Artt. 2 e 3: Diritto alla vita e divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti
Il caso M.D. e altri c. Russia (Corte Edu, sentenza del 14.09.2021) riunisce diversi ricorsi presentati da cittadini siriani nei cui confronti era stato adottato un ordine di allontanamento per violazione delle norme in materia di immigrazione, essendo rimasti sul territorio russo oltre il termine previsto dai loro rispettivi visti.
Nonostante i ricorrenti avessero avanzato specifiche circostanze personali per lamentare l’eventuale violazione dei diritti protetti dagli articoli 2 e 3 Cedu in caso di allontanamento in Siria, ad avviso dei giudici interni non sussistevano rischi diversi da quelli cui era esposta tutta la popolazione siriana per via dei conflitti in corso. Anche le richieste di protezione internazionale venivano rigettate. Dopo aver radiato dal ruolo i ricorsi di tre ricorrenti, in un caso per il riconoscimento dell’asilo in un altro Stato europeo e per mancanza di contatti con il proprio avvocato negli altri, la Corte Edu osserva come lo Stato convenuto fosse in possesso di sufficienti elementi per valutare i rischi per la vita e l’integrità fisica cui sarebbero potuti essere esposti i ricorrenti in Siria. Infatti, se è vero che i loro resoconti personali risultavano poco dettagliati, in ragione anche degli ostacoli posti a una loro piena partecipazione ai procedimenti interni come, in qualche caso, l’indisponibilità di interpreti, erano disponibili vari rapporti internazionali sulla situazione di violenza in Siria all’epoca dei fatti (ad es. UNHCR, 3 novembre 2017, doc. HCR/PC/SYR/17/01). Ciononostante, come nota la Corte Edu, nessuna valutazione della situazione personale dei ricorrenti era stata compiuta (Corte Edu, 10.10.2019, O.D. c. Bulgaria, in questa Rivista, XXII, 1, 2020; 14.02.2017, S.K. c. Russia, in questa Rivista, XIX, 2, 2017; 15.10.2015, L.M. e altri c. Russia, in questa Rivista, XVII, 3-4, 2015, p. 178). Fornendo essa stessa una valutazione dell’attuale situazione in Siria alla luce dei rapporti internazionali più recenti (ad es. UNHCR, 7 maggio 2020, Country of Origin Note: Participation in Anti-Government Protests; Draft Evasion; Issuance and Application of Partial Amnesty Decrees; Residency in (Formerly) Opposition-Held Areas; Issuance of Passports Abroad; Return and ‘Settling One’s Status’), la Corte Edu ha riscontrato un’intensificazione delle violenze in ogni area del Paese e un continuo ricorso a tortura e sparizioni forzate anche nei confronti di coloro che rientrano dall’estero in ragione di una loro supposta opposizione al governo. I ricorrenti, tutti giovani uomini, non solo sarebbero esposti a tali rischi se allontanati ma, con molta probabilità, verrebbero forzatamente reclutati come combattenti con gravi conseguenze in caso di rifiuto. Per queste ragioni, appare dunque evidente alla Corte Edu che l’eventuale allontanamento dei ricorrenti in Siria darebbe origine a una violazione degli articoli 2 e 3 Cedu. Inoltre, nel caso di due ricorrenti che, inizialmente detenuti in vista del loro allontanamento, erano rimasti in stato di trattenimento anche quando il loro rientro in Siria risultava chiaramente impossibile e senza aver accesso a un mezzo attraverso cui lamentare l’irregolarità di tale detenzione, vi è stata anche una violazione dell’art. 5, par. 1 e 4, Cedu (diritto alla sicurezza e alla libertà personale).
