Il “caso Shalabayeva”
Di grandissimo interesse è anzitutto la sentenza del
Tribunale di Perugia del 14 ottobre 2020 (dep. 8 gennaio 2021),
che ha definito in primo grado con pesanti condanne la vicenda nota alle cronache come «il caso Shalabayeva». I fatti, in estrema sintesi, sono i seguenti.
Nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013 una decina di agenti della Squadra mobile di Roma fanno irruzione in un’abitazione ove è stata segnalata la possibile presenza di Mukhtar Ablyazov, un dissidente kazako cui era stato riconosciuto in Gran Bretagna lo status di rifugiato, e che tuttavia era ricercato dalle autorità kazake; il soggetto non viene rintracciato, ma gli agenti decidono di condurre nei locali della questura la moglie, Alma Shalabayeva, a causa della ritenuta falsità del passaporto diplomatico centrafricano mostrato loro dalla donna, e affidano nel frattempo la figlia minore alla sorella della Shalabayeva, che risiedeva nella medesima abitazione. La Shalabayeva viene poi sottoposta a procedura di espulsione, nelle cui more viene trattenuta presso il locale Centro di identificazione ed espulsione (CIE, oggi CPR), sino a che il 31 maggio viene accompagnata su un aereo e riportata in Kazakhstan insieme alla figlia.
La sentenza dei giudici perugini usa toni di inusitata durezza per condannare l’operato dei funzionari di polizia che hanno gestito l’operazione (e del Giudice di pace che ha convalidato il trattenimento), arrivando a parlare di un «rapimento di Stato», che ha provocato una «limitazione della sovranità nazionale», posto che gli imputati hanno tenuto le condotte loro contestate per assecondare le richieste delle autorità kazake, che con il rimpatrio della moglie intendevano costringere il dissidente a rinunciare alla protezione internazionale di cui era titolare, e a rientrare in patria.
La struttura dell’imputazione ruota intorno al delitto di sequestro di persona, alla cui commissione risultano finalizzate secondo la sentenza le diverse ipotesi di falso cui sono stati condannati gli imputati. Il Tribunale, in altri termini, individua in capo a ciascuno degli imputati una pluralità di fatti di falso ideologico ex art. 479 c.p., che risultano aggravati ex art. 61, co. 2 c.p. dall’essere finalizzati al compimento del reato di sequestro persona (aggravato a sua volta dal fatto che la persona offesa del sequestro, oltre alla Shalabayeva, sarebbe stata anche la figlia minore, almeno per il lasso temporale compreso tra il suo prelievo presso la residenza ove era stata affidata alla zia, e il suo ricongiungimento con la madre al momento dell’imbarco sull’aereo e del rimpatrio). Le condotte di falso ricostruite della sentenza, come detto, sono molteplici e attinenti a tutte le diverse fasi della procedura (dal verbale di perquisizione, al decreto prefettizio di espulsione, che tace una serie di elementi rilevanti, al verbale dell’udienza di convalida del provvedimento del trattenimento, sino al provvedimento di nulla osta all’espulsione rilasciato dal Pubblico Ministero, che è stato indotto in errore dai funzionari condannati); l’insieme di tali condotte ha reso possibile l’indebita limitazione della libertà personale della Shalabayeva e della figlia, per cui sono ritenuti responsabili tutti gli imputati, ad eccezione del Giudice di pace, che viene assolto per tale capo di imputazione per carenza dell’elemento soggettivo, posto che non sarebbe stato consapevole dei contorni della vicenda in cui si inseriva la propria condotta di falso relativa al verbale di udienza.
I profili di diritto affrontati dalla sentenza sono molteplici (tanto in relazione alle ipotesi di falso, che alla fattispecie di sequestro), e non è questa la sede per una loro specifica analisi. Al di là delle singole questioni controverse, la sentenza si segnala perché per la prima volta il trattenimento senza base legale di uno straniero viene qualificato come sequestro di persona: un precedente che può risultare di estremo interesse in relazione alle ipotesi di trattenimento sine titulo che in non rare occasioni vengono segnalate negli hotspot o nei luoghi di frontiera.
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, co. 3, lett. d)
Il
Tribunale di Bologna (I^ sezione penale) con l’ordinanza emessa l’1.12.2020
ha sollevato un’interessante questione di legittimità costituzionale sul trattamento sanzionatorio del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravato dall’impiego di servizi di trasporto internazionale ovvero dall’uso di documenti contraffatti o illegalmente ottenuti (art. 12, co. 1, aggravato ai sensi del comma 3 lett. d), TUI).
L’incidente di costituzionalità si inserisce in un percorso di mitigazione dell’assai rigido trattamento sanzionatorio della fattispecie in parola avviato in via interpretativa con la pronuncia della Sezioni Unite della Cassazione, n. 40982/2018, che ha riconosciuto la natura di circostanze aggravanti (come tali soggette al giudizio di bilanciamento con circostanze attenuanti) del reato di pericolo di cui al comma 1 a tutte le previsioni elencate nel comma 3 dell’art. 12 TUI (si veda al riguardo la Rassegna di penale pubblicata sul numero 3/2018 di questa Rivista).
La scelta del giudice di merito nell’ampio catalogo delle aggravanti di cui al comma 3 citato non è casuale perché a differenza di altre (es. esposizione della persona trasportata a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità o sottoposizione della stessa a trattamento inumano o degradante o ancora scopo di profitto previsto dall’altra aggravante di cui al co. 3-ter lett. b) non trovano copertura vincolata in fonti normative sovranazionali, motivata dalla tutela della vittima.
