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Fascicolo 3, Novembre 2022


Coloro che arrivano qui / sulle nostre sponde

già tormentate dal freddo / già malate e già sole

non sanno che in noi / le finestre di grande speranza

sono ormai chiuse.

(Alda Merini)

Cittadinanza e apolidia

Sempre assai numerose risultano le pronunce in materia di cittadinanza: così, anche quelle emesse nel secondo quadrimestre dell’anno (maggio-agosto 2022), come di consueto attinenti prevalentemente alle controversie davanti al giudice amministrativo in tema di acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. Ed altrettanto immancabili sono i provvedimenti in materia di apolidia.
In questo stesso periodo emergono tuttavia due sentenze assai rilevanti, ognuna con un proprio specifico profilo. Si tratta anzitutto di una illuminata sentenza della Corte costituzionale, la quale è intervenuta al fine di rendere inoperante uno degli effetti derivanti dal prolungamento dei termini relativi all’operatività dei requisiti necessari ai fini dell’acquisto della cittadinanza per matrimonio, introdotti con il ben noto pacchetto sicurezza. Tra le cause di scioglimento del matrimonio rientra infatti la morte del coniuge italiano.
A breve distanza di tempo è stata poi pubblicata una sentenza assai dettagliata della Corte di cassazione, a sezioni unite, nella quale sono state affrontate e correttamente respinte in modo definitivo le tesi a sostegno del carattere volontario riguardo alla presunta perdita della cittadinanza italiana a causa dei provvedimenti relativi alla grande naturalizzazione brasiliana di fine Ottocento.
 
Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano
Cittadini emigrati in Brasile e destinatari dei provvedimenti di naturalizzazione collettiva emessi dall’autorità di quello Stato nel 1889. Facoltà di opposizione a tale cittadinanza ai fini del mantenimento della cittadinanza italiana. Suo mancato esercizio. Irrilevanza di tale comportamento
Nelle precedenti Rassegne sono state più volte ricordate alcune sentenze del Tribunale di Roma, ma soprattutto della relativa Corte d’appello, concernenti le richieste di accertamento della cittadinanza italiana da parte di cittadini discendenti da avi emigrati in Brasile alla fine del 1800, i quali ultimi erano stati destinatari dei provvedimenti governativi concernenti la c.d. naturalizzazione di massa: ovvero, di un primo decreto del 1889 con il quale quello Stato attribuiva la propria cittadinanza a tutti gli stranieri residenti nel proprio territorio, salvo una facoltà di opposizione da effettuarsi mediante una dichiarazione resa alle autorità dei rispettivi Stati di origine.
In tale prospettiva, sono state qui già riportate sia le diverse posizioni assunte dalla Corte d’appello di Roma riguardo agli effetti del comportamento inerte di tali persone sia quella pervicacemente contraria al mantenimento dello status civitatis italiano, assunta dall’Avvocatura dello Stato per conto del Ministero dell’interno, il quale era persino giunto a disporre la sospensione dell’esame delle singole richieste in attesa di una apposita pronuncia da parte della Corte di cassazione.
Sono infine intervenute due pronunce gemelle delle sezioni unite: attraverso una disamina oltremodo approfondita delle norme straniere e di quelle italiane vigenti a quell’epoca, è stata risolutivamente respinta la tesi relativa alla perdita della cittadinanza italiana da parte degli ascendenti dei ricorrenti, impegnati a far riconoscere la continuità iure sanguinis di tale status (Cass. SU, sent. 24 agosto 2022, n. 25317 e sent. n. 25318, di cui qui si riproduce la seconda).
Occorre premettere che gli argomenti addotti dall’Avvocatura dello Stato, nel presumibile ed immancabile intento di ridurre il flusso di questo particolare categoria di immigrati, e successivamente accolti dalla Corte romana nelle sentenze appellate, si prestavano di per sé ad ampie censure avendo riguardo ai tre profili da essa individuati. In sintesi, muovendo dal necessario riferimento all’art. 11 c.c. 1865 il quale prevedeva tra l’altro la perdita della cittadinanza italiana a carico di chi avesse «ottenuto» una cittadinanza straniera (n. 2) o di chi «senza permissione del governo», avesse accettato impiego da un governo estero (n. 3), si sosteneva, da un lato, che la mancata dichiarazione alle autorità dello Stato di origine, volta al mantenimento della cittadinanza originaria, integrasse l’ipotesi di «ottenimento» volontario, per fatti concludenti, dello status civitatis brasiliano; e, dall’altro, che la continuità nello svolgimento di un’attività lavorativa (beninteso, di tipo privatistico) in quello Stato costituisse pur sempre un impiego presso un governo straniero.
Una semplice esegesi dell’art. 11, suffragata anche dalla prassi giurisprudenziale formatasi sull’analogo testo dell’art. 8 della successiva legge organica 13.6.1912 n. 555, unitamente alla altrettanto agevole constatazione della situazione di disagio culturale e di difficoltà economica, in cui versavano gli emigrati italiani (e non solo) in quel periodo, sarebbero state sufficienti a respingere simili deduzioni. Viceversa, le sezioni unite giungono a tale risultato non solo al termine di un minuzioso esame delle norme italiane e brasiliane all’epoca vigenti, ma anche evocando la natura di diritto fondamentale inerente alla cittadinanza.
Riguardo al primo aspetto, merita di essere segnalata la ricostruzione della sequenza di provvedimenti governativi successivi al discusso decreto del 1889, dalla quale risulta che il decreto di naturalizzazione di massa, anziché conferire automaticamente la cittadinanza brasiliana, prevedeva dapprima una facoltà di opposizione presso le proprie autorità contro tale attribuzione, impossibile da esercitare sia mediante un inattuabile ritorno in Patria sia mediante una inutile ricerca di Consolati vicini. Veniva in seguito prescritto il necessario compimento di un’attività ulteriore, ovvero la richiesta di iscrizione alle liste elettorali brasiliane o il rilascio della relativa tessera elettorale: attività perciò riservate ai (rarissimi) individui non analfabeti. Viene poi risolutamente, e del tutto correttamente, respinta l’assimilazione dell’atteggiamento di inerzia della maggior parte degli emigrati, all’oscuro dei suddetti provvedimenti o comunque non in grado di attivarsi, ad una rinuncia tacita alla cittadinanza italiana escludendo la possibilità di perdere quest’ultima per fatti concludenti.
A quest’ultimo proposito vengono citate a sostegno di questa tesi, di per sé ineccepibile, un certo numero di sentenze della Corte di cassazione emesse sia nel vigore della citata legge organica n. 555/1912 sia in tempi più recenti, ma tutte attinenti all’applicazione dell’art. 8 della prima legge, norma relativa appunto alla perdita della cittadinanza e tutte ispirate al concetto di una necessaria (ed esplicita) volontà ai fini della perdita della cittadinanza italiana. Abbastanza convincente appare poi il richiamo alla celebre sentenza costituzionale n. 87/1975 che censurava, nel vigore della legge testé citata, la perdita automatica della cittadinanza a carico della cittadina maritata ad uno straniero di cui acquistava altrettanto automaticamente la cittadinanza.
Compare inoltre ripetutamente, a tale riguardo, l’inserimento della cittadinanza nel novero dei diritti fondamentali, riservato comunque qui ai casi di perdita della medesima, mutuato dalle norme internazionali sui diritti umani e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Di immediata evidenza risultano infine le censure concernenti la presunta equivalenza tra una normale attività di lavoro, foss’anche pubblico, in un Paese straniero e l’impiego alle strette dipendenze di un governo estero, ai sensi dell’art. 11 n. 3 c.c. 1865. In effetti, quest’ultimo comporta l’assunzione di pubbliche funzioni, tali da imporre e obblighi di gerarchia e fedeltà verso lo Stato straniero, di natura stabile e tendenzialmente definitiva.
Le molteplici motivazioni di questa sentenza vengono naturalmente riassunte nella parte finale dove si enunciano i principi di diritto, all’interno dei quali risalta quello (mutuato dalla ormai copiosissima giurisprudenza sulla retroattività delle sentenze costituzionali sulla c.d. trasmissione della cittadinanza a matre) relativo alla natura dello status di cittadino, imperscrittibile e giustiziabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva integrata dalla nascita da cittadino (in senso neutro). Correlativamente, a chi ne chiede il riconoscimento spetta di provare solo il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione suddetta, mentre incombe alla controparte, che ne abbia fatto eccezione, la prova dell’eventuale fattispecie interruttiva.
 
