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Fascicolo 2, Luglio 2022


Vivere una sola vita /in una sola città / in un solo Paese / in un solo universo/ vivere in un solo mondo / è prigione.
Amare un solo amico, /un solo padre, / una sola madre, / una sola famiglia / amare una sola persona / è prigione.
Conoscere una sola lingua, /un solo lavoro, / un solo costume, / una sola civiltà / conoscere una sola logica / è prigione.
Avere un solo corpo, / un solo pensiero, / una sola conoscenza, / una sola essenza / avere un solo essere / è prigione.

(Ndjock Ngana, Prigione, in Nhindo nero, Edizioni Anterem, 1994)

Asilo e protezione internazionale

LO STATUS DI RIFUGIATO

Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
La Suprema Corte, con ordinanza n. 676 del 12.1.2022, pronunciandosi su un ricorso proposto da una donna vittima di tratta a fini sessuali, ha precisato che qualora la tratta abbia come vittime le donne, specie ove siano giovani, prive di validi legami familiari e provenienti da zone povere, essa può considerarsi atto persecutorio in quanto riconducibile all’appartenenza ad un «particolare gruppo sociale» costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata e cioè l’appartenenza al genere femminile.
 
Ancora con riferimento al ricorso proposto da una donna vittima di tratta, il  Tribunale di Genova, con decreto del 3.4.2022 , dopo aver ribadito come le donne costituiscano un esempio di un sottoinsieme sociale di individui che sono definiti da caratteristiche innate e immutabili e sono spesso trattate in modo diverso rispetto agli uomini (e possono, pertanto, in questo senso, essere considerate un particolare gruppo sociale) si è soffermato sulla rilevanza degli indicatori di tratta. Di particolare rilievo quanto osservato in merito al fatto che la stessa reticenza con cui la donna aveva riferito di non essere attualmente più a rischio di sfruttamento di induzione alla prostituzione e di non essere in pericolo, deve essere considerata non tanto come una contraddizione a pregiudizio della sua credibilità quanto piuttosto un rilevante indicatore della sua attuale e persistente condizione di vittima di tratta degli esseri umani, in quanto ancora assoggettata al controllo ed alla volontà di persone terze.
Sulla rilevanza degli indicatori di tratta, alla luce delle linee guida per le Commissioni territoriali per l’identificazione delle vittime di tratta redatte dall’UNHCR, in collaborazione con la Commissione nazionale per il diritto d’asilo, si soffermano anche il  Tribunale di Venezia, con decreto del 17.2.2022  ed il  Tribunale di Catania, con decreto del 31.1.2022 .
 
Il  Tribunale di Bologna, con decreto dell’8.1.2022 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Mali ritenuto credibile in merito al suo orientamento omosessuale. In particolare i giudici bolognesi, dopo un’accurata analisi della credibilità del ricorrente (compiuta alla luce delle Linee Guida n. 9 elaborate dall’UNHCR), rilevano come in Mali l’omosessualità non sia vietata, ma neanche accettata, e come, alla luce della condizione di violenza diffusa da conflitto armato, lo Stato maliano non possa essere considerato un agente di protezione.
A medesime conclusioni giunge il Tribunale di Bologna, con decreto del 6.4.2022 , decidendo un ricorso proposto da un cittadino del Camerun, fuggito dal proprio Paese d’origine perché accusato di aver compiuto «atti sessuali con una persona dello stesso sesso» ed ivi successivamente rimpatriato e poi incarcerato (fino alla successiva e nuova fuga). Con riferimento al rischio prognostico che il ricorrente, come tutte le persone LGBTIQ, correrebbe in caso di rientro in Camerun, il Collegio osserva come, alla luce delle numerose ed aggiornate fonti di informazioni consultate, non vi sia dubbio sul fatto che la legislazione camerunese sanzioni penalmente con pena detentiva l’omosessualità, sia sul fatto che tali sanzioni vengano effettivamente applicate, visto che la polizia indaga sui casi di omosessualità che vengono denunciati, con metodologie non conformi al rispetto dei diritti umani.
 
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 8980 del 18.3.2022, decidendo sul ricorso proposto da una giovane cittadina nigeriana, vittima di mutilazione genitale, ha affermato che tali atti (che rappresentano violazioni dei diritti delle donne alla non discriminazione, alla protezione dalla violenza sia fisica che psicologica, alla salute e financo alla vita) costituiscono atti di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale che giustificano il riconoscimento dello status di rifugiato.
 
Il  Tribunale di Milano, con decreto del 9.2.2022 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Senegal, affetto da albinismo oculare. Nella decisione in esame, i giudici meneghini hanno sottolineato come, alla luce delle aggiornate e pertinenti fonti di informazione consultate in ossequio al dovere di cooperazione, emerge che in Senegal i malati di albinismo vengono percepiti come soggetti soprannaturali o spiriti che spesso vengono mutilati o uccisi affinché le loro parti del corpo vengano utilizzate nei rituali di stregoneria. Da tale considerazione deriva che costoro vengono considerati come appartenenti ad un gruppo sociale distinto da quello della restante popolazione, nei confronti del quale vengono attuate forme di discriminazioni che possono manifestarsi sotto forma di violenze fisiche (specificamente allegate dal ricorrente).
 
Opinioni politiche
Con ordinanza n. 5211 del 17.2.2022, la Corte di cassazione – pronunciandosi sul ricorso proposto da un cittadino egiziano il quale, pur non avendo prospettato che dal proprio arruolamento sarebbe conseguito il rischio di essere coinvolto in un conflitto caratterizzato da violazioni sistematiche dei diritti umani da parte dei militari, aveva allegato che il rifiuto di prestare il servizio di leva avrebbe comportato l’essere considerato un oppositore del governo egiziano – ha precisato come, per valutare la fondatezza del timore di subire un atto persecutorio per renitenza alla leva, alla luce dell’interpretazione della CGUE 26 febbraio 2015 (causa C-472/13, Shepherd c. Germania), il giudice sia tenuto a valutare se le azioni giudiziarie e le sanzioni in cui incorrerebbe il richiedente nel suo Paese di origine, a causa del suo rifiuto di prestare servizio militare, siano sproporzionate rispetto a quanto necessario allo Stato per esercitare il suo legittimo diritto di mantenere una forza armata e se le stesse presentino carattere discriminatorio.
Con specifico riferimento alle sanzioni penali previste nel caso di renitenza alla leva la Suprema Corte – ordinanza n. 7047 del 3.3.2022 – decidendo sul ricorso proposto da un cittadino proveniente dall’Ucraina che aveva allegato di essere obiettore di coscienza ha affermato che il pregiudizio derivante dalla chiamata obbligatoria alle armi non è legato alla ricezione dell’avviso di arruolamento (ricezione della quale, ad avviso della Corte territoriale, non sarebbe stata fornita la prova), ma al fatto che il soggetto, in quanto anagraficamente appartenente ad un determinato scaglione, sia inserito negli elenchi di chiamata.
 
Cause di esclusione dello status di rifugiato
Il  Tribunale di Venezia, con decreto del 23.12.2021  nell’esaminare la domanda di protezione internazionale spiegata da un ricorrente tunisino nei confronti del quale la Commissione territoriale – ritenendo il ricorrente un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, in ragione della commissione di reati di spaccio di sostanze stupefacenti e lesioni personali – aveva rigettato la domanda di protezione, ritenendo sussistenti i presupposti per la protezione speciale, si è soffermato sulle cause di esclusione. In particolare, i giudici veneziani hanno affermato che, per valutare la pericolosità sociale del ricorrente, vittima di tratta ai fini dello sfruttamento nelle attività di vendita di sostanze stupefacenti e soggetto al rischio di re-trafficking, occorre avere riguardo alla specifica situazione individuale del richiedente ed alla tipologia di reati commessi. Nel caso in esame, esaminati i reati commessi dal ricorrente alla luce della condizione di grave vulnerabilità e sfruttamento nella quale egli si trovava, il Collegio ha ritenuto insussistente la causa di esclusione e, in ragione della condizione di vittima di tratta e di rischio di essere nuovamente assoggettato a tale forma di violenza, ha riconosciuto lo status di rifugiato.
 