Nel caso M.H. e altri c. Croazia (Corte Edu, sentenza del 18.11.2021) quattordici cittadini afghani, tutti membri di una famiglia composta da padre, le sue due mogli e undici figli, lamentavano numerose violazioni della Cedu in seguito alla morte di una delle figlie avvenuta, nel 2017, lungo la linea ferroviaria al confine tra Croazia e Serbia in occasione di un respingimento informale dal territorio croato e in ragione del trattenimento subito, qualche mese dopo, all’ingresso nello Stato convenuto. Le indagini sulla morte della minore, avviate dalle autorità croate dopo l’azione penale intentata nei confronti dei tre agenti di polizia che li avrebbero respinti, mettevano in luce le contraddizioni nelle versioni fornite dai ricorrenti e, sulla base delle informazioni raccolte dagli agenti accusati, escludevano qualsiasi loro responsabilità. La Corte costituzionale, adita dai ricorrenti, riteneva che le indagini compiute fossero state effettive e conformi all’art. 2 Cedu, letto sotto il profilo procedurale. Qualche mese dopo l’accaduto, i ricorrenti venivano fermati durante un ulteriore tentativo di ingresso in Croazia. Avendo chiesto protezione internazionale, venivano trasferiti in un centro di trattenimento per migranti, ove rimanevano per oltre due mesi. Per le autorità croate, tale trattenimento era necessario per verificare l’identità dei ricorrenti e per evitare il rischio di fuga. Sia i giudici amministrativi sia la Corte costituzionale, chiamati a pronunciarsi tra l’altro sulle condizioni materiali del centro in cui i ricorrenti erano ospitati, ritenevano legittimo e sostanzialmente adeguato il trattenimento loro riservato non sollevando, come precisava la Corte costituzionale, violazioni della Cedu. Mentre le loro richieste di asilo venivano rigettate, una volta trasferiti in una struttura aperta i ricorrenti riuscivano infine a scappare in Slovenia. Dopo aver ritenuto importante valutare il caso ai sensi dell’art. 37 Cedu per le questioni sollevate indipendentemente dalla mancanza di aggiornamenti sulla situazione attuale dei ricorrenti, la Corte Edu esamina la lamentata violazione dell’art. 2 Cedu (diritto alla vita), letto sotto il profilo procedurale. A tal fine, la Corte ha innanzitutto ritenuto utile confermare motu proprio l’applicazione ratione loci della Convenzione. Infatti, anche se la morte del minore è avvenuta in territorio serbo, incombono sullo Stato convenuto gli obblighi procedurali ai sensi dell’art. 2 Cedu, al fine di chiarire le circostanze legate alla morte della bambina, per varie ragioni. Secondo la Corte Edu, appare rilevante non solo l’accusa mossa nei confronti della Croazia di aver causato la morte ma la sua stessa normativa interna prevedeva l’obbligo di accertare eventuali responsabilità degli agenti di polizia, senza contare poi che la stessa Corte costituzionale non aveva messo in discussione l’applicazione della Convenzione nell’ambito dei procedimenti avviati dai ricorrenti. Quanto alle modalità attraverso cui lo Stato convenuto aveva adempiuto a tali obblighi procedurali, la Corte Edu nota come dalle indagini condotte dalle autorità competenti emergano molte lacune. Oltre ad aver posto un’attenzione eccessiva sulle incoerenze tra le versioni dei ricorrenti, ragionevolmente riconducibili anche a errori di interpretariato, nessun tentativo era stato realmente compiuto per accertare i movimenti dei ricorrenti presenti la notte della morte della piccola migrante. È significativo, ad esempio, il fatto di non aver dato seguito alle proposte della Ombudswoman croata, per la quale era opportuno determinare i segnali dei loro cellulari o GPS delle auto della polizia. In assenza di indagini effettive, secondo la Corte Edu vi è stata una violazione dell’art. 2 Cedu, letto sotto il profilo procedurale. Quanto alla lamentata violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di tortura) in ragione delle condizioni materiali del trattenimento subito dai ricorrenti, la Corte Edu si è soffermata soprattutto sulla condizione di vulnerabilità dei ricorrenti di minore età (tra gli altri casi, Corte Edu, 7.12.2017, S.F. e altri c. Bulgaria, in questa Rivista, XX, 1, 2018; 12.07.2016, R.M. e altri c. Francia, A.B. e altri c. Francia, A.M. e altri c. Francia, R.K. e altri c. Francia e R.C. e V.C. c. Francia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Ciò ha comportato una distinzione tra la loro situazione da quella dei ricorrenti adulti. Rispetto ai primi, per quanto i minori fossero accompagnati e le condizioni del centro e i servizi offerti risultassero tutto sommato accettabili, per la Corte Edu la struttura appariva comunque come una prigione date le significative limitazioni della libertà di movimento, la presenza di polizia e l’assenza di personale volto a fornire supporto ludico e psicologico ai minori. Tenuto conto che il trattenimento dei minori si è protratto in tali condizioni per settimane senza che le autorità croate agissero con la dovuta celerità per porvi termine, per la Corte Edu il trattamento subito dai minori ha raggiunto la soglia di gravità prevista dall’art. 3 Cedu. Vi è stata quindi, nei loro confronti, una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti. La medesima violazione dell’art. 3 Cedu non viene, invece, riscontrata nei confronti dei ricorrenti adulti in ragione delle accettabili condizioni materiali di trattenimento. Tutti i ricorrenti hanno comunque sofferto una violazione del diritto alla libertà e sicurezza personale (art. 5 Cedu) perché la loro detenzione non poteva essere “regolare” ai sensi della Convenzione. Infatti, considerato che non si trattava di un caso di trattenimento ai fini del loro allontanamento, i ricorrenti erano stati privati della loro libertà al fine di verificare le loro identità senza, tuttavia, sondare in via preliminare la disponibilità di alternative dato il coinvolgimento di minori o effettuare tali controlli e valutare le loro domande di asilo con la dovuta celerità. Infine, per la Corte Edu i ricorrenti hanno subito anche: una violazione del divieto di espulsioni collettive (art. 4, Quarto Protocollo alla Cedu) poiché, in assenza di prove contrarie da parte dello Stato convenuto, il giorno della morte della minore molti dei ricorrenti erano stati respinti in Serbia senza alcun esame delle loro circostanze personali (cfr. Corte Edu, 23.7.2020, M.K. e altri c. Polonia, in questa Rivista, XXII, 3, 2020), tenendo anche conto dell’inesistenza di canali di ingresso legali in Croazia (Grande Camera, 13.02.2020, N.D. e N.T. c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 2, 2020); una violazione del diritto al ricorso individuale (art. 34 Cedu) in ragione dei vari ostacoli posti dalle autorità croate alle comunicazioni tra i ricorrenti e il loro avvocato, compreso l’avvio di un procedimento nei confronti di quest’ultimo per presunta falsificazione delle firme dei ricorrenti nelle iniziali procure nonostante tale accusa fosse stata chiaramente smentita dagli stessi ricorrenti.