Acquisto della cittadinanza per matrimonio
a) Requisiti necessariamente sussistenti sino all’emanazione del decreto di acquisto: scioglimento del matrimonio, ivi compresa la morte del coniuge italiano. Illegittimità costituzionale di quest’ultimo per irragionevolezza ex art. 3 Cost. b) Decreto prefettizio di rigetto dell’istanza di acquisto per una causa ostativa cui all’art. 6 n. 1 lett. b; sua legittimità. c) Decreto prefettizio di respingimento della domanda per condanne relative a reati commessi dal marito della richiedente la cittadinanza.
Com’è noto, l’art. 5 della l. n. 91/1992 contempla i requisiti per l’acquisto della cittadinanza a seguito di matrimonio con cittadino italiano; il testo originario della norma esigeva, una volta trascorsi sei mesi dalla celebrazione del medesimo, l’assenza di scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili nonché di separazione legale «al momento della presentazione della domanda». In virtù delle modifiche in senso restrittivo apportate dall’art. 1, co. 11, della l. 15.7.2009, n. 94 (il c.d. pacchetto sicurezza), il suddetto termine per la residenza è stato innalzato a due anni. Per di più, i requisiti sopra citati devono ora sussistere sino al momento dell’adozione del decreto di conferimento della cittadinanza di cui all’art. 7, co. 1. A sua volta, tale decreto, in base a quanto dispone l’attuale testo dell’art. 9-ter, può essere adottato entro un termine di 24 mesi prorogabile sino al massimo di 36 mesi dalla data di presentazione della domanda.
Tra le cause sottese allo scioglimento del matrimonio rientra ovviamente anche la morte del coniuge italiano: evento del tutto normalmente non riconducibile alla volontà di uno dei componenti della coppia, non a caso ripetutamente dichiarato irrilevante dalla giurisprudenza nel vigore della disciplina precedente. Di recente, però la implicita previsione del suddetto evento tra i requisiti del nuovo art. 5 è apparsa irragionevole e suscettibile di lesione del diritto di agire in giudizio al Tribunale di Trieste, il quale ha sollevato alcune questioni di legittimità costituzionale al riguardo per incompatibilità con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Dal canto suo, la Corte costituzionale, dopo aver ridotto il perimetro di indagine al solo art. 3, ovvero al solo criterio della irragionevolezza, ha dichiarato la illegittimità della norma citata nella parte in cui non esclude, dal novero delle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, la morte del coniuge del richiedente, sopravvenuta in pendenza dei termini previsti per la conclusione del relativo procedimento (Corte cost., 26.7.2022, n. 195). La motivazione di questa importante sentenza muove dalla constatazione che il prolungamento del termine di questo modo di acquisto agevolato della cittadinanza non riflette l’esigenza che esista un nucleo familiare al momento dell’adozione del decreto, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, poiché i requisiti ivi indicati debbono già sussistere al momento della presentazione dell’istanza. Qualora tali requisiti vengano a mancare essi si traducono, secondo la Corte, in altrettante cause ostative.
Ai fini del test di ragionevolezza ex art. 3 Cost., relativo alla inclusione del decesso del coniuge tra queste ultime, viene considerata anzitutto come sua possibile giustificazione quella che intende agevolare l’integrazione nella comunità statale di chi abbia fatto parte per un periodo di tempo di un nucleo familiare fondato sul vincolo matrimoniale con un cittadino italiano. In questo caso tuttavia far gravare sull’istante anche il rischio della morte del coniuge nella pendenza del procedimento equivale a porre a carico di chi ha già maturato, al momento della domanda, i requisiti di cui sopra riguardo al diritto al riconoscimento della cittadinanza un’alea che sfugge alla sua sfera di controllo e che non attiene alle ragioni costitutive del diritto alla cittadinanza. D’altro canto, lo stesso ordinamento riconosce la più ampia protezione al coniuge superstite, in ambito non solo successorio, ma anche previdenziale e assistenziale
Il vaglio di costituzionalità si sposta poi su una seconda possibile ratio della disciplina in esame: quella di prevenire un uso strumentale del matrimonio, finalizzato al mero scopo di conseguire la cittadinanza (fenomeno dei matrimoni fittizi ben presente – va ricordato – in Italia all’epoca dell’acquisto automatico della cittadinanza nel vigore della legge del 1912). Manca tuttavia nella disciplina relativa alla cittadinanza una disposizione specifica al riguardo; essa è semmai presente in alcuni articoli del TU sull’immigrazione in tema di ricongiungimento familiare e di soggiorno con i correlativi effetti limitati a questi ambiti, pur suscettibili di riverberarsi nella materia qui esaminata.
Tuttavia, anche qualora si ravvisi un intento simile nella nuova disciplina in linea generale, rimane confermata l’assoluta estraneità, rispetto ad esso, della fattispecie concernente la morte del coniuge. Un ipotetico matrimonio contratto in frode alla legge risulta del tutto alieno rispetto all’evento naturale della morte, di per sé inidonea, secondo la Corte, a far presumere la sussistenza di un matrimonio fittizio. In conclusione, la norma che ascrive il decesso del coniuge tra i fattori ostativi all’attribuzione della cittadinanza – in quanto causa di scioglimento del matrimonio – è irragionevole rispetto a qualsivoglia giustificazione riferibile all’art. 5, co. 1, della l. n. 91/1992; la sua mancata esclusione dall’ambito di quest’ultimo risulta perciò di per sé incompatibile con l’art. 3 Cost.
 
