La sentenza di non luogo a procedere emessa nei confronti dell’ex Ministro dell’interno da parte del Tribunale di Catania nel caso Gregoretti
La
sentenza del GUP presso il Tribunale di Catania
(decisione del 14 maggio 2021, con deposito delle motivazioni nel mese di agosto) segna la conclusione di uno dei diversi procedimenti avviati nei confronti di Matteo Salvini in relazione alla prassi, dallo stesso adottata nel periodo in cui ricopriva l’incarico di Ministro dell’interno, di non concedere per diversi giorni l’autorizzazione allo sbarco
alle navi, italiane o straniere, che avevano operato soccorsi in acque internazionali (in relazione ai profili in materia di responsabilità penale dei Ministri coinvolti in tali procedimenti, cfr. i lavori di Masera sul n. 1.2019 e di Giupponi sul n. 2.2021).
Il caso oggetto del procedimento in questione riguardava il divieto di sbarco opposto dal 27 al 31 luglio 2019 dal Ministro dell’interno nei confronti della nave militare Gregoretti, che chiedeva di poter sbarcare le 131 persone a bordo, recuperate nell’ambito di diverse operazioni di soccorso. Diversi esposti presentati da ONG o da singoli cittadini conducevano all’apertura di un procedimento per sequestro di persona che, in ragione della natura ministeriale del reato ipotizzato, risultava di competenza del Tribunale dei Ministri di Catania; nonostante la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Catania, il Tribunale dei Ministri, all’esito di una breve istruttoria, decideva di chiedere al Senato l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro, autorizzazione che veniva concessa dal Senato nel febbraio 2020. Il procedimento proseguiva allora secondo il rito ordinario, e in fase di udienza preliminare il GUP procedeva ad una ampia integrazione probatoria (comprendente anche l’assunzione della testimonianza del Presidente del Consiglio e di diversi Ministri in carica al momento dei fatti, oltre che di Ministri entrati in carica in periodi successivi), al cui esito pronunciava la sentenza qui allegata.
La decisione è complessa e per molti versi discutibile, ma in questa sede ci limiteremo a ricostruirne la struttura (i «motivi della decisione» sono divisi in paragrafi, ognuno fornito di apposita intestazione) ed i passaggi logici essenziali, esimendoci da alcuna valutazione critica. I primi due paragrafi sono dedicati alle premesse: la prima relativa ai delicati risvolti politici e istituzionali del procedimento, la seconda ai limiti ed alle funzioni dell’udienza preliminare. Il terzo paragrafo contiene una ricostruzione del dato normativo rilevante, con particolare attenzione alle diverse fonti, nazionali e internazionali, che disciplinano la materia dei soccorsi in mare. Nel quarto paragrafo, intitolato «Il fenomeno migratorio», il giudice inquadra la specifica vicenda oggetto del giudizio all’interno di una complessiva rappresentazione delle vicende degli ultimi anni in materia di flussi migratori, soffermando l’attenzione anche sui procedimenti aperti (ed archiviati) nei confronti delle ONG che operano soccorsi in mare. Il quinto paragrafo è dedicato alla ricognizione delle politiche implementate dal Governo italiano, dal 2016 in poi, per gestire il fenomeno degli sbarchi sulle coste meridionali; vengono in particolare riportati ampi stralci del «contratto di governo» siglato nel 2018 dal M5S e dalla Lega, da cui emergerebbe la chiara volontà di entrambe le forze politiche di arginare con fermezza tale fenomeno, e soprattutto di coinvolgere gli altri Paesi europei nella successiva fase di accoglienza dei migranti soccorsi in mare. Il sesto paragrafo (dal titolo «Il modus operandi – La condivisione») intende dimostrare, mediante la citazione di ampi stralci di dichiarazioni rese pubblicamente da Ministri del Governo Conte 1, specie in occasione delle