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
 
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. b)
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 3336 del 3.2.2022 – decidendo sul ricorso proposto da un cittadino del Gambia, che aveva allegato di essere fuggito dal Paese d’origine per sfuggire alla pena detentiva a vita che gli sarebbe stata irrogata in seguito alla commissione del reato di violenza sessuale – si è soffermata sulla questione relativa all’esposizione al trattamento penale della reclusione a vita ed alla sua riconducibilità ad una delle ipotesi di protezione sussidiaria. Nella decisione in esame, gli Ermellini hanno precisato che la fattispecie di cui all’art. 14, lett. b), d.lgs. n. 251 del 2007 collega la definizione di «danno grave» alle modalità di esecuzione della pena ovvero al trattamento carcerario applicato e, pertanto, non consente di qualificare come «danno grave», ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, l’irrogazione di una pena ritenuta sproporzionata rispetto al delitto commesso.
Ancora con riferimento alla nozione di «grave danno», la Suprema Corte, con ordinanza n. 6109/2022, ha affermato che gli atti di violenza domestica (nel caso di specie si trattava di violenze ripetutamente subite da una giovane donna nigeriana da parte del padre, nel di lui tentativo di opporsi ad una relazione sentimentale dalla stessa intrattenuta con un connazionale), così come intesi dall’art. 3 della Convenzione di Istanbul dell’11.5.2011, quali limitazioni al godimento di diritti umani fondamentali, possono integrare i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, in termini di «rischio effettivo» di danno grave per «trattamento inumano e degradante», qualora, come nel caso di specie, le autorità statuali non contrastino tali violenza e non offrano una protezione effettiva alla vittima.
 
Il  Tribunale di Perugia, con decreto del 16.3.2022  ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino del Ghana (il quale aveva riferito di essere ricercato dalla polizia per omicidio colposo) in ragione del ritenuto rischio effettivo di trovarsi nelle condizioni inumane e degradanti in cui versano le strutture carcerarie ghanesi, in cui, alla luce delle accurate ed aggiornate fonti internazionali consultate dal Collegio, non sono assicurate condizioni di vita rispettose del nucleo minimo dei diritti umani.
 
Il rischio effettivo di subire un «grave danno» è stato ravvisato dal  Tribunale di Lecce, con decreto dell’11.2.2022 , in ragione dei ripetuti maltrattamenti subiti da un giovane cittadino del Ghana da parte dello zio. Il ricorrente, infatti, con dichiarazioni ritenute credibili dai giudici leccesi, ha riferito che, sin da quando era piccolo, era stato costretto dallo zio a lavorare in condizioni di semi-schiavitù e sottoposto a continui maltrattamenti. In ragione dell’impossibilità di ricevere protezione effettiva dalle autorità statuali e di trasferirsi in una diversa zona del Ghana (alternativa di ricollocamento interno che è stata esaminata dal Collegio alla luce delle Linee Guida dell’UNHCR sulle «alternative di fuga e ricollocamento interno»), per sfuggire alle minacce e violenze dello zio, il Tribunale ha riconosciuto al ricorrente la protezione sussidiaria.
 
Il Tribunale di Bologna, decidendo nel giudizio di rinvio successivo alla decisione di accoglimento della Corte di cassazione secondo le vincolanti indicazioni in diritto della Corte, con  decreto del 17.2.2022  ha accolto la domanda di protezione spiegata da un giovane cittadino della Nigeria, vittima di violenze da parte del cult Eiye, riconoscendogli la protezione sussidiaria. Di particolare interesse quanto osservato dai giudici bolognesi in merito alla valutazione di credibilità (spesso effettuata dai Tribunali, nei claims relativi alle violenze subite ad opera dei membri di un cult, in modo stereotipato) ed al giudizio sulla effettività e non temporaneità della protezione assicurata dalle autorità locali che non attiene solo alle capacità generali, richiedendo invero anche e soprattutto una valutazione individuale, volta a verificare se le forze dell’ordine, tenuto conto della specificità del pericolo, siano effettivamente in grado di apprestare le misure addizionali che il singolo caso richiede.
 
Il rischio di essere costretta ad entrare a far parte di una società segreta femminile (la Sande Society, operante in Sierra Leone) che prevede, tra i riti di passaggio, anche la sottoposizione a mutilazioni genitali femminili, giustifica, ad avviso del  Tribunale di Bologna – decreto del 27.1.2022  – il riconoscimento della protezione sussidiaria. Nel decreto in esame, i giudici bolognesi sottolineano come le autorità statuali non possano offrire alcuna protezione alle giovani donne vittima di tali società segrete, atteso che le mutilazioni genitali vengono ancora considerate «un collegamento di comunicazione vitale tra politici e comunità rurali», con la conseguenza che la classe politica non ha alcuna intenzione né di abolire tali pratiche di tortura né di perseguirle penalmente.
 
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. c)
La  Corte d’appello di Perugia, con sentenza del 15.3.2022 , in accoglimento dell’impugnazione proposta da un cittadino maliano proveniente da Kayes, ha riconosciuto l’esistenza di una condizione di violenza indiscriminata in tutto il Mali, dalla quale deriva l’esistenza di un rischio effettivo all’incolumità del ricorrente, in caso di rientro nel Paese d’origine.
 
La condizione di conflitto armato internazionale esistente in Ucraina ha portato il  Tribunale di Genova – decreto del 22.4.2022  –  il Tribunale di Perugia – decreto del 10.3.2022  – il  Tribunale di Firenze – decreto del 16.3.2022  – ed il  Tribunale di Milano – decreto del 3.3.2022  – a riconoscere ai richiedenti, cittadini ucraini, la protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c) del d.lgs. 251 del 2007.
 
Il  Tribunale di Bologna – con decreto del 16.12.2021  – nell’esaminare la domanda di un cittadino del Niger, proveniente dalla regione di Diffa, alla luce delle più recenti informazioni internazionali (acquisite, come precisato dai giudici bolognesi, grazie alla collaborazione dei ricercatori EASO affiancati alla sezione) ha ritenuto che la situazione di violenza diffusa della regione sia in costante aumento ed abbia assunto la gravità di un conflitto armato, tale da realizzare una minaccia indiscriminata tale da giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria.
 
Ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, ex art. 14 lett. c) del d.lgs. 251 del 2007, occorre valutare, ad avviso del  Tribunale di Bologna – decreto del 2.3.2022  – anche gli effetti indiretti. In particolare, nella valutazione della domanda di protezione spiegata da una donna proveniente dalla regione francofona del Littoral, in Camerun, affetta da epatite B e con una minore a carico, il Collegio ha ritenuto necessario esaminare non solo la situazione di grave instabilità del territorio (aggravatasi nell’ultimo anno), ma anche il rischio cui la ricorrente sarebbe esposta in caso di rientro nel Paese d’origine, a causa delle predette condizioni personali. L’interpretazione del legame causale fra la violenza indiscriminata e il danno, infatti, non è necessariamente limitata ai danni direttamente causati dalla violenza indiscriminata o da azioni degli attori del conflitto, ma in certa misura, e in presenza di determinate condizioni, possono anche essere compresi gli effetti indiretti, quali il mancato accesso alle cure sanitarie e l’incapacità dello stato di garantire la sicurezza e l’incolumità delle sue cittadine.
 
