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Fascicolo 3, Novembre 2022


Coloro che arrivano qui / sulle nostre sponde

già tormentate dal freddo / già malate e già sole

non sanno che in noi / le finestre di grande speranza

sono ormai chiuse.

(Alda Merini)

Corte di giustizia dell'Unione europea

Regolamento 604/2013 e direttiva 2013/32: domanda di protezione internazionale presentata da minore figlio di genitori ai quali era già stato riconosciuto l’asilo in altro Stato membro
La causa RO (CGUE, C-720/20, sentenza dell’1.8.2022) verte sulla competenza e sull’ammissibilità in relazione a una domanda di protezione internazionale,
presentata da un minore nato in uno Stato membro da genitori che lì avevano richiesto il riconoscimento di uno status di protezione internazionale, pur godendo dell’asilo in uno Stato membro diverso. Il giudizio principale era sorto in Germania, dove viveva una famiglia di cittadini russi che avevano presentato domande di protezione internazionale. Le domande erano state rigettate, perché tutte queste persone risultavano già ammesse allo status di rifugiato in Polonia e, secondo le autorità tedesche, avrebbero dovuto fare ritorno in quello Stato. Tuttavia, durante la loro permanenza in Germania, era nata RO, per conto della quale i genitori avevano poi presentato domanda di protezione internazionale. In altre parole, questa era l’unica domanda avanzata da chi non fosse già rifugiato in un altro Stato membro. Nell’ambito giudizio interno, il Tribunale amministrativo locale si rivolgeva alla Corte di giustizia, esperendo due quesiti interpretativi: il primo quesito riguarda l’interpretazione dell’art. 20, par. 3, del regolamento 604/2013 (Dublino III). La disposizione stabilisce che, ai fini del regolamento, «la situazione di un minore che accompagna il richiedente e risponde alla definizione di familiare, è indissociabile da quella del suo familiare e rientra nella competenza dello Stato membro competente per l’esame della domanda di protezione internazionale del suddetto familiare, anche se il minore non è personalmente un richiedente, purché ciò sia nell’interesse superiore del minore»; aggiunge poi che «(l)o stesso trattamento è riservato ai figli nati dopo che i richiedenti sono giunti nel territorio degli Stati membri senza che sia necessario cominciare una nuova procedura di presa in carico degli stessi». Si può, dunque, applicare per analogia l’art. 20, par. 3, del Reg. Dublino III al caso di specie? La Corte nega che ciò sia possibile, perché RO è figlia di rifugiati, non di richiedenti. Il legislatore dell’Unione ha infatti inteso distinguere i due casi, prevedendo regole diverse a seconda della situazione; nel caso di RO la disposizione più pertinente, almeno in potenza, sarebbe stato l’art. 9 del regolamento, ma i genitori non soddisfacevano le condizioni procedurali per poterne invocare l’applicazione in concreto.
Con il secondo quesito, invece, il giudice del rinvio si sofferma sull’art. 33, par. 2, lett. a), della direttiva 2013/32 (direttiva procedure), inerente alle ipotesi tassative di inammissibilità delle domande di protezione internazionale. In specie, l’attenzione viene concentrata sull’eventuale facoltà, per la Germania, di giudicare inammissibile la domanda di protezione internazionale di RO, perché un altro Stato membro aveva concesso protezione internazionale ai familiari che vivono con lei. La Corte ritiene che la disposizione di cui trattasi non possa essere applicata a RO: infatti, la protezione concessa dalla Polonia vale, nello specifico, per i genitori e per altri familiari, ma non anche per lei. L’art. 33, par. 2, della direttiva procedure traduce in prassi il principio di mutua fiducia tra Stati membri, ma resta una disposizione a carattere derogatorio che, come tale, va interpretata restrittivamente. Perciò, non sarebbe giuridicamente fondata un’estensione del campo di applicazione ratione personae della casistica a numero chiuso in essa prevista.
 
