Art. 3: Diritto alla vita e divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti
Con il caso K.I. c. Francia (Corte Edu, sentenza del 15.04.2021) un cittadino russo di origine cecena, cui era stato revocato lo status di rifugiato in seguito a condanne per terrorismo, lamentava una violazione dell’art. 3 Cedu nel caso in cui venisse data esecuzione all’ordine di allontanamento nella Federazione russa.
Il ricorrente aveva infatti ottenuto protezione internazionale in Francia nel 2011 in ragione dei maltrattamenti e delle minacce subite da forze di sicurezza russe per motivi legati alla lotta separatista cecena. Se tali rischi per il sig. K.I. rimanevano attuali, per le autorità francesi non risultavano più credibili. Costituendo una serie minaccia per la sicurezza del Paese dopo essersi recato in Siria, presumibilmente per effettuare un addestramento con gruppi terroristici, veniva condannato per terrorismo e ordinato l’allontanamento. Se i ricorsi sia contro tale decisione sia contro la revoca dello status di rifugiato venivano rigettati, il ricorrente non veniva allontanato in Russia per l’applicazione delle misure provvisorie indicate allo Stato convenuto dalla Corte Edu in virtù dell’art. 39 del suo Regolamento interno. Dopo aver ricordato il carattere assoluto della protezione offerta dall’art. 3 Cedu nonostante le sfide poste dalla lotta al terrorismo internazionale (ad es., Corte Edu, 29.04.2019, A.M. c. Francia, in questa Rivista, XXI, 2, 2019) e i principi generali che definiscono il ruolo della Corte stessa nei casi di allontanamento non ancora effettuato (Corte Edu, Grande Camera, F.G. c. Svezia, 23.03.2016, in questa Rivista, XIX, 1, 2017), la Corte Edu ha ritenuto opportuno valutare sia i rischi attuali cui il ricorrente sarebbe oggi esposto qualora ritornasse nella Federazione russa anche come persona condannata all’estero per terrorismo, sia il tipo di esame condotto da parte dei giudici interni rispetto a tali rischi nell’ambito dei ricorsi interni. Sotto il primo profilo, la Corte nota innanzitutto come la situazione generale in Cecenia non sia tale per cui ogni allontanamento in Russia comporti una violazione dell’art. 3 Cedu. I rapporti internazionali disponibili segnalano un rischio per alcune categorie di persone del Caucaso settentrionale legate ai movimenti separatisti (ad es., EASO, Federazione russa – La situazione dei ceceni in Russia, 2018; CPT, Déclaration publique sur la Fédération de Russie relative à la République tchétchène et autres républiques de la région du Caucase du Nord, 11 marzo 2019). Tuttavia, dopo un attento esame delle circostanze individuali, la Corte dubita che il ricorrente corra il rischio di essere esposto a trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu. Da un lato, non vi sono sufficienti indizi sulla ricerca attiva del ricorrente da parte delle autorità russe per legami con i movimenti separatisti. Le prove fornite da quest’ultimo risultano infatti poco affidabili, come una testimonianza anonima non datata, o contraddittorie, avendo ad esempio ottenuto un passaporto per lasciare il suo Paese dalle stesse autorità russe che lo perseguiterebbero. Dall’altro lato, la condanna per terrorismo in Francia non colloca il ricorrente in una situazione di rischio specifico ai sensi dell’art. 3 Cedu. Non solo altre persone condannate per gli stessi reati sono state allontanate in Russia senza sollevare rischi di subire torture o altri maltrattamenti. Soprattutto, per la Corte Edu, sarebbe del tutto giustificabile se le autorità russe dedicassero una particolare attenzione al ricorrente tenuto conto del suo legame con il terrorismo internazionale, non potendo ciò rilevare ipso facto come trattamento vietato dall’art. 3 Cedu. Sotto il secondo profilo, invece, per quanto il ricorrente non possa essere considerato una persona vulnerabile cui sarebbe stato opportuno accordare il beneficio del dubbio circa le affermazioni e le prove fornite, i giudici interni non hanno valutato adeguatamente i rischi che potrebbe correre qualora venisse allontanato in Russia. In particolare, tenendo conto degli sviluppi intervenuti dinanzi la Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande camera, 14.05.2019, M contre Ministerstvo vnitra et X et X contre Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides, C 391/16, C 77/17 e C 78/17), per la Corte Edu i giudici interni non avrebbero valutato adeguatamente come, nonostante la revoca dello status di rifugiato per motivi di sicurezza nazionale, il ricorrente avesse conservato la “qualità” di rifugiato. Ciò non significa, secondo la Corte, che i giudici interni non possano giungere anche sulla base di tale elemento alla stessa conclusione in merito all’inesistenza di rischi per il ricorrente ai sensi dell’art. 3 Cedu. Tuttavia, in assenza di una valutazione di tutti gli elementi rilevanti, le autorità interne sono venute meno al rispetto delle garanzie previste da questa disposizione a tutela del ricorrente. Pertanto, nel caso del sig. K.I., vi è stata violazione dell’art. 3 Cedu letto sotto il profilo procedurale.