A breve distanza di tempo sono state poi pubblicate due sentenze del Consiglio di Stato relative ad altri aspetti di questo modo di acquisto della cittadinanza. La prima trae origine dalla dichiarazione di inammissibilità della istanza, emessa da una prefettura sulla base dell’accertata condanna penale dell’interessato per uno dei reati indicati, come cause ostative, dall’art. 6, co. 1, lett. b; tale provvedimento era stato ovviamente avallato dal Tar locale (Cons. St., sez. III, sent. 17.8.2022, n. 7236). Dal canto loro, i giudici di Palazzo Spada preliminarmente respingono il motivo di ricorso fondato sulla asserita nullità della sentenza di primo grado per la motivazione ritenuta insussistente in quanto limitata al richiamo di uno dei motivi di rigetto del decreto prefettizio in modo del tutto acritico. Dopo una ricognizione dei poteri del Collegio relativi all’integrazione della motivazione in sede di appello viene infatti esclusa l’ipotesi di una motivazione «apparente», ovvero che non individua neppure una ragione ulteriore rispetto alla generica affermazione della fondatezza o infondatezza del ricorso, poiché la sentenza del Tar, sia pur succintamente, aveva esternato l’iter logico-giuridico che aveva condotto al rigetto del gravame, considerando dirimente la condanna riportata. Riguardo poi al lamentato vizio di incompetenza della prefettura, il Consiglio di Stato ricorda che con la direttiva del 12.3.2012 il Ministero dell’interno ha provveduto a delegare in specifiche ipotesi alle prefetture il potere sia di accogliere sia di respingere le istanze di acquisto della cittadinanza per i motivi ostativi di cui alle lettere a e b dell’art. 6, co. 1, della l. n. 91/1992, mentre resta ferma la competenza del Ministro dell’interno a denegare il suddetto acquisto per ragioni inerenti alla sicurezza della Repubblica (lett. c) o ad accogliere l’istanza se il Consiglio di Stato ritiene che tali ragioni non sussistano (art. 8, co. 1). Infine, a fronte del gravame relativo alla mancata considerazione della lieve entità della condanna, viene sottolineato il carattere imperativo delle previsioni contenute nella norma applicata.
 