Con il caso Savran c. Danimarca (Corte Edu, Grande Camera, sentenza del 7.12.2021) la Grande Camera della Corte Edu si pronuncia sul ricorso di un cittadino turco che, dopo essere stato residente in Danimarca fin dall’età di sei anni, veniva condannato per fatti di violenza particolarmente gravi e infine allontanato nel suo Paese di origine. Per il ricorrente, affetto da una seria forma di schizofrenia, tale allontanamento era contrario all’art. 3 Cedu per l’indisponibilità in Turchia di cure adeguate al suo precario stato di salute. Sulla base dei principi elaborati in materia dalla Corte (Corte Edu, Grande Camera, 13.12.2016, Paposhvili c. Belgio, in questa Rivista, XIX, 1, 2017), la Camera (Quarta sezione) aveva ritenuto sussistente il rischio di violazione della Cedu, anche alla luce del mancato ottenimento di garanzie dalle autorità turche in merito all’adeguatezza delle cure disponibili rispetto alla complessa situazione medica del sig. Savran (cfr. Corte Edu, 1.10.2019, Savran c. Danimarca, in questa Rivista, XXII, 1, 2020). Anche la Grande Camera ha ricordato come il rischio di subire trattamenti inumani o degradanti nel Paese di destinazione possa derivare, in casi eccezionali, da circostanze di natura umanitaria, specie quando la privazione delle cure disponibili nel Paese ospitante sia tale da condurre la persona interessata alla morte o comunque da accelerare, in modo irreversibile, il declino del suo stato di salute (recentemente, Corte Edu, 24.6.2021, Khachaturov c. Armenia, in questa Rivista, XXIII, 3, 2021). Tuttavia, se le autorità interne sono tenute a condurre un esame approfondito delle circostanze personali e della situazione cui sarebbe esposta la persona interessata nel Paese di destinazione, la Grande Camera ha precisato come non si possa, quantomeno indirettamente, derivare dall’art. 3 Cedu un diritto all’ottenimento di uno specifico trattamento medico nel Paese di destinazione, specie quando tali cure non sono disponibili al resto della popolazione. Nel riaffermare, pertanto, una lettura tutto sommato restrittiva dello standard stabilito in materia in Paposhvili c. Belgio (cit., supra), da cui si sarebbe distanziata la Camera secondo il giudizio della Grande Camera, non si può ritenere che l’allontanamento del ricorrente in Turchia lo abbia esposto a un “grave, rapido e irreversibile” declino del suo stato di salute tale da generare intense sofferenze o, addirittura, la morte. Pertanto, nonostante le precarie condizioni mediche legate alla sua schizofrenia, la situazione del ricorrente non è tale da raggiungere il livello di serietà richiesto in questi casi per accertare una violazione dell’art. 3 Cedu. Per la Grande Camera, vi è stata invece una violazione del diritto al rispetto alla vita privata del sig. Savran (art. 8 Cedu) perché le autorità danesi, nell’applicare i criteri stabiliti nella giurisprudenza della Corte Edu per valutare la compatibilità dell’allontanamento di una persona adulta che ha vissuto gran parte della sua vita nello Stato convenuto con l’art. 8 Cedu (v. Corte Edu, Grande Camera, 18.10.2006, Üner c. Paesi Bassi, oltre la giurisprudenza richiamata sotto Art. 8 Cedu, infra), non hanno adeguatamente bilanciato gli interessi – individuali e collettivi – in gioco. Infatti, per quanto l’interferenza subita dal ricorrente nel godimento del suo diritto al rispetto per la vita privata sia prevista dalla legge e persegua uno dei fini previsti dal par. 2, art. 8 Cedu, essa non risulta necessaria in una società democratica. In particolare, i giudici interni non sembrano aver tenuto adeguatamente conto, nel valutare la gravità dei reati commessi, la precaria salute mentale del ricorrente, i progressi compiuti dopo le violenze di cui era stato ritenuto responsabile, del legame esistente con la Danimarca e l’impossibilità di poter anche solo rientrare nello Stato convenuto per via del contestuale divieto permanente – di fatto irrevocabile – di re-ingresso.
