Il presente numero della Rivista vede la luce in una fase storica del tutto particolare, piena di sfide di altissima difficoltà, che pongono l’Europa, dopo la pandemia, di fronte allo sconvolgimento della guerra in Ucraina, tragedia senza fine che rischia di riportare indietro le lancette della storia. A questo si aggiunge un contesto internazionale ove più di venti conflitti bellici sono in corso, disastri ambientali e imponenti crisi alimentari ed economiche determinano spostamenti di persone in cerca anche solo di sopravvivenza.
In questo quadro altamente drammatico si inserisce la specifica fase politica nell’ambito nazionale, in cui si assiste ad un governo egemonizzato da una coalizione di destra, con gli elementi fondanti che le sono propri e che la stessa rivendica.
Mentre sarebbe ingiusto emettere giudizi prima di una verifica concreta di quanto avverrà sia a livello di modifiche normative sia a livello di prassi e approcci alle tematiche che normalmente affrontiamo, è lecito però interrogarsi sui possibili scenari che inevitabilmente si rifletteranno sul sistema giuridico in generale.
Purtroppo i programmi della coalizione di governo sul tema immigrazione risultano improntati alla consueta visione del fenomeno in termini negativi, in un’ottica improntata ad elementi prioritari di sicurezza e ordine pubblico declinati nella direzione di ulteriormente restringere una normativa basata ancora fortemente sugli assi portanti della l. Bossi-Fini, solo in parte mitigata da alcune aperture, spesso dovute a interventi della giurisprudenza o della Corte Costituzionale.
Sentire nuovamente parlare di blocchi navali, dopo il faticoso percorso, anche giurisprudenziale, che aveva condotto, almeno parzialmente, a un superamento dei decreti sicurezza, non può che aprire oscuri orizzonti sui diritti. Occorre purtroppo sottolineare che, anche a livello europeo, l’imponente proposta di riforma di tutto il sistema asilo, contenuta nel New Pact, trova le sue linee fondanti in quel processo di esternalizzazione sciaguratamente iniziato con gli accordi UE-Turchia in relazione al conflitto siriano e continuato in una serie collaterale di pseudo accordi o intese semplificate con Stati ove i diritti umani sono soggetti a devastanti violazioni. Il memorandum che l’Italia ha sottoscritto con la Libia, con le sue nefande conseguenze, ne sono un vergognoso esempio, e il cimitero senza nomi e senza lapidi del Mediterraneo la testimonianza più tragica.
In questo quadro si pone la fondamentale domanda, che dovremmo sempre farci, su quale debba essere il ruolo di coloro che, giuristi, hanno a cuore la tutela di quel sistema dei diritti umani in cui la nostra Costituzione si erge in tutta la sua profondità e incredibile lungimiranza.
Ogni strumento di conoscenza assume un valore primario ed anche una rivista di diritto può e deve costituire uno strumento che contribuisca a rafforzare quei principi di eguaglianza spesso inattuati nei confronti delle persone che non hanno la cittadinanza italiana. È proprio la competenza, anche tecnica, che permette di comprendere un testo di legge laddove si annidano i rischi di erosione o addirittura di attacco diretto rispetto ai diritti umani fondamentali: è il tratto peculiare del “diritto vivente”, che anche attraverso la giurisprudenza viene a cogliere tutti quegli aspetti che attengono direttamente alla vita delle persone. Ci troviamo in una fase in cui appare quanto mai necessario ripensare alla stessa scaturigine, al perché sono nati i diritti, che sono sorti per la tutela degli indifesi, dei deboli, delle persone scartate: i potenti non hanno mai avuto bisogno dei diritti.
La nostra Costituzione, le fondamentali convenzioni sui diritti umani elaborate nel secondo dopoguerra, che costituiscono quel sistema dei diritti umani, non a caso considerato come la vera “invenzione” del novecento, sono state scritte dal dolore, dalle sofferenze, dalle tragedie delle persone vittime di soprusi, violenze, conflitti bellici. Nello splendido discorso fatto dalla senatrice Liliana Segre in sede di apertura della XIX legislatura veniva citato Pietro Calamandrei, che con icastica espressione affermava che la Costituzione repubblicana «non è un pezzo di carta ma il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà».
La responsabilità dei giuristi va fortemente considerata, non solo nella conoscenza, nel dibattito costruttivo, nel confronto dialettico, ma anche nella diffusione di tale conoscenza, affinché quelli che spesso possono risultare oscuri meccanismi normativi vengano spiegati il più possibile: la conoscenza è una base imprescindibile della democrazia e va perseguita fermamente, con tutti gli strumenti a disposizione e con le competenze e i differenti ruoli che a ciascuno competono.