Anche la seconda sentenza riguarda un ricorso contro un decreto prefettizio di respingimento dell’istanza di acquisto, in questo caso motivato da condanne penali riportate dal marito della richiedente, peraltro in epoca precedente alla loro unione. L’impugnazione dell’atto, fondata anch’essa sulla incompetenza del prefetto, e in aggiunta sull’assenza dei motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica, veniva accolta dal Tar. Il giudice amministrativo affermava la propria giurisdizione dopo aver rilevato che i motivi posti a fondamento del rigetto rientravano nella lett. c dell’art. 6, co. 1 della l. n. 91/1992: dunque, tale rigetto spettava semmai al Ministro dell’interno. Piuttosto curiosamente, a sua volta quest’ultimo impugnava la sentenza affermando la giurisdizione del giudice ordinario. La sentenza di appello del Consiglio di Stato desta molte perplessità (Cons. St., sez. III, sent. 19.8.2022, n. 7324). Anzitutto, per una inesplicabile dissonanza formale, dato che all’inizio dei motivi di diritto il ricorso viene perentoriamente dichiarato infondato, salvo poi essere più oltre accolto, così come nel dispositivo. Nel merito, la sentenza inizia con un dettagliato excursus sul riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo che non è stato scalfito dalle nuove norme processuali sulla competenza delle sezioni specializzate (art. 3, d.l. 17.2.2017, n. 13, convertito in l. 13.4.2017, n. 46). Conclusioni anche da ultimo ribadite nelle pronunce dello stesso Consiglio di Stato 22.7.2020, n. 4677 e della Corte di Cassazione a sezioni unite 21.10.2021, n. 29297, qui commentate in passato. Alla luce di tali precedenti, appare scontato il corollario secondo cui il diritto soggettivo del coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano affievolisce ad interesse legittimo solo in presenza dell’esercizio, da parte della PA, del potere discrezionale di valutare l’esistenza di motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica che ostino a detto acquisto, con le relative conseguenze in termini di riparto di giurisdizione. Si riconosce che anche il giudice di primo grado ha seguito, per affermare la propria giurisdizione, tale orientamento giurisprudenziale, e – nel silenzio del provvedimento impugnato, che si è limitato a richiamare l’art. 6 senza citare la lettera del comma 1 in base al quale si negava la cittadinanza – ha inquadrato nel comma 1 lett. c del citato articolo il diniego opposto all’appellante per una serie di condanne a carico del marito, gravato da numerosi precedenti penali. Viene poi sottolineato che il Tar era giunto a tale presa di posizione considerando che nel provvedimento del Ministero era richiamata la scarsa possibilità della richiedente di integrarsi nel tessuto sociale del Paese ospitante nonché, più in generale, la circostanza che le prime due lettere del comma 1 dell’art. 6 si riferiscono a reati commessi dallo straniero che chiede la cittadinanza mentre la lett. c contempla anche l’ipotesi in cui a mettere in pericolo la sicurezza dello Stato sia una persona vicina allo straniero. A questo punto inizia un percorso argomentativo che non appare perspicuo. Esso parte dalla premessa secondo cui tutte le ipotesi previste dal comma 1 dell’art. 6 sono tali da precludere il radicamento dello straniero nel tessuto sociale, poiché anche la commissione di reati comuni porta ragionevolmente ad escludere l’integrazione nella comunità nazionale, che deve essere desunta da una osmosi culturale riuscita e dalla piena assimilazione dei valori costituzionali: valutazione articolata che spetta alla Amministrazione. Ebbene, nel presente caso risulta che i reati commessi dal marito della richiedente, pur nella loro gravità, non sono tali da creare un pericolo per la sicurezza della Repubblica. Per di più, l’ipotesi di cui alla lett. c non è ancorata all’oggettività di una sentenza di condanna, come avviene per le altre cause preclusive della cittadinanza iure matrimonii, ma ad un giudizio latamente discrezionale circa la compatibilità di atti e comportamenti dell’aspirante cittadino con interessi vitali della Nazione; il marito della appellante, per contro, aveva riportato condanne in massima parte relative a reati depenalizzati o indultati. Ancora, un certo stupore desta il rifiuto di considerare come argomentazione valida a smentire tale conclusione la constatazione che le ipotesi previste dalle lett. a e b si riferiscono a condanne inflitte a chi richiede la cittadinanza e non a persona a questi vicina, come può essere il coniuge italiano dello straniero. Secondo il Consiglio di Stato, ove tale affermazione fosse corretta, la stessa sarebbe utilizzata dal giudice munito di giurisdizione per affermare l’illegittimità del diniego. Diversamente opinando – e cioè volendo individuare da un elemento costitutivo della fattispecie la natura del potere esercitato – si incorrerebbe nello stesso errore commesso dal giudice di primo grado (ma nel senso diametralmente opposto), che non ha inteso ricercare da un sicuro elemento del procedimento – quale era il soggetto che ha esercitato il potere (ovvero, il prefetto) – un indizio in ordine alla ascrivibilità della fattispecie nelle lett. a o b del comma 1 dell’art. 6, ma ne ha tratto un indice sintomatico della illegittimità del diniego. L’appello viene perciò accolto, con conseguente annullamento della sentenza del Tar e declaratoria di inammissibilità, per difetto di giurisdizione, del ricorso di primo grado.
 
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione
a) Precedenti penali: guida in stato di ebbrezza. b) Reato di rapina aggravata. Suo rilevo ancor prima del relativo processo penale e della eventuale sentenza di condanna. c) Rilevanza nei confronti di un padre incensurato dei reati commessi dal figlio. d) Notizia di reato e mancata valutazione della gravità del fatto. e) Rilievo dell’archiviazione della notizia di reato. f) Precedenti penali ascrivibili a comportamenti tenuti da due familiari (zio e nipote) del richiedente. g) Dispensa dalla produzione di certi documenti per i titolati di protezione umanitaria. h) Accertamento della continuità dell’iscrizione anagrafica in Italia ai fini di una successiva istanza di acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. i) Provvedimenti di naturalizzazione falsi, rilasciati dietro compenso, grazie all’intervento di una funzionaria c.d. infedele. l) Maggiore durata dei termini per i procedimenti in materia di immigrazione e di naturalizzazione
Nell’ambito dell’abituale coacervo di sentenze amministrative concernenti il procedimento di naturalizzazione va segnalata anzitutto una pronuncia, pur emessa nello scorso quadrimestre, che si distingue per la sua particolare severità, poiché avalla il diniego della cittadinanza da parte del Ministero dell’interno pur essendo fondato su un unico reato (guida in stato di ebbrezza) successivamente estinto, ma che viene severamente vagliato sotto il profilo di fatto storico (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 20.4.2022, n. 4703). Vengono qui dettagliatamente ripresi tutti gli argomenti nel tempo enucleati per suffragare il carattere altamente discrezionale della valutazione spettante alla PA, nonché la sufficienza di un controllo estrinseco e formale su di essa esercitabile dal giudice amministrativo: modalità invero riservata ai casi di contiguità del richiedente con movimenti suscettibili di attentare alla sicurezza della Repubblica.
 
Forse meno severa si palesa una successiva sentenza che respinge anch’essa un ricorso contro il suddetto diniego, nella quale il precedente penale era costituito dal delitto di rapina aggravata e lesioni personali (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 4.8.2022, n. 11026). Anche a tale riguardo le ampie e ben note argomentazioni sulla discrezionalità della PA e sulla sua valutazione dell’interesse pubblico sembrano soverchiare ogni altra considerazione, tanto più che non era ancora intervenuto né un processo penale né perciò una sentenza di condanna. Merita di essere ricordato che, qui come già altrove, vengono richiamati i parametri fissati, per le condanne penali relative a reati non politici, dall’art. 5, co. 2, lett. b della legge organica, attinente all’acquisto della cittadinanza per matrimonio.
 
Si giunge addirittura a negare la cittadinanza a un padre incensurato per reati commessi dal figlio dichiarando di voler impedire che questo status si trasmetta a quest’ultimo, in quanto minorenne e convivente (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 26.7.2022, n. 10633), anche se nel frattempo quest’ultimo e i suoi fratelli hanno acquistato la cittadinanza italiana. Al padre perciò non rimane che la facoltà di riproporre la domanda, a distanza comunque di sei anni dal ricorso in giudizio.
 
Non sempre tuttavia viene mantenuto un atteggiamento di rigore così estremo. In altra occasione il giudice amministrativo di primo grado, ad esempio, ancora di fronte ad una (semplice) notizia di reato, pur volendo prescindere, alla stregua del principio tempus regit actum, dalla successiva assoluzione del ricorrente, censura la mancanza di una valutazione in concreto della gravità della vicenda penale ascrivibile al medesimo e quindi una sostanziale carenza della relativa motivazione (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 23.5.2022, n. 6636).
 
