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Fascicolo 1, Marzo 2021


La patria, Aztlàn
(...)
Una ferita aperta lunga 1.950 miglia / che divide un pueblo, una cultura,
scorre lungo il mio corpo, / pianta pali di recinzione nella mia carne,
mi lacera mi lacera /  me raja me raja
Questa è la mia casa / questa sottile linea di / filo spinato.
Ma la pelle della terra non ha cuciture. / Il mare non può essere chiuso in un recinto,
el mar non si ferma ai confini. / Per mostrare all'uomo bianco cosa pensava della sua 
arroganza / Yemaya ha rovesciato con un soffio la rete metallica.
(...)
(Gloria Anzaldùa, Terre di confine. La frontera, Bari, Palomar Edizioni, 2000)

Famiglia e minori

FAMIGLIA

Minore affidato al fratello con atto notarile privato e possibilità di consentire al minore l’ingresso in Italia e il ricongiungimento con l'affidatario
Con la sentenza del 11.11.2020, n. 25310, la Suprema Corte si è trovata ad esaminare la questione della possibilità di autorizzare il ricongiungimento di un minore al fratello residente in Italia,
in un’ipotesi in cui la madre del minore si era limitata ad affidare il minore al fratello con un atto notarile privato.
Secondo la Corte d’appello di Genova, la cui decisione era stata oggetto di cassazione da parte dell’Avvocatura dello Stato, in tale ipotesi il ricongiungimento doveva considerarsi ammissibile, sulla scorta di due considerazioni. Da un lato, veniva rilevato che l’art. 29 del TU sull’immigrazione nell’elencare i minori che possono essere equiparati ai figli indicava «gli adottati, gli affidati e i sottoposti a tutela», dall’altro, nel caso concreto, il fratello minore del richiedente era stato allo stesso affidato dalla madre «in base a dichiarazione giurata vidimata da un notaio del luogo». Dal momento che in Italia, l’affidamento parentale sarebbe «libero, ai sensi dell’art. 9 l. n. 184/1983», le modalità adottate nel caso concreto per l’affido non potrebbero dirsi in contrasto con l’ordinamento nazionale.
La Suprema Corte ritiene errato in diritto l’iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale, sia pure per ragioni diverse da quelle indicate nel proprio ricorso dall’Avvocatura dello Stato.
Se secondo quest’ultima, l’affidamento in un caso come quello in esame non sarebbe mai stato idoneo a consentire il ricongiungimento familiare, dal momento che l’art. 29, d.lgs. n. 286/1998, nell’indicare i familiari di cui poteva essere ammesso il ricongiungimento non faceva riferimento ai fratelli, senza che della norma fosse possibile dare un’interpretazione estensiva, la Corte di cassazione afferma che non è per tale ragione che la sentenza appare viziata.
Sul punto, la Suprema Corte ricorda infatti che, al contrario di quanto dedotto dalla difesa erariale, l’elenco di minori ricongiungibili contenuto nell’art. 29 si presta ad un’interpretazione estensiva, alla luce dei principi internazionali e costituzionali in materia di protezione dei minori e, in particolare, della necessità di dare preminente rilievo all’interesse del minore.
La Corte di cassazione ricorda come proprio sulla base di tali principi, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo ritenuto che in determinate ipotesi non solo la kafalah giudiziale, ma anche quella negoziale possano legittimare il ricongiungimento del minore.
L’applicazione della norma in modo estensivo, tuttavia, secondo la Suprema Corte, può avvenire caso per caso alla luce del principio del superiore interesse del minore, solo dopo che il giudice del merito abbia effettuato determinate verifiche che, nel caso concreto, risultavano del tutto omesse dalla Corte d’appello.
In particolare, il giudice chiamato a valutare una determinata fattispecie di affidamento, al fine di giungere ad un concreto giudizio di non contrarietà all’ordinamento interno, deve accertare «prioritariamente: (i) quale fosse la effettiva ragione pratico-giuridica di esso (giacché un atto consimile è potenzialmente utilizzabile anche a fine elusivo delle norme del Paese ospitante); (ii) se e in qual senso, in base alle norme di diritto interno dello Stato di provenienza, il ricorso a un istituto del genere fosse da considerare ammesso e (III) se e in qual senso, a fronte della concreta situazione personale e familiare, esso fosse coerente con i superiori interessi del minore».
Tali principi avrebbero dovuto essere applicati anche nel caso in esame, di semplice affido tramite atto privato di un minore al fratello.
La decisione in commento appare particolarmente rilevante, in quanto fissa le regole che i giudici del merito e ancora prima le Amministrazioni sono chiamate ad applicare quando debbano valutare se una determinata ipotesi di affidamento di minore, effettuata secondo l’ordinamento di un Paese straniero, possa essere considerata idonea a legittimare il ricongiungimento familiare.
 
In tema di ricongiungimento familiare, al fine di dimostrare l’autenticità del rapporto di filiazione è sufficiente il possesso di status che prescinde dal legame biologico e che non può essere rimesso in discussione solo sulla base di un’astratta inattendibilità degli atti di stato civile nel Paese d’origine
Con l’ ordinanza del 30.9.2020, il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso di uno straniero titolare dello status di rifugiato avverso il diniego del rilascio del visto per ricongiungimento familiare in favore della figlia da questi legalmente riconosciuta fin dalla nascita, ma di cui egli era risultato non essere genitore biologico in esito al test del DNA.
Al ricorrente, che aveva ottenuto il nulla osta al ricongiungimento con la moglie e i due figli minori, era stato negato il visto di ingresso per la figlia minore che dai risultati del DNA non risultava essere biologicamente sua figlia. Ha deciso di impugnare il diniego sostenendo che il rigetto della richiesta di ricongiungimento fosse «illegittima e pretestuosa» poiché aveva riconosciuto la figlia fin dall’atto di nascita e l’aveva poi sempre cresciuta insieme alla moglie, scoprendo solo in seguito al test DNA di non essere il suo genitore biologico. L’esame del DNA era stato fatto violando la normativa vigente secondo cui tale test era previsto come ultima ratio nel caso in cui i documenti non fossero sufficienti a fornire prova del rapporto di filiazione.
Il Tribunale accogliendo il ricorso, ha sostenuto che «l’esito del test del DNA con il quale è stata accertata l’assenza del legame filiale tra il ricorrente e la figlia non può ritenersi ragione sufficiente a giustificare il provvedimento di diniego del visto di ricongiungimento familiare […] Occorre infatti sottolineare che l’odierno ricorrente aveva riconosciuto la minore, crescendola insieme alla seconda moglie dalla quale aveva avuto un altro figlio. Risulta poi che il ricorrente l’ha mantenuta anche agli studi dopo essere arrivato in Italia. Da tali risultanze si può dunque dedurre che si sia di fronte ad un nucleo familiare stabile nel quale la minore ha riconosciuto fin dalla prima infanzia [il padre] dicui porta il cognome come suo genitore». Il Tribunale ha ricordato come il ricorso al test del DNA costituisca l’ultima ratio in mancanza di documenti ufficiali per provare il legame di parentela e qualora non vi siano altri elementi di prova e rimangano seri dubbi o forti indizi di intenti fraudolenti.
Menzionando la nota dell’UNHCR sul test del DNA per stabilire relazioni familiari nel contesto dei rifugiati del giugno 2008, secondo cui «In linea con quanto affermato in precedenza, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ritiene che si possa ricorrere al test del DNA per verificare relazioni familiari solo laddove rimangano seri dubbi dopo che siano stati esaminati tutti i tipi di prove o laddove vi siano forti indicazioni di intento fraudolento e il test del DNA sia considerato come l’unica risorsa attendibile per dimostrare o smentire la frode […]. Anche se non viene stabilita l’esistenza di un legame di sangue ciò non implicherebbe necessariamente l’intenzione di commettere una frode. Dovrebbero essere considerate le dimensioni culturali e sociali delle relazioni familiari attribuite […]». Il Tribunale ha accolto il ricorso affermando che, al fine di dimostrare l’autenticità del rapporto di filiazione è sufficiente il possesso di status, che prescinde dal legame biologico e che non può essere rimesso in discussione solo sulla base di un’astratta inattendibilità degli atti di stato civile nel Paese d’origine.
 
Nel bilanciamento tra il diritto all’unità familiare e la previsione di legge sull’effetto automatico della decadenza del soggiorno per assenza prolungata, il giudice deve tenere in considerazione non soltanto l’unità familiare, ma anche l’interesse preminente dei figli minori ai sensi dell’art. 13, co. 4, d.p.r. 394/1999
La ricorrente chiedeva l’annullamento del provvedimento di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari che era stato motivato dalla Polizia con l’assenza della ricorrente dall’Italia dal 25.5.2017 al 25.3.2019 e il riconoscimento del suo diritto al permesso di soggiorno per motivi familiari. Nei fatti sia il permesso di soggiorno della madre che quella della figlia, titolare di permesso di soggiorno di durata illimitata poiché connesso con quello di soggiornante di lungo periodo UE del padre, erano stati ritirati dalla Polizia di frontiera al momento del loro rientro in Italia dall’Egitto nell’agosto 2020. Tale ritiro era motivato sul presupposto dell’avvenuta revoca di entrambi i permessi di soggiorno per prolungata assenza dal territorio italiano. La ricorrente sosteneva l’illegittimità del diniego poiché l’assenza dal territorio italiano era motivata da gravi problemi familiari: la cura del padre affetto da patologie cardiocircolatorie ed epatiche, della madre malata di disturbi cardiovascolari e della frattura agli arti inferiori subita dalla stessa ricorrente in Egitto. Inoltre, essendo la vita familiare della ricorrente radicata in Italia, vivendo nel nostro Paese con il marito e i tre figli, sosteneva che l’interesse e la tutela di tale unità familiare avrebbe dovuto prevalere.
Con l ’ordinanza 6.11.2020, il Tribunale di Milano conferma il decreto emesso inaudita altera parte di sospensione del provvedimento di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di ricongiungimento familiare alla luce della documentazione prodotta dalla ricorrente riguardo al suo nucleo familiare e sulla residenza dello stesso in Italia. Inoltre, riafferma quanto aveva già asserito nel provvedimento di sospensione inaudita altera parte secondo cui la Polizia di frontiera nell’agosto 2020, al rientro della ricorrente in Italia aveva erroneamente ritirato i permessi di soggiorno della ricorrente e della figlia minore sul presupposto di una precedente revoca da parte del questore di Milano, provvedimento che non revocava i suddetti permessi di soggiorno, ma che disponeva il diniego del permesso di soggiorno della madre. Secondo il Tribunale, il ritiro del permesso di soggiorno della figlia è stato eseguito in carenza di potere poiché la stessa è titolare di permesso di soggiorno UE di durata illimitata.
Secondo la questura, per quanto riguarda il diritto di soggiorno della ricorrente per motivi di unità familiare, la prolungata assenza dall’Italia della ricorrente avrebbe determinato la decadenza automatica dal soggiorno ai sensi dell’art. 13, co. 4, d.p.r. 394/1999. Per l’Amministrazione, il diritto all’unità familiare non poteva essere preso in considerazione a fronte dell’automatismo legale della decadenza del permesso di soggiorno per assenza prolungata dal territorio dello Stato, poiché un bilanciamento tra l’interesse di evitare una sua strumentalizzazione» delle regole sui permessi di soggiorno, protetto dalla norma sulla decadenza e quello sull’unità familiare doveva considerarsi già essere stato effettuato a monte dal legislatore.
Secondo il Tribunale, la tesi sostenuta dall’Amministrazione non risulta coerente con le Direttive europee sul diritto al ricongiungimento familiare di un cittadino di Paese terzo (Direttiva 2003/86/CE) e sul soggiorno di lungo periodo di un cittadino di Paese terzo (Direttiva 2003/109/CE), con le relative norme di attuazione e con i principi delle Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea che tutelano il diritto alla vita privata e familiare. Secondo il giudice la Direttiva in materia di ricongiungimento familiare di un cittadino di Paese terzo e la legge di attuazione «stabiliscono che l’amministrazione – e quindi il giudice che sia investito di un ricorso contro un provvedimento di espulsione – debba operare un bilanciamento tra gli interessi sottesi alle norme sull’“automatismo espulsivo” nella ricorrenza delle condizioni di legge (come nel caso di diniego del rinnovo di permesso di soggiorno) e il diritto alla vita privata e familiare del cittadino di Paese terzo. Inoltre, nel caso di soggiornanti di lungo periodo UE, la tutela è rafforzata: essi hanno, infatti, diritto a restare nel territorio dello Stato, salvo situazioni eccezionali connesse a motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato». Verrebbe poi in rilievo il preminente interesse del minore.
Il Tribunale richiama, altresì, la giurisprudenza della Consulta in materia di diritto al ricongiungimento familiare di cittadini terzi, fra cui in particolare la sentenza n. 202 del 18 luglio 2013, secondo cui «nell’ambito delle relazioni interpersonali, ogni decisione che colpisce uno dei soggetti finisce per ripercuotersi anche sugli altri componenti della famiglia ed il distacco dal nucleo familiare, specie se in presenza di figli minori, è decisamente troppo grave perché sia rimessa in forma generalizzata e automatica a presunzioni di pericolosità assolute, stabilite per legge, ed ad automatismi procedurali, senza lasciare spazio a un circostanziato esame della situazione particolare». Infine, il Tribunale richiamando la direttiva 2003/86/CE e la relativa legge attuativa afferma che «nell’effettuare il bilanciamento il giudice deve tenere conto non solo dell’unità familiare ma, come detto, anche dell’interesse preminente dei figli minori, perché il distacco della madre dal nucleo familiare finirebbe inevitabilmente per ripercuotersi sulla loro crescita ed educazione». Nel caso di specie «la valutazione in concreto del bilanciamento tra diritto all’unità familiare ed«interesse dello Stato ad evitare la strumentalizzazione dei titoli di soggiorno, compiuta alla luce del principio di proporzionalità, pende, in definitiva e senza incertezze, verso la tutela dell’unità familiare. Ciò rende in concreto provvisto di fumus boni iuris il diritto della ricorrente al rinnovo del permesso di soggiorno».
 
Per il ricongiungimento del genitore ultrasessantacinquenne non c’è bisogno della prova di essere «a carico», mentre bisogna provare che non vi siano altri figli nel Paese d’origine (o altri figli che possano provvedere a un suo sostentamento)
Con l’ ordinanza del 14.12.2020, il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso di un cittadino somalo titolare di protezione sussidiaria che, pur avendo ottenuto il nulla osta per il ricongiungimento con il padre ultrasessantacinquenne, residente in Somalia e affetto da gravissime patologie, ha dovuto impugnare il provvedimento di diniego del visto d’ingresso emesso dall’Ambasciata italiana a Nairobi, sulla base del presupposto che l’interessato non avrebbe provato la condizione della vivenza «a carico» del genitore.