In questo ambito il lungo cammino pluriventennale della Rivista ha rappresentato e dovrà sempre più rappresentare un punto saldo e avanzato nel perseguire quel primario obbiettivo dell’uguaglianza che la nostra Carta pone come decisivo, legandolo indissolubilmente con il dovere di rimozione di ogni ostacolo che a tale obbiettivo si frapponga. Credo che occorra trovare in noi stessi, legati dal comune intento di lottare contro ogni forma di ingiustizia con gli strumenti del diritto, quella forza, anche interiore, che ci permetta di raggiungerlo o almeno tentare di farlo, accompagnati in questo dal pensiero del grande filosofo del diritto Norberto Bobbio, il quale soleva dire che la differenza tra un sistema non democratico e quello democratico, in fondo, è una sola: mentre il primo è un regime di tipo “esclusivo” , che tende cioè ad escludere alcuni soggetti dal godimento dei diritti fondamentali, all’opposto, quello democratico è un regime di tipo “inclusivo”, che tende cioè ad includere tutti soggetti nel godimento dei diritti fondamentali.
Il fascicolo n. 3 della Rivista si presenta quanto mai ricco non solo di elementi di riflessione giuridica ma di analisi e stimoli profondi che pongono in luce la trasversalità, la multidisciplinarietà delle tematiche dell’immigrazione proprio perché riguardano la persona umana in tutti i suoi multiformi aspetti.
In relazione agli interventi che fanno capo al tema cruciale delle frontiere, il prezioso contributo di Emanuela Pistoia, intitolato Verso la riforma del codice frontiere Schengen: le frontiere interne alla prova della nuova centralità delle riammissioni informali si concentra sulla importante proposta di riforma del Codice Frontiere Schengen (Regolamento UE 2016/399) presentata dalla Commissione Europea nel dicembre 2021, che prevede rilevanti novità sul lacerante tema delle riammissioni informali alle frontiere interne. L’approfondita analisi evidenzia in particolare i numerosi aspetti critici derivanti dal chiaro obbiettivo di giungere ad una “istituzionalizzazione” delle riammissioni informali, che vengono considerate come elemento qualificante del contrasto all’immigrazione irregolare e ai c.d. movimenti secondari, legittimandole sulla base di accordi o intese bilaterali. La mancanza in queste ultime di garanzie effettive dei diritti dei migranti, rischia di produrre il tangibile effetto di ristabilire effettivi confini interni per i cittadini dei Paesi terzi, in palese contrasto con l’obbiettivo originario del sistema Schengen di garantire l’assenza di controlli alle persone prescindendo dalla loro nazionalità. L’introduzione di regole uniformi sul trasferimento delle persone fermate sulle frontiere interne, con conseguente applicazione residuale della direttiva Rimpatri, rischia di determinare squilibri ingiustificabili alla luce del principio di solidarietà, nella ripartizione degli oneri di rimpatrio, in particolare in relazione allo Stato di primo ingresso. Situazione aggravata dalla dolorosa esperienza pluriennale delle prassi applicative in frontiera, laddove le riammissioni informali si prestano a gravi violazioni dei diritti fondamentali.
In connessione con tale tematica si sviluppa il contributo di Simone Marinai La riforma del sistema di informazione visti: tra esigenze di sicurezza dello spazio Schengen e istanze di tutela dei richiedenti il visto fornendo un quadro dettagliato e puntuale sul contiguo tema del passaggio delle frontiere. L’esame delle novità introdotte dalla riforma del sistema di informazione visti (VIS), realizzata mediante l’adozione dei regolamenti 2021/1133 e 2021/1134, delinea un quadro in cui, ancora una volta, l’indirizzo della gestione dell’immigrazione si basa su criteri di efficienza e sicurezza, con il grave rischio che quest’ultima prevalga sempre più sulla primaria esigenza di libertà. L’inserimento all’interno del VIS dei dati relativi ai titolari dei visti di lunga durata e dei permessi di soggiorno, l’ampliamento dei dati biometrici con l’immagine facciale rilevata direttamente all’interno dell’ufficio consolare, l’inserimento e la conservazione delle immagini del volto di bambini già a partire dall’età di sei anni, risultano elementi di grande criticità che vanno nella direzione indicata. A questi si aggiungono l’utilizzo di meccanismi automatizzati di applicazione, con logica probabilistica, di indicatori di rischio connessi alla sicurezza, all’immigrazione irregolare, ed anche alle potenzialità epidemiche. L’autore evidenzia inoltre come la grave problematicità di tale quadro vada ulteriormente valutata alla luce della proposta avanzata dalla Commissione UE nell’aprile del corrente anno, nell’ambito della generale riforma del New Pact, volta a digitalizzare la procedura di rilascio dei visti.
Contiguo alle tematiche precedenti risulta anche l’articolo La determinazione dell’età dei richiedenti asilo nei paesi di “secondo approdo”: in dubio pro software? di Luca Alessandria. L’autore pone in rilievo come le procedure di accertamento dell’età assumano importanza fondamentale per la tutela del superiore interesse del minore, in particolare nelle situazioni c.d. di movimenti secondari, con le informazioni sull’età derivate dai sistemi informativi comuni. L’interagire in tali situazioni di differenti autorità amministrative o giudiziarie di più Stati membri, in assenza di una adeguata regolamentazione sulla legittimità e adeguatezza dei mezzi istruttori volti all’accertamento dell’età, rischia di determinare gravi conseguenze rispetto a tale nodo cruciale, con i relativi riflessi sulla procedura di asilo, in particolare se si evolve verso un’adozione e riconoscimento automatico alle risultanze degli accertamenti svolti dagli Stati di primo ingresso. Un’armonizzazione che si basi saldamente sulla esigenza del “congruo esame” previsto dalla direttiva procedure in conformità all’art. 3 della Convenzione di New York del 1989 risulta fortemente auspicabile, a maggior ragione in relazione alla riforma di tutto il sistema asilo prevista dal New Pact.
Diversa tematica viene affrontata dall’articolo intitolato La condizione giuridica delle persone straniere con disabilità. Percorsi di ricerca nella prospettiva delle discriminazioni multiple, di Giuseppe Arconzo, che approfondisce uno scenario spesso trascurato e sottovalutato, riguardante la complessa condizione delle persone migranti con disabilità. Contributo quanto mai stimolante, anche in considerazione della mancanza di dati, che impedisce una esatta percezione della dimensione del fenomeno stesso. L’articolo analizza il tema complesso delle discriminazioni multiple, soffermandosi sulla giurisprudenza della Corte costituzionale, come la significativa sentenza n. 258/2017, concernente il caso di una ragazza straniera minorenne non in grado di pronunciare il giuramento necessario per l’acquisizione della cittadinanza, che, unita a quelle relative all’attribuzione delle misure assistenziali, ha indicato un percorso di apertura verso una maggiore tutela nei confronti delle persone con disabilità. Percorso peraltro non lineare, posto che sia la sentenza n. 50/2019, sia la n. 19/2022, in recente controtendenza, non ritengono incostituzionale il requisito del permesso di lungo soggiorno per l’accesso alle prestazioni assistenziali se non vi è una doppia situazione di svantaggio. Lo scritto risulta particolarmente interessante laddove evidenzia come, nonostante l’assenza di specifiche previsioni, possano comunque dedursi significativi elementi di tutela delle persone con disabilità dalla stessa normativa concernente la protezione internazionale e dalla relativa applicazione giurisprudenziale.
Nell’articolo The principle of non-refoulment and environmental migration: a legal analysis of regional protection instruments Chiara Scissa affronta il tema, sempre più attuale, della migrazione ambientale e degli strumenti di protezione nei casi di spostamento di persone determinato da fattori climatici, con uno sguardo allargato e internazionale. La decisione del Comitato dei diritti umani della Nazioni Unite nel caso Teitiota v. New Zealand, pur respingendo il ricorso presentato in relazione al pericolo di sommersione dell’isola di Tarawa per mancata dimostrazione del pericolo imminente, ha però ritenuto che il principio generale di non-refoulement si applica a tutte le condizioni di pericolo, tra cui quella del disastro ambientale. Partendo da tale decisione l’autrice sviluppa un approfondito esame del principio di non-refoulement e delle sue possibili applicazioni normative e giurisprudenziali in ben sei aree geografiche: Africa, Americhe, Asia, Europa, Medio Oriente e Oceania. Ne emerge un quadro di primario interesse, che pone in rilievo i differenti approcci alla problematica dell’applicabilità di tale basilare principio.
Nelle Americhe, in Europa e in Africa, il recepimento del principio di non-refoulement è considerato, seppure in modo diversificato, come una componente essenziale nel corpo normativo dei diritti umani, con la conseguente possibilità di allargare il campo di applicazione ai casi di disastro ambientale e cambiamento climatico, stabilendo un rapporto diretto con la protezione della vita e dell’ambiente. Al contrario, i paesi del Medio Oriente, Asia e Oceania presentano un livello assai basso di ratifica di strumenti internazionali concernenti il tema dei rifugiati e dei diritti umani in generale, limitandosi per lo più al recepimento della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, in un quadro connotato dalla quasi totale assenza di giurisprudenza sul tema. L’auspicio dell’autrice è che proprio il caso Teitiota v. New Zealand possa portare all’inizio di un percorso che conduca ad una applicazione del principio di non-refoulement nei casi di cambiamenti climatici e disastri ambientali negli Stati del Medio-Oriente, dell’Asia e dell’Oceania, proprio alla luce della estrema vulnerabilità dei loro contesti.