In Feilazoo c. Malta (Corte Edu, sentenza dell’11.03.2021) un cittadino nigeriano veniva condannato a dodici anni di detenzione, al termine del quale veniva condotto nell’ufficio immigrazione nella locale sede di polizia dove veniva informato che sarebbe stato allontanato nel suo Paese di origine. Ne seguiva una colluttazione con gli agenti, per la quale veniva condannato a due anni di detenzione al termine dei quali sarebbe dovuto essere allontanato quale immigrato irregolare. In appello, veniva però ordinato il suo allontanamento immediato con contestuale trattenimento in un centro per migranti. Nonostante a tal fine le autorità avessero tentato di ottenere dalla rappresentanza diplomatica della Nigeria un titolo di viaggio, il ricorrente veniva trattenuto in diversi centri per mesi, talora anche in isolamento per ragioni legate alla sua cattiva condotta. Mentre era detenuto, il sig. Feilazoo avviava il suo ricorso dinanzi la Corte Edu ottenendo, a causa della mancata assegnazione di una rappresentanza legale effettiva da parte dello Stato convenuto, un avvocato finanziato dalla Corte stessa. Rigettate le obiezioni del Governo maltese circa la ricevibilità del ricorso e ritenute inammissibili le parti del ricorso per cui non erano stati esauriti i rimedi interni, la Corte Edu valuta innanzitutto la presunta violazione dell’art. 3 Cedu generata dalle condizioni materiali di trattenimento. Tenuto conto delle prove fotografiche fornite dal ricorrente e in assenza di informazioni pertinenti da parte dello Stato convenuto, la Corte Edu si sofferma in particolare sul lungo periodo di isolamento subito dal sig. Feilazoo in un container, pari a 75 giorni, con contestuali restrizioni di movimento in spazi esterni per buona parte di esso. Tale misura appare alla Corte sproporzionata rispetto al fine perseguito, data anche la mancata adozione di interventi volti a garantire la sua salute psico-fisica e la non valutazione di misure alternative meno restrittive. A tal proposito, la Corte nota anche come, in seguito al trasferimento in un altro centro durante la pandemia da Covid-19, il ricorrente sia stato ulteriormente isolato per osservare un periodo di quarantena di sette settimane non supportato da ragioni sanitarie. Vi è stata quindi violazione dell’art. 3 Cedu. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 5, par. 1, Cedu per il periodo di trattenimento durante il quale le autorità non hanno dato prova di essersi attivate con la necessaria diligenza per dare esecuzione all’allontanamento, venendo quindi meno la giustificazione per la restrizione della libertà personale subita dal ricorrente. Infine, tenuto conto che non aveva garantito la confidenzialità della corrispondenza intercorsa tra il sig. Feilazoo e la Corte Edu, non aveva fornito copia dei documenti richiesti dallo stesso ricorrente per supportare il suo ricorso davanti quest’ultima e non gli aveva assicurato l’accesso a un’effettiva rappresentanza legale, per la Corte lo Stato convenuto è venuto meno agli obblighi derivanti dall’art. 34 Cedu ai sensi del quale, tra l’altro, le Parti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo del diritto di investire la Corte di un ricorso individuale.