Direttiva 2013/32 e direttiva 2013/32: incidenza di una situazione nazionale emergenziale, per eccessivo afflusso di migranti, sul diritto di presentare domanda di asilo e di non essere trattenuto
La sentenza M.A. (CGUE, C-72/22 PPU, sentenza del 30.6.2022) riguarda il rapporto tra limiti ai diritti dei richiedenti asilo e situazione emergenziale nazionale data dall’afflusso massiccio di migranti in uno Stato membro. La CGUE era stata investita di un rinvio pregiudiziale da parte della Corte amministrativa suprema della Lituania che voleva comprendere in quale misura, una simile situazione, potesse incidere sui diritti del richiedente asilo – che aveva presentato la propria domanda dopo avere soggiornato irregolarmente in territorio lituano (nello specifico, il sig. M.A.) – di ottenere l’esame della richiesta e di non essere trattenuto oltre quanto previsto dal diritto UE. I quesiti del giudice traevano origine da una normativa interna che prevedeva restrizioni in tal senso. La Corte considera dapprima gli artt. 6 e 7, par. 1, della direttiva 2013/32, relativi all’accesso alla procedura di riconoscimento di status e alla presentazione della relativa domanda. In primo luogo, la Corte ribadisce che la presentazione della domanda, a differenza del suo inoltro, non soggiace ad alcuna formalità ed essere effettuata anche da chi soggiorna irregolarmente in uno Stato membro; resta il collegamento stretto tra le fasi di presentazione e inoltro della domanda, entrambe strumentali all’ottenimento dell’esame della stessa e, dunque, alla tutela del diritto riconosciuto dall’art. 18 della Carta dei diritti fondamentali; addirittura, la direttiva procedure stabilisce che gli Stati membri debbano garantire a chi ha presentato domanda di protezione internazionale la possibilità di inoltrarla quanto prima.
In virtù del dato testuale e dello scopo delle disposizioni UE applicabili, non è possibile ammettere l’estensione di eccezioni al diritto di presentare una domanda di protezione internazionale soltanto perché lo Stato ospitante versa in una situazione di emergenza. Al tempo stesso, non sono ammissibili restrizioni giustificate da generici richiami alla tutela dell’ordine pubblico o della pubblica sicurezza, perché l’art. 72 TFUE non consente agli Stati membri di invocare detti concetti per contravvenire al diritto UE. Né possono essere ammesse alla presentazione della domanda solo alcune categorie di richiedenti. Viene poi utilizzato come parametro di riferimento l’art. 8, par. 3, della direttiva 2013/33 (direttiva accoglienza) per sondare la tenuta del divieto di trattenimento del richiedente asilo, anche laddove questi si trovi in posizione irregolare prima di presentare la domanda. La Corte spiega che detta disposizione elenca tassativamente le ipotesi di trattenimento: tra le ipotesi, non figura lo stato di emergenza derivante da afflusso massiccio di migranti nello Stato membro interessato. Inoltre, resta valida l’interpretazione giurisprudenziale restrittiva secondo cui – ai fini del trattenimento nel quadro della direttiva accoglienza – occorre sempre valutare tutti gli elementi specifici del caso in esame. In particolare, l’individuo potrà essere davvero ritenuto pericoloso per l’ordine pubblico solo se si riveli una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave nei confronti di un interesse fondamentale della società. Allo scopo, non basta certo asserire che il richiedente si sia trovato in posizione irregolare nello Stato membro in cui ha presentato (dopo qualche tempo) domanda di protezione internazionale.
 
Direttiva 2013/32 e condizioni materiali di accoglienza: legittimità o meno della revoca per reati commessi all’esterno della struttura di accoglienza
Il caso TO (CGUE, C-422/21, sentenza dell’1.8.2022) riguarda i limiti alla revoca delle condizioni materiali di accoglienza al rifugiato. Rilevano gli artt. 20, parr. 4 e 5, della direttiva 2013/33. Il par. 4 recita: «(g)li Stati membri possono prevedere sanzioni applicabili alle gravi violazioni delle regole dei Centri di accoglienza nonché ai comportamenti gravemente violenti». Il par. 5 impone agli Stati membri, tra le altre cose, di irrogare tali sanzioni tenendo conto del principio di proporzionalità e assicurandosi di garantire un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti. Il Consiglio di Stato italiano, in una causa avente ad oggetto la revoca delle condizioni materiali di accoglienza a un rifugiato che aveva procurato lesioni a un dipendente di Trenitalia, si rivolgeva alla Corte di giustizia per comprendere quali fossero il campo di applicazione del par. 4 e i limiti degli obblighi ex par. 5. Relativamente alla prima questione, si trattava di capire se all’interessato potessero essere revocate le condizioni materiali di accoglienza, anche se i fatti di cui si era reso responsabile erano stati commessi fuori dalla struttura di accoglienza. La Corte risponde affermativamente, perché i «comportamenti gravemente violenti» cui allude l’art. 20, par. 4, della direttiva, non sono necessariamente riferiti ad accadimenti avvenuti nella struttura ospitante. Questa ipotesi è stata aggiunta ai casi di gravi violazioni delle regole dei Centri di accoglienza e, non prevedendo specifiche analoghe sul luogo di riferimento, non è sottoposta a restrizioni particolari ratione loci. La Corte è dell’avviso che un’interpretazione come quella proposta consenta di rispettare l’obiettivo della disposizione in analisi, ovvero quello di autorizzare gli Stati membri a sanzionare in modo adeguato condotte pericolose per l’ordine pubblico e per la sicurezza delle persone e dei beni. Venendo poi alla seconda questione, la Corte conclude che queste condotte possono giustificare la revoca delle condizioni materiali di accoglienza. Tuttavia, onde evitare di ledere il principio di proporzionalità e il diritto dell’interessato di beneficiare di un tenore di vita dignitoso, la sanzione da irrogare non potrà trascurare i bisogni più elementari della persona, quali nutrirsi, vestirsi, lavarsi e disporre di un alloggio.
 
