La maggior parte delle pronunce emesse nel primo quadrimestre dell’anno in corso (gennaio-aprile 2020) in tema di acquisto della cittadinanza per matrimonio o per naturalizzazione e di accertamento dell’apolidia seguono orientamenti già più volte esplorati all’interno delle precedenti Rassegne.
Maggiormente innovative, quanto al loro oggetto, appaiono due sentenze di merito in tema di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis, relative rispettivamente alla conservazione di tale status civitatis malgrado l’acquisto, per molti aspetti forzato, della cittadinanza brasiliana da parte dell’avo; e soprattutto alla revoca della cittadinanza italiana riconosciuta appunto per discendenza a seguito di comportamenti fraudolenti di alcuni funzionari pubblici. L’accuratezza della motivazione di questa seconda decisione, anche in riferimento al sottostante problema attinente alla residenza anagrafica in Italia a questi fini, ne giustifica un recupero in questo quadrimestre, malgrado sia stata emessa anteriormente.
Sempre avendo riguardo a fattispecie per certi versi inusuali, merita di essere segnalata anche una sentenza della Corte di Cassazione relativa all’incidenza della separazione di fatto sull’acquisto della cittadinanza per matrimonio, malgrado non si tratti di una novità assoluta.
Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano. a) Cittadini emigrati in Brasile e destinatari dei provvedimenti di naturalizzazione collettiva emessi dall’autorità di quello Stato alla fine del 1800. Facoltà di rinuncia a tale cittadinanza ai fini del mantenimento della cittadinanza originaria. Suo mancato esercizio. Effetti sullo status civitatis italiano. b) Individui discendenti da cittadini italiani emigrati in Brasile. Richiesta di riconoscimento dello status civitatis degli avi presentata ad un Comune italiano dove era stata effettuata l’iscrizione anagrafica dei richiedenti. Successivo accertamento del carattere fittizio di tale iscrizione. Revoca del suddetto riconoscimento. Necessità inderogabile di una valida iscrizione anagrafica del richiedente in un Comune italiano quale condizione preliminare ai fini suddetti
La titolarità dello status civitatis italiano per discendenza ha avuto modo di essere contestata dal Ministero dell’interno in relazione ad una fattispecie insolita, anche se nota: ovvero, in relazione ai provvedimenti di naturalizzazione imposta dagli Stati del continente sudamericano agli immigrati stranieri in vista di una loro rapida integrazione, soprattutto allo scopo di sottrarre allo Stato originario il potere di esercitare, in eventuali (ma improbabili) casi, l’esercizio della protezione diplomatica nei confronti dello Stato ospitante per violazione del c.d. standard minimo prescritto dalle nome consuetudinarie internazionali nei confronti degli stranieri residenti. A tale riguardo è stata infatti prospettata da parte della Pubblica Amministrazione la mancata attivazione della facoltà di rinuncia a questo acquisto forzato ad opera dei cittadini italiani all’epoca coinvolti. Nella specie, il governo brasiliano con un decreto del 1889 imponeva l’acquisto della propria cittadinanza a tutti gli stranieri residenti, salvo la possibilità di opporsi a tale acquisto tramite una apposita dichiarazione alle autorità del proprio Comune di pregressa residenza (sic!), solo in seguito, in base a un successivo (e altrettanto sconosciuto data la scarsa alfabetizzazione in quel periodo) decreto, resa possibile anche davanti al Console del proprio Stato.
Di fronte alla mancata dichiarazione da parte dell’avo e alla deduzione da parte del Ministero dell’interno della conseguente volontarietà di tale acquisto (che in base all’art. 8 della l. 555/1912 avrebbe comportato la perdita della cittadinanza italiana), il giudice di merito non ha esitato a giungere ad una conclusione di segno opposto, salvaguardando così il mantenimento della cittadinanza italiana dell’ascendente dei ricorrenti e dichiarando perciò il possesso dello status civitatis per discendenza a favore di questi ultimi (
Trib. Roma, ord. 25.2.2020
).
A ben vedere, la necessità di una indagine sulla volontà effettiva dell’interessato, ai fini della citata norma della precedente legge organica sulla cittadinanza, sembra riecheggiare, con le dovute differenze, le motivazioni sottese alle sentenze della Corte di Cassazione in riferimento all’acquisto più o meno volontario, da parte delle cittadine italiane residenti nel Paese del coniuge, della cittadinanza straniera del marito (cfr. Cass., ord. 5.11.2015 n. 22608 e sent. 3.8.2017 n. 19428 già illustrate in precedenti Rassegne).