Il caso E.K. c. Grecia (Corte Edu, sentenza del 14.01.2021) riguarda un cittadino turco che, dopo essere stato arrestato per ingresso irregolare in Grecia, veniva condannato e trattenuto in vari centri (Soufli, Feres, Petrou Ralli e Amygdaleza) in vista del suo allontanamento, anche dopo l’avvenuta registrazione della sua domanda di asilo. Se il trattenimento aveva fine solo dopo il riconoscimento dello status di rifugiato, il ricorrente lamentava innanzitutto di essere stato trattenuto in condizioni contrarie all’art. 3 Cedu. In merito a tali condizioni, la Corte Edu nota come, nonostante i rapporti internazionali avessero precedentemente evidenziato condizioni di vita inappropriate per i migranti ospitati nei centri di Soufli, Feres e Petrou Ralli, sono stati apportati miglioramenti significativi a tali strutture. Inoltre, il ricorrente aveva trascorso in questi centri solo brevi periodi. Ciò fa dire alla Corte che il trattamento riservato al ricorrente non ha raggiunto la soglia di gravità prevista per ricadere nell’ambito dell’art. 3 Cedu (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017; 28.02.2019, Khan c. Francia, in questa Rivista, XXI, 2, 2019; 24.05.2018, N.T.P. e altri c. Francia, in questa Rivista, XX, 3, 2018; 21.06.2018, S.Z. c. Grecia, in questa Rivista, XX, 3, 2018). Lo stesso può dirsi relativamente al centro di trattenimento di Amygdaleza in cui il ricorrente, nonostante vi sia rimasto per un periodo di oltre quattro mesi, poteva avere accesso a uno spazio esterno, a cure mediche adeguate e a spazi appropriati secondo le indicazioni del Comitato per la Prevenzione della Tortura (CPT). Pertanto, nel suo caso, non vi è stata violazione dell’art. 3 Cedu. In relazione alla lamentata violazione dell’art. 5 Cedu, relativo al diritto alla libertà e alla sicurezza, la Corte Edu accetta che il trattenimento del ricorrente sia motivato dalla necessità di impedire il suo ingresso irregolare in Grecia e di assicurare un rapido allontanamento (art. 5, par. 1, lett. f). Tale trattenimento, durato nel complesso quasi sei mesi, non può per la Corte considerarsi eccessivo rispetto all’espletamento delle necessarie formalità amministrative per gestire un caso di ingresso irregolare. Le autorità interne hanno anche agito velocemente nel valutare la richiesta di protezione internazionale rimettendo in libertà il ricorrente subito dopo il riconoscimento dello status di rifugiato. Pertanto, non vi è stata neppure violazione dell’art. 5, par. 1, Cedu. Vi è stata, invece, una violazione dell’art. 5, par. 4, Cedu, dato che il ricorrente non ha avuto accesso a un mezzo di ricorso effettivo attraverso cui lamentare le condizioni di trattenimento richiamate sopra, venendo queste ignorate dai giudici interni nell’ambito dei ricorsi intentati dal sig. E.K per porre fine al suo trattenimento.
Art. 4: Divieto di schiavitù o lavoro forzato
Con il caso V.C.L. e A.N. c. Regno unito (Corte Edu, sentenza del 16.02.2021), che riunisce i ricorsi presentati separatamente da due cittadini vietnamiti, la Corte Edu esamina, per la prima volta, la presunta violazione dell’art. 4 Cedu in relazione a minori, vittime di traffico di essere umani, che sono stati perseguiti nello Stato convenuto per reati collegati alle attività nelle quali venivano sfruttati. Il primo ricorrente era stato identificato in occasione di un’ispezione effettuata in una casa trasformata in una piantagione di marijuana. Veniva così accusato di produzione illegale di stupefacenti, dichiarandosi peraltro colpevole su consiglio di un avvocato. Nonostante il ricorrente affermasse sin dal primo interrogatorio di essere vittima di trafficking e tale condizione venisse successivamente confermata dalle autorità competenti in materia, i giudici interni decidevano comunque di perseguirlo in nome dell’interesse pubblico, condannandolo a un anno di detenzione. Anche il secondo ricorrente veniva arrestato in una struttura adibita a coltivazione di marjuana. Durante il primo interrogatorio, sosteneva di essere stato trasportato in Regno unito attraverso la Repubblica ceca, di lavorare nella piantagione senza essere pagato e di non essere libero di uscire dalla stessa, venendo talora anche minacciato di morte. Ciononostante, veniva accusato di produzione illegale di stupefacenti e, dopo essersi dichiarato colpevole, veniva condannato a 18 mesi di detenzione. Dopo approfondite analisi con il coinvolgimento di esperti in materia, i servizi sociali ed esperti ritenevano come vi fossero altissime