Direttiva 2003/86 e ricongiungimento con figlio rifugiato: rilievo dell’età del figlio e qualificazione del rapporto di vita familiare effettiva tra gli interessati
Nel caso SW (CGUE, cause riunite C-273/20 e C-355/20, sentenza dell’1.8.2022) la Corte di giustizia ha chiarito fino a che punto rileva il limite della minore età del rifugiato ai fini del ricongiungimento familiare, disciplinato dalla direttiva 2003/86. Due cittadini siriani avevano ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato in Germania quando erano minori non accompagnati. Successivamente, i loro genitori avevano chiesto, per sé stessi e per altri figli, il rilascio di un visto nazionale ai fini del ricongiungimento familiare all’Ambasciata della Repubblica federale tedesca a Beirut. Le decisioni sono state assunte mesi dopo le richieste, quando nel frattempo i figli rifugiati erano già diventati maggiorenni e respinsero le richieste proprio perché le si riteneva non più riferite ad un ricongiungimento con figli minorenni. Infatti, il diritto tedesco applicabile prevedeva che i genitori avessero diritto al ricongiungimento familiare con il figlio rifugiato, solo se questo era ancora minorenne al momento dell’adozione della decisione finale da parte dell’autorità competente. Le decisioni di rigetto sono state impugnate; ne è seguito un procedimento culminato con l’attivazione della Corte amministrativa federale tedesca. Tale giudice si è rivolto alla Corte di giustizia per sapere come interpretare, in particolare, l’art. 16, par. 1 della direttiva 2003/86, che dispone quanto segue «(g)li Stati membri possono respingere la domanda d’ingresso e di soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare (...) in uno dei casi seguenti: a) qualora le condizioni fissate dalla presente direttiva non siano, o non siano più, soddisfatte (...); b) qualora il soggiornante ed il suo familiare o i suoi familiari non abbiano o non abbiano più un vincolo coniugale o familiare effettivo». Nello specifico, il giudice a quo voleva sapere se le condizioni della direttiva fossero, appunto, soddisfatte – dato che i soggiornanti rifugiati non erano più minorenni – e come dovessero essere intese le condizioni richieste per ritenere sussistente una vita familiare effettiva. La Corte risponde al primo quesito affermando che, ai fini degli artt. 10 e 16 della direttiva, la minore età del rifugiato rileva soltanto al momento della presentazione della richiesta di ricongiungimento familiare. La direttiva non chiarisce espressamente la questione, ma è anche vero che non consente agli Stati membri di affrontarla in via autonoma. Occorre dunque tenere ferma la nozione di «minore non accompagnato» enunciata all’art. 2, lett. f), della direttiva e procedere a un’interpretazione orientata all’obiettivo dell’atto in base al contesto di riferimento: da un lato, favorire il ricongiungimento familiare e, dall’altro, concedere una protezione ai cittadini di Paesi terzi, segnatamente ai minori. Dunque, la questione sollevata dal giudice interno va sviluppata considerando queste premesse, nonché gli artt. 7 e 24 della Carta dei diritti fondamentali, che tutelano, rispettivamente, il diritto alla vita privata e familiare e l’interesse superiore del minore. La Corte, pertanto, ha negato che – in specie – le richieste dei genitori potessero essere rigettate solo perché i figli rifugiati erano già diventati minorenni al momento delle decisioni sfavorevoli; ciò perché solo una aspetto è stato considerato rilevante e cioè che la minore età sussisteva quando le domande di ricongiungimento familiare erano state proposte. Un’interpretazione diversa sarebbe risultata contraria alla ratio della direttiva e di fatto avrebbe fatto dipendere la situazione degli interessati dalla condotta delle autorità nazionali competenti; un simile grado di imprevedibilità e aleatorietà si ripercuoterebbe, a sua volta, sui principi di parità di trattamento e di certezza del diritto. Di conseguenza, la normativa tedesca risulta essere non in linea con le disposizioni di riferimento della direttiva 2003/86, così come interpretate alla luce della Carta. Quanto al secondo quesito, la Corte precisa che la sola ascendenza diretta di primo grado non è sufficiente per affermare automaticamente che rifugiato minorenne e richiedenti abbiano una relazione sintomatica di una vita familiare effettiva. Tuttavia, tale relazione potrebbe sussistere anche nelle ipotesi in cui figlio soggiornante e genitore interessato non convivono nello stesso nucleo familiare o nella stessa casa. Non occorre nemmeno che vi sia sostegno reciproco dal punto di vista economico: diversamente, infatti, visite occasionali (purché possibili) e contatti regolari di qualsiasi tipo possono essere sufficienti per ritenere che tali persone ricostruiscano relazioni personali e affettive, oltre che per attestare l’esistenza di una vita familiare effettiva.
 
