FAMIGLIA
Non necessità della convivenza con il coniuge italiano, al fine della conservazione del titolo di soggiorno
Con la sentenza del 27.2.2020, n. 5378, la Corte di Cassazione ha avuto modo di ribadire il principio
secondo cui il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno a favore del coniuge straniero di cittadino italiano non è subordinato alla effettiva convivenza dello straniero con il coniuge italiano, almeno nel caso in cui «lo straniero sia entrato in Italia con visto di ingresso per ricongiungimento familiare».
La Suprema Corte ricorda che, in tal caso, ai sensi dell’art. 30, co. 1-bis, il rigetto dell’istanza di rilascio o rinnovo del permesso è subordinata al «diverso e ben più oneroso accertamento» che il matrimonio sia di comodo.
Tale sentenza afferma un principio sicuramente corretto – il soggiorno del coniuge di cittadino italiano o europea non è subordinato alla convivenza –; tuttavia, si ritiene che l’ambito di applicazione di tale principio sia ben più ampio di quello indicato dalla Corte, ricomprendendo ogni caso di rapporto matrimoniale che non risulti di comodo. Dunque, anche il coniuge che non sia entrato per ricongiungimento familiare ha diritto al soggiorno in Italia, senza dover coabitare con il coniuge italiano o europeo.
Se è vero, infatti, che il d.lgs. n. 286/1998 subordina in alcuni casi il rilascio del permesso a favore del coniuge del cittadino europeo o italiano alla prova della convivenza, deve essere ricordato che il Testo Unico in materia di immigrazione trova applicazione solo in via sussidiaria laddove non possa essere invocata la normativa di cui al d.lgs. n. 30/2007, di trasposizione della Direttiva 2004/38 in materia di ingresso e soggiorno dei cittadini europei e dei loro familiari.
In base all’interpretazione che del diritto europeo ha dato fin dagli anni Ottanta del secolo scorso la Corte di giustizia, infatti, (in particolare, con la risalente sentenza del 13 febbraio 1985, Diatta resa nel procedimento C-267/83), il coniuge non deve necessariamente convivere con il cittadino dell’Unione europea per essere titolare di diritto al soggiorno. Nessuna ulteriore condizione relativa alle modalità di ingresso o alla previa regolarità di soggiorno è posta dalla normativa europea che dovrà pertanto prevalere, con la conseguenza che sia il coniuge di cittadino europeo o italiano entrato per ricongiungimento sia quello che abbia fatto ingresso in altro modo o fosse anche in precedenza irregolarmente soggiornante avranno un diritto al soggiorno non condizionato alla prova della coabitazione. L’unica condizione posta dal diritto europeo è, infatti, quella dell’effettività del matrimonio che non deve essere strumentale o di comodo: laddove il matrimonio sia effettivo, il coniuge straniero ha diritto al soggiorno indipendentemente da qualsiasi condizione di previa regolarità di soggiorno.
Rilievo della semplice convivenza con cittadino europeo o italiano, al fine dell’ottenimento della carta di soggiorno ai sensi del d.lgs. n. 30/2007
A differenza della posizione del coniuge che, salve alcune questioni come quella sopra indicata, non suscita normalmente particolari dubbi, numerose sono le incertezze che riguardano, invece, nella prassi, la possibilità per il convivente di cittadino italiano o europeo di rivendicare un diritto al soggiorno in Italia.
L’art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 30/2007, che letteralmente ritrascrive l’art. 3 della direttiva 2004/38, prevede che l’Italia abbia l’obbligo di “agevolare” l’ingresso e il soggiorno del partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale.
Il partner del cittadino europeo o italiano non ha, dunque, un diritto al soggiorno comparabile a quello del coniuge, ma ha comunque diritto a che l’Amministrazione prenda in esame la relazione e valutatane la stabilità e ogni altro elemento, decida se autorizzare o meno il soggiorno con provvedimento motivato.
L’Amministrazione non è dunque libera di determinarsi, ma deve decidere alla luce di tutte le circostanze, con la circostanza che, ad esempio, non potrà negare il diritto al soggiorno del convivente del cittadino italiano che, insieme a questi, rientri dall’estero dopo anni di coabitazione in un altro Paese.
Simili ipotesi – di vita comune all’estero – sono quelle che, in primo luogo, con tale norma il diritto dell’Unione aveva inteso proteggere.
Che fare, però, nei casi in cui, ad esempio, la vita familiare si sia invece costituita direttamente in Italia? Ha diritto al soggiorno il convivente del cittadino italiano o europeo, per il mero fatto della convivenza in Italia? E soprattutto tale convivenza come deve essere provata?
A tali domande sono stati chiamati a dare risposta, nel primo quadrimestre del 2020, sia la Corte di cassazione che il Tribunale di Bologna.
Quanto alla Suprema Corte, quest’ultima è stata investita della controversia promossa dal convivente di una cittadina rumena, in un caso in cui da tale convivenza era nato un figlio. Secondo la Corte d’appello, il ricorrente non rientrava né nella categoria di ascendente a carico di cittadino europeo (non sussistendo la condizione dell’essere a carico del figlio), né quella di convivente della cittadina europea, non essendoci alcuna documentazione ufficiale di tale convivenza, quale ad esempio un contratto di convivenza stipulato ai sensi della legge n. 76/2016.
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 13.02.2020, n. 3876 (in Banca Dati de Jure), ha cassato la decisione impugnata, affermando che la relazione stabile di fatto tra il partner richiedente la carta di soggiorno e il cittadino dell’Unione può documentarsi anche attraverso documenti diversi dal contratto di convivenza di cui alla legge n. 76/2016, ad esempio, «vagliando l’atto di nascita» o altri documenti idonei. Si tratta di una pronuncia significativa non solo perché dalla stessa discende che è consentito al partner di produrre ogni tipo di documentazione al fine della prova della convivenza (si pensi alla possibilità di utilizzare contratti di locazione intestati ad entrambi i conviventi), ma ancor prima perché la decisione chiaramente presuppone che anche la relazione di convivenza iniziata in Italia con cittadino europeo o italiano sia idonea a far sorgere il diritto al soggiorno del partner, principio che è a tutt’oggi tutt’altro che acquisito nella prassi degli Uffici immigrazione.
Dei dubbi che circondano la materia è dimostrazione la vicenda su cui è stata chiamata a pronunciarsi, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., il
Tribunale di Bologna con l’ordinanza del 3.02.2020
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In tale caso, la ricorrente aveva consegnato alla questura un accordo di convivenza con cittadino italiano, «con l’autenticazione delle sottoscrizioni da parte del difensore», accordo che tuttavia non era stato possibile trascrivere in Comune, come previsto dalla legge n. 76/2016, dal momento che la trascrizione presuppone la residenza di entrambi i conviventi nel Comune, residenza negata alla cittadina straniera per mancanza del permesso di soggiorno.
Secondo il Tribunale di Bologna, la necessità di un’interpretazione conforme della normativa italiana alla disciplina europea che non contempla la necessità di una previa iscrizione anagrafica devono indurre a riconoscere – salva la necessità di verifica dell’effettività e stabilità della convivenza, da effettuarsi nella successiva fase non cautelare – il diritto di soggiorno fatto valere in giudizio.
Il semplice vincolo di parentela con un fratello cittadino italiano non è idoneo a far sorgere alcun diritto alla permanenza sul territorio italiano dello straniero
Se per il coniuge di cittadino italiano non è necessaria la prova della convivenza, la coabitazione è invece indispensabile per il fratello di cittadino italiano che voglia fondare su tale legame familiare il proprio diritto al soggiorno, ai sensi degli articoli 19 d.lgs. n. 286/1998 e 28, lett. b) d.p.r. n. 394/1999.
Tale principio è stato ribadito dalla Suprema Corte, con la sentenza del 18.03.2020, n. 7427.
Nel caso portato all’attenzione dei Giudici di legittimità, un cittadino straniero chiedeva di poter ottenere un permesso di soggiorno, sulla base della vita familiare esistente con la sorella cittadina italiana, permesso rifiutato dalla questura sulla scorta della circostanza che lo straniero non era stato trovato presso l’abitazione della sorella nel corso dei due sopralluoghi effettuati.
La Suprema Corte correttamente rileva che «i fratelli entrambi maggiorenni non rientrano nella nozione di famiglia rilevante ai fini del ricongiungimento familiare, tanto è vero che possono ottenere il permesso per motivi familiari solo a norma del combinato disposto dell’art. 28 d.p.r. 394/1999 e dell’art. 19, co. 2, lett. c) Testo Unico» (che richiede la convivenza) «o, eventualmente, a norma dell’art. 3 co. 2 lett. a) del d.lgs. n. 30/2007» che consente l’ingresso o il soggiorno in territorio comunitario di ogni altro familiare «solo se è carico o convive nel paese di provenienza con il cittadino dell’Unione».
Viene precisato che in tal caso, neppure può essere prospettata la lesione dell’art. 8 della CEDU, dal momento che, come condivisibilmente affermato dai Giudici di legittimità, «la relazione tra due fratelli entrambi maggiorenni, tra i quali non si sia neppure instaurata una convivenza, non rientranella nozione di “vita familiare”, occorrendo, a tal fine, la prova rigorosa di legami personali effettivi, ovvero di una concreta condivisione della vita in comune, situazione che può, al limite, presumersi solo in presenza di una effettiva convivenza tra i fratelli medesimi».
Ricongiungimento a favore di genitore di straniero titolare di protezione sussidiaria
Con ordinanza del 17.11.2017, il Tribunale di Ferrara si dichiarava incompetente a conoscere dell’impugnazione di un diniego di visto per ricongiungimento familiare, indicando la competenza del Tribunale di Roma.
Il procedimento veniva riassunto avanti tale Tribunale, che sollevava conflitto negativo di competenza, richiamando l’art. 20 d.lgs. n. 150/2011 che, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. n. 13/2017, attribuiva la competenza al «Tribunale in composizione monocratica del luogo in cui il ricorrente ha la residenza».