probabilità che il secondo ricorrente fosse stato introdotto nel Regno unito nel contesto del traffico di essere umani. Su tale base, il secondo ricorrente presentava appello ritenendo che le autorità competenti erano venute meno all’obbligo di approfondire gli iniziali sospetti e che, vista la sua condizione, doveva essere protetto anziché condannato. In una decisione della Corte di appello che riuniva anche il ricorso del primo ricorrente, il giudice interno affermava come non esistesse immunità per le persone che, pur essendo vittime di trafficking, sono coinvolte in attività criminali e ciò non poteva derivare tantomeno dalla Convenzione contro la tratta di essere umani del Consiglio d’Europa, vincolante per il Regno unito. Rigettati i successivi appelli e richieste di revisione delle condanne, dinanzi la Corte Edu i ricorrenti lamentavano una violazione dell’art. 4 Cedu, relativo al divieto di schiavitù o lavoro forzato (Corte Edu, 18.07.2019, T.I. e altri c. Grecia, in questa Rivista, XXI, 3, 2019; 21.01.2016, L.E. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017; 7.01.2010, Rantsev c. Cipro e Russia). Dopo aver precisato la portata del caso, in particolare in merito alla sua incompetenza a interpretare la, o valutare la conformità delle azioni delle Parti rispetto alla, Convenzione contro la tratta di essere umani su cui i ricorrenti avevano fondato molte loro argomentazioni, la Corte Edu ricorda come il traffico di essere umani rientri nell’ambito dell’art. 4 Cedu per focalizzare la sua attenzione sui relativi obblighi positivi. In particolare, in linea con la Convenzione con la tratta, questi includono obblighi di prevenzione, ad esempio attraverso l’introduzione di un quadro giuridico volto a perseguire i responsabili, di protezione, anche attraverso l’identificazione puntuale delle potenziali vittime e l’introduzione di programmi di recupero, e di investigazione, al fine di chiarire le circostanze di ogni caso. Appare a tal fine centrale, quando una delle Parti è a conoscenza o dovrebbe ragionevolmente sospettare che un individuo sia vittima di traffico di essere umani, l’adozione di tutte le misure necessarie per evitare che la persona interessata rischi di divernirne vittima o per assicurare che venga rimossa da tale situazione. Quanto alla questione di perseguire le vittime, la Corte Edu riconosce l’inesistenza di un divieto generale in tal senso negli strumenti internazionali pertinenti. Ricorda, tuttavia, come tale possibilità possa venire in contrasto con la necessità di tutelare le vittime e garantirne il loro recupero psico-fisico, anche attraverso l’accesso a servizi predisposti a tal fine. Ciò risulta particolarmente vero nel caso di minori, rispetto ai quali tutte le misure adottate devono perseguire il loro preminente interesse. È evidente che, se il caso di entrambi i ricorrenti è considerato complessivamente, non solo le autorità interne non abbiano avviato opportune indagini per chiarire la situazione in cui questi versavano, ma i giudici interni non hanno motivato in modo adeguato le ragioni per cui fosse necessario perseguirli. Nonostante anche la loro minore età, questi ultimi avevano, invece, sfruttato le incoerenze rilevate nei loro racconti per insinuare dubbi sulla reale situazione di sfruttamento in cui versavano, e quindi della loro qualità di vittime di traffico di essere umani, in modo da giustificare la necessità di giungere a una loro condanna. Tutto ciò appare in contrasto con quanto già noto alle autorità, e cioè che i minori vietnamiti rappresentano una categoria vulnerabile di migranti che è spesso impiegata forzatamente nella coltivazione illegale di marijuana e, più in generale, che i minori possono non riconoscere la situazione in cui versano o i rischi cui sono esposti. L’insieme di tali circostanze applicate al caso dei ricorrenti avrebbero dovuto far sospettare le autorità interne che erano, ragionevolmente, in presenza di vittime di trafficking con la conseguenza di identificare innanzitutto quali misure potessero essere adottate a loro protezione, prima di decidere se perseguirli o meno. Per queste ragioni, vi è stata una violazione dell’art. 4 Cedu. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 6 Cedu, relativo al diritto a un equo processo, letto in combinato con l’art. 4 Cedu, poiché tra l’altro le mancate indagini sull’accaduto hanno condizionato i processi contro i ricorrenti venendo meno prove fondamentali che avrebbero potuto essere utilizzate a favore di questi ultimi.
Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare
Il caso A.I. c. Italia (Corte Edu, sentenza del 1.04.2021) riguarda una cittadina nigeriana, giunta in Italia come vittima di tratta, che si vedeva privata temporaneamente della responsabilità genitoriale e collocata con i suoi due figli in una struttura dedicata. Gli operatori di tale struttura riportavano al giudice competente il buon rapporto esistente tra la ricorrente e i figli, ma anche le presunte difficoltà della stessa di avviare un percorso autonomo. Veniva quindi deciso il trasferimento dei minori in un’altra struttura concedendo alla madre di far loro visita unicamente una volta alla settimana. Sulla base del rapporto di un esperto, per il quale la ricorrente aveva problemi psicologici tali da compromettere le sue capacità genitoriali, i minori venivano dichiarati in stato di abbandono e adottabili, con il conseguente divieto di contatti con la madre. In appello veniva richiesto un nuovo rapporto a un esperto che, pur confermando l’incompatibilità tra le esigenze dei minori e i problemi personali della ricorrente, evidenziava il passato della donna come vittima di tratta e i gravi abusi sessuali subiti come fattori determinanti per comprendere alcuni suoi comportamenti. Inoltre, si evidenziava il possibile ruolo di visioni stereotipate sulla valutazione delle capacità genitoriali della ricorrente, in ragione dell’essere donna nigeriana con potenziali legami con la prostituzione. L’esperto riscontrava quindi una difficoltà degli stessi operatori della prima struttura di accoglienza di capire il rapporto genitore-figli secondo i costumi della ricorrente, cioè non basato su una visione prettamente occidentale. Ciò aveva compromesso la possibilità di adottare, sin dal principio, tutte le azioni necessarie ai fini del pieno recupero (e valorizzazione) delle sue capacità genitoriali. Nonostante venisse raccomandato in ogni caso il ripristino dei contatti con i figli anche al fine di preservare la loro identità e il loro preminente interesse, la Corte di appello decideva di confermare il pronunciamento del giudice di primo grado. La Cassazione, invece, accoglieva il ricorso della ricorrente ritenendo come la Corte di appello non avesse valutato le possibili alternative a una forma di adozione che aveva implicato la rottura totale dei rapporti con tra la ricorrente e i figli. Dinanzi la Corte Edu, la ricorrente lamentava pertanto la violazione del diritto al rispetto della vita familiare, relativo all’art. 8 Cedu, specie tenuto conto che il suo diritto di visita fosse stato interrotto automaticamente al momento della decisione di adottabilità dei minori nonostante la procedura dinanzi le autorità italiane fosse ancora pendente dopo oltre tre anni. Dopo aver rigettato le obiezioni avanzate dal Governo italiano in merito alla irricevibilità del ricorso, la Corte Edu ricorda come il contatto tra genitori e figli sia un elemento fondamentale della vita familiare protetta dall’art. 8 Cedu e che ogni interferenza nel godimento di tale diritto debba essere prevista dalla legge, perseguire fini legittimi e qualificarsi come necessaria in una società democratica (cfr. Corte Edu, 23.06.2020, Omorefe c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 2, 2020). Tenuto conto che i primi due requisiti erano soddisfatti, la Corte Edu si concentra sulla necessità dell’interferenza subita dalla ricorrente alla luce degli obblighi positivi degli Stati parte della Cedu volti a facilitare, in tempi rapidi, la ricostruzione dei legami familiari ove non esistano motivi gravi che richiedono la rottura degli stessi e dell’esigenza di perseguire l’interesse dei minori coinvolti in ragione delle circostanze specifiche di ogni caso. Nella situazione della ricorrente, per la Corte è evidente come le corti interne non abbiano agito tenendo conto di tali obblighi positivi. Infatti, il giudice di primo grado aveva vietato i contatti tra la ricorrente e i figli come conseguenza della dichiarazione di adottabilità senza motivarla adeguatamente, e ciò nonostante la possibilità di decisioni contrarie in appello. Soprattutto, non aveva considerato il passato della ricorrente come vittima di tratta e le implicazioni per il suo successivo comportamento. Dal canto suo, la Corte di appello aveva confermato tale decisione nonostante quanto sostenuto dall’esperto e il possibile ricorso a soluzioni alternative. Dati anche i tempi eccessivamente lunghi dell’intero procedimento, per la Corte Edu le autorità italiane non hanno realmente bilanciato i vari interessi in gioco, inclusi quelli dei minori a mantenere un rapporto con la madre, la cui rottura può essere giustificata solo da circostanze eccezionali che non erano rilevabili nel caso di specie. Pertanto, non avendo lo Stato convenuto adottato le misure necessarie per facilitare la ricostituzione della famiglia della ricorrente, tenendo anche conto della sua identità culturale e della sua condizione di vulnerabilità in Italia, nel suo caso vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu.