Nello stesso solco si inscrive del resto un’altra pronuncia, nella quale, dopo la ineludibile premessa sul potere discrezionale del Ministero, viene tuttavia accolto il ricorso additando la mancata considerazione, da parte di quest’ultimo, dell’archiviazione della notizia di reato, disposta dal Tribunale penale, che ha affermato la non sussistenza dell’ipotesi di reato astrattamente ipotizzabile e la inidoneità degli elementi in atti alla celebrazione dibattimentale di un processo (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 1.8.2022, n. 10831).
 
Lo stesso Consiglio di Stato è intervenuto nella medesima direzione allorché gli è stato chiesto di valutare il giudizio negativo del Ministero, fondato su precedenti penali ascrivibili a comportamenti tenuti da due familiari (zio e nipote) del richiedente, peraltro relativi a condanne per calunnia e falso ex art. 495 c. p. (Cons. St., sez. III, sent. 2.5.2022, n. 3409). Ad avviso dei giudici infatti questo tipo di ragionamento presuntivo, condotto in assenza di qualsiasi correlazione comportamentale dell’istante, che possa denotare concorso, complicità o quanto meno condivisione di schemi e valori devianti rispetto ai modelli sociali di compiuta integrazione, cozza contro il principio del carattere personale della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost. Con una argomentazione che potrebbe rivelarsi utile anche per una fattispecie sopra riportata, il Collegio non esclude che anche i reati commessi da componenti del nucleo familiare possano rilevare nella lata valutazione discrezionale dell’Amministrazione; deve però trattarsi di reati che abbiano una regia familiare ovvero siano connotati da una fruizione familiare dei proventi del reato o ancora denotino atteggiamenti di collaborazione, protezione reciproca o condivisione piena degli schemi devianti, tali da disvelare la scarsa integrazione dell’intera famiglia nella comunità italiana.
 
Ispirata ai medesimi principi, pur se in una diversa prospettiva, appare anche una pronuncia del giudice amministrativo di merito, il quale – riprendendo un orientamento già emerso più volte – annulla l’atto con cui una prefettura locale aveva dichiarato inammissibile una istanza volta alla concessione della cittadinanza in quanto carente dei certificati di nascita e penale; viene appurata infatti l’impossibilità di rivolgersi allo Stato di origine per un titolare di protezione umanitaria (Tar Lombardia, sez. III, sent. 21.6.2022, n. 1441). Si noti che la prima parte della sentenza contiene una minuziosa indagine sulla sussistenza della propria competenza territoriale alla luce della pronuncia dell’ordinanza del Consiglio di Stato, ad. plen., 13.7.2021, n. 13.
 
Ed in una prospettiva ancora diversa il giudice ordinario è stato chiamato ad accertare ha la continuità della residenza di una cittadina straniera a fronte di difformi risultanze anagrafiche rimediando così ad una cancellazione anagrafica che avrebbe impedito in seguito la prova della suddetta continuità decennale ai fini della richiesta di naturalizzazione (  Trib. Firenze, sent. 20.5.2022 ).
 
