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Fascicolo 3, Novembre 2022


Coloro che arrivano qui / sulle nostre sponde

già tormentate dal freddo / già malate e già sole

non sanno che in noi / le finestre di grande speranza

sono ormai chiuse.

(Alda Merini)

Asilo e protezione internazionale

LO STATUS DI RIFUGIATO

Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
Il Tribunale di Napoli, con decreto del 25.5.2022 , pronunciandosi sul ricorso proposto da una donna nigeriana (vittima di tratta a fini sessuali e sfruttamento della prostituzione), ha ritenuto che la condizione di salute che accomuna tutti i malati di HIV, come la ricorrente,
possa costituire un particolare gruppo sociale. All’esito di un accurato ed attento esame delle più aggiornate fonti di informazione sul Paese d’origine, i giudici partenopei hanno sottolineato come il complesso di discriminazioni poste in essere dalla società nigeriana nei confronti dei malati di HIV, non contrastate dalle autorità statali, produca l’effetto di una persecuzione e giustifichi il riconoscimento dello status di rifugiato.
 
Ancora con riferimento al particolare gruppo sociale costituito dai malati di HIV si è pronunciato il  Tribunale di Salerno che, con decreto del 20.4.2022 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino ucraino, proveniente dalla regione di Leopoli, affetto dalla predetta patologia (nonché tossicodipendente). Nella decisione in esame – particolarmente interessante anche per quanto riguarda la qualificazione della domanda (nella quale il ricorrente si era limitato a chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari) ed alla scelta della forma di protezione maggiore da parte del Collegio – è stato ravvisato il timore di subire persecuzioni, in ragione delle gravi condizioni di salute, all’esito dell’esame di fonti aggiornate che rivelano come le persone sieropositive, e le persone tossicodipendenti continuino a subire stigma e discriminazione, che si possono esplicare anche nella frapposizione, da parte del personale sanitario o delle forze dell’ordine, di ostacoli all’accesso alle cure o di un rifiuto di fornire alle persone appartenenti a tali gruppi sociali le necessarie cure mediche.
 
Il  Tribunale di Genova, con decreto del 21.2.2022 , ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una cittadina nigeriana, nata e cresciuta a Benin City, in ragione dell’appartenenza della stessa al particolare gruppo sociale delle donne vittime di tratta a fini sessuali. Rilevante quanto osservato dal Tribunale in merito alla possibilità di ravvisare un rischio in caso di rimpatrio, anche ove l’esperienza di tratta della richiedente possa ritenersi conclusa in ragione del pericolo di ritorsioni (ai danni della ricorrente e dei di lei familiari) o di nuove esperienze di sfruttamento, desunta dall’inefficiente tutela fornita dallo Stato di provenienza nonché dalla pessima condizione sociale della donna in Nigeria.
 
L’appartenenza al particolare gruppo sociale dei bambini orfani giustifica, ad avviso del  Tribunale di Torino – decreto del 13.5.2022  – il riconoscimento dello status di rifugiato in favore di un giovane cittadino della Guinea. Nel caso portato all’attenzione dei giudici torinesi il ricorrente, rimasto orfano in tenera età, ha riferito di aver subito, numerose, reiterate e persistenti forme di maltrattamenti poste in essere nei suoi confronti da parte degli zii paterni che, come risulta dai certificati medici prodotti, avevano lasciato «traumi e risvolti psicologici». Con riferimento al rischio in caso di rimpatrio, nella decisione in esame è stato osservato che, nonostante il raggiungimento della maggiore età, il ricorrente, trovandosi in una condizione di estrema vulnerabilità sia psicologica che sociale, rischierebbe di subire nuovamente forme di punizione, emarginazione, ritorsione, aggravate dal danno già sofferto in precedenza (quest’ultimo da valutare quali «motivi imperativi derivanti da precedenti persecuzioni», alla luce delle Linee guida dell’UNHCR).
 
Opinioni politiche
Con ordinanza n. 18626 del 9.6.2022, la Suprema Corte ha ribadito che sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato politico per l’obiettore di coscienza che rifiuti di prestare il servizio militare nello Stato di origine (Ucraina), ove l’arruolamento, per il conflitto armato internazionale in atto sull’intero territorio, comporti un elevato rischio di coinvolgimento, anche indiretto, nella commissione di crimini di guerra e contro l’umanità, costituendo, in tale contesto, la sanzione penale prevista dall’ordinamento straniero per la renitenza alla leva un atto di persecuzione, ai sensi dell’art. 7, co. 2, lett. e), del d.lgs. n. 251 del 2007 e dell’art. 9, par. 2, lett. e), della dir. n. 2004/83/CE, come interpretato da CGUE, sentenza 26 febbraio 2015, causa C-472/13, Shepherd c. Germania. La Corte ha precisato che il riconoscimento della protezione maggiore, in presenza dei predetti requisiti, prescinde da qualsiasi considerazione circa la proporzionalità della pena.
 
Il Tribunale di Salerno, con decreto del 20.4.2022  ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino siriano di etnia curda, osservando come la specifica appartenenza all’etnia curda (che già in passato lo aveva costretto a subire ripetute discriminazioni) lo avrebbe esposto a forme di persecuzione connesse a motivazioni di natura politica ed etnica. Particolarmente interessante quanto sottolineato dalla Corte territoriale in merito alla necessità di valutare le cause di esclusione anche in riferimento alla funzione rieducativa della pena ed al percorso di reinserimento socio-lavorativo del ricorrente.
 
Religione
Il rischio di subire atti di persecuzione motivati dall’appartenenza alla chiesa domestica di Zhao Hui giustifica, ad avviso del Tribunale di Milano, il riconoscimento, in favore di una cittadina cinese, dello status di rifugiata ( decreto dell’8.6.2022 ). Nel decreto in esame, all’esito di un’attenta ed approfondita valutazione positiva di credibilità delle dichiarazioni della ricorrente, si sottolinea come le più aggiornate ed accreditate informazioni sul Paese d’origine confermino come gli appartenenti a gruppi cristiani non registrati rischino di essere picchiati, arrestati, imprigionati, di perdere il lavoro e che il luogo di preghiera venga distrutto, al fine di obbligarli a registrarsi nelle liste del PCC. Particolarmente interessante anche quanto osservato dai giudici meneghini, in forza del richiamo a specifiche ed autorevoli COI, in merito all’osservazione della Commissione territoriale (che sovente si ritrova nei provvedimenti di rigetto delle domande di protezione internazionale spiegate in ragione dell’appartenenza religiosa ad un culto vietato in Cina) relativa alla non coerenza esterna delle dichiarazioni della ricorrente in ragione dell’ottenimento del visto e del passaporto da parte della ricorrente.
 
Cause di esclusione dello status di rifugiato
Il  Tribunale di Salerno, con decreto del 20.4.2022 , chiamato a decidere sul ricorso proposto da un cittadino eritreo (condannato con sentenza irrevocabile per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ad una pena detentiva di sei anni di reclusione, interamente scontata) avverso la decisione di rigetto della domanda volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato per motivi politici (rigetto motivato dalla decisione di applicare la causa di esclusione di cui all’art 12, lett. c) del d.lgs. 251 del 2007) si è soffermato sulla necessità di esaminare la pericolosità sociale all’attualità ed in conformità ai principi costituzionali e sovranazionali. In particolare, nella decisione in esame, è stato osservato che la pericolosità sociale del ricorrente deve essere esaminata sulla base di un approccio individualistico e alla luce del principio di proporzionalità (art. 52, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) «tra i diritti internazionalmente riconosciuti e le esigenze di sicurezza dello Stato», così da tenere conto anche della «complessità di fattori previsti dal diritto penale, quali ad esempio l’entità della pena comminata, l’eventuale applicazione di misure alternative alla detenzione o altri benefici, inclusione in percorsi rieducativi e di reinserimento sociale».
 
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
 
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. b)
La  Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza del 2.6.2022 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino del Gambia ritenendo che la stigmatizzazione subita dal ricorrente in conseguenza delle accuse di stregoneria rivolte alla di lui madre, in ragione dell’impossibilità delle autorità gambiane di offrire una protezione effettiva, integrasse i presupposti di cui all’art. 14, lett. b), d.lgs. n. 251 del 2007.
 
Il  Tribunale di Bologna, con decreto dell’8.4.2022  – decidendo sul ricorso di un uomo nigeriano, vittima di tratta dal Paese d’origine all’Olanda, poi ridotto in schiavitù per il compimento di attività quali il traffico di droga, la prestazione di lavoro in caporalato, lo sfruttamento della prostituzione maschile – ha escluso la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione maggiore ed ha accolto il ricorso, sottolineando come l’eventualità di essere esposto ad un danno grave all’incolumità psicofisica costituisca un pericolo attuale e concreta idoneo a fondare il diritto alla protezione sussidiaria. Particolarmente accurato l’esame delle più aggiornate fonti di informazione dalle quali emerge come quasi la metà dei richiedenti asilo nigeriani arrivati nei Paesi Bassi nel 2019 siano scomparsi e come si ritenga che molti di essi siano caduti vittima di trafficanti di esseri umani che li hanno costretti alla prostituzione o al traffico di droga attraverso l’Unione europea.
 
Con riferimento agli agenti di persecuzione, la Suprema Corte, con ordinanza n. 15810 del 2022, ha affermato (in senso difforme rispetto a quanto ritenuto dalla Corte nell’ordinanza n. 23281 del 2020) che la fattispecie di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 251 del 2007 comprende anche le ipotesi in cui il danno grave sia provocato da soggetti privati, qualora nel Paese d’origine non vi sia un’autorità statale in grado di offrire protezione effettiva.
 
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. c)
La condizione di conflitto armato internazionale esistente in Mali ha portato il Tribunale di Genova – decreto del 25.5.2022 – ed il  Tribunale di Torino – decreto del 14.6.2022  a riconoscere ai richiedenti, cittadini, la protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c) del d.lgs. 251 del 2007, a prescindere dalla specifica area di provenienza.
 
QUESTIONI PROCESSUALI
 
Domande reiterate e procedure accelerate
Con ordinanza n. 13690 del 2022, la Suprema Corte, pronunciandosi su un ricorso con il quale si deduceva l’illegittimità di un decreto di espulsione con ordine di allontanamento immediato poiché notificato nella pendenza di una domanda reiterata di protezione internazionale introdotta dopo la notifica del decreto di espulsione, ha affermato che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 7 e 29-bis, d.lgs. n. 25 del 2008, nel testo applicabile ratione temporis, la presentazione di una domanda di protezione internazionale reiterata attribuisca al richiedente il diritto di rimanere in Italia fino alla decisione della Commissione territoriale, a meno che si tratti di domanda reiterata presentata in fase di esecuzione del provvedimento di allontanamento.
 
Istruttoria: produzioni documentali e prove testimoniali
La Suprema Corte, con ordinanza n. 10203 del 2022, soffermandosi sui procedimenti di impugnazione dell’ordinanza adottata, ratione temporis, ex art. 19 d.lgs. n. 150 del 2011, regolati dall’art. 702-quater c.p.c., ha affermato che una volta esaurita la fase di trattazione (con l’udienza di precisazione delle conclusioni, con la discussione orale della causa o in qualsiasi altro modo compatibile con la conclusione di tale fase), non sono ammesse produzioni documentali con le successive memorie, non perché nel giudizio di appello non possano essere allegati fatti nuovi e prodotti nuovi documenti – trattandosi dell’accertamento di un diritto della persona che richiede una valutazione nell’attualità e, sotto questo profilo, non può subire preclusioni – ma perché la produzione documentale, in uno con le memorie finali successive alla discussione, determinerebbe un’insanabile violazione del contraddittorio.
 
Ancora con riferimento ai procedimenti per il riconoscimento dello status di rifugiato, disciplinati dal rito sommario di cognizione, ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 150 del 2011, la Corte di cassazione, con ordinanza n. 11216 del 2022 ha ritenuto ammissibile la richiesta di prova testimoniale formulata dal ricorrente successivamente al deposito del ricorso e senza la deduzione di capitoli separati, rilevando come le norme procedurali nazionali vadano interpretate in modo compatibile con i principi espressi dalle direttive dell’Unione europea che, in tale materia, sanciscono un dovere ufficioso di cooperazione istruttoria. Unitamente a tali considerazioni, i giudici di legittimità hanno poi osservato come l’art. 702-ter c.p.c., attribuisca al giudice il potere di procedere nel modo che ritiene più opportuno all’istruttoria, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, senza prevedere alcuna preclusione o decadenza a carico delle parti.
 
Onere di allegazione del ricorrente e dovere di cooperazione del giudice
In tema di onere di allegazione e dovere di cooperazione del giudice, la Corte di cassazione, con ordinanza n. 25500 del 2022, ha affermato che solo in presenza dell’adempimento da parte del richiedente dell’onere di allegazione pertinente e specifica in ordine alla sussistenza della situazione di cui all’art. 14, lett. c), d.lgs. 251 del 2007 – elemento che sembra, pertanto, aggiungersi rispetto a quelli specificamente indicati dall’art. 3, comma 2, del citato decreto legislativo – sorge il dovere del giudice di svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda. Ad avviso della Suprema Corte, in assenza di detta allegazione, la censura è inammissibile per difetto di specificità, non essendo pertinente al decisum e non congruente con il tipo di pericolo di danno grave oggetto di deduzione in causa e con il motivo.
 
Con riferimento alla violazione del dovere di cooperazione istruttoria, la Suprema Corte, con ordinanza n. 25507 del 2022, ha precisato che la stessa può essere fatta valere come motivo di ricorso ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. per violazione di legge, ovvero come vizio ex art. 360, comma 1, n. 4, e 132, comma 2, n. 4, c.p.c. per motivazione apparente, in caso di difetto totale di accertamento istruttorio ufficioso sulla situazione di cui all’art. 14, lett. c), d.lgs. 251/2007, ravvisabile laddove nessuna fonte informativa sia stata indicata dal giudice, oppure sia stata indicata in modo del tutto inidoneo ad individuarla, purché le circostanze fattuali in ordine alle quali è lamentata l’omessa cooperazione siano state ritualmente dedotte nei giudizi di merito dal ricorrente. In tali casi, quale requisito di ammissibilità della censura, il ricorrente non è tenuto ad indicare informazioni alternative relativamente alla situazione del Paese d’origine.
 
Valutazione di credibilità
La Suprema Corte, con ordinanza n. 19045 del 2022 si sofferma sul complesso tema del procedimento di valutazione della credibilità del ricorrente, per sottolineare come tale valutazione debba avvenire dapprima secondo il modello cd. «atomistico-analitico» (che comporta un iniziale, rigoroso esame di ciascun singolo «fatto indiziante» emergente dalla narrazione del ricorrente), per poi procedere a una valutazione complessiva e globale di tutti quei fatti che, alla luce dei principi di coerenza logica, compatibilità inferenziale, congruenza espositiva, concordanza prevalente, possa condurre all’approdo della prova presuntiva del factum probandum. Ad avviso della Corte (chiamata a pronunciarsi avverso la decisione di una Corte territoriale che aveva ritenuto non credibile il racconto di una giovane donna nigeriana, nella parte relativa alla sottoposizione a tratta a fini sessuali, solo in ragione di una valutazione di non attendibilità del racconto relativo alla condizione soggettiva della ricorrente nel suo complesso), alla stregua di tale ragionamento probatorio, il giudice ben potrà ritenere credibili solo parte delle dichiarazioni del ricorrente, non potendosi ritenere che un giudizio negativo di credibilità su alcune parti del racconto possa travolgere tutte le singole circostanze oggetto di dichiarazione.
 
A diverse conclusioni sembra giungere la Suprema Corte, nell’ordinanza n. 26149 del 2022, laddove – utilizzando le categorie della credibilità intrinseca ed estrinseca – afferma che nei casi in cui il ricorrente lamenti un difetto di cooperazione istruttoria con riferimento all’allegazione di fatti persecutori o a un rischio di danno grave «individualizzato» di cui all’art. 14, lett. a) e b), d.lgs. 251 del 2007, una volta esclusa la credibilità intrinseca della narrazione offerta dal richiedente asilo alla luce di riscontrate contraddizioni, lacune e incongruenze, non deve procedersi al controllo della credibilità estrinseca – che attiene alla concordanza delle dichiarazioni con il quadro culturale, sociale, religioso e politico del Paese di provenienza, desumibile dalla consultazione di fonti internazionali meritevoli di credito – poiché tale controllo assolverebbe alla funzione meramente teorica di accreditare la mera possibilità astratta di eventi non provati riferiti in modo assolutamente non convincente dal richiedente.
 
Ancora in tema di valutazione di credibilità, la Corte di cassazione, con ordinanza n. 11910 del 2022, ha precisato che, ai fini della valutazione di credibilità del ricorrente, il giudizio di verosimiglianza o plausibilità, ovvero lo stesso giudizio di ragionevolezza, non può essere eseguito comparando il racconto del richiedente con ciò che risulti ragionevole per il giudice o un cittadino europeo medio, o con ciò che normalmente accade in un Paese europeo, dovendo farsi piuttosto riferimento alla plausibilità dei fatti pertinenti asseriti nel contesto delle condizioni esistenti nel suo Paese di origine, compresi genere, età, istruzione e cultura.
 

VISTI ASILO e/o UMANITARI

Nei precedenti numeri 1 e 2 del 2022 della Rivista abbiamo rassegnato alcune pronunce del Tribunale di Roma relative al rilascio di visti d’ingresso asilo, ai sensi dell’art. 10, co. 3 Cost., o di visti umanitari, ex art. 25 Codice Visti (Regol. 810/2009) e della loro negazione giudiziale, con l’unica eccezione di una prima ordinanza (21.12.2021 in questa Rivista n. 1.2022) che, invece, aveva accolto la richiesta di due giovani afghani ordinando allo Stato italiano il rilascio di visti umanitari. Decisione poi annullata in sede di reclamo proposto dal Ministero (in Rivista 2.2022).
L’orientamento negativo del Tribunale romano ha motivato il diniego per inapplicabilità diretta dell’art.10, co. 3 della Costituzione, per inesistenza di un obbligo per lo Stato di rilasciare visti umanitari secondo il Codice Visti e comunque finalizzati alla richiesta di protezione internazionale, per inesistenza di obblighi costituzionali o internazionali dello Stato in assenza di collegamento territoriale o di esercizio della giurisdizione, tale non essendo l’attività svolta dalle Ambasciate. Secondo il Tribunale l’unica possibilità prevista da potenziali richiedenti asilo era attraverso i c.d. corridoi umanitari, cioè le procedure delineate nel Protocollo siglato, quanto all’Afghanistan, tra il Ministero dell’interno, UNHCR e alcune associazioni del Terzo Settore, per l’ingresso in Italia, entro 2 anni, di 1200 persone afghane ritenute meritevoli di protezione.
Decisