bis c.p.c.
 
I PROVVEDIMENTI EX REGOLAMENTO n. 604/2013 DUBLINO III
La Corte di cassazione, con ordinanza 2119/2020 ha annullato la decisione del Tribunale di Trieste davanti a cui un richiedente asilo aveva proposto ricorso contro la decisione dell’Unità Dublino del Ministero di trasferimento in Germania, ritenuto Paese competente ai sensi dell’art. 19 Regolamento n. 603/23013 (cd. Dublino). La censura del Giudice di legittimità è motivata alla luce di quanto disposto dal medesimo art. 19 Regol. Dublino, ed in particolare del suo comma 2 in quanto «quando il richiedente si è allontanato dal territorio degli Stati membri per almeno tre mesi, la domanda da lui presentata dopo il periodo di assenza è considerata una “nuova domanda” e dà inizio a un nuovo procedimento di determinazione dello Stato membro competente». Risultava, infatti, che il richiedente asilo, dopo avere presentato istanza di protezione internazionale in Germania nel 2016, aveva lasciato quel Paese vivendo in Serbia fino alla metà del 2018, per poi trasferirsi in Italia ove aveva presentato la nuova domanda. La Cassazione afferma, pertanto, che «la competenza dell’Italia a decidere sulla nuova domanda di protezione internazionale non dipende da una decisione discrezionale della Germania, ma è dalla richiamata norma collegata al mero rientro del richiedente nel territorio dell’Unione europea dopo che se ne sia allontanato per almeno tre mesi».
 
LE MISURE DI ACCOGLIENZA
Il Tar Lombardia, Milano, ha pronunciato la sentenza n. 2724/2019 accogliendo il ricorso contro il silenzio-inadempimento proposto da un richiedente asilo che aveva chiesto l’accesso alle misure di accoglienza senza avere alcuna risposta da parte della prefettura di Como. Silenzio giustificato, in sede di giudizio, per l’attesa della decisione dell’Unità Dublino. Il Tar tuttavia, ha ritenuto illegittimo il comportamento della Prefettura perché in violazione dell’art. 2 legge 241/90 e s.m. «secondo cui, ove il procedimento amministrativo consegua obbligatoriamente ad un’istanza di parte, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la Pubblica Amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso.» e, nel caso specifico, in violazione delle «previsioni contenute nel d.lgs. n. 142 del 2015 (artt. 1, 14, 15) (cfr., da ultimo, Tar Campania, Napoli, 4.10.2019 n. 4738)».
 
Con decreto cautelare n. 57/2020, il Tar Emilia Romagna, Bologna, ha accolto la sospensiva in un ricorso proposto da un richiedente asilo che aveva presentato domanda reiterata di protezione internazionale e al quale la prefettura di Ravenna aveva revocato le misure di accoglienza perché in contrasto con quanto previsto dall’art. 23, co. 1 lett. c) d.lgs. 142/2015. Il giudice regionale, tuttavia, pur prendendo atto di tale disposizione (che in effetti esclude dall’accoglienza chi propone domanda reiterata di protezione), ha preso in considerazione anche quanto previsto dal comma 2 della stessa, secondo cui «Nell’adozione del provvedimento di revoca si tiene conto della situazione del richiedente con particolare riferimento alle condizioni di cui all’art. 17…» (persone vulnerabili portatrici di esigenze particolari)». Pertanto, poiché in giudizio era stata prodotta certificazione medica sulle precarie condizioni di salute del richiedente, ha ritenuto sussistente il «pregiudizio connotato da straordinaria gravità che arrecherebbe al ricorrente l’immediata uscita dalla struttura di accoglienza, tenuto anche conto dell’attuale situazione di grave emergenza sanitaria derivante dall’epidemia da COVID 19 in cui versa la Nazione», sospendendo dunque il provvedimento di revoca delle misure di accoglienza.
 
Il Tar Toscana, Firenze, con sentenza n. 437/2020 ha annullato il provvedimento con cui la prefettura di Firenze aveva revocato l’accoglienza ad un richiedente asilo a seguito di suo reperimento di attività lavorativa e stante la mancata sua comunicazione all’ente gestore. L’annullamento della revoca è stato disposto perché il Tar ha verificato che il reddito lavorativo conseguito dal richiedente era concretamente inferiore all’importo dell’assegno sociale annuo, indicato dalla legge come preclusione all’accoglienza pubblica (in termini viene richiamato anche Tar Basilicata I, 4 giugno 2019 n. 481).
Quanto alla parte del provvedimento di revoca basato sulla mancata comunicazione dell’avvio dell’attività lavorativa, in asserita violazione del Regolamento di accoglienza, il Tar muove dai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, 12 novembre 2019 nella causa C-233/18, di interpretazione dell’art. 20 della Direttiva 2013/33/UE, che consente di ridurre o di revocare, in casi eccezionali, le misure di accoglienza in casi specificamente indicati e con decisione da assumersi «in modo individuale, obiettivo e imparziale».
Ricorda il Tar che detta pronuncia del Giudice europeo ha affermato che «l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE, alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni applicabili ad uno straniero richiedente protezione internazionale in caso di gravi violazioni delle regole dei Centri di accoglienza o di comportamenti gravemente violenti, la revoca (anche solo temporanea) delle condizioni materiali di accoglienza, e tanto per diverse ragioni», tra le quali l’obbligo di garantire comunque al richiedente asilo un tenore di vita dignitoso, di cui sarebbe privato in conseguenza di una misura, la revoca, sproporzionata. Secondo la CGUE anziché la revoca possono essere considerate altre misure meno radicali, si da mantenere la proporzionalità tra i beni giuridici in contestazione.
In ossequio a tali principi, il Tar ravvisa una difformità tra la normativa nazionale (art. 23 d.lgs. 142/2015) ed il diritto europeo, con conseguente dovere di sua disapplicazione, stante la prevalenza di quest’ultimo (C.G.A. sez. giurisd. 16 maggio 2016, n. 139; Tar Marche I, 1 agosto 2016 n. 468; Tar Campania-Napoli III, 6 luglio 2016 n. 3394). Interessante la parte in cui il Tar così afferma: «Il Collegio è consapevole che in tal modo rischia di crearsi un vuoto normativo poiché l’ordinamento italiano non prevede alcuna sanzione (ulteriore alla revoca dell’accoglienza) a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale e ammessi alle misure di accoglienza, i quali pongano in essere gravi violazioni delle regole dei Centri in cui sono inseriti o comportamenti gravemente violenti. È tuttavia responsabilità del legislatore colmare tale lacuna, non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto comunitario così come fornita dalla Corte».
 
Con sentenza n. 172/2020 il Tar Marche, Ancona, ha rinviato alla Corte costituzionale «la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, del d.l. n. 113/2018, convertito in l. n. 132/2018, per contrasto con l’art. 3 Cost.». Trattasi della norma introdotta con d.l. n. 113/20118 che, per effetto dell’abrogazione del permesso umanitario (art. 5, co. 6 TU 286/98) nell’ambito della protezione umanitaria, ha escluso dalle misure di accoglienza nello SPRAR (oggi SIPROIMI) i titolari di permesso di soggiorno umanitari. Il caso di specie riguardava un richiedente asilo cui era stata riconosciuta la protezione umanitaria antecedentemente alla riforma del 2018 ma che aveva conseguito il permesso di soggiorno il 4 ottobre 2018 (un giorno prima l’entrata in vigore del d.l. n. 113) e per il quale era stato chiesto l’ingresso nello SPRAR in data successiva.
Il Tar dubita della tenuta costituzionale dell’art. 12, co. 6 d.l. n. 113/2018 «ravvisandosi un possibile contrasto della norma con l’art. 3 Cost., visto che la disposizione transitoria salvaguarda solo i cittadini extracomunitari titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari che, per mera casualità, alla data di entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 erano stati già ammessi in strutture di accoglienza appartenenti al sistema SPRAR e non anche coloro che, sempre per mera casualità, non vi sono stati ammessi per mancanza di posti», ritenendo irrilevante che le nuove disposizioni consentano l’ingresso nel SIPROIMI dei titolari di altri permessi cd. umanitari (per cure mediche, vittime di tratta o violenza domestica, sfruttamento lavorative, ecc.), in quanto «le esigenze primarie a cui rispondono le misure di accoglienza sono le medesime, a prescindere dallo status individuale del cittadino extracomunitario. Non va dimenticato infatti che i titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari non sono equiparabili ai migranti c.d. economici né tantomeno sono migranti clandestini, visto che la loro particolare condizione, seppure non integrante gli estremi per la concessione della protezione internazionale, è stata comunque ritenuta dalla competente autorità di P.S. tale da rendere non opportuno il ritorno nel Paese di origine. Questi migranti hanno dunque diritto, nel tempo occorrente per la ricerca di un’occupazione, di beneficiare delle misure di accoglienza; - in casi come quello che interessa il presente giudizio l’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 e la mancata previsione di una norma transitoria che si applicasse a tutti i titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari ha determinato il brusco allontanamento degli interessati dai Centri di accoglienza temporanei e, quindi, la perdita dei mezzi minimi di sostentamento».

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