In D.I. c. Bulgaria (Corte Edu, sentenza del 14.12.2021) la Corte Edu è chiamata a esaminare il ricorso di un cittadino del Kirghizistan, ove era stato condannato per frode, che temeva di subire torture o altri trattamenti contrari all’art. 3 Cedu nel caso in cui la Bulgaria avesse accolto la richiesta di estradizione avanzata dalle autorità kirghise. Tali rischi erano stati ritenuti insussistenti sia dai giudici aditi dal ricorrente nell’ambito del procedimento di estradizione, sia dalle autorità chiamate a decidere sulla sua domanda di protezione internazionale. Queste ultime notavano, in particolare, come il sig. D.I. non facesse parte di un gruppo ritenuto vulnerabile in Kirghizistan per il quale poteva sussistere un alto rischio di subire trattamenti vietati dall’art. 3 Cedu. Dopo aver ricordato come occorra verificare tanto la situazione generale del Paese di destinazione quanto le circostanze specifiche della persona interessata per stabilire l’esistenza di un rischio reale di violazione dell’art. 3 Cedu (tra gli altri, Corte Edu, Grande Camera, F.G. c. Svezia, 23.03.2016, in questa Rivista, XIX, 1, 2017), la Corte Edu non ha riscontrato alcun elemento utile a tal fine. Infatti, da un punto di vista generale, la situazione in Kirghizistan è sostanzialmente migliorata. Oltre ad aver ratificato numerosi trattati sui diritti umani e a collaborare con gli organi delle Nazioni Unite competenti in materia, nel 2014 il Kirghizistan ha anche istituito un meccanismo nazionale di prevenzione della tortura, ai sensi del Protocollo facoltativo alla Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, che opera in modo indipendente ed effettua visite periodiche ai detenuti. Nonostante persistano alcune denunce in senso contrario, non si può ritenere che il Kirghizistan ricorra sistematicamente alla tortura o lasci impuniti i responsabili, come confermano anche i recenti rapporti dell’Unione europea (cfr. Rapporti annuali dell’Ue sui diritti dell’uomo e la democrazia, 2019 e 2020). Quanto alla sua situazione personale, per la Corte Edu appare significativo che il ricorrente non sia stato condannato nel suo Paese per ragioni politiche e non vi siano indizi sufficienti per ritenere che possa essere perseguitato per la sua opposizione al vecchio regime, tenuto anche conto della situazione e del ruolo ricoperto dal padre parlamentare della nuova legislatura. Inoltre, le autorità bulgare hanno dato prova di un esame sufficientemente dettagliato del suo caso eliminando, anche in ragione delle garanzie fornite dallo Stato di destinazione, i dubbi sul rischio di un’eventuale violazione dell’art. 3 Cedu. Per tutti questi motivi, secondo la Corte Edu, l’allontanamento del sig. D.I. in Kirghizistan non darebbe origine a una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti.