La vulnerabilità delle persone coinvolte nella condotta illecita è anche la ragione principale per la quale il Tribunale ha ritenuto manifestamente infondata altra eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dalla difesa dell’imputata (accusata in giudizio di essersi presentata alla frontiera aerea di Bologna in arrivo dal Marocco esibendo al controllo della polizia due passaporti falsi di altrettanti minori che accompagnava, oltre al suo, pure falso) con riguardo alla fattispecie base di cui al comma 1 dell’art. 12 cit. perché ha ritenuto coerente con il diverso grado di protezione del bene giuridico tutelato (ordine e sicurezza pubblici) il più severo trattamento sanzionatorio di chi è tramite nel compimento degli atti univocamente diretti all’ingresso di persona non cittadina o non stabilmente residente rispetto a quello di chi fa semplicemente ingresso illegale, punito come noto dall’art. 10-bis TUI con pena pecuniaria (per quanto alta e non oblazionabile). In altri termini, il Tribunale non ha ritenuto spendibile come tertium comparationis l’indicazione difensiva relativa ad una condotta che nella sostanza realizza una forma di concorso nella meno grave fattispecie contravvenzionale, valutata a suo tempo dalla Corte di giustizia dell’Unione europea come non in contrasto con la disciplina della cd. direttiva rimpatri.
Tornando all’eccezione accolta e alla questione sollevata è interessante notare come la stessa abbia riguardato da un lato il parametro dell’art. 3 Costituzione, sia da solo in relazione alla ritenuta irragionevolezza del trattamento sanzionatorio aggravato in queste ipotesi (valorizzato con un aumento del quintuplo nel minimo e del triplo nel massimo della parte detentiva della pena edittale base, che va da 1 a 5 anni di reclusione, oltre alla multa di € 15.000 per ogni persone interessata) sulla base di una valutazione interna alla norma di cui all’art. 12, co. 3, TUI, sia in combinazione, in punto di proporzionalità della pena, con l’altro parametro costituito dal principio della finalità rieducativa della pena espresso nell’art. 27 co. 3 Cost.
Sotto il primo profilo perché l’utilizzo di un servizio internazionale di trasporto è la forma ordinaria con cui si fa ingresso lecito in Italia o in Europa provenendo da altro Paese (nella specie africano) ed è anche la forma che mette meno a rischio l’incolumità dei soggetti interessati (a differenza di fenomeni quali l’impiego via mare di barconi in precarie condizioni ovvero l’uso via terra di un sottofondo di un autoarticolato e simili) a differenza delle altre ipotesi come visto considerate in aggravamento dal comma 3 dell’art. 12.
D’altra parte laddove la condotta leda altri beni giuridici rispetto a quello considerato dalla norma base gli stessi sono già tutelati da altre fattispecie incriminatrici, come i reati di falso, che invece vengono dalla giurisprudenza considerati assorbiti dalla fattispecie aggravata in trattazione, che diviene in questi casi una forma di reato complesso.
Sotto il secondo profilo della finalità rieducativa della pena il Tribunale fa leva su una giurisprudenza della medesima Corte costituzionale (sentenza n. 236/2016) relativa a quelle situazioni di manifesta sproporzione tra sanzione e offesa nelle quali tale evidente sproporzione delle conseguenze punitive comporta una compromissione originaria del processo rieducativo.
Si noti come oggetto di detta decisione sia una forma di reato aggravata (art. 567, co. 2, c.p.: alterazione di stato civile mediante false certificazioni) molto simile ad una delle due ipotesi in esame.
Questo indirizzo richiede per la sua applicazione la condizione che siano individuabili nel sistema penale soluzioni già esistenti, idonee ad eliminare o almeno ridurre detta manifesta irragionevolezza.
Nel caso in esame il Tribunale ha accolto il ragionamento difensivo secondo il quale l’eliminazione delle aggravanti (in tesi accolta illegittime costituzionalmente) comporterebbe il ragionevole ritorno al trattamento sanzionatorio base oppure, nel caso dell’uso di documenti falsi, la riespansione accanto alla fattispecie base (art. 12, co. 1, TUI) di quella di cui all’art. 497-bis c.p. ovvero all’art. 5, co. 8-bis, TUI per i visti falsi (non più assorbita in un reato complesso).
Le condotte aggravate in oggetto (caratterizzate da modalità esecutive che non comportano un maggiore disvalore rispetto al bene giuridico tutelato) non giustificano la differenza attuale di trattamento sanzionatorio (che essendo nel caso concreto, ove ritenute, due le ipotesi aggravanti comporterebbe ex comma 3-bis dell’art. 12 TUI anche il conseguente divieto di bilanciamento con altre attenuanti, diverse da quelle di cui agli articoli 98 e 114 c.p., previsto dal co. 4-quater).
La parola alla Corte costituzionale.
Possesso di documenti falsi e stato di necessità
Merita infine una segnalazione la
sentenza del Tribunale di Bari del 12 ottobre 2020 (dep. 11.1.2021)
relativa al reato di cui all’art. 497-bis c.p. La vicenda riguardava una famiglia di origine curda, colta in possesso di carte di identità false. Gli imputati riferivano di avere acquistato tali documenti contraffatti in Grecia, dove erano giunti dopo essere fuggiti dalla Turchia: si erano risolti all’acquisto posto che in Grecia non era stato loro possibile presentare domanda di protezione internazionale, e avendo con sé figli minori, avevano escluso la possibilità di provare a fare ingresso in Italia via mare, mentre la permanenza in Grecia era divenuta intollerabile anche in ragione del pericolo che agenti del Governo turco li rintracciassero e usassero violenza nei loro confronti. La sentenza ritiene che gli elementi allegati siano sufficienti ad integrare gli estremi dello stato di necessità ex art. 54 c.p., e conclude dunque per l’assoluzione degli imputati dal reato di falso loro contestato.