Il Tribunale osserva che, dall’esame dell’art. 29, d.lgs. n. 286/98, lett. d), si ricaverebbe che le condizioni di «genitore a carico» e di «genitore ultrasessantacinquenne» sono alternative fra loro e non cumulative. Infatti, secondo l’autorità giudiziaria, «se il legislatore avesse inteso cumulare le due condizioni, avrebbe scritto “genitori a carico, qualora non abbiano altri figli nel Paese di origine o di provenienza, ovvero, se ultrasessantacinquenni, qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati, gravi motivi di salute”. Avrebbe cioè posto la “vivenza” a carico del figlio richiedente il ricongiungimento come condizione di base, valida sempre, ed avrebbe distinto, ai soli fini della rilevanza o meno dell’esistenza di altri figli e della loro capacità di mantenere il genitore, tra genitori “a carico” infra- o ultrasessantacinquenni». Ma secondo il Tribunale la disposizione sarebbe redatta in modo differente e il suo significato non sarebbe quello da ultimo ipoteticamente prospettato. Inoltre, nonostante la legge non faccia esplicito riferimento alle condizioni di salute, un’interpretazione «orientata e rispettosa degli obblighi internazionali umanitari che gravano sulla Repubblica impone di interpretare estensivamente il termine “sostentamento” includendovi tutte quelle forme di sostegno materiale (e per “materiale” non deve intendersi puramente “economico”) e morale che sono parte integrante degli obblighi morali e giuridici dei figli verso i genitori e che, nel loro insieme, concorrono a realizzare il contenuto concreto degli obblighi positivi che l’art. 8 CEDU e l’art. 7 (oltre che dell’art. 1) della Carta dei diritti fondamentali dell’UE pongono a carico degli Stato contraenti. Da ciò consegue che la mancata prova del requisito reddituale (“vivenza” a carico del figlio) è, nella specie, irrilevante». Per quanto concerne poi l’assenza di altri figli nel caso specifico, considerata la situazione in Somalia, una dichiarazione giurata del padre rilasciata ad un pubblico ufficiale in Somalia alla presenza di due testimoni veniva considerata sufficiente a provare l’esistenza di un solo figlio. Posto, quindi, che il requisito reddituale non ha rilevanza, e che la situazione personale e familiare del ricorrente, figlio unico [del padre] richiedente il visto, era sufficientemente appariva pienamente integrato il requisito del fumus boni juris per la concessione della tutela d’urgenza. Quanto al periculum in mora, il Tribunale osserva che «il tempo trascorso tra il rilascio del nulla osta e la richiesta di visto si giustifica ampiamente con le condizioni di salute del padre del ricorrente (largamente documentate in atti e non contestate) e con il fatto che l’Italia non dispone di una Rappresentanza diplomatica in Somalia, il che comporta la necessità, per le pratiche di visto, di recarsi a Nairobi, in Kenya».
Anche questa pronuncia si segnala perché affronta in modo ampio e articolato la fattispecie del ricongiungimento del genitore chiarendo alcuni principi spesso di applicazione controversa nella prassi.
 
MINORI
Accertamento del carattere discriminatorio del mancato riconoscimento di un servizio ambulatoriale pediatrico pubblico accessibile gratuito equiparabile al pediatra di libera scelta a favore dei cittadini stranieri minori di età irregolarmente soggiornanti sia comunitari che extracomunitari
Con l’ ordinanza del 19.10.2020, n. 5191, il Tribunale di Venezia ha accertato il carattere discriminatorio del mancato riconoscimento di un servizio ambulatoriale pediatrico pubblico accessibile gratuitamente equiparabile al pediatra di libera scelta a favore dei cittadini stranieri minori di età irregolarmente soggiornanti, sia europei che non europei, e ha condannato la Regione Veneto e l’ULSS 3 a rimuovere la discriminazione riconoscendo tale servizio, quanto alla Regione Veneto predisponendo delle linee guida in sede di programmazione dei servizi sanitari, e quanto all’ULSS 3 Serenissima approntando il servizio indicato.
L’ordinanza si segnala perché è la prima decisione in cui l’autorità giudiziaria italiana ha avuto occasione di accertare la mancata realizzazione in concreto del principio di eguaglianza nell’accesso alle cure per tutti i minori, indipendentemente dalla nazionalità e della condizione di soggiorno.
Il ricorso per l’accertamento della discriminazione ai sensi dell’art. 44 del d.lgs. n. 286/1998 era stato promosso dall’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione che aveva rilevato come, a fronte di un dato normativo da tempo chiarissimo nell’imporre l’accesso alle cure sanitarie in condizioni di assoluta parità a favore di tutti i minori presenti sul territorio italiano, di fatto molte Regioni e nel caso concreto la Regione Veneto non garantiva tale diritto in concreto, riconoscendo a tale categoria di soggetti soltanto una forma “minore” di copertura sanitaria, con esclusione in particolare dall’accesso al servizio pediatrico di libera scelta di cui, a seguito di iscrizione obbligatoria al SSN (cd. iscrizione obbligatoria/gratuita) usufruiscono invece i minori italiani e soggiornanti regolari.
L’Associazione rilevava come tale limitazione contrastasse con un numero elevatissimo di disposizioni a livello internazionale e interno, tra cui gli artt. 2 e 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20.11.1989, l’art. 10, co. 2, Costituzione; dell’Accordo Stato Regioni del 20.12.2012, l’art. 35, co. 3, TU Immigrazione e da ultimo l’art. 63, co. 4, d.p.c.m. 12.1.2017, ove testualmente è previsto che «i minori stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno sono iscritti al Servizio sanitario nazionale e usufruiscono dell’assistenza sanitaria in condizioni di parità con i cittadini italiani».
Il Tribunale di Venezia ha accolto il ricorso, rilevando come all’esito del contraddittorio, era risultato che «di fatto i minori stranieri non legalmente soggiornanti possono ricevere le prestazioni sanitarie unicamente mediante accesso al Pronto Soccorso, senza, appunto, poter fruire della disponibilità del pediatra di libera scelta, né, comunque, di un servizio ambulatoriale pediatrico eventualmente presso il Consultorio». Per tale ragione, «da un lato, l’accesso alle cure indifferibili e urgenti, in sé pacificamente garantite, è veicolato necessariamente tramite il Pronto Soccorso pediatrico, dall’altro, non è loro garantito l’accesso alle prestazioni non urgenti, nel senso di assistenza di base a valenza sia di cura ordinaria, sia di monitoraggio della crescita in ottica preventiva». Tale differenza di trattamento configura una «disparità fondata sulla diversa nazionalità, laddove le fonti soprarichiamate riconoscono la parità di trattamento a tutti i minori stranieri indipendentemente dalla regolarità o meno della loro presenza nel territorio nazionale. L’eventuale stato di clandestinità del minore risulta, dunque, rispetto alla condizione di straniero minorenne oggetto di specifica protezione (fattore di discriminazione = nazionalità), del tutto neutro e irrilevante».
Secondo il giudice, «operando la discriminazione, pacificamente, sul piano oggettivo a prescindere dall’intenzionalità, in ragione della rilevata disparità di trattamento, le doglianze attoree» dovevano considerarsi fondate.
Quanto al mezzo per realizzare la parità di trattamento, secondo il Tribunale, la rimozione della condotta discriminatoria non implicherebbe necessariamente l’obbligo di iscrizione al SSN della categoria protetta, residuando in capo alle autorità la scelta dello strumento con cui attuare la parità di trattamento. L’eguaglianza, secondo il Tribunale, va intesa «cometutela piena del bene salute negli stessi termini in cui ne beneficiano i cittadini italiani, indifferenti essendo, rispetto a tale risultato, le concrete modalità di realizzazione, rimesse al potere organizzativo dell’ente regionale e a quello organizzativo delle singole ULSS». Ne consegue che lo strumento per rimuovere la constatata discriminazione va «coerentemente individuato nell’imposizione, alla Regione Veneto sul piano delle linee guida e alla ULSS 3 quanto alla realizzazione pratica, dell’obbligo di assicurare ai minori irregolari un servizio ambulatoriale pediatrico pubblico accessibile gratuitamente equiparabile al pediatra di libera scelta cui dà diritto l’iscrizione al SSN».