Il caso Aarrass c. Belgio (Corte Edu, decisione del 30.9.2021) riguarda un ricorrente con doppia cittadinanza belga-marocchina che veniva arrestato a Melilla, su richiesta delle autorità del Marocco, per la sua presunta appartenenza a movimenti terroristici. Trasferito in Marocco, il sig. Aarrass veniva condannato a dodici anni di detenzione. In ragione delle severe condizioni di trattenimento, il ricorrente chiedeva ripetutamente l’intervento delle autorità belghe. Con un ricorso presentato al Tribunale di Bruxelles, il ricorrente chiedeva di obbligare il Belgio a garantirgli protezione consolare o, comunque, a intraprendere azioni volte a tutelare il suo benessere psico-fisico presso le autorità marocchine. Secondo il giudice di primo grado, sulla base della Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni consolari (cfr. art. 36), al ricorrente doveva essere assicurato un contatto con le autorità consolari belghe sul posto qualora ne avesse fatto richiesta. Nel dare seguito a tale decisione, il Belgio incontrava tuttavia una forte opposizione delle autorità marocchine in quanto non ritenevano opportuno, con la prassi seguita fino a quel momento, che venisse garantita assistenza consolare a un cittadino (anche) marocchino. Tenuto conto che la Corte di cassazione belga si pronunciava, successivamente, ritenendo inesistente un obbligo di assistenza consolare ai sensi della sopra menzionata Convenzione di Vienna, il ricorrente riusciva a rientrare in Belgio solo dopo aver scontato la sua condanna. Lamentava quindi una violazione dell’art. 3 Cedu perché lo Stato convenuto non aveva posto fine alle gravi condizioni di trattenimento riservategli dal Marocco. Dopo aver rigettato le obiezioni dello Stato convenuto sul mancato esaurimento dei ricorsi interni, la Corte Edu ha ritenuto che le autorità del Belgio non fossero rimaste passive rispetto alla situazione del ricorrente. Anzi, anche se il diritto belga non prevedeva l’assistenza consolare per individui con doppia cittadinanza e nonostante i risultati effettivamente ottenuti, lo Stato convenuto era intervenuto più volte a favore del sig. Aarrass con le autorità marocchine e, appena liberato, aveva indicato il suo rientro come prioritario nonostante le restrizioni legate alla pandemia in corso. Per queste ragioni, per la Corte Edu, il ricorso del sig. Aarrass risulta infondato e, come tale, inammissibile.
Art. 4: Divieto di schiavitù o lavoro forzato
Con il caso Zoletic e altri c. Azerbaijan (Corte Edu, sentenza del 7.10.2021) la Corte Edu è chiamata a esaminare il ricorso di numerosi cittadini della Bosnia ed Erzegovina che lamentavano di essere stati vittime di lavoro forzato e traffico di essere umani in seguito al reclutamento, da parte della compagnia azera Serbaz, per lavori nel campo dell’edilizia con regolare contratto e buone condizioni occupazionali. Secondo la loro versione dei fatti, una volta giunti in Azerbaijan con un visto turistico, i ricorrenti venivano privati dei loro passaporti, accolti in alcuni dormitori senza servizi essenziali come acqua potabile e riscaldamento, sottoposti a lunghi turni di lavoro e puniti in caso di mancato rispetto delle regole di comportamento imposte, come il divieto di allontanamento dai dormitori dopo il lavoro. Non ricevendo il salario stabilito, tutti i ricorrenti rientravano nel loro Paese dopo circa sei mesi presentando, subito dopo, un ricorso presso il competente tribunale azero volto a ottenere le somme non corrisposte e il risarcimento dei danni subiti. In tutti i gradi di giudizio, tale ricorso veniva rigettato in ragione, tra l’altro, della mancanza di prove rispetto alle condizioni di sfruttamento denunciate. Dopo aver deciso di esaminare il caso sotto il profilo del par. 2, art. 4 Cedu (divieto di lavoro forzato), specie in relazione all’obbligo di avviare indagini effettive per identificare e punire eventuali responsabili di lavoro forzato o traffico di essere umani (cfr. Corte Edu, 18.07.2019, T.I. e altri c. Grecia, in questa Rivista, XXI, 3, 2019), la Corte Edu ha ritenuto applicabile tale disposizione poiché i ricorrenti avevano avanzato sufficienti elementi dinanzi le autorità azere per attivare tale obbligo procedurale. A tal fine, la Corte Edu nota come gli elementi indicativi di una situazione di lavoro forzato, già piuttosto evidenti nelle denunce presentate dai ricorrenti, fossero innanzitutto confermati sia dai rapporti pubblicati nell’ambito di organizzazioni internazionali (ad es. i rapporti GRETA e ECRI) e organizzazioni non governative sia dall’avvio di procedimenti penali in Bosnia ed Erzegovina per reati connessi al traffico di essere umani a carico di soggetti legati al reclutamento di forza lavoro per la stessa compagnia Serbaz, con connesse richieste di assistenza giudiziaria alle autorità azere. Considerata la particolare situazione di vulnerabilità in cui si erano trovati i ricorrenti, quali migranti irregolari senza risorse, tali elementi non potevano essere messi in discussione in ragione del loro iniziale consenso a lavorare in Azerbaijan. Infatti, per quanto il termine lavoro forzato solitamente rimandi a casi di coercizione fisica o mentale, in tale nozione possono rientrare anche situazioni in cui un individuo ha inizialmente fornito il proprio consenso e compie il proprio lavoro sotto minacce fisiche o psicologiche. Inoltre, alla luce degli strumenti internazionali specificamente dedicati al contrasto del traffico di essere umani, per la Corte Edu i ricorrenti avevano avanzato motivi sufficienti per sospettare che si trovassero anche in una siffatta condizione. In effetti, tenendo presente la definizione di traffico di essere umani che emerge da quei trattati, i ricorrenti erano stati trasportati in Azerbaijan dopo essere stati reclutati con l’inganno ai fini di sfruttamento lavorativo. Come ha ricordato la Corte, quando una delle Parti è a conoscenza o dovrebbe ragionevolmente sospettare che un individuo sia la potenziale vittima di una violazione dell’art. 4 Cedu, essa è obbligata ad avviare indagini volte a raccogliere prove e chiarire i fatti nonché l’adozione di tutte le misure necessarie per rimuovere tale individuo da t situazione (cfr. anche 21.01.2016, L.E. c. Grecia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017; 7.01.2010, Rantsev c. Cipro e Russia). Nel caso dei ricorrenti, nonostante lo Stato convenuto fosse dotato all’epoca dei fatti di un quadro normativo adeguato per tutelare gli individui da lavoro forzato e da traffico di essere umani e non potesse ignorare la loro situazione, non ha avviato alcuna indagine volta a chiarire le circostanze da loro lamentate. Pertanto, vi è stata una violazione dell’art. 4, par. 2.