Infine, è rinvenibile un gruppo di sentenze le quali riguardano ancora una volta il caso di una funzionaria c.d. infedele del Ministero dell’interno che aveva “elargito” dietro compenso diverse centinaia di provvedimenti di concessione falsi, in quanto carenti di qualsiasi istruttoria. La revoca dei decreti di concessione si presentava ovviamente come inevitabile. Ne è conseguito un buon numero di ricorsi davanti al giudice amministrativo contro tale revoca (disposta, come l’atto ministeriale annullato, con d.p.r.), alcune dei quali lamentavano la mancanza di preavviso di tale atto di diniego, mentre tutti facevano valere la estraneità dei ricorrenti al procedimento penale sulla base della loro mancata condanna.
Sia il Consiglio di Stato (Cons. St., sez. III, sent. 9.6.2022, n. 4687) sia il Tar del Lazio (v. ad es. Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 29.7.2022, n. 10803; Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 3.8.2022, n. 10976 e n. 10977) respingono tali ricorsi in base a considerazioni largamente sovrapponibili. L’infondatezza del primo motivo viene dichiarata sulla base di una lettura della l. n. 241/1990 ancorata alla disciplina vigente al momento dell’emanazione dei decreti di revoca, ovvero prima dell’entrata in vigore dell’innovazione apportata all’art. 21-octies da parte del c.d. decreto semplificazioni (l. 11.9.2020, n. 120). Viene così confermato che il mancato preavviso di rigetto non inficia la legittimità del provvedimento allorché, in applicazione estensiva del comma 2 del medesimo articolo, emerga nel corso del giudizio che il contenuto dispositivo del provvedimento oggetto di gravame non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Per quanto attiene poi al secondo motivo di ricorso, le argomentazioni a sostegno del rigetto insistono sulla constatazione che quello che è stato definito una sorta di “mercato” delle pratiche della cittadinanza è possibile presupporre l’esistenza di un accordo criminoso e il conseguente coinvolgimento di un gran numero di soggetti a vario titolo interessati.
Il secco diniego del Ministero, a dimostrazione dell’irrilevanza circa l’estraneità dell’interessato al giudizio penale, viene anzitutto giustificato in base ad un generico richiamo alla gravità del fatto, relativo a quello che è stato definito una sorta di “mercato” delle pratiche della cittadinanza. Dunque, è possibile presupporre l’esistenza di un accordo criminoso e il conseguente coinvolgimento di un gran numero di soggetti a vario titolo interessati. D’altro canto, l’illegittimità è riconducibile ad un fatto costituente reato, in grado di mettere in pericolo al massimo grado quegli stessi interessi pubblici, presidiati dal complesso di controlli e verifiche rigorose che si impongono nell’esercizio del potere della PA in questa materia. In conclusione, viene dichiarata l’inammissibilità di una sanatoria di un procedimento la cui definizione ha costituito corrispettivo di un reato. Va tuttavia segnalato che in ogni caso, da un lato, è stato accertato il mantenimento della cittadinanza originaria dell’interessato, così da scongiurarne l’apolidia; dall’altro, il Ministero ha disposto la conservazione della cittadinanza per i figli minori, i quali l’avevano acquistata in base all’art. 14 della l. n. 91/92.
Da ultimo, il Consiglio di Stato ha avuto occasione di chiarire e giustificare le norme relative alla maggiore durata dei termini per i procedimenti sull’immigrazione e l’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione, a seguito di un «abbaglio dei sensi» (così da lui stesso definito, in riferimento alla stessa sezione III) sull’oggetto di un ricorso per l’emersione di lavoro irregolare anziché per il diniego di cittadinanza. A proposito di quest’ultima tuttavia è nuovamente incorso in un errore, dato che ha dimenticato l’ultima modifica a tale termine, introdotta dall’art. 4 del d.l. 21.10.2020 n. 130, convertito nella l. 18.12.2020 n. 173.
 
Accertamento dell’apolidia
Le vicende sottostanti alle richieste di accertamento dell’apolidia rivelano assai spesso alcune situazioni di estremo disagio vissute dai singoli interessati. Tale è il caso di un individuo nato in Bangladesh, abbandonato in tenera età dai genitori e giunto successivamente in Italia, ovviamente sprovvisto di qualsiasi documento, il quale – a fronte della inutile richiesta da parte dell’Ambasciata di quello Stato di produrre il proprio atto di nascita – si rivolge al giudice italiano: quest’ultimo, dopo aver accertato che tale carenza di documenti osta al riconoscimento della cittadinanza bengalese, non può che accertarne l’apolidia (  Trib. Brescia, ord. 8.9.2022 ).
 
Ancora più complicata risulta la vicenda di un individuo originario dello Sri Lanka e riconosciuto solo dalla madre, mentre il padre era divenuto irrintracciabile. Anche in questo caso egli non era stato registrato alla nascita. La Corte d’appello di Napoli, al termine di un’indagine (il cui contenuto non è sempre ugualmente perspicuo) sulle norme di quel Paese, richiama un principio enucleato dalla Corte di cassazione, secondo il quale lo status di apolide non si riconosce al soggetto che con mere dichiarazioni di volontà (ovvero, con meri adempimenti di carattere burocratico) potrebbe acquisire facilmente la cittadinanza, ma a colui che debba soggiacere a condizioni più onerose, cioè adempimenti di carattere sostanziale (App. Napoli, sent. 21.6.2022, in Banca dati De Jure). Pur non escludendo la remota possibilità di ottenere un accertamento della cittadinanza singalese in futuro, ma constatando al momento i vari e inutili tentativi dell’appellante per ottenere tale riconoscimento, la Corte ne dichiara l’apolidia.

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