Con la decisione del 19.09.2019, n. 23412, la Corte di Cassazione ha dichiarato competente a decidere il Tribunale di Ferrara, in ragione del fatto che il richiedente era residente in tale città, alla cui prefettura era stata anche presentata la richiesta di nulla osta.
La regola della residenza del richiedente per la determinazione della competenza territoriale per le controversie previste dall’art. 30, co. 6, d.lgs. n. 286/1998 è applicabile ai procedimenti promossi con ricorso depositato prima del 17 agosto 2017 (e cioè ai procedimenti promossi prima della scadenza del termine di 180 giorni dall’entrata in vigore del d.l. n. 13/2017), ai sensi dell’art. 21, comma 1, d.l. 13/2017.
A far data dal 17 agosto 2017, trova invece applicazione la diversa regola prevista dall’art. 7 del d.l. 13/2017, che ha modificato l’art. 20, co. 2, del d.lgs. n. 150/2011, prevedendo che la competenza a decidere sia della «sede della sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, del luogo in cui ha sede l’autorità che ha adottato il provvedimento impugnato».
MINORI
L’accertamento della minore età effettuato dal Tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 19, legge Zampa è destinato ad avere effetti anche al di fuori dell’applicazione degli istituti previsti dalla medesima legge
Con la
sentenza del 9.3.2020, n. 6520, la Suprema Corte
ha avuto modo di precisare una questione che fino ad oggi, a quanto consta, non era ancora giunta in sede di legittimità: quale efficacia abbia l’accertamento dell’età del minore straniero non accompagnato effettuato dal Tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 19-bis d.lgs. 18.8.2015, n. 142.
Nel caso concreto, il Tribunale per i minorenni aveva accertato la minore età di un giovane straniero, indicando però come data di nascita una data che l’interessato contestava.
La Corte d’appello, adita dal ragazzo con reclamo, aveva rigettato l’impugnazione, sulla base dell’affermazione che lo straniero non aveva interesse a contestare la determinazione a sé favorevole, avendo comunque avuto accesso agli istituti previsti a tutela dei minori stranieri non accompagnati, in conseguenza dell’accertamento della minore età effettuata dal Tribunale.
Interessata della questione, la Corte di cassazione opportunamente chiarisce che l’attribuzione dell’età a cui perviene il Tribunale per i minorenni all’esito dello speciale procedimento disciplinato dalla legge non esplica la sua efficacia solo ai fini dell’accesso al regime speciale di accoglienza previsto in favore dei minori stranieri non accompagnati. L’efficacia generalizzata dell’accertamento dell’età si deduce – secondo la Suprema Corte – dal fatto che il legislatore, all’art. 19-bis, co. 9, sopra citato, abbia sentito il dovere di precisare che «ogni procedimento amministrativo e penale conseguente all’identificazione come maggiorenne è sospeso fino alla decisione». Se ne deduce che «il provvedimento di attribuzione dell’età» non è funzionale solo all’attivazione delle misure di protezione previste in favore dei minori non accompagnati, ma «è destinato a riverberare i suoi effetti anche in altri rami dell’ordinamento giuridico che fanno dell’età il presupposto discriminatorio per l’applicazione di un trattamento differenziato rispetto a quello normalmente praticato».
Art. 31, co 3, d.lgs. n. 286/1998: anche il fratello del minore può essere autorizzato a permanere in Italia dal Tribunale per i minorenni
Con la sentenza del 23.1.2020, n. 1457 (in Banca dati De Jure), la Corte di Cassazione ha deciso il ricorso di un cittadino straniero che si era visto rigettare nei due gradi di merito l’istanza volta ad ottenere l’autorizzazione al soggiorno ex art. 31 d.lgs. n. 286/1998 per la necessità di provvedere alle necessità della sorella minorenne, affetta da alcune patologie.
Nel descrivere la fattispecie, la Suprema Corte rileva che la Corte d’appello aveva escluso che la presenza del fratello dovesse considerarsi necessaria per provvedere alla sorella, dal momento che quest’ultima risultava ben accudita dai genitori, mentre il fratello non risultava avere mai avuto contatti col medico di base o con gli insegnanti della minore. Secondo la Corte territoriale, andava esclusa la sussistenza di un «pregiudizio irreparabile» per la minore in caso di allontanamento del fratello.
I Giudici di legittimità contestano la correttezza di tale ragionamento, nella parte in cui valorizza l’accudimento della minore da parte dei genitori, senza indagare sul «dedotto pregiudizio – rappresentato dal ricorrente in termini di evento idoneo ad alterate l’equilibrio psichico – che la minorenne avrebbe subito, anche per la sua età, per effetto del rimpatrio improvviso del fratello».
La decisione della Suprema Corte appare indubbiamente condivisibile, dal momento che legami come quelli con i fratelli frequentemente risultano di intensità pressoché identica a quelli con i genitori, essendo idonei a determinare nel minore un disagio psico-fisico di grado non inferiore di quello dell’allontanamento di un genitore. Correttamente, pertanto, i Giudici di legittimità hanno ricordato che qualsiasi danno grave al minore, e non solo pregiudizi irreparabili, sono idonei a far ritenere accoglibile l’istanza presentata dal familiare ai sensi dell’art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998.