Art. 6: Diritto a un equo processo
Nel caso Jallow c. Norvegia (Corte Edu, sentenza del 2.12.2021) un cittadino del Gambia lamentava la violazione dell’art. 6 (diritto a un equo processo) e dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) Cedu per non aver ricevuto un visto di ingresso in Norvegia che gli avrebbe consentito di partecipare, in modo effettivo, al procedimento avviato dopo la morte della sua ex moglie relativo per determinare la responsabilità genitoriale del figlio biologico da lui mai riconosciuto. Le autorità norvegesi competenti avevano rigettato la richiesta di visto sulla base dell’alto numero di persone che, una volta scaduti i termini di validità, non rientravano nel Paese di origine. Tale decisione veniva confermata nonostante la stessa Corte Suprema avesse, inizialmente, comunicato al Dipartimento competente per l’immigrazione la propria preferenza per una partecipazione in presenza del ricorrente. Dopo aver comunque garantito il suo coinvolgimento attraverso strumenti di videoconferenza, il procedimento si concludeva con il rigetto della richiesta del sig. Jallow volta a ottenere la responsabilità genitoriale del figlio. Esaminando il ricorso unicamente sotto il profilo dell’art. 6 Cedu, la Corte Edu ha ricordato come il diritto all’equo processo non abbia carattere assoluto e sia volto a garantire che tutte le parti di un processo abbiano le stesse possibilità di presentare effettivamente il proprio caso. Rispetto alla violazione lamentata dal sig. Jallow, occorre pertanto verificare se, a causa del mancato rilascio di un visto di ingresso, egli sia stato posto in una situazione di sostanziale svantaggio rispetto alle altre parti, tenendo anche conto della necessità che la responsabilità genitoriale fosse stabilita nel più breve tempo possibile alla luce del preminente interesse del minore coinvolto. Per la Corte Edu, il sig. Jallow ha potuto seguire l’intero procedimento via Skype e ha potuto comunicare senza particolari ostacoli con il suo avvocato, la cui presenza è stata assicurata durante tutte le udienze. Pertanto, non essendovi dubbi sulla possibilità del ricorrente di presentare adeguatamente le sue ragioni nonostante il mancato rilascio del visto, per la Corte Edu nel suo caso non vi è stata violazione dell’art. 6 Cedu.
Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare
In Abdi c. Danimarca (Corte Edu, sentenza del 14.09.2021) un ricorrente di origine somala, che aveva vissuto in Danimarca dall’età di 4 anni, lamentava una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare a causa dell’allontanamento e del contestuale divieto di re-ingresso permanente decisi dai giudici danesi a seguito dei suoi precedenti penali, anche per droga e possesso illegale d’armi. Valutando il caso unicamente sotto il profilo della vita privata, per via del lungo soggiorno del ricorrente in Danimarca e l’assenza di una propria famiglia (tra gli altri, Corte Edu, 12.01.2021, Khan c. Danimarca, in questa Rivista, XXIII, 2, 2021), la Corte Edu nota come la misura imposta al sig. Abdi sia prevista dalla legge e persegua fini legittimi ai sensi del par. 2, art. 8 Cedu. Quanto alla sua necessità in una società democratica, per la Corte le autorità danesi dovevano avanzare ragioni particolarmente serie per giustificare l’allontanamento e il divieto di re-ingresso di una persona che, in sostanza, non ha mai vissuto nel suo Paese di origine. Secondo la Corte, nonostante la gravità dei reati commessi durante la minore età e la fattibilità di un eventuale rientro in Somalia tenuto conto della sua conoscenza della lingua e della società somala, un divieto di re-ingresso permanente rappresenta una misura eccessiva alla luce dei forti legami stabiliti dal ricorrente con la Danimarca. A tal fine, appare anche significativo che il ricorrente, una volta raggiunta la maggiore età, non aveva più posto un serio pericolo per l’ordine pubblico e che le autorità danesi non lo avevano mai ammonito prospettandogli l’adozione di un eventuale divieto permanente. Pertanto, nel caso del sig. Abdi, per la Corte Edu vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu.