L’importanza dell’ordinanza in commento è connessa al fatto che la disparità di trattamento in concreto dei minori stranieri non regolari e, in particolare, il mancato accesso ad un servizio equiparabile a quello del pediatra di libera scelta è presente in moltissime Regioni italiane, nonostante il chiaro dato normativo, e pertanto, la decisione in commento fissa degli importanti principi idonei ad avere effetti anche al di fuori dell’ambito territoriale di riferimento.
 
In tema di autorizzazione alla permanenza in Italia del genitore del minore ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, la valutazione prognostica deve avere ad oggetto l’accertamento della sussistenza di «gravi motivi» connessi allo sviluppo psico-fisico del minore, valutati caso per caso
Con la sentenza del 30.11.2020, n. 27238 la Corte di cassazione ha accolto il ricorso di una coppia di cittadini stranieri che avevano visto rigettare nei due gradi di merito l’istanza volta ad ottenere l’autorizzazione al soggiorno ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 in relazione ai due figli minori di nove e quattro anni, nati e sempre vissuti in Italia.
Prima il Tribunale per i minorenni di L’Aquila aveva respinto l’istanza presentata ai sensi dell’art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, di potere rimanere in Italia, dovendo accudire i due figli minorenni e poi la Corte d’appello di L’Aquila motivava il suo diniego affermando che nonostante fossero state già concesse due autorizzazioni alla coppia, in data 17 febbraio 2012 e 31 ottobre 2016, con le quali era stata espressamente invitata a regolarizzare la sua posizione, la situazione non era mutata e che non doveva essere rilevante il fatto che la [madre] avesse provato senza successo a ottenere il visto dal suo Paese. Il [padre] stava ancora scontando la pena e i figli non avevano necessità di cure sanitarie urgenti o di cure che non potevano procurarsi anche nel Paese di provenienza e che, in ogni caso, la situazione si protraeva da sei anni e che la norma non poteva essere utilizzata per mantenere in essere una situazione di illegalità attraverso la reiterazione di provvedimenti autorizzativi.
Secondo la Corte di cassazione la tutela prevista nell’art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, ha come fondamento il diritto del minore di restare sul territorio italiano senza perdere la relazione genitoriale nel caso in cui il cittadino straniero sia sfornito di un valido titolo di soggiorno.
Tenendo conto che la ratio dell’art. 31, co. 3, consiste nel proteggere il minore da eventuali e potenziali danni che possano pregiudicarne la crescita, la Corte afferma che tale esigenza «non è stata adeguatamente tenuta in considerazione dal decreto impugnato, che si è limitato a formulare una prognosi negativa su elementi non riguardanti specificamente i minori e sottolineando la circostanza che i genitori non avevano ancora regolarizzato la loro posizione e considerando irrilevante la circostanza che la [madre] avesse provato ad ottenere il visto dal suo Paese, ma senza successo e, quindi, ponendo in rilievo le difficoltà incontrate dai genitori, nonché la circostanza che il [padre] stesse ancora scontando la pena». In questo modo, secondo i Giudici di legittimità, la Corte d’appello aveva spostato l’oggetto del giudizio dalle esigenze esistenziali ed educative dei figli, che costituiscono la ratio della norma, alla condizione dei genitori.
Ponendo sempre al centro del ragionamento la tutela e l’interesse del minore, la Corte ha richiamato la costante giurisprudenza di legittimità secondo cui «le situazioni che possono integrare i “gravi motivi” di cui al citato art. 31 non si prestano ad essere catalogate o standardizzate, spettando al giudice di merito valutare le circostanze del caso concreto con particolare attenzione, oltre che alle esigenze di cure mediche, all’età del minore, che assume un rilievo presuntivo decrescente con l’aumentare della stessa e al radicamento nel territorio italiano, il cui rilievo presuntivo è, invece, crescente con l’aumentare dell’età, in considerazione della prioritaria esigenza di stabilità affettiva nel delicato periodo di crescita».

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