Anche il caso Terna c. Italia (Corte Edu, sentenza del 14.01.2021) riguarda la presunta violazione del diritto al rispetto della vita familiare generata dall’allontanamento di una minore dalla sua famiglia di origine. Contro i rapporti iniziali di esperti e dei servizi sociali che evidenziavano la solidità dei rapporti tra la minore e la ricorrente, cioè la nonna di origine Rom, il giudice competente disponeva il collocamento della minore in una struttura dedicata e avviava il procedimento volto a verificare lo stato di abbandono e conseguente adozione. Dopo aver sostenuto dinanzi al giudice la situazione di disagio economico, culturale ed emotivo in cui versava a suo avviso la minore, la tutrice chiedeva anche di vietare ogni contatto tra la minore e la ricorrente, essendo noto che le famiglie di origine Rom avrebbero potuto sottrarre i minori nel caso in cui avessero scoperto il luogo in cui venivano ospitati. Accolta tale richiesta con la possibile eccezione di organizzare incontri molto protetti, la minore veniva poco dopo dichiarata adottabile. Secondo la valutazione di un ulteriore esperto nell’ambito di un procedimento tuttora pendente, l’allontanamento – a suo avviso non giustificato – dalla famiglia di origine aveva segnato profondamente la minore e raccomandava la ripresa dei contatti. Rigettata l’argomentazione dell’Italia circa l’irricevibilità del ricorso, la Corte Edu nota innanzitutto come non esista differenza, ai fini del godimento del diritto di cui all’art. 8 Cedu, tra il rapporto tra madre e figli e, come nel caso di specie, tra nonna e nipote, tenuto conto che la minore era stata da sempre accudita dalla ricorrente, alla quale era stata affidata informalmente poco dopo la nascita. Devono quindi applicarsi anche nei loro confronti gli obblighi positivi derivanti dall’art. 8 Cedu, specie quelli volti a facilitare lo sviluppo dei rapporti familiari alla luce del principio dell’interesse preminente del minore. Per quanto dichiari di valutare una situazione complessa rispetto alla quale le autorità interne sono meglio collocate, la Corte Edu osserva come in diverse occasioni sia stato raccomandato alle autorità interne di ripristinare il diritto di visita della ricorrente nell’interesse della minore. Anziché adottare tutte le misure necessarie per organizzare a tal fine incontri protetti in tempi ragionevolmente brevi, le autorità hanno lasciato che la situazione si consolidasse senza tenere conto degli effetti che ciò avrebbe prodotto sul benessere della minore nel lungo periodo. Ciò basta per far dire alla Corte che vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu. Non vi è stata, invece, violazione del divieto di discriminazione (art. 14), letto in combinato al diritto al rispetto della vita familiare, in relazione al lamentato trattamento discriminatorio che la ricorrente avrebbe subito in ragione della sua origine etnica. Infatti, secondo la Corte Edu, l’allontanamento della minore è stato essenzialmente motivato dalla necessità di garantire a quest’ultima sia figure che un ambiente più adatti al suo sviluppo personale.
In Khan c. Danimarca (Corte Edu, sentenza del 12.01.2021) un cittadino pakistano, nato in Danimarca, veniva allontanato con contestuale divieto di reingresso di sei anni a seguito di una lunga serie di condanne. Infatti, nonostante le autorità interne avessero in più occasioni valutato la possibilità di allontanarlo, un ordine in tal senso giungeva solo dopo una condanna non particolarmente grave per episodi di violenza contro la polizia. Il ricorrente lamentava pertanto una violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, violazione che era tuttavia stata esclusa dai giudici interni sulla base in un bilanciamento tra interessi collettivi e individuale che teneva conto dei criteri stabiliti dalla stessa Corte Edu (Corte Edu, 6.06.2013, Uner c. Svizzera, in questa Rivista, XV, 2, 2013, p. 89). Per la Corte Edu, nonostante l’allontanamento del ricorrente costituisca un’interferenza nel godimento del diritto di cui all’art. 8 Cedu alla luce dei legami stabiliti sin dalla nascita in Danimarca nonostante l’assenza di una famiglia propria, tale interferenza risulta prevista dalla legge, persegue uno dei fini previsti dal paragrafo 2 della stessa disposizione, ed è necessaria in una società democratica. Infatti, mentre i giudici interni avevano già considerato adeguatamente tutti i fattori stabiliti dalla Corte per effettuare il bilanciamento tra gli interessi in gioco ove un migrante di lungo periodo rischia di essere allontanato (ad es., gravità dei crimini commessi, il livello di integrazione nella società ospitante, l’esistenza di legami familiari, sociali e culturali con lo Stato convenuto e con il Paese di origine, la proporzionalità della misura in caso di divieto di reingresso), la Corte Edu non ritrova «ragioni particolarmente serie» per giungere a una diversa conclusione. Il fatto che l’allontanamento sia stato deciso contestualmente a una condanna non particolarmente grave non appare, ad avviso della Corte, dirimente poiché è l’intera storia criminale a essere stata oggetto del bilanciamento (correttamente) effettuato dalle autorità interne. Pertanto, nel caso del sig. Khan, non vi è stata alcuna violazione dell’art. 8 Cedu.