vicende relative al caso Diciotti, che la linea politica di ritardare lo sbarco dei naufraghi soccorsi in mare, in attesa che i Paesi europei si facessero carico almeno in parte carico della loro accoglienza, era condivisa dall’intera compagnie governativa. Il paragrafo 7 (intitolato «gli eventi SAR negli anni 2018-2020») analizza in modo schematico i dati relativi alle procedure seguite ed ai tempi di attesa per l’autorizzazione allo sbarco in diversi episodi SAR verificatisi sotto i Governi Conte 1 e Conte 2, mentre il paragrafo 8 («La risposta giudiziaria») sintetizza gli esiti di alcuni procedimenti giudiziari aventi a vario titolo ad oggetto episodi di migranti soccorsi in acque internazionali e condotti in Italia (vengono in particolare ricordati il caso Diciotti, il caso Sea Watch 3, il caso Alan Kurdi, il caso Open Arms, il caso Rackete, il caso Ocean Viking). Nel paragrafo 9 vengono brevemente riprese le dichiarazioni dei testi escussi, per giungere alla conclusione che la gestione dei soccorsi portata avanti dal Ministro Salvini era condivisa dall’intera compagine governativa. Il decimo paragrafo è dedicato all’analisi della nozione di atto politico, analisi che conduce ad escludere che l’atto contestato al Ministro Salvini si sottragga al giudizio dell’autorità giudiziaria, come affermato dalla difesa del Ministro. Nei paragrafi 11 e 12 l’estensore arriva a confrontarsi con la specifica ipotesi di reato contestata a Salvini, escludendo la configurabilità del sequestro di persona sulla base in sostanza della considerazione che il tempo trascorso tra la richiesta della nave Gregoretti di poter entrare in porto e l’autorizzazione concessa dal Ministro è comparabile al tempo che normalmente trascorre in casi analoghi, anche gestiti dal successore di Salvini, e che comunque l’attesa era finalizzata allo scopo, condiviso dall’intero Governo, di indurre almeno alcuni Paesi europei a farsi carico dell’accoglienza dei naufraghi. Il paragrafo 13 è poi specificamente dedicato all’imputazione relativa al sequestro dei minori, che viene ritenuta insussistente considerata la tempestività con cui gli stessi sono stati fatti sbarcare. Nel paragrafo 14 («il rispetto dei diritti umani») si individuano gli argomenti per cui, al di là della qualificazione penalistica del fatto, la condotta del Ministro Salvini non abbia comportato la violazione dei diritti riconosciuti ai migranti dalle fonti interne ed internazionali. Il paragrafo 15 («Il fenomeno mediatico») ripercorre in senso critico i toni ed i contenuti del Ministro Salvini in materia di immigrazione, escludendo che essi possano in alcun modo influire sulla valutazione giuridica del suo operato. Infine, nel paragrafo conclusivo, vengono indicate le ragioni per cui si ritiene preferibile adottare la formula assolutoria «perché il fatto non sussiste», in luogo del riconoscimento dell’esimente dell’adempimento del dovere invocata dalla difesa.
La giurisdizione per i fatti commessi in alto mare
Il procedimento, deciso in ultima istanza in sede di merito dalla Corte d’assise d’appello di Catania, aveva ad oggetto una vicenda dai contorni drammatici. Nell’agosto 2015, una nave militare italiana soccorreva in acque internazionali un barcone di legno, privo di bandiera e di dotazioni di sicurezza, che imbarcava acqua ed era sovraffollato da oltre trecento persone che venivano soccorse e poste in salvo; nella stiva del barcone veniva constatata la presenza di quarantanove corpi senza vita, ammassati l’uno sull’altro. I diversi soggetti ritenuti responsabili della gestione del viaggio e della scelta di rinchiudere nella stiva i soggetti poi deceduti venivano condannati a 30 anni di reclusione per i reati di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare e di omicidio doloso plurimo, commesso con dolo eventuale.