Anche il caso Avci c. Danimarca (Corte Edu, sentenza del 30.11.2021) riguarda un lungo soggiornante in Danimarca che lamentava una violazione dell’art. 8 Cedu in ragione dell’allontanamento nel suo Paese di origine e del contestuale divieto di re-ingresso. Nonostante le difficoltà che il sig. Avci potesse sperimentare nel trasferirsi in Turchia, per la Suprema Corte danese tali provvedimenti erano giustificati, specie in ragione della gravità dei reati da lui commessi, inclusi il possesso e il traffico di stupefacenti. Valutando anche il caso del sig. Avci sotto il profilo della vita privata in assenza, in Danimarca, di moglie e figli o legami di dipendenza con altri familiari adulti, la Corte Edu ha preso atto dell’attento esame operato dai giudici interni alla luce della giurisprudenza rilevante in materia dell’art. 8 Cedu (ad es., Corte Edu, 14.09.2017, Ndidi c. Regno Unito, in questa Rivista, XX, 1, 2018) e ha quindi concentrato il suo esame sull’esistenza di ragioni particolarmente serie per interferire in modo così significativo nella vita di una persona che ha, praticamente da sempre, vissuto legalmente nello Stato convenuto. A tal fine, nonostante la natura permanente del divieto di re-ingresso, per la maggioranza della Corte Edu i giudici interni hanno avanzato motivi sufficientemente adeguati, specie la pericolosità del ricorrente per l’ordine pubblico, e hanno applicato i criteri sviluppati dalla stessa Corte tenendo conto, ad esempio, dell’esistenza di sufficienti legami con il Paese di destinazione tali da permetterne il trasferimento (cfr. tuttavia l’opinione dissenziente dei giudici Ranzoni, Pejchal e Yüksel). Pertanto, per la Corte l’allontanamento del sig. Avci non ha dato origine a una violazione dell’art. 8 Cedu.
Nel caso Alami c. Francia (Corte Edu, decisione del 16.12.2021) la Corte Edu ha ritenuto inammissibile il ricorso di un cittadino marocchino, giunto in Francia all’età di 24 anni e condannato per stupro e altri reati, su cui pende un ordine di allontanamento. Secondo il sig. Alami, tale allontanamento rappresenta un’interferenza eccessiva nel godimento del suo diritto protetto dall’art. 8 Cedu, specie in relazione al rapporto con i figli che vivono in Francia. Dopo aver verificato, ai sensi del par. 2 dell’art. 8 Cedu, che la misura imposta al ricorrente sia prevista dalla legge e persegua uno dei fini legittimi in esso contemplati, la Corte Edu osserva come, sulla base dei principi enunciati nella sua giurisprudenza (cfr. Corte Edu, Ndidi c. Regno Unito, cit., e Grande Camera, Üner c. Paesi Bassi, cit.), le autorità francesi abbiano operato un giusto equilibrio tra gli interessi – individuali e collettivi – in gioco. Infatti, la proporzionalità dell’allontanamento rispetto alla gravità delle condanne subite è stata valutata tenendo conto, in particolare, del lungo periodo di soggiorno in Francia, dei limitati contatti con i figli – oramai adulti – in seguito al divorzio dalla moglie, dello scarso livello di integrazione lavorativa e sociale e del mantenimento di significativi legami con il Paese di origine. Pertanto, anche alla luce del margine di apprezzamento riconosciuto alle Parti in materia, l’allontanamento del ricorrente non comporterebbe un’interferenza eccessiva nel godimento del suo diritto al rispetto della vita familiare, tale cioè da risultare in contrasto con l’art. 8 Cedu.