QUESTIONI PROCESSUALI
 
Domande reiterate
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 6374 del 29.10.2021, si è pronunciata in merito all’oggetto di accertamento del giudizio relativo alle domande reiterate. Nel caso portato all’attenzione della Corte, il ricorrente aveva proposto una prima domanda di protezione (rigettata dalla Commissione con provvedimento confermato dal Tribunale di Milano). Aveva poi proposto una seconda domanda di protezione internazionale e umanitaria fondata sulle stesse circostanze (relative alle minacce ricevute dal datore di lavoro in Pakistan), ma corroborate da ulteriore documentazione: domanda giudicata inammissibile dalla Commissione territoriale. In seguito alla declaratoria di inammissibilità, il ricorrente aveva nuovamente agito dinanzi al Tribunale di Milano, ponendo a fondamento della domanda di protezione una circostanza sopravvenuta relativa alle proprie condizioni di salute. Con riferimento a tale fattispecie, la Corte ha censurato la decisione dei giudici meneghini chiarendo che, in sede di opposizione dinanzi al Tribunale ben possono essere posti a fondamento della domanda fatti «diversi ed ulteriori, rispetto a quelli dedotti nella fase amministrativa».
 
Sulla questione relativa alla competenza per territorio della sezione specializzata chiamata a decidere su una domanda reiterata, si è pronunciato il  Tribunale di Genova con decreto del 25.1.2022 . Nella decisione in esame i giudici genovesi, richiamato il disposto dell’art. 4, co. 5 e 5-bis del d.lgs. 25 del 2008 hanno ribadito come una eventuale violazione delle norme sulla competenza delle Commissioni territoriali comporterebbe un illegittimo spostamento di competenza del Tribunale in sede di ricorso e pertanto, quale conseguenza, una sottrazione del ricorrente al giudice naturale precostituito per legge, con violazione dell’art. 25 Cost. In particolare, i giudici genovesi hanno esaminato il contenuto della circolare del Presidente della Commissione nazionale per il diritto di asilo 15 luglio 2020 avente ad oggetto la determinazione della competenza per le domande reiterate ex art. 29 del citato decreto legislativo per concludere che nel caso di specie (ove la prima domanda era stata decisa dalla Commissione territoriale di Verona senza procedere all’audizione, per irreperibilità del ricorrente) non poteva invocarsi la necessità di mantenere unico il processo cognitivo (e dunque derogare alla competenza del Tribunale di Genova) in quanto la Commissione territoriale che aveva deciso la prima domanda non aveva effettuato alcun esame nel merito.
 
Procura alle liti
Con sentenza n. 13 del 20.1.2022, la Corte costituzionale, decidendo sull’ordinanza di rimessione della Terza sezione civile della Corte di cassazione n. 137 del 2021 – che aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 35-bis, co.13, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 111 e 117, co. 1, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 28 e 46, par. 11, della dir. 2013/32/UE, agli artt. 46, 18 e 19, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), nonché agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – ha dichiarato le questioni non fondate. In particolare, il Giudice delle leggi ha sottolineato come l’art. 35-bis, co.13, sopra richiamato si limiti a porre a carico del difensore (e non della parte), per presidiarne il rispetto, l’onere di certificare, ai fini della proposizione del ricorso per cassazione nella materia della protezione internazionale, la data di conferimento della procura. La ratio della disposizione è stata ravvisata «in un settore peculiare per l’esorbitante numero di ricorsi, di solito seriali e caratterizzati dall’ammissione delle parti private al beneficio del patrocinio a spese dello Stato», nella necessità «di rendere effettivo il rispetto della relativa prescrizione presidiandola con la certificazione dell’avvocato sulla “verità” della data, in modo da evitare il rilascio di procure cosiddette in bianco». Con specifico riferimento allo scrutinio di non manifesta irragionevolezza, la Corte costituzionale rileva come si debba tenere conto del fatto che il grado di appello, «il numero di ricorsi per cassazione è cresciuto esponenzialmente fino a rappresentare, in percentuale, una parte molto ampia di tutti i ricorsi civili, tanto da costituire un’obiettiva e marcata peculiarità, in ragione dell’elevato rapporto tra il numero dei giudizi di cassazione rispetto a quelli di primo grado, ben maggiore che in altri settori nel panorama complessivo del contenzioso civile. Questo accesso così diffuso, al quale non è estraneo il maggiore ricorso al patrocinio a spese dello Stato rispetto ad altre tipologie di contenzioso, rende non irragionevole il rafforzamento della regola della posteriorità della procura mediante l’onere a carico del difensore della certificazione della data del suo rilascio da parte dello straniero richiedente la protezione internazionale».
 
Fatti nuovi emersi nel giudizio di riconoscimento della protezione internazionale
Il  Tribunale di Milano, con decreto del 13.12.2021 , nell’esaminare una domanda di protezione spiegata da una giovane donna nigeriana vittima di tratta ai fini sessuali, fornisce indicazioni preziose in merito alla corretta acquisizione e valutazione dei fatti rilevanti. In particolare, i giudici meneghini si soffermano sulla possibilità di acquisire, nel corso del processo, elementi nuovi e diversi già nella disponibilità della richiedente nel corso dell’audizione di fronte alla Commissione territoriale e sulla possibilità di valutare elementi emersi al di fuori del processo, in particolare nell’ambito della procedura di referral disposta dal giudice (giungendo, in entrambi i casi, ad una risposta affermativa). Di particolare rilevanza quanto affermato in merito alla possibilità, per il Tribunale, di poter esaminare i fatti nuovi senza dover restituire il procedimento all’autorità amministrativa, perché il giudice non opera un controllo di legittimità sull’atto amministrativo, ma realizza un «pieno accertamento del diritto del ricorrente» e perché l’amministrazione, parte del processo, ha la possibilità di interloquire sui fatti nuovi, nel pieno rispetto del principio del contraddittorio.
 
Paesi di origine sicura
Prima della pubblicazione del decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale del 9 marzo 2022, con il quale l’Ucraina è stata sospesa, dal 12 marzo 2022 al 31 dicembre 2022, dall’elenco dei Paesi di origine sicura, il  Tribunale di Firenze – con decreto pubblicato proprio il 9.3.2022  – ed il  Tribunale di Perugia – con decreto del 25.2.2022 , in ragione del repentino aggravamento delle condizioni di sicurezza in Ucraina, avevano accolto i ricorsi cautelari volti alla sospensione degli effetti esecutivi della decisione di rigetto delle domande di protezione internazionali proposte da cittadini ucraini, considerati provenienti da un Paese di origine sicura.
Ancora con riferimento ai Paesi di origine sicura, il  Tribunale di Catania, con decreto dell’11.2.2022 , decidendo sull’istanza cautelare proposta da un cittadino della Tunisia ha ribadito che le disposizioni sovranazionali e nazionali sui Paesi di origine sicura, pur avendo introdotto un onere di specifica allegazione per il richiedente in ordine alle ragioni soggettive o oggettive per le quali invece il Paese non può considerarsi sicuro, non escludono i poteri-doveri d’indagine officiosi e di acquisizione di informazioni aggiornate sulla situazione del Paese stesso. Con particolare riferimento al Paese di origine del richiedente, la Tunisia, i giudici catanesi hanno dato atto dell’incremento di proteste, scatenate dalla crisi politica, sociale ed economica ed alla ripetuta violazione dei diritti e delle libertà fondamentali, e, di conseguenza, hanno ritenuto sussistenti le gravi ragioni per sospendere l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato.
 
Patrocinio a spese dello Stato
La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto avverso la decisione della Corte territoriale che aveva revocato il beneficio dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato per manifesta infondatezza, in ossequio al disposto degli artt. 126 e 136 del d.p.r. 115 del 2002, con ordinanza n. 285 del 16.12.2021, ha ribadito che l’art. 35-bis, co. 17 del d.lgs. n. 25 del 2005 prevede l’esercizio di un «potere distinto rispetto a quello del giudice che decide sulla domanda di protezione internazionale». In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto esente da censure la decisione del Tribunale che ha desunto la manifesta infondatezza della domanda di protezione internazionale (conseguentemente revocando il beneficio del patrocinio a spese dello Stato) non dal mero rigetto della pretesa, quanto dalla non attinenza della vicenda rispetto ai presupposti della domanda di protezione nonché dalla considerazione del sistema di protezione vigente in Germania.
 