I motivi di ricorso (tutti dichiarati inammissibili o infondati dalla Cassazione) sono numerosi ed attengono diversi profili di natura sostanziale e processuale, ma la questione di maggiore interesse è quella concernente la sussistenza della giurisdizione italiana per il reato di omicidio doloso (non essendoci dubbi, in ragione di una consolidata giurisprudenza al riguardo, in ordine alla giurisdizione per il reato di cui all’art. 12 TUI). L’argomentazione della Corte è complessa, e ci pare utile qui riportarne integralmente gli snodi decisivi. Per la Cassazione, «l’applicazione della legge penale italiana al delitto di omicidio doloso plurimo commesso in “alto mare” trova fondamento: - nel principio di tendenziale universalità della legge penale italiana di cui all’art. 3, co. 2, c.p., secondo il quale la legge penale italiana trova applicazione nei “casi stabiliti [...] dal diritto internazionale” come si verifica quando l’autorità militare o di polizia, in adempimento dei doveri e nell’esercizio dei poteri attribuiti dal diritto internazionale, interviene ed accerta “in alto mare”, cioè al di fuori del territorio di un altro Stato, la commissione di reati a bordo di una nave priva di bandiera; - nell’art. 7, co. 1, n. 5, c.p. e negli artt. 2, 3 e 15, par. 2, lett. c, i), della Convenzione di Palermo, senza, cioè, che sia necessario fare richiamo alla estensione della giurisdizione ex art. 15, par 4, trattandosi di un reato grave, con effetti sostanziali sul territorio italiano, posto in essere da un gruppo criminale organizzato nell’ambito di una complessiva condotta posta in essere allo scopo di commettere i reati nominativamente previsti dalla Convenzione e dai Protocolli addizionali, tra cui rientra il traffico di migranti verso l’Italia». Risolta poi in senso positivo la questione se i criteri di giurisdizione stabiliti in ambito convenzionale abbiano o meno natura auto-applicativa, la sentenza conclude che «non può dubitarsi che l’omicidio commesso in “alto mare” sia oggetto della giurisdizione italiana perché accertato dalle autorità del Paese nei confronti di una imbarcazione priva di bandiera e perciò non sottoposta alla giurisdizione di altro Stato, sicché non deve farsi applicazione del principio di diritto internazionale par in parem non habet imperium, nonché che tale delitto costituisca, secondo la previsione convenzionale degli artt. 2 e 3 della Convenzione di Palermo, un “reato grave” che ha avuto effetti sostanziali in Italia, sia perché accertato dalla nave militare italiana che operava nell’ambito dei doveri e dei poteri attribuiti dalle vigenti Convenzioni internazionali sul diritto del mare, sia perché i cadaveri sono stati portati sul territorio dello Stato unitamente alle persone danneggiate dal medesimo reato, mentre, nel rispetto delle ulteriori condizioni richieste dall’art. 15, co. 4, della Convenzione di Palermo, i responsabili sono stati presi in custodia dall’autorità italiana e ivi trattenuti senza che nessuna richiesta di estradizione sia mai stata avanzata o promossa. In sostanza, la clausola di universalità della legge penale italiana di cui all’art. 7 c.p. assicura, mediante il recettizio richiamo alle disposizioni convenzionali applicabili (artt. 2, 3 e 15 della Convenzione di Palermo), il necessario adeguamento del diritto interno agli obblighi internazionali di volta in volta assunti dall’Italia per la repressione dei crimini, allorquando, come nel caso di specie, gli ulteriori criteri di collegamento che radicano la giurisdizione siano già puntualmente descritti dal testo convenzionale cui è stata data esecuzione con legge ordinaria, senza la necessità, cioè, che le disposizioni convenzionali sull’estensione della giurisdizione debbano ricevere una ulteriore e pleonastica trasposizione nel diritto interno».
Riduzione in schiavitù e reati culturalmente orientati
Il caso deciso dalla
Cassazione (n. 30538/2021)
aveva ad oggetto la condanna per il reato di riduzione in schiavitù
ex art. 600 c.p. nei confronti del padre che, dietro pagamento di un compenso (il cd prezzo della sposa), aveva ceduto la figlia minore al patriarca della famiglia cui apparteneva la persona cui era stata promessa in matrimonio.
La sentenza in primo luogo è interessante sotto il profilo della qualificazione giuridica del fatto nel senso che ritiene integrata l’ipotesi prevista dalla prima parte dell’art. 600 c.p. corrispondente all’originaria e più classica nozione di chi esercita su di un essere umano un dominio equivalente a quello che la titolarità del diritto domenicale consente di esercitare su di una cosa. Dunque una condotta di «reificazione» diretta della vittima e non di suo continuativo stato di soggezione, da attuare in forma vincolata ai sensi del comma 2 dell’art. 600 c.p., mediante tra l’altro promessa di denaro.
In secondo luogo la sentenza esclude che l’introduzione nel 2019 (e dunque in momento successivo ai fatti contestati) dell’art. 558-bis c.p. («costrizione o induzione al matrimonio») sia riconducibile ad un fenomeno di successione di norma penale più favorevole, posto che, qualora ricorrano gli estremi dell’art. 600, tale norma risulta tuttora comunque applicabile anche qualora la riduzione in schiavitù si sia concretizzata mediante la costrizione della vittima al matrimonio.
Di particolare interesse sono poi gli argomenti addotti dalla Corte in relazione alla richiesta difensiva di dare rilievo, ai «motivi culturali» che avrebbero da un lato giustificato la condotta dell’imputato nel senso della sua corrispondenza all’ “ordinamento giuridico” della comunità rom di sua appartenenza, dall’altro impedito, sul piano dell’elemento psicologico del reato, di percepire il disvalore della sua condotta e il suo significato di reificazione della vittima. Dopo avere attentamente ricostruito le diverse strade percorse dalla giurisprudenza nell’affrontare la questione dei reati culturalmente orientati «sfuggendo alla rigida alternativa tra assimilazionismo e relativismo culturale», la Corte esclude nel caso di specie che la motivazione culturale possa avere rilievo ai fini di attribuire valenza scriminante alla supposta volontà di aderire alle regole ed alle consuetudini della comunità di appartenenza, posto che il nucleo di tutela della fattispecie di cui all’art. 600 c.p. è da individuare nello statuto complessivo delle libertà di un individuo e che «la condotta dell’imputato ha infranto quelli che sono i confini invalicabili di tutela della persona umana come delineati dall’ordinamento costituzionale e dalle fonti sovranazionali, quel nucleo irrinunciabile dei diritti fondamentali che traccia un limite alla tolleranza nei confronti dei comportamenti culturalmente motivati e allo stesso esercizio, in tali forme, del diritto all’identità culturale».
Resta dunque al di là del caso esaminato l’affermazione della Corte della possibile valorizzazione dell’incidenza del fattore culturale rispetto ad altri elementi strutturali delle fattispecie penali (in particolare il dolo) e al trattamento sanzionatorio (come nel caso di specie avvenuto in appello con il riconoscimento delle attenuanti generiche).
Espulsione quale misura alternativa
Merita infine di essere segnalata una decisione della
Cassazione (n. 34134/2021)
relativa ai presupposti per l’applicazione dell’espulsione quale misura alternativa
ex art. 16, co. 5 TUI.
Il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva rigettato l’opposizione presentata avverso il decreto di espulsione emesso dal Magistrato di sorveglianza ai sensi della predetta disposizione, argomentando che, non essendo stata dimostrata la convivenza dell’espellendo con la figlia minore, cittadina italiana, non sussisteva alcuna delle cause ostative all’espulsione previste dall’art. 19 TUI.
La Cassazione ricorda come, in materia di condizioni ostative all’espulsione, abbiano a lungo convissuto due contrastanti orientamenti. «Quello più rigoroso e, in passato, prevalente, riteneva, valorizzando il tenore letterale delle norme di interesse, che le cause ostative all’espulsione previste dal comma 9 del medesimo articolo, che fa rinvio ai casi di cui al successivo art. 19, hanno carattere eccezionale e non possono, pertanto, essere oggetto di applicazione analogica, con la conseguenza che, ai fini dell’applicazione della misura in questione, non rilevano legami familiari diversi da quelli espressamente contemplati dal comma 2, lett. c), del suddetto art. 19 (…). Stando a questo indirizzo, dunque, gli unici legami rilevanti sarebbero quelli di convivenza con parenti entro il secondo grado o con il coniuge, di nazionalità italiana. Altre pronunzie avevano, invece, stabilito che, ai fini dell’applicazione dell’espulsione dello straniero come misura alternativa alla detenzione, il giudice di sorveglianza non deve limitarsi a verificare che non sussista alcuna delle condizioni ostative previste dall’art. 19 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ma – acquisendo, ove occorra, informazioni – deve procedere, dandone conto in motivazione, ad un’attenta ponderazione della pericolosità concreta ed attuale dello straniero in rapporto alla sua complessiva situazione familiare, alla luce della natura e dell’effettività dei vincoli familiari, della durata del soggiorno in Italia e dell’esistenza di legami familiari, culturali e sociali con il Paese di origine».
Il quadro appena rappresentato è risultato però modificato a seguito dell’entrata in vigore del d.l. n. 130/2020, convertito in l. 173/2020, che ha novellato il terzo periodo dell’art. 19, co. 1.1. TUI, indicando, quale ulteriore causa ostativa all’espulsione, l’esistenza di fondati motivi che inducano a ritenere «che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica, nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea» ed aggiungendo, al periodo successivo, che «ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine».
La novella appena richiamata porta la Cassazione ad affermare «l’illegittimità, quantomeno sopravvenuta, del provvedimento impugnato», esclusivamente incentrato sul presupposto dell’assenza di prova in ordine alla convivenza tra l’espellendo e la figlia minore di nazionalità italiana. Avendo il ricorrente dedotto che il suo allontanamento dal territorio nazionale pregiudicherebbe la relazione con la ragazza, la Cassazione annulla con rinvio il provvedimento impugnato, imponendo al Tribunale di sorveglianza di accertare «se ed in quale misura il rapporto tra l’espellendo e la figlia, per come si è concretamente atteggiato ed a prescindere dalla stabile coabitazione, sarebbe pregiudicato dall’espulsione del ricorrente».