Sulla base di un ragionamento identico, la Corte Edu ha concluso egualmente per la non violazione dell’art. 8 Cedu che veniva lamentata in circostanze molto simili da un cittadino iracheno, giunto in Danimarca all’età di quattro anni e anch’esso destinatario di un ordine di allontanamento per la sua lunga storia criminale, nel caso Munir Johana c. Danimarca (Corte Edu, sentenza del 12.01.2021).
Infine, nel caso Lacatus c. Svizzera (Corte Edu, sentenza del 19.01.2021), la Corte valuta per la prima volta la presunta violazione dell’art. 8 Cedu a seguito di condanne, subite dalla ricorrente di origine Rom, per l’infrazione del divieto di elemosinare in pubblico. Se per i giudici interni il trattamento riservato alla sig.ra Lacatus non dava luogo alle lamentate violazioni della Cedu, in particolare del diritto al rispetto della vita familiare, della libertà di espressione e del divieto di discriminazione, l’esame della Corte Edu si concentra sul profilo relativo all’interferenza nel godimento del diritto di cui all’art. 8 Cedu che ha subito la ricorrente per via delle condanne. Infatti, per la Corte, pur non esistendo una definizione univoca di vita privata (Corte Edu, 13.10.2016, B.A.C. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017), questa include ad esempio il diritto allo sviluppo personale. Inoltre, se è vero che anche l’art. 8 Cedu si basa sul rispetto della dignità umana, impedire a una persona in una condizione particolarmente precaria, senza lavoro, analfabeta e senza aiuto di terzi, di adottare uno stile di vita che potrebbe permetterle di sopravvivere potrebbe comprometterne la dignità. Pertanto, si può affermare che il diritto di rivolgersi ad altri per richiedere aiuto è relativo all’essenza stessa dell’art. 8 Cedu (parr. 58-59). Per la Corte Edu, nonostante la ricorrente abbia subito un’interferenza che è prevista dalla legge e che persegue fini legittimi ai sensi del paragrafo 2 dell’art. 8 Cedu (difesa dell’ordine pubblico e protezione dei diritti altrui), non si può ritenere che essa sia anche necessaria in una società democratica. La ragione sta sostanzialmente nel tipo di misura che ha dato origine al caso di specie, cioè un divieto generale di elemosinare in pubblico che non permette alcun bilanciamento tra gli interessi collettivi e individuali. Un divieto siffatto non permette alle autorità di tenere conto di eventuali situazioni di vulnerabilità delle persone interessate o anche delle modalità, aggressive o meno, con cui queste elemosinano. A tal proposito, la Corte prende in esame il margine di apprezzamento che gli Stati parte della Cedu godono in materia. Contrariamente a quanto affermato dallo Stato convenuto, per la Corte non esisterebbe un consenso europeo sul tema. Si può comunque notare che, tendenzialmente, le Parti che hanno introdotto un divieto generale (locale o nazionale) di elemosinare non sono la maggioranza di coloro che hanno deciso di introdurre una disciplina in materia. Insieme al fatto che è in gioco un aspetto essenziale della vita della ricorrente, ciò fa dire alla Corte Edu che la Svizzera gode di un margine di apprezzamento limitato nel caso di specie. Non tenendo conto della grave condizione di vulnerabilità della ricorrente, che non appartiene a reti criminali o elemosinava in modo aggressivo, le autorità interne le hanno quindi imposto una condanna sproporzionata che non risulta giustificata da ragioni di interesse pubblico particolarmente serie. Pertanto, nel caso della sig.ra Lacatus, vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu.
Art. 1, Protocollo 1: Protezione della proprietà
Nel caso Dabic c. Croazia (Corte Edu, sentenza del 18.03.2021) la Corte è chiamata a esaminare la presunta violazione dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Cedu, relativo al diritto alla protezione della proprietà, lamentata dal sig. Dabic, croato di origine serba, per le perdite e i danni causati alla sua casa dopo essere stata sequestrata per ospitare, in sua assenza, una famiglia di rifugiati della Bosnia ed Erzegovina. Dopo aver ottenuto il dissequestro nel 2003, il ricorrente riportava alle autorità locali i furti e le perdite subite non ottenendo però alcun risarcimento. La Corte Edu ricorda come l’art. 1, Prot. 1, non garantisca unicamente un diritto a non subire interferenze ma imponga, specie in talune circostanze in cui un individuo può ragionevolmente aspettarsi l’adozione di misure appropriate da parte del proprio Stato, anche obblighi positivi per renderne effettivo il suo godimento. Tra questi obblighi rientra anche l’introduzione, nell’ordinamento interno, di adeguati strumenti attraverso cui chiederne il rispetto. Per la Corte, con il sequestro e la successiva gestione della proprietà del ricorrente per fini umanitari, lo Stato convenuto aveva assunto un obbligo di cura della stessa e la responsabilità per gli eventuali danni o perdite a essa causati. Nonostante il sig. Dabic avesse ottenuto la restituzione della casa e una compensazione per il periodo in cui non aveva potuto farne uso (diversamente, ad es., da Corte Edu, 3.12.2020, Papachela e AMAZON S.A. c. Grecia, in questa Rivista, XXIII, 1, 2021), il ricorso volto a far valere la responsabilità delle autorità competenti per le perdite e i danni subiti era stato rigettato. Pertanto, nessun risarcimento a tal fine gli era mai stato riconosciuto. Ciò basta alla Corte Edu per ritenere che, nel caso del sig. Dabic, vi è stata una violazione dell’art. 1, Prot. 1.
Art. 1, Protocollo 7: Diritto a garanzie procedurali in caso di allontanamento
Il caso Hassine c. Romania (Corte Edu, sentenza del 9.03.2021) riguarda un cittadino tunisino che, dopo aver sposato una cittadina rumena e ottenuto un permesso di soggiorno per motivi familiari, veniva dichiarata persona non desiderata per motivi di sicurezza nazionale. Non solo i procedimenti interni venivano avviati attraverso una procedura urgente che non aveva permesso al sig. Hassine di potervi partecipare direttamente. Le accuse mosse nei suoi confronti si basavano su documenti secretati ai quali lo stesso avvocato del ricorrente non aveva accesso. Ritenendo le accuse convincenti, i giudici interni ne ordinavano il trattenimento e il successivo allontanamento, con un contestuale divieto di reingresso per un periodo di cinque anni. Tenuto conto della regolarità del loro soggiorno in Romania, il sig. Hassine lamentava dinanzi la Corte Edu una violazione del diritto alla libertà e sicurezza personale (art. 5 Cedu), del diritto al rispetto della vita familiare (art. 8 Cedu) e del diritto a garanzie procedurali in caso di allontanamento (art. 1 del settimo Protocollo addizionale alla Cedu). Esaminando il ricorso unicamente sotto il profilo dell’art. 1, Protocollo 7 Cedu, la Corte Edu ricorda i principi recentemente affermati in Muhammad e Muhammad c. Romania (Corte Edu, Grande Camera, 15.10.2020, in questa Rivista, XXIII, 1, 2021). Secondo tali principi, le persone interessate devono essere pienamente informate dei motivi alla base del loro allontanamento e devono poter accedere alle informazioni e ai documenti in base ai quali sono ritenute pericolose per la sicurezza nazionale. Non si tratta di diritti assoluti. Tuttavia, nel caso in cui questi individui subiscano una restrizione per tutelare l’interesse pubblico, sono necessari bilanciamenti adeguati affinché possano avanzare ragioni effettive contro il loro allontanamento. Tali bilanciamenti possono includere, ad esempio, l’accesso ai documenti secretati da parte del loro rappresentante legale e da un’autorità giudiziaria indipendente, la quale deve però essere anche in grado di esaminare che il caso specifico richieda effettivamente la secretazione delle informazioni pertinenti. Nel caso del ricorrente, la Corte Edu nota come il mancato accesso del sig. Hassine alle accuse mosse nei suoi confronti e ai documenti su cui queste erano basate non era stato controbilanciato da altri aspetti procedurali. Infatti, oltre a decidere il caso in assenza dell’interessato per presunte ragioni di urgenza, i giudici interni non avevano condiviso alcuna informazione utile nè con il ricorrente nè con l’avvocato. Quest’ultimo, peraltro, non possedeva la certificazione utile per accedere ai relativi documenti secondo quanto disposto dall’ordinamento interno, non potendo in ogni caso ottenerla nei tempi brevissimi in cui si è svolto l’intero procedimento. Tenuto anche conto che il ricorrente non aveva precedenti penali in Romania, non risulta chiaro se i giudici interni abbiano valutato la credibilità dei documenti avanzati dalle autorità di sicurezza. In ogni caso, risulta evidente come non abbiano valutato la reale esigenza di mantenere secretate tutte le informazioni pertinenti. La conseguente impossibilità del sig. Hassine di difendersi in modo effettivo contro il suo allontanamento ha quindi dato luogo a una violazione dell’art. 1, Prot. 7 Cedu.
La rassegna relativa agli artt. 3-4 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 8-1, Prot. 7 è di C. Danisi.