LA GIURISDIZIONE IN MATERIA DI SILENZIO DELLA PA SU DOMANDA DI PERMESSO DI SOGGIORNO PER MOTIVI UMANITARI
 
Le Sezioni Unite della Cassazione, con ordinanza n. 1390/2022, hanno affermato la giurisdizione ordinaria rispetto al silenzio serbato dalla questura, per oltre 180 gg., sulla domanda di rinnovo del permesso di soggiorno umanitario. Il ricorrente (cittadino pakistano già titolare di permesso ex art. 5, co. 6 TU 286/98), a fronte dell’immotivato ritardo della questura, aveva originariamente proposto la controversia davanti al Tribunale ordinario di Ancona chiedendo che venissero dichiarati l’illegittimità del ritardo e l’obbligo della PA di concludere il procedimento entro 30 gg.; il Tribunale aveva però declinato la propria giurisdizione ritenendo sussistente quella del Tar Marche, che, a sua volta, si è ritenuto incompetente rinviando alle Sezioni Unite per la decisione regolatoria.
Le Sezioni Unite hanno dichiarato la giurisdizione ordinaria, trattandosi di questione afferente un permesso umanitario, che sottende un diritto soggettivo, peraltro di natura fondamentale (Cass. SU 19393/2009 e 19577/2010), rispetto al quale il potere amministrativo può solo accertare i presupposti di fatto, mediante una mera discrezionalità tecnica, poiché il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate è riservato esclusivamente al legislatore. In tal senso è stata esclusa l’applicabilità degli artt. 31 e 117 del codice del processo amministrativo (d.lgs. 104/2010), relativi all’azione contro il silenzio e il ritardo della PA, i quali sottendono pretese affidate alla giurisdizione amministrativa, esclusa nel caso dei permessi umanitari.
Pronuncia regolatoria della giurisdizione che richiama il proprio consolidato orientamento in materia: Cass. SU 30658/2018 (relativa a permesso umanitario in assenza di parere della Commissione territoriale), Cass. 5059/2017 (diniego con parere negativo della Commissione territoriale).
Decisione importante che può servire da spunto per le tante controversie che potranno riguardare i ritardi che oramai si registrano in tutte le questure sia per la formalizzazione delle domande di permesso per protezione speciale diretta (ex art. 19, co. 1.2 TU 286/98) sia per la definizione dei relativi procedimenti.
 
DIRITTO AL RILASCIO DI VISTI UMANITARI
 
Nella precedente Rassegna 1.2022 si è dato conto di una controversia proposta in via d’urgenza davanti al Tribunale di Roma finalizzata al rilascio di visti ex art. 10, co. 3 o art. 25 reg. 810/2009 per due cittadini afghani a rischio nel loro Paese dopo la presa di potere dei cd. talebani, nell’agosto 2021. Si è riportata la decisione assunta dal giudice romano il 21.12.2021 (RG. 62652/2021) che, in accoglimento di detta domanda, ordinava al Ministero per gli affari esteri di rilasciare ai ricorrenti visti umanitari ai sensi all’art. 25 del Codice visti Schengen reg. UE n. 810/2009, quale unico strumento giuridico idoneo a evitare tale rischio. In ottemperanza a detto ordine giudiziale e a fronte della resistenza dell’Amministrazione statale (che cercava di far rientrare i due ricorrenti all’interno dei corridoi umanitari di cui al Protocollo siglato il 4.11.2021 tra Ministero dell’interno UNCHR e alcuni enti e associazioni private), il Tribunale aveva poi ordinato il rilascio dei visti umanitari entro il termine perentorio di 10 giorni.
Nella Rassegna scorsa si è dato conto anche dell’impugnazione della decisione cautelare da parte del MAECI ma al momento della pubblicazione del n. 1.2022 della Rivista non era ancora stata pubblicata la decisione del reclamo, avvenuta il 28.2.2022.
In detta sede è avvenuto un radicale ribaltamento della decisione cautelare di dicembre 2021, in quanto il Tribunale di Roma, in composizione collegiale con l ’ordinanza 25/28.2.2022, ha accolto il reclamo del Ministero, nonostante nel frattempo i due giovani afghani fossero già entrati in Italia in forza di visti “invito” rilasciati dall’Italia e dunque fosse oggettivamente venuto meno l’interesse ad agire, cioè a proseguire nel giudizio. Invero, il Tribunale del reclamo ha si dichiarato estinto il giudizio ma ha voluto entrare nel merito della questione giuridica portata in giudizio, censurando (con finalità evidentemente dissuasive) l’intero impianto sia del ricorso che della decisione monocratica precedente.
A fronte di un ricorso articolato su uno schema giuridico ben preciso: (a) il diritto d’asilo ex art. 10, co. 3 Cost. è norma immediatamente precettiva, in parte ma non completamente attuata nell’ordinamento italiano, b) il diritto d’asilo ha natura accertativa e non costitutiva, cioè preesiste al suo formale riconoscimento, c) il diritto d’asilo deve essere garantito anche attraverso il diritto a entrare sul territorio italiano, d) il diritto d’asilo può essere esercitato anche in sede extraterritoriale, cioè in ogni luogo in cui l’Italia esercita la sua autorità e le Rappresentanze diplomatico-consolari rispondono a dette caratteristiche in quanto in esse lo Stato italiano ha l’autorità per autorizzare l’ingresso in Italia, e) lo strumento utilizzabile per garantire il diritto d’asilo può essere anche il visto ex art. 25 Codice visti reg. 810/2009 ovvero qualsiasi altra tipologia di visto che consenta il diritto di ingresso in Italia), il Tribunale romano del reclamo ha affermato che:
  1. l’art. 10, co. 3 Cost. non ha un’applicazione giudiziale diretta perché la norma costituzionale rinvia alle condizioni di esercizio del diritto. La norma è oggi comunque interamente attuata;
  2. la normativa italiana non prevede il visto umanitario individuale né il diritto di uno straniero fuori dalla Repubblica di essere ammesso per ricevere protezione internazionale, a meno che non si trovi su una nave battente bandiera italiana;
  3. l’art. 25 Codice visti non può essere applicato per presentare una successiva domanda di protezione;
  4. il visto umanitario non è previsto dal diritto italiano né imposto dalla normativa europea, pertanto «il suo rilascio non può né essere concesso dalla pubblica amministrazione, tenuta all’osservanza della legge, né venire imposto dall’autorità giurisdizionale, investita del potere-dovere di applicarla, interpretandola in senso costituzionalmente orientato ma senza travalicare i confini della sua operatività»;
  5. la giurisdizione italiana non si esercita nelle Ambasciate ma, casomai, sulle navi italiane;
  6. il solo strumento utilizzabile è quello dei corridoi umanitari e il 4.11.2021 è stato sottoscritto un Protocollo per l’Afghanistan finalizzato ad essi.
Decisione secondo la quale, inoltre, il rilascio di visti umanitari individuali creerebbe un’ingiustificata discriminazione («scavalcando la fila») ai danni di coloro che hanno diritto di accedere ai corridoi umanitari.
Non è questa la sede per un’analisi approfondita e critica a detta decisione, ma è indubbio che l’ordinanza del Tribunale romano in sede di reclamo sia stata l’apripista di una serie di pronunce del medesimo Tribunale in differenti e variegati ricorsi, nei quali tutti, da febbraio in poi, ha negato il diritto all’ingresso per ragioni umanitarie a persone che, secondo la prospettazione dei/delle ricorrenti, versano in condizione di immediato bisogno di protezione (dalla Libia, dall’Afghanistan, dalla Tunisia) sulla base del medesimo testuale impianto normativo: inesistenza di un diritto di ingresso in attuazione dell’art. 10, co. 3 Cost., inapplicabilità dell’art. 25 Codice visti reg. 810/2009 per presentare domanda di asilo ( Trib. Roma 7.4.2022 ; Trib. Roma 7.4 2022 ; Trib. Roma 8.4.2022 ; Trib. Roma 25.3.2022 ).
Questo pare, dunque, essere il granitico orientamento giurisprudenziale del Tribunale di Roma (davanti a cui pendono comunque altre controversie, unico foro territorialmente competente in materia di visti d’ingresso qualora si verta in materia di diritti soggettivi), che, però, non pare tenere conto della giurisprudenza della Corte di cassazione a Sezioni Unite nn. 4674/97 e 907/99 – mai smentite da successive pronunce –, secondo la quale l’asilo costituzionale è fattispecie diversa dal rifugio politico: il primo comprende quantomeno il diritto di ingresso nel territorio nazionale, in quanto il diritto nasce prima del suo formale riconoscimento (natura accertativa e non costitutiva).
Inoltre, nonostante una delle ragioni indicate in alcune decisioni di rigetto abbia riguardato l’esistenza dei Protocolli sui cd. corridoi umanitari (dall’Afghanistan o dalla Libia), in tutti i giudizi è stato dimostrato che quanto a quello per l’Afghanistan non è ancora stato concretamente attivato e, in ogni caso, tutti i Protocolli sono strumenti di selezione discrezionale dei potenziali beneficiari, non supportati da disposizioni di legge.
Infine, non può non evidenziarsi che, nel legittimare i corridoi umanitari quale unico strumento idoneo a salvaguardare i diritti di persone in bisogno di protezione, il Tribunale di Roma non si è fatto carico di spiegare sulla base di quali disposizioni di legge essi siano legittimati (posto che viene negata la possibilità che l’art. 25 reg. 810/2009 possa essere finalizzato alla domanda di protezione internazionale) e quale norma consenta, in detto ambito, il rilascio di visti.
Domande rimaste completamente inevase.
 