L’articolo intitolato Violenza domestica e stupro coniugale nelle leggi di Bangladesh, Egitto, Marocco e Pakistan di Deborah Scolart ci accompagna nella complessa tematica relativa ai c.d. reati culturalmente orientati ove alcune condotte, come la violenza domestica e lo stupro coniugale, possono avere una diversa concezione derivante dalle normative dei Paesi di origine, con possibili ripercussioni anche sul piano del sistema giuridico nazionale.
Lo scritto, di alto interesse, esamina, in relazione a tali condotte, la normativa di alcuni Stati (Bangladesh, Egitto, Marocco, Pakistan): ne emerge un quadro articolato, in cui si evidenziano non solo rilevanti differenze, ma anche il percorso di alcune nazioni verso una concezione maggiormente rispettosa dei diritti fondamentali. In Marocco, ad esempio, i rapporti tra coniugi sono stati rimodulati in termini più egalitari nella legge di famiglia, con importanti conseguenze per cui la giurisprudenza, attraverso una interpretazione estensiva, tende a ricomprendere lo stupro coniugale all’interno della norma relativa alla violenza sessuale. Diversamente avviene in Egitto, stante la mancanza di una norma specifica sulla violenza domestica e contro le donne, con lo stesso codice penale che tutela l’esercizio in buona fede dell’imposizione alla moglie dei rapporti sessuali, con riferimento a quanto stabilito nella sharia.
Più diversificata risulta invece la situazione normativa nel subcontinente indiano: in particolare in relazione allo stupro coniugale, si registra una rilevante differenza tra il codice penale del Bangladesh, che con una clausola specifica esonera il marito da responsabilità penale in relazione alla violenza sessuale se la vittima è la moglie, e la normativa del Pakistan, che, con la riforma del codice penale del 2006, non contiene più alcuna forma di esenzione di responsabilità in tal senso, a conferma di un mutato atteggiamento normativo.
Con l’articolo Si fa presto a dire speciale. La protezione speciale a due anni dal decreto legge 130/2020: un istituto unitario ancora in cerca di una disciplina, un permesso di soggiorno che non può non essere convertibile, Livio Neri analizza e approfondisce l’istituto della protezione speciale come previsto dal d.l. n. 130/2020, con particolare attenzione alle sue applicazioni pratiche e alla tutela dei diritti sia di colui che abbia presentato domanda in tal senso e sia di colui che ne abbia ottenuto il riconoscimento.
Lo scritto mette in rilievo come la nuova protezione speciale, con la duplice possibilità di richiesta sia congiuntamente alla protezione internazionale, sia con domanda rivolta direttamente al Questore, si ponga in netta discontinuità con l’impianto complessivo del Testo Unico. La diretta derivazione dell’istituto dalla protezione umanitaria e soprattutto dalla giurisprudenza sviluppatasi in conseguenza, introduce per la prima volta nel nostro sistema una forma di regolarizzazione a regime. L’autore sottolinea peraltro come tale importante novità rischi di essere pregiudicata da una disciplina quanto mai carente, sia in relazione alle procedure per l’accesso a tale forma di protezione e sia soprattutto, alla condizione giuridica della persona che ne ha fatto richiesta, nonché di colui che ne è diventato titolare. Ne consegue la necessità di una interpretazione dell’istituto volta a garantire un pieno godimento dei diritti ad essa connessi.
La convivenza di fatto e il diritto di soggiorno del partner straniero del cittadino italiano o europeo, ponderoso articolo di Paolo Morozzo della Rocca, affronta l’arduo tema evidenziando le condizioni che legittimano la richiesta del titolo di soggiorno per motivi familiari da parte dello straniero irregolare convivente di fatto con un cittadino dell’Unione.
L’ esame esaustivo della variegata legislazione sulla convivenza di fatto, la rilevanza della iscrizione anagrafica, l’approfondimento dei complessi concetti di convivenza e coabitazione, costituiscono un prezioso apporto conoscitivo e permettono di individuare linee interpretative nel rispetto dei diritti fondamentali.
L’intreccio tra il diritto dell’immigrazione e la normativa civilistica della convivenza di fatto, la scarsa chiarezza della l. 76/2016 appaiono superabili individuando nel d.lgs. 30/2007 attuativo della direttiva 2004/38/CE, invece che nel Testo Unico d.lgs. 286/98, la disciplina applicabile. L’esibizione del contratto di convivenza autenticato dal notaio o dall’avvocato presso il quale è stipulato, costituisce documentazione ufficiale, come tale idonea a dimostrare la stabilità della convivenza, determinando in tal modo la ricevibilità da parte della Questura della richiesta del titolo di soggiorno.