Art. 20 TFUE e soggiorno di cittadino di Stato terzo, familiare di cittadino dell’Unione, che non ha esercitato il diritto di libera circolazione: rapporto di dipendenza tra coniugi e tra genitori e figli
In XU (CGUE, cause riunite C-451/19 e C-53/19, sentenza del 5.5.2022) è stato affrontato il tema del diritto di soggiorno in uno Stato membro, del familiare straniero di cittadino UE che non si è avvalso della libera circolazione. La Corte superiore di giustizia di Castilla – La Mancha (Spagna) doveva decidere se fossero legittimi o meno i provvedimenti con i quali era stato negato il diritto di soggiorno temporaneo a due cittadini di Stati terzi, con figli minori a carico. In forza del diritto interno applicabile, costoro non avrebbero potuto beneficiare di tale diritto perché erano coniugi di altrettanti cittadini spagnoli che, a loro volta, non avevano esercitato il diritto di circolazione in un altro Stato membro e non possedevano risorse economiche sufficienti per sé e per i propri familiari. Il giudice spagnolo si rivolgeva alla CGUE per comprendere, essenzialmente, quanto rilevassero tali condizioni ostative ai fini dell’applicazione dell’art. 20 TFUE al caso di specie. I punti emersi dalla sentenza, in considerazione dei quesiti e degli elementi di fatto e di diritto dei giudizi interni, sono tre. La premessa di fondo della pronuncia è che, in via eccezionale, il diritto di soggiorno deve essere riconosciuto al cittadino di Stato terzo familiare di cittadino UE che non si sia spostato dal suo Stato membro. Ciò accade quando tra i due vi è un rapporto di dipendenza talmente forte che il secondo sarebbe costretto ad abbandonare il territorio dell’Unione, se il primo dovesse fare rientro in un Paese terzo per ragioni di carattere giuridico. Il tutto, ovviamente, qualora il mancato riconoscimento del diritto di soggiorno a favore del cittadino di Stato terzo dipenda dal diritto dello Stato membro che lo ospita. Alla luce di questa presa di posizione, il primo punto elaborato dalla Corte è il seguente: pur essendo da riconoscere in casi limite, il diritto di soggiorno di cui sopra non può essere negato per il solo fatto che il familiare cittadino dell’Unione non possiede risorse sufficienti a scongiurare che il coniuge (straniero) diventi un onere a carico dell’assistenza sociale nazionale. Poiché è necessario, invece, considerare il rapporto di dipendenza tra i familiari, la Corte passa al secondo punto, che implica una riflessione sugli elementi costitutivi di questo legame. La domanda è: gli obblighi di convivenza che il diritto interno fa derivare dal matrimonio, bastano a confermare la sussistenza del rapporto di dipendenza? La Corte ritiene che il solo vincolo biologico o giuridico tra cittadino UE e familiare cittadino di Stato terzo non basti; al contempo, sposta l’attenzione su un altro piano, che coinvolge eventuali figli minori. Posto che nelle cause trattate dal giudice del rinvio entrambe le coppie hanno figli minori che sono cittadini spagnoli, alla Corte preme sottolineare l’importanza del rapporto tra genitore – cittadino di Stato terzo – e figlio minore – cittadino UE – del quale ha l’affidamento effettivo. Riferendosi anche agli artt. 7 e 24, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali, la Corte ricorda che il rapporto di dipendenza su cui si sta soffermando serve a impedire che il cittadino dell’Unione, minore di età, sia costretto ad abbandonare il territorio dell’Unione per seguire il genitore cittadino di Stato terzo, obbligato a fare ritorno al proprio Paese. Se così fosse, ancora una volta sarebbe messo in discussione l’effetto utile della cittadinanza dell’Unione. Per la Corte, il rapporto di dipendenza tra adulti differisce dal rapporto di dipendenza tra adulto e minore, ipotesi che va considerata in funzione dell’interesse superiore del minore ed è integrata da presunzioni di più ampia portata. In particolare, a giudizio della Corte, il rapporto di dipendenza tra genitore (cittadino di Stato terzo) e figlio minore (cittadino dell’Unione) si presume sussistente in caso di coabitazione dei genitori. Il fatto che solo uno di essi possa e voglia assumersi l’onere quotidiano del figlio minorenne è un elemento rilevante, ma non autonomamente decisivo. Infine, la Corte tocca un terzo punto, ovvero il rapporto di dipendenza tra cittadini di Paesi terzi. La Corte applica anche a questa ipotesi la teoria appena riassunta. In pratica, la sua interpretazione è volta a tutelare il cittadino minorenne dell’Unione, anche dal rischio di dovere abbandonare il territorio UE per seguire il fratello acquisito che sia cittadino di Stato terzo. Il rapporto di dipendenza tra cittadini di Stati terzi potrà dunque assorbire anche il minore cittadino UE, che sia familiare di almeno uno di essi.

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