LA PROTEZIONE UMANITARIA e la PROTEZIONE SPECIALE nel procedimento di protezione internazionale
 
La vita privata e familiare
Con ordinanza n. 7861/2022 la Corte di cassazione ha annullato un decreto del Tribunale di Bologna che aveva rigettato il ricorso ex art. 35-bis d.lgs. 25/2008 presentato da un richiedente asilo del Senegal, negandogli ogni forma di tutela. L’impugnazione in Cassazione ha riguardato la sola parte del decreto relativa al diniego di riconoscimento della protezione speciale secondo la nuova fattispecie dell’art. 19, commi 1, 1.1 e 1.2 TU d.lgs. 286/98 novellata dal d.l. n. 130/2020.
Il Giudice di legittimità ha censurato la decisione bolognese nella parte in cui ha ritenuto insufficiente l’attività lavorativa svolta dal 2019 perché «il concetto di stabile insediamento non potrebbe prescindere da un legame significativo con lo Stato ospitante sotto il profilo sociale, culturale e linguistico.». Censura motivata dall’omessa considerazione del giudice di 1^ grado di tutti gli elementi (lavorativi ma anche sociali) offerti dal ricorrente a dimostrazione del suo inserimento sociale e dunque diniego non rispettoso della nuova fattispecie dell’art. 19, co. 1.1. TU immigrazione, relativa al diritto alla vita privata e familiare, basata su tre parametri di radicamento (familiare, sociale, presenza sul territorio nazionale e rischio di suo sradicamento), rispetto ai quali la pronuncia delle Sezioni Unite n. 24413 del 2021 ha offerto alcuni indici esemplificativi, che comprendono l’ampia varietà delle relazioni sociali costruite in Italia dal richiedente asilo.
 
In relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, l’ordinanza n. 7938/2022 della Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Torino che nel procedimento giudiziale per il riconoscimento della protezione internazionale di richiedente asilo della Nigeria l’aveva negata, ritenendo non sufficiente il carattere saltuario dell’attività lavorativa svolta e irrilevanti le attività compiute nel periodo di accoglienza. Secondo gli Ermellini, il giudice d’appello ha omesso di valutare tutta la documentazione prodotta (attestati di lingua, voucher di pagamento, lettere di referenze, contratto di tirocinio e relative proroghe, CU 2018 e CU 2019, attestati Enaip, buste paga, conseguimento qualifiche) non motivando perché non sia stata complessivamente ritenuta idonea a integrare i presupposti per la tutela umanitaria.
Di particolare interesse anche la parte in cui la Cassazione dà rilievo alle attività svolte durante il periodo di permanenza nel sistema di accoglienza, perché anche esse sintomatiche di un radicamento sociale («priva di giustificazione è anche l’esclusione di qualsiasi rilievo probatorio all’attività svolta dal ricorrente all’interno del percorso di accoglienza previsto dalla legge e realizzato dagli Enti locali posto che essa non può essere ignorata nella valutazione complessiva della condizione di radicamento del richiedente protezione umanitaria. L’accertamento da svolgere deve essere eseguito in concreto valutando l’intero percorso svolto dal richiedente, la sostanziale continuità temporale dell’attività (o delle attività) svolte senza che l’esame di questa prima fase d’impegno, ove sussistente, possa venire deliberatamente ignorata solo perché rientrante in un programma d’accoglienza e primo inserimento previsto dalla legge».
 
Con ordinanza n. 10201/2022 la Corte di cassazione ha annullato il diniego di protezione internazionale contenuto in una sentenza della Corte d’appello di Torino nei confronti di un richiedente asilo della Nigeria, ritenuto non credibile soggettivamente e che aveva dimostrato di essersi coniugato con una connazionale in Italia. La Cassazione non ha accolto il motivo di ricorso sulla contestazione della credibilità, inammissibile in sede di legittimità, mentre ha accolto il profilo di impugnazione relativo al diniego di protezione umanitaria in quanto il giudice d’appello non ha effettuato una concreta valutazione comparativa del rischio di lesione del diritto all’unità familiare, di cui all’art. 8 CEDU, nonostante la documentata relazione coniugale e la nascita, nel 2019, di un figlio. Elementi che la Corte d’appello aveva ritenuto non comprovanti un inserimento sociale effettivo in quanto i coniugi non svolgevano attività lavorativa. Secondo la Cassazione, invece, «Così operando, tuttavia, hanno omesso di svolgere il giudizio comparativo cui erano tenuti in relazione alla specifica condizione di vulnerabilità allegata, che, nella specie, non riguardava l’integrazione lavorativa ma quella familiare».
In termini analoghi, l’ordinanza n. 5672/2022 della Cassazione, che ha censurato un decreto del Tribunale di Torino che aveva omesso di considerare i legami affettivi del richiedente asilo in Italia.
 
Violazione del dovere di cooperazione istruttoria e omessa comparazione per la protezione umanitaria
L’ordinanza n. 12040/2022 della Corte di cassazione ha censurato la sentenza della Corte d’appello di Bologna che, confermando il rigetto della domanda di protezione già espresso dal Tribunale bolognese, ha omesso di accertare, sia in relazione alla richiesta protezione sussidiaria che per la protezione umanitaria, l’effettiva situazione in Costa d’Avorio secondo le COI aggiornate. Accertamento che la Cassazione conferma essere imprescindibile per un corretto esame della domanda di protezione internazionale ex art. 3 d.lgs. 251/2007 e art. 8 d.lgs. 25/2008 e rinvenendo, dunque, nel caso esaminato, la violazione del dovere di cooperazione istruttoria del giudice. Interessante la parte in cui la pronuncia qualifica detta violazione nell’ambito dell’art. 115 c.p.c., in quanto le fonti di informazione, istituzionali ma anche liberamente consultabili in internet, costituiscono fatto notorio «in funzione della loro oggettiva notorietà». Altrettanto interessante laddove, in riferimento alla specifica vicenda narrata dal richiedente asilo, ha affermato che «in relazione al problema della stregoneria in Africa, cui ha fatto riferimento il richiedente, la [cui] connessa persecuzione (con la relativa discriminazione) può concretizzare un rischio di minaccia grave alla vita e alla persona nonché una condizione di vulnerabilità (Cass. n. 13088/2019; Cass. n. 2717/2022)».
La Cassazione, inoltre, censura anche la mancata valutazione comparativa richiesta per il riconoscimento della protezione umanitaria in quanto il giudice d’appello non solo ha omesso l’accertamento della situazione in Costa d’Avorio e la possibile violazione, ivi, dei diritti umani ma si è limitato a escludere la condizione di vulnerabilità soggettiva attuale, ignorando del tutto l’integrazione lavorativa dimostrata.
In termini analoghi, ma riferiti a richiedente asilo della Casamance (Senegal), l’ordinanza n. 12041/2022 della Cassazione.
 
Protezione umanitaria e rilevanza della pandemia COVID-19
L’ordinanza n. 7218/2022 della Corte di cassazione censura il decreto del Tribunale di Torino che, nel negare al richiedente asilo ogni forma di protezione compresa quella umanitaria, aveva omesso rispetto a quest’ultima di effettuare una corretta comparazione e non aveva tenuto conto dell’incidenza negativa che la pandemia da Covid-19 ha avuto sull’attività lavorativa anche per le persone straniere.
 
Povertà e dignità umana
Di interesse anche l’ordinanza n. 39848/2021 della Cassazione, relativa a richiedente asilo del Bangladesh, per il quale il Tribunale di Bologna aveva escluso il riconoscimento di ogni forma di protezione, compresa quella umanitaria perché non ritenuta sussistente una condizione di vulnerabilità in quanto «il ricorrente ha trent’anni, i suoi affetti sono in Bangladesh, non sono emerse particolari patologie che possono qualificarlo come soggetto vulnerabile e l’attività lavorativa svolta in Italia non è di per sé ostativa di un suo rientro in patria.» e inoltre «perché sarebbe poco plausibile che il ricorrente venisse attentato nella sua vita dagli usurai, che nulla otterrebbero dalla sua morte», qualificando, dunque, il richiedente migrante economico. La Cassazione censura detta decisione con motivazione che si ritiene utile trascrivere integralmente: «perché non considera che il giudizio di comparazione, che è alla base della valutazione per la concessione o meno della protezione umanitaria, ovvero la verifica della sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario che giustifichino la concessione di tale protezione è una valutazione personalizzata e che consta di due termini di paragone: la verifica se la situazione obiettiva del paese di provenienza consenta, quanto ai diritti umani, il rispetto quanto meno del livello minimo atto ad assicurare il rispetto della dignità umana. E del rispetto della dignità umana fanno parte, insieme alle libertà personali e alle libertà di espressione, il diritto alla vita e alla sopravvivenza, quindi il diritto al cibo, all’acqua, alle cure mediche di sopravvivenza. Non si può reputare incondizionatamente irrilevante che un paese, per le sue caratteristiche naturali o climatiche, non assicuri neppure tale livello minimo, specie se, in concreto, il ricorrente riferisce che proprio le condizioni sociali, economiche e naturali, e un particolare evento naturale tra quelli ricorrenti nel paese, dapprima lo hanno ancorato al livello minimo di sopravvivenza e poi, al semplice alterarsi di uno dei fattori del suo assolutamente precario equilibrio, gli hanno fatto perdere quel pur precario livello minimo che possedeva, collocandolo sotto il livello di sopravvivenza e inducendolo necessariamente all’espatrio per sopravvivere: l’alluvione è indicato come l’evento finale che ha destabilizzato una economia di mera sopravvivenza, togliendo al ricorrente e alla sua famiglia la casa e i mezzi minimi sui quali contava (gli animali)».
 
Protezione umanitaria e violenza nei Paesi di transito (Libia)
L’ordinanza n 10783/2022 della Cassazione ha censurato il decreto del Tribunale di Bologna che aveva negato ogni forma di protezione internazionale, compresa quella umanitaria perché il richiedente asilo del Bangladesh non era stato ritenuto credibile sulla sua vicenda e in quanto irrilevanti sia le violenze subite in Libia, Paese di transito, sia l’attività lavorativa svolta in Italia, essendo tutti i suoi legami familiari in patria.
La Cassazione censura le motivazioni addotte con riguardo alla negata protezione umanitaria, perché non rispettose dei principi espressi in materia dalla giurisprudenza, che richiedono una concreta comparazione tra la condizione attuale e quella a cui il richiedente sarebbe esposto in caso di rimpatrio.
La pronuncia muove le mosse dalla generale accezione del concetto di vulnerabilità («3.4.4. il concetto di vulnerabilità soggettiva – sostantivo il cui significato letterale, alla luce della sua stessa etimologia, è rappresentato “dalla possibilità di essere e di sentirsi ferito”, nella “attitudine ad essere e sentirsi offeso, attaccato e sopraffatto”, tanto sul piano fisico quanto su quello emotivo – non si sostanzia in una condizione (ed in una conseguente valutazione) necessariamente totalizzante o “complessiva” dell'essere umano […] ma in uno status attuale dell’animo che tale attitudine comporti, valutata, se del caso, in tutti i suoi possibili aspetti, e conseguente ad un vissuto soggettivo che, sul piano presuntivo, possa lasciare tracce indelebili nella vita del soggetto») per declinarla, poi, nella specificità del giudizio di protezione internazionale, ritenendo che la condizione di vulnerabilità può nascere ovunque e pertanto anche nei Paesi di transito e dunque va senza dubbio valutata, qualora non siano posti in dubbio i fatti narrati dal richiedente, in ossequio a quanto disposto dall’art. 8, co. 3 d.lgs. 25/2008. Secondo la pronuncia in rassegna «è compito del giudice, una volta accertata (come nella specie) la credibilità, sia pur soltanto in parte qua, del narrato e del vissuto personale, interrogarsi – oltre che sul profilo topico-comparativo delle possibili situazioni di vita futura – sulla residua capacità di una persona assoggettata a tali esperienze di essere sottoposta, e di poter ancora accettare, sopportare e subire una qualsiasi ulteriore forma di violenza – benché di tipo e di intensità sicuramente diversa – quale, indubitabilmente, quella che la costringa, ancora una volta contro la sua volontà, ad abbandonare il paese di accoglienza, ed essere obbligata a far ritorno a quello di origine».
Condizione di vulnerabilità che maggiore sia la sua intensità, minore dovrà essere il livello di comparazione con il Paese di origine, secondo il principio della cd. comparazione attenuata.
Quanto alla situazione nel Paese di origine, la Cassazione ribadisce quanto già affermato in precedenti pronunce, ovverosia che è compito del giudice accertare – attraverso le specifiche COI ma lette in un’ottica diversa da quella afferente la protezione internazionale –, se in esso vi siano situazioni tali, anche di inemendabile povertà, che determinino «la violazione dei diritti umani, al di sotto del loro nucleo essenziale, anche in questa ipotesi (Cass. n. 12418/2021; n. 16119 del 2020; n. 18443 del 2020)».
 
Protezione speciale e domanda reiterata di protezione internazionale
Con  decreto 28.9.2021 il Tribunale di Brescia ha rigettato il ricorso proposto da un richiedente asilo della Nigeria avverso la decisione negativa su istanza reiterata, ritenendo non idonei gli elementi nuovi addotti a supporto della nuova domanda. La pronuncia appare singolare perché, dopo avere rigettato la domanda di riconoscimento della protezione internazionale, non si è pronunciata su quella relativa alla protezione speciale, ritenendo che per essa debba necessariamente e imprescindibilmente pronunciarsi in prima istanza il questore, ex art. 19, co. 1.2 TU 286/98 e richiamando in proposito quanto stabilito dall’art. 34 codice processo amministrativo (d.p.r. n. 104/2010) secondo cui «in nessun caso il Giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati».
Pronuncia che, tuttavia, non tiene conto – a tacer d’altro – che, ai sensi dell’art. 15, d.l. n. 130/2020, il nuovo istituto dell’art. 19, co. 1, 1.1 e 1.2 TU 286/98 si applica anche ai procedimenti pendenti, al 22.10.2020 (data di entrata in vigore del decreto legge), davanti alle Commissioni territoriali e nei giudizi davanti alle sezioni specializzate dei Tribunali, con l’unica eccezione dei giudizi di rinvio dalla Cassazione.
Non pare giustificato, dunque, il richiamo all’art. 34 codice processo amministrativo, quando è stato lo stesso legislatore a disciplinare lo ius superveniens nei termini dianzi indicati.
 
Protezione speciale e smuggling
Il Tribunale di Milano, con decreto 10.11.2021 , ha riconosciuto a richiedente asilo della Nigeria la protezione speciale perché ritenuto vittima di smuggling. Il giudice meneghino, diversamente dalla Commissione territoriale, ha ritenuto credibile la vicenda narrata dal ricorrente (legata a questioni ereditarie) e il percorso migratorio intrapreso su indicazione di uno zio, con le conseguenti violenze subite. Ha, tuttavia, confermato il diniego di riconoscimento delle due forme di protezione internazionale perché ha escluso che il richiedente sia stato vittima di tratta a fini di sfruttamento lavorativo nel percorso migratorio. Il Tribunale ha posto in rilievo le differenze tra la tratta di esseri umani e il traffico di migranti, di cui ai Protocolli ONU del 2000 (anche se ha ammesso che «in un significativo numero di casi possa risultare complesso distinguere tra un caso di tratta di esseri umani e un caso di smuggling» tanto che talvolta le due condizioni si sovrappongono) e ha indicato tre differenze sostanziali: lo sfruttamento del corpo della persona nel caso della tratta, irrilevante invece per il mero trafficante; la dimensione transnazionale dello smuggling (ovverosia il passaggio da un Paese all’altro), mentre per la tratta lo sfruttamento può essere limitato anche in un solo Paese; il consenso, che esiste sempre nel caso dello smuggling mentre non è richiesto nel caso della tratta. Infine, richiamando il Report EASO 2021, Nigeria Trafficking in Human Beings, nel decreto si afferma che le fonti attestano che la maggior parte degli uomini nigeriani è vittima di smuggling (con svariate violenze subite durante il percorso migratorio). Partendo da detta analisi, nel caso esaminato il Tribunale ha riconosciuto un solo elemento individualizzante della tratta, cioè l’abuso e l’inganno dello zio del ricorrente che l’ha indotto a partire per la Libia, dunque escludendo che sia stato vittima di tratta.
Tribunale che ha negato anche il riconoscimento della protezione sussidiaria, mentre ha riconosciuto la protezione speciale sia per la dimostrata integrazione sociale (volontariato, gioco del calcio, impegno di assunzione), sia per il suo vissuto (anche in Libia) che l’ha reso particolarmente vulnerabile, vittima di contrabbando di esseri umani (smuggling), testimone oculare della morte del fratello in occasione del naufragio nell’attraversamento del Mediterraneo e per avere iniziato appena maggiorenne il percorso migratorio.
Un elemento che desta perplessità nella decisione – per altri versi innovativa per la valorizzazione della condizione di vittima di smuggling – sta nel fatto che si evoca il principio della comparazione attenuata, espresso da ultimo dalle Sezioni Unite della Cassazione con l’ordinanza n. 24413/2021, quando la nuova fattispecie della protezione speciale introdotta dal d.l. n. 130/2020 non contempla, a differenza della “vecchia” protezione umanitaria, la necessità di effettuare detta comparazione (rigorosa o attenuata) tra la condizione vissuta in Italia e il rischio di rimpatrio, in quanto quest’ultimo è già compreso nella lesione dei diritti elencati nell’art. 19, commi 1 e, 1.1 TU 286/98.
 
DIRITTI - VARIE
 
Passaporto e domanda di permesso per protezione speciale
È sempre più frequente il rifiuto da parte delle questure di consentire la presentazione della domanda diretta al questore di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale motivata dall’assenza del passaporto. Questione su cui già nella precedente Rassegna si è pubblicato un provvedimento (Trib. Bologna 29.12.2021).
In questa sede si pubblica l’ordinanza cautelare ex art. 700 c.p.c. del  Tribunale di Roma del 10.3.2022 R.G. 6261/2022 , con cui è stato dichiarato il diritto di una cittadina del Kenia di presentare la domanda di permesso per protezione speciale (in virtù dei legami familiari presenti in Italia e della risalenza della presenza sul territorio nazionale), negata senza provvedimento espresso dalla questura di Roma a causa dell’assenza di passaporto. In sede giudiziale è stata dimostrata l’impossibilità per l’interessata di ottenere in Italia il proprio passaporto (a causa delle richieste documentali pretese dall’Ambasciata del Kenia) e comprovata l’identità mediante certificazione sostitutiva di notorietà in presenza di due testimoni, che il giudice capitolino ha ritenuto equipollente al passaporto secondo le previsioni di cui all’art. 9, co. 3, lett. a), d.p.r. n. 394/1999. Il Tribunale ha richiamato anche le circolari della Commissione nazionale asilo n. 1823 del 7.12.2021 e del Ministero dell’interno n. 4355 del 18.1.2022, dalle quali si evince la non imprescindibilità del passaporto per la domanda di protezione speciale.
Quanto al pregiudizio grave e irreparabile, l’ordinanza in rassegna evidenzia che la mancata formalizzazione della domanda di permesso per protezione speciale impedisce alla richiedente di iscriversi all’anagrafe e al S.S.N., ciò che rappresenta pregiudizio anche per la figlia minore, in quanto l’accesso alle misure sanitarie mediante l’S.T.P. (ex art. 35 TU 286/98) è meramente temporaneo.
Infine, il Tribunale di Roma ricorda che non è precluso al giudice ordinare un facere alla P.A. «giacché la domanda non investe scelte ed atti autoritativi dell’amministrazione, ma attività soggetta al rispetto del principio del neminem laedere», secondo gli insegnamenti di Cassazione n. 20571/2013.
 
Passaporto e rinnovo del permesso di soggiorno per protezione sussidiaria
Con ordinanza cautelare  10.3.2022 il Tribunale di Brescia RG. 1440/2022  ha censurato il provvedimento con cui la questura di Bergamo ha negato a cittadino nigeriano il rinnovo del permesso di soggiorno per protezione sussidiaria (status riconosciuto dalla Commissione territoriale nel 2016 e con parere positivo del 2021) a causa dell’assenza di passaporto. Il Tribunale rileva che il rinnovo del permesso per protezione sussidiaria non è affatto condizionato dal possesso del passaporto in quanto non previsto dall’art. 23 d.lgs. 251/2007 e afferma che l’autorità di P.S. non ha discrezionalità in materia di rilascio di titoli di soggiorno relativi alla protezione internazionale.
 
Ricevuta di permesso di soggiorno per richiesta asilo e attivazione di PostePay Card
Il  Tribunale di Roma con ordinanza cautelare 27.1.2022 RG. 63219/2021 ha ordinato a Poste italiane l’attivazione di una carta di credito prepagata PostePay Card, emessa in accordo con il Comune di Roma per l’erogazione del bonus alimentare Covid-19, censurando il rifiuto di detto Ente di attivarla in difetto di carta di identità o di passaporto, nonostante l’interessata fosse richiedente asilo e in possesso di ricevuta attestante la formalizzazione della domanda di protezione internazionale, che ai sensi dell’art. 4, co. 3, del d.lgs. 142/2015 costituisce permesso di soggiorno provvisorio.
Secondo il Tribunale, infatti, il permesso provvisorio per richiesta asilo «costituisce, ai sensi dell’art. 4, co. 1 del d.lgs. 142/2015, documento di riconoscimento, in quanto, a mente dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, documento munito di fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri Stati, che consente l’identificazione personale del titolare», ciò che doveva essere sufficiente per Poste italiane per attivare la card prepagata.
 
LE MISURE DI ACCOGLIENZA PER RICHIEDENTI ASILO
 
Il diniego di accesso al sistema pubblico di accoglienza
Con sentenza n. 100/2022 RG. 49/2022 il Tar per la Lombardia, sede di Brescia, ha annullato il provvedimento con cui la prefettura/questura di Brescia aveva negato al richiedente asilo iracheno l’inserimento nel sistema pubblico di accoglienza a causa della «emergenza dovuta all’esponenziale aumento degli sbarchi dei migranti ed altresì l’emergenza connessa ai corridoi umanitari provenienti dall’Afghanistan» nonché «l’aumento degli ospiti positivi al virus Covid-19 presenti nei centri di accoglienza» e la «necessità di dover garantire periodi di quarantena ai nuovi richiedenti asilo assegnati nei centri…».
Il Tar ha richiamato il dovere di fornire le misure di accoglienza ai richiedenti asilo privi di mezzi autonomi di sostentamento previsto dall’art. 17 della direttiva 2013/33/UE e dall’art. 14, d.lgs. 142/2015 attuativo di esso e ha, dunque, ordinato «che, nel termine di giorni trenta dalla comunicazione della sentenza, l’amministrazione torni a provvedere apprestando in favore del ricorrente le misure di accoglienza previste dal d.lgs. n. 142/2015».
 
La revoca delle misure di accoglienza per superamento del limite reddituale
Con varie pronunce il Tar per l’Emilia Romagna ha esaminato i provvedimenti con i quali le prefetture emiliano-romagnole hanno revocato le misure di accoglienza dei richiedenti asilo che avevano superato il limite reddituale per la permanenza, previsto dall’art. 14, co. 3 d.lgs. 142/2015 (importo dell’assegno sociale annuo) e richiesto la restituzione di ingenti somme per il periodo in cui erano rimasti comunque in accoglienza.
Il Tar Bologna con sentenza n. 223/2022 RG. 744/2021 ha innanzitutto esaminato gli artt. 14 e 23, d.lgs. 142/2015 (requisiti per la permanenza nel sistema pubblico di accoglienza e ipotesi di revoca) ritenendoli compatibili con gli artt. 17 e 20 della dir. 2013/33/UE, secondo i quali lo Stato può chiedere al richiedente asilo di partecipare al costo e può disporre la revoca se abbia occultato le proprie risorse. Dunque, il Tar ha ritenuto legittima la revoca delle misure di accoglienza per superamento del reddito pari all’importo dell’assegno sociale annuo, ma non altrettanto la richiesta di rimborso, in quanto «Pur senza giungere all’assoluta affermazione per cui ex art. 20, par. 3 della dir. n. 2013/33/UE presupposto per la riduzione o la revoca delle condizioni materiali di accoglienza è esclusivamente la circostanza per cui il richiedente “abbia occultato risorse finanziarie”, beneficiando in tal modo indebitamente delle stesse, risulta evidente come la permanenza nel centro ed il relativo onere economico […] sia stata consentita nonostante la tempestiva comunicazione o comunque la concreta conoscenza del fattore impeditivo, cosicché si presenta incongrua e non coerente con un canone di razionale proporzionalità la decisione di procedere al recupero integrale della stessa nella somme qui in contestazione».
Dunque, secondo il Tar la richiesta di rimborso può essere legittimata se il richiedente asilo abbia occultato le proprie risorse, ciò che nel caso di specie è stato escluso in quanto dimostrato che egli aveva informato l’Ente gestore della propria attività lavorativa.
Con riguardo a una medesima questione, il Tar Bologna, con ordinanza n. 242/2022, RG. 226/2022 ha sospeso, in sede cautelare, un altro analogo provvedimento con cui era stata revoca la misura di accoglienza a un richiedente asilo, con richiesta di restituzione di ingente somma di denaro. Sospensiva concessa perché «Ritenuto, ad un sommario esame, di poter apprezzare favorevolmente le esigenze cautelari attesa la sussistenza dell’allegato pregiudizio grave ed irreparabile in considerazione dell’entità della somma richiesta dall’Amministrazione a titolo di recupero delle spese indebitamente sostenute per l’accoglienza, fermo restando ogni più approfondito esame nella sede di merito sugli articolati motivi dedotti in ricorso».
 
Di segno in parte differente, il Tar per la Lombardia, sede di Milano, che, con sentenza n. 2932/2021 RG. 1676/2021, ha ritenuto legittima la revoca delle misure di accoglienza per il superamento del reddito di cui all’art. 14 d.lgs. 142/2015 ma ha declinato la propria giurisdizione con riguardo al rimborso del costo, di competenza del giudice ordinario, «trattandosi di aspetto meramente patrimoniale in relazione al quale viene in rilievo una posizione di diritto soggettivo, come tale devoluta alla cognizione del giudice ordinario».
 
Sempre il Tar Milano ha affrontato il diverso caso in cui la prefettura di Milano ha revocato le misure di accoglienza a richiedente asilo destinatario di un provvedimento di rinvio cd. Dublino (reg. 604/2013) a seguito del rigetto del ricorso con cui aveva impugnato quel rinvio. Con ordinanza cautelare n. 351/2022 RG. 334/2022, detto Tar ha respinto la misura cautelare affermando che l’accoglienza è riservata ai soli migranti per i quali lo Stato italiano è competente in merito alla valutazione dell’istanza di protezione internazionale e fino alla scadenza del relativo procedimento, mentre «le questioni attinenti gli effetti della scadenza del termine semestrale per il trasferimento del richiedente asilo nello Stato competente all’esame della relativa domanda, fuoriescono dalla giurisdizione del giudice amministrativo e rientrano in quella del giudice ordinario» precisando che «nel caso in cui il ricorrente ritenga che la competenza dello Stato italiano all’esame della sua domanda di asilo si sia radicata per la scadenza del termine semestrale entro il quale lo Stato deve disporre il trasferimento, può comunque presentare nuova domanda di asilo o equiparati e richiedere di nuovo le misure di accoglienza presso un centro di accoglienza per richiedenti asilo».
 
I PROVVEDIMENTI cd. DUBLINO (reg. 604/2013)
Con decreto 7.4.2022, il Tribunale di Roma ha annullato la decisione dell’Unità Dublino, che aveva disposto il rinvio di richiedente asilo del Bangladesh a Malta (Paese di primo arrivo, ove era stato trattenuto in detenzione amministrativa per 16 mesi e, ammalatosi, è stato riservato per altri 2 mesi, lasciando Malta senza autorizzazione), avendo accertato attraverso specifiche COI che Malta non garantisce, oltre ogni ragionevole dubbio, il rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo e dunque con violazione dell’art. 3, par. 2 del regolamento n. 604/2013.
 
In termini identici un altro decreto del  Tribunale di Roma, 28.3.2022 .
 
Il  Tribunale di Catanzaro, con decreto 25.3.2022 RG. 86/2022 , ha annullato il provvedimento dell’Unità Dublino di rinvio in Svezia di un richiedente asilo, al quale la quale la questura non aveva fornito le specifiche informazioni di cui agli artt. 4 e 5 reg. n. 604/2013, dunque per violazione dell’obbligo di informazione, ritenuto imprescindibile sia dalla giurisprudenza europea (CGUE caso Ghezelbash C-63/15 del 7 giugno 2016) che da quella nazionale (Cons. St. n. 4199/2015 e Cass. n. 17963/20).

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