In Melouli c.Francia (Corte Edu, decisione del 25.11.2021) un ricorrente algerino, arrivato in Francia nel 1977 all’età di 9 anni e ivi regolarmente residente fino al 2007, lamentava una violazione dell’art. 8 Cedu causata dal rigetto della sua richiesta, presentata nel 2017, volta a regolarizzare il suo soggiorno nello Stato convenuto e dal contestuale ordine di allontanamento adottato nei suoi confronti. A suo avviso, le autorità francesi non avevano esaminato in modo adeguato la sua situazione familiare poiché la sua permanenza in Francia era indispensabile per via dei problemi di salute di alcuni membri della sua famiglia. La Corte Edu osserva, innanzitutto, come la situazione del ricorrente non possa essere valutata alla luce dei criteri stabiliti nella sua giurisprudenza per gli allontanamenti di migranti di lungo periodo (cfr. supra). Infatti, il sig. Melouli non aveva sufficientemente dimostrato di aver continuato a risiedere in Francia anche dopo il 2007. La sua situazione deve, invece, essere esaminata sotto il profilo di un eventuale obbligo positivo per lo Stato convenuto di ammettere il ricorrente affinché egli possa continuare la sua vita familiare in Francia (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, 3-4, 2014; Grande Camera, M.A. c. Danimarca, 9.7.2021, in questa Rivista, XXIII, 3, 2021). A tal fine, la Corte Edu ricorda come i legami tra figli adulti e genitori o tra fratelli e sorelle adulti non rientrino sotto il profilo della vita familiare di cui all’art. 8 Cedu, salvo particolari relazioni di dipendenza. Tuttavia, se è vero che il ricorrente non sia stato in grado di dimostrare dinanzi le autorità interne tale dipendenza, queste ultime hanno effettuato un esame attento circa la proporzionalità dell’allontanamento, tenendo conto dell’assenza di moglie o figli in Francia, del mantenimento di legami con il Paese di origine e della possibilità che i contatti con i membri della sua famiglia potessero comunque essere mantenuti a distanza. Ciò ha condotto la Corte Edu a ritenere sostanzialmente corretto il bilanciamento tra interessi individuali e collettivi operato dallo Stato convenuto nel caso del sig. Melouli, dichiarando il ricorso di quest’ultimo inammissibile.
La Corte Edu giunge alla medesima conclusione anche nel caso Ngumbu Kikoso c. Francia (Corte Edu, decisione del 25.11.2021) riguardante un cittadino congolese che, a seguito di una condanna per falsificazione di documenti, veniva interdetto dal territorio francese per dieci anni. Per questa ragione, il suo permesso di soggiorno per motivi familiari non veniva rinnovato dando origine, a suo avviso, a una violazione dell’art. 8 Cedu. Tenendo conto dei principi consolidati in materia (oltre ai casi Ndidi c. Regno Unito e Üner c. Paesi Bassi sopra citati, cfr. anche Corte Edu, 16.04.2013, Udeh c. Svizzera, in questa Rivista, XV, 2, 2013, p. 89), per la Corte Edu i giudici interni hanno esaminato attentamente la situazione del ricorrente giungendo a una corretta conclusione circa la proporzionalità delle misura adottata nei suoi confronti rispetto alla necessità di tutelare l’ordine pubblico e di prevenire l’attività criminale. Del resto, nonostante il lungo soggiorno del sig. Ngumbu Kikoso nello Stato convenuto, le autorità francesi avevano correttamente tenuto conto della gravità delle condanne subite e dell’assenza di legami familiari significativi in Francia. Pertanto, ritenendolo infondato, la Corte Edu ha dichiarato il suo ricorso inammissibile.
Si segnala, infine, come la Grande Camera della Corte Edu abbia confermato la violazione dell’art. 8 Cedu lamentata dalla sig.ra Abdi Ibrahim, cittadina di origine somala, per essere stata privata della responsabilità genitoriale e per i successivi affidamento e adozione del figlio presso una famiglia con differenti convinzioni religiose (Corte Edu, Grande Camera, Abdi Ibrahim c. Norvegia, sentenza del 10.12.2021). Pur giungendo alla stessa conclusione della Camera (seconda sezione) (cfr. Corte Edu, 17.12.2019, Abdi Ibrahim c. Norvegia, in questa Rivista, XXII, 1, 2020), la Grande Camera ha sottolineato come il caso dovesse essere valutato sotto il profilo dell’art. 8 Cedu letto e applicato alla luce dell’art. 9 Cedu (libertà di religione), dato che crescere i figli sulla base delle proprie convinzioni religiose può essere visto come un modo attraverso cui manifestare il proprio credo. Nonostante sullo Stato convenuto gravasse l’obbligo di facilitare il ricongiungimento tra la ricorrente e il figlio, esso ha invece disposto l’adozione di quest’ultimo senza operare un adeguato bilanciamento di tutti gli interessi in gioco, compresi quelli della ricorrente, e senza prendere realmente in considerazione alternative volte a mantenere un legame con la madre. Inoltre, anche se i giudici interni avevano inizialmente preso in considerazione la possibilità di affidare il minore a una famiglia musulmana, nel corso del procedimento di adozione l’interesse della ricorrente volto ad assicurare che il minore mantenesse un legame con il suo background etnico-religioso è stato ignorato. Pertanto, nel caso della sig.ra Abdi Ibrahim, per la Grande Camera vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu.
La rassegna relativa agli artt. 2-3 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 4-8 è di C. Danisi.