Sempre in tema di riconoscimento della cittadinanza a favore di discendenti da emigrati italiani in Brasile, si segnala un altro provvedimento reso dal Tribunale specializzato di Milano in un caso ben diverso, in quanto attinente alla revoca della cittadinanza italiana già riconosciuta, a causa di una frode attuata da alcuni impiegati e funzionari di un Comune della Lombardia. Questi ultimi avevano infatti redatto, dietro compenso, una nutrita serie di false attestazioni anagrafiche nel proprio territorio di competenza, di per sé utili a radicare le richieste di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis. Alla scoperta di tali comportamenti erano seguite una condanna penale e il ritiro dei provvedimenti di iscrizione anagrafica nonché la revoca, anch’essa da parte del Sindaco, dei provvedimenti di accertamento della cittadinanza italiana nei confronti di individui che mai si erano recati in Italia per ottenere i medesimi. Di qui l’impugnazione di tali atti da parte di una ventina di cittadini (ormai esclusivamente) brasiliani.
In una dettagliatissima decisione (
Trib. Milano, ord.20.6.2019
) il giudice esclude innanzitutto la legittimazione passiva del Comune coinvolto in quanto l’oggetto delle domande attoree verte non tanto su una questione di iscrizione anagrafica quanto su una questione di status civitatis, materia di competenza dello Stato, che esige l’esercizio del diritto di difesa unicamente da parte del Ministero dell’interno: il Sindaco nella sua qualità di ufficiale di stato civile è qualificabile, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo regolamento (d.p.r. 396/2000), come organo delegato dal Governo nella suddetta materia.
Nel merito l’ampia motivazione del Tribunale verte principalmente sulla esatta individuazione del requisito relativo alla iscrizione anagrafica dello straniero in un Comune italiano ai fini della richiesta di accertamento della cittadinanza italiana; si tratta ovviamente di un’ipotesi alternativa alla presentazione di tale richiesta al Console italiano all’estero competente (trattandosi di persone residenti in Brasile sono ben noti i lunghissimi tempi di attesa in questa seconda ipotesi).
A tale proposito il giudice compie dapprima un esame delle regole sul riconoscimento della cittadinanza italiana per nascita alla luce non solo dell’art. 1 della l. 91/1992, ma anche di una circolare ministeriale, tuttora in vigore, intervenuta su questo peculiare aspetto anteriormente all’emanazione della suddetta legge organica: la circolare prevede per la particolare fattispecie in esame l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente in un Comune italiano. Successivamente il Tribunale compie una minuziosa disamina delle regole sull’iscrizione degli stranieri nei registri anagrafici comunali, che include anche la nozione di dimora, il trattamento delle persone senza fissa dimora e soprattutto la disciplina speciale per gli aspiranti al riconoscimento della cittadinanza italiana, anche in riferimento ad apposite e successive circolari ministeriali emesse negli anni Duemila. Tale analisi porta a respingere tutti i variegati motivi avanzati dagli attori e a confermare che l’avvio del procedimento presso gli uffici municipali (ossia in Italia) presuppone che l’istante risulti formalmente iscritto nell’anagrafe della popolazione residente del Comune a cui è presentata la richiesta di riconoscimento dello status civitatis. L’iscrizione anagrafica del richiedente figura dunque espressamente tra le condizioni preliminari per il riconoscimento della cittadinanza italiana da parte dell’ufficiale di stato civile. Tale disciplina ha una portata generale e non tollera alcuna deroga.
Acquisto della cittadinanza per matrimonio. a) Mancata incidenza della separazione di fatto quale presupposto ostativo alla presentazione della domanda da parte del coniuge straniero. b) Riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di acquisto della cittadinanza italiana. Differenza tra le ipotesi in cui l’istante ha un interesse legittimo all’acquisto della cittadinanza e quelle in cui è titolare di un diritto soggettivo. Valutazione delle condanne penali a carico dell’istante. Ipotesi di titolarità di tale diritto. c) Verifica concreta delle condanne penali a carico dell’istante. Reati contravvenzionali. Loro ininfluenza
Con riferimento allo speciale procedimento previsto dagli artt. 5-8 della l. 91/1992, più volte modificati, ai fini dell’acquisto della cittadinanza per matrimonio, i Giudici di legittimità hanno avuto modo di tornare sulla questione relativa agli eventuali effetti della separazione di fatto sul requisito attinente alla costanza del matrimonio di cui all’art. 5 (Cass., 24.2.2020 n. 4819).
In questa occasione la Suprema Corte non poteva che richiamare una propria precedente e “illuminata” sentenza (Cass., 17.1.2017 n. 969, in questa Rassegna, fasc. 2/2017), la quale – pur di fronte al nuovo testo restrittivo dell’art. 5 così come modificato dall'art. 1, co. 11 della l. 94/2009 – aveva dichiarato che solo la separazione personale dei coniugi, e non la separazione di fatto, costituisce condizione preliminare ostativa all’acquisto della cittadinanza italiana mediante matrimonio con un cittadino italiano. Viene così condiviso l’argomento relativo al chiaro ed univoco tenore testuale della norma, che impiega l’espressione «separazione personale», utilizzata dal legislatore anche nel titolo dell’art. 150 c.c., nel corpus dell’art. 154 c.c. relativo alla riconciliazione e nel testo dell’art. 155 c.c. prima della modifica intervenuta con il d.lgs. n. 154 del 2013; viene altresì sottolineata la differenza tra il testo della norma in esame e quello dell’art. 6 della l. 184/1983, il quale cita espressamente i due tipi di separazione tra i requisiti ostativi all’adozione di un minore.
Costituiscono poi espressione di orientamenti consolidati in questo settore due ulteriori decisioni. Anzitutto, una sentenza del giudice amministrativo sul riparto di giurisdizione nei confronti dell’autorità giudiziaria ordinaria (Tar Calabria, 2.3.2020 n. 156), nella quale il ricorso è stato dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione in quanto esso verteva sul preliminare rifiuto dell’istanza ad opera del prefetto a causa di condanne penali valutabili ai fini dell’art. 6 co. 1 lett. b) della l. 91/1992: dunque, in base ad una norma che, predeterminando il tipo e la durata di tali condanne, configura un vero e proprio diritto soggettivo a favore del coniuge del cittadino; esso affievolisce ad interesse legittimo solo in presenza dell’esercizio, da parte della Pubblica Amministrazione, del potere discrezionale di valutare l’esistenza di motivi ostativi inerenti alla sicurezza della Repubblica ai sensi della successiva lett. c). Pertanto, spetta appunto al giudice ordinario decidere su tale ricorso.
A questa decisione si ricollega idealmente una pronuncia di un giudice di merito, il quale, chiamato proprio a valutare la sussistenza del motivo ostativo di cui all’art. 6 co. 1 lett. b), ne ha verificato la mancanza, diversamente da quanto accertato dal prefetto, trattandosi nella specie di reati contravvenzionali (
Trib. Brescia, ord. 27.2.2020
).
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. a) Rilievo della pendenza di un procedimento penale, non ancora sfociato in una decisione: sua valutazione nell’ambito dell’ampio potere discrezionale della P.A. b) Carattere imprescindibile del requisito relativo alla continuità della residenza decennale in Italia. c) Criterio relativo all’adeguatezza del reddito. Parametri di valutazione. Verifica estesa agli obblighi inderogabili di mantenimento del figlio minore, anche se non convivente. Effetti di un superficiale o errato accertamento
È noto il diverso rilievo che può assumere, nell’ambito del procedimento di naturalizzazione ex art. 9, co. 1, lett. f) della l. 91/1992, una pregressa condanna penale a carico di chi richiede l’attribuzione dello status civitatis italiano rispetto a quello testé segnalato in relazione all’applicazione dell’art. 5. Ciò dipende dall’ampia discrezionalità assegnata dalla l. 91/1992 (ma non solo da essa) per questo modo di attribuzione della cittadinanza alla Pubblica Amministrazione nella valutazione della personalità dell’istante.
I giudici amministrativi (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 30.1.2020 n. 1286) sono così giunti a respingere il ricorso di un cittadino straniero contro un provvedimento di diniego del Ministero dell’interno, motivato in base alla pericolosità sociale dell’aspirante alla cittadinanza italiana, ricavabile dalla pendenza di un giudizio penale per uso fraudolento di carte di credito. Essi infatti hanno richiamato una propria giurisprudenza relativa alla legittimità di un vaglio negativo anche qualora svincolato dai futuri esiti processuali. A ben vedere, era stata altresì omessa nella domanda di naturalizzazione la debita comunicazione, da parte del cittadino straniero, della pendenza di questo processo.
Un ulteriore raffronto tra il procedimento di cui all’art. 5 e quello di cui all’art. 9 potrebbe vertere sul requisito della pregressa residenza in Italia da parte dello straniero al momento dell’istanza: a parte la diversa durata rispettivamente prescritta, non muta il carattere di continuità che l’applicazione di entrambe le norme esige. Alla luce di tale requisito è stato perciò convalidato il rifiuto della Pubblica Amministrazione alla concessione della cittadinanza nei confronti di uno straniero, il quale non aveva potuto provare l’ininterrotta residenza decennale in Italia al momento della domanda a causa della sua cancellazione dai registri per irreperibilità nel territorio nazionale durante un periodo di tre anni, solo parzialmente scalfita da alcune certificazioni del reddito (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 4.3.2020 n. 2849).
In ogni caso, proprio l’adeguatezza del reddito in base a parametri prefissati costituisce anch’essa uno dei criteri oggetto di valutazione da parte del Ministero dell’interno. Tale criterio è stato esaminato dai giudici amministrativi sotto diversi profili.
In una prima decisione (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 7.1.2020 n. 60) è stato ribadito che l’accertamento della sufficienza del reddito dell’istante a garantirne il sostentamento è giustificato dal fatto che lo straniero, una volta inserito a pieno titolo nella collettività nazionale, acquisisce tutti i diritti e i doveri che competono ai suoi membri, tra i quali spicca il dovere di solidarietà sociale di concorrere con i propri mezzi, attraverso il prelievo fiscale, a finanziare la spesa pubblica, funzionale all’erogazione dei servizi pubblici essenziali.
Ad una peculiare fattispecie si riferisce invece una seconda sentenza (Tar Lazio, sez. I-ter, sent.23.3.2020 n. 3609), nella quale l’insufficienza del reddito dell’istante è stata verificata ricomprendendovi gli obblighi di mantenimento della figlia minore, malgrado il padre non convivesse più con essa e la madre non pretendesse tale contribuzione, alla luce dell’inderogabilità degli obblighi suddetti ai sensi dell’art. 147 c.c. Sono stati ancora una volta enucleati i parametri di calcolo nella specie rilevanti.
Infine il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso di un cittadino straniero censurando, da un lato, il carattere sbrigativo e apodittico del rifiuto del Ministero e, dall’altro, le giustificazioni addotte per tale operato dal Tar del Lazio, fondate su motivi attinenti al reddito ed erroneamente calcolati, sebbene in realtà non presenti nel suddetto provvedimento ministeriale di rifiuto (Cons. St., sez. III, sent. 30.1.2020 n. 785).
Accertamento dell’apolidia
Al pari di quanto accade per i ricorsi contro i provvedimenti negativi attinenti ai procedimenti di naturalizzazione, altrettanto continuo si rivela il flusso delle richieste di accertamento in via giudiziaria dello status di apolide.
Nel periodo qui considerato tale accertamento è stato, ad esempio, effettuato dai giudici fiorentini nei confronti dell’attrice, nata in quella città da genitori di etnia rom e cittadini dell’allora Repubblica ferale della Iugoslavia, la quale aveva depositato apposite certificazioni sia dell’ambasciata della Repubblica serba che di quella del Montenegro da cui risultava che essa non era cittadina di alcuno dei due Stati (
Trib. Firenze, ord. 2.2.2020)
. Da una accurata ricostruzione delle norme in vigore emerge che le costituzioni e le leggi sulla cittadinanza di tali Stati distinguono tra i nati prima e dopo la loro entrata in vigore consentendo ai primi l’acquisto per nascita subordinatamente alla condizione di avere avuto almeno un genitore cittadino. Tuttavia, la ricorrente, seppure nata nel 1990, non poteva usufruire di tale disciplina poiché non poteva dimostrare la cittadinanza serba dei propri ascendenti. Gli Stati nati dalla dissoluzione della ex Iugoslavia non hanno infatti riconosciuto i membri dell’etnia rom come loro cittadini per diversi motivi, quali ad esempio la distruzione degli uffici anagrafici di registrazione, la loro nascita in uno Stato e la loro residenza in uno Stato diverso prima del trasferimento in Italia, il mutamento della maggioranza etnica nel precedente luogo di residenza successivamente alla risoluzione del conflitto, e così via. D’altro canto, la ricorrente, nata e ininterrottamente residente in Italia, non possedeva nemmeno i requisiti per chiedere la cittadinanza della Repubblica di Serbia o della Repubblica di Montenegro. Da qui la pronuncia del giudice italiano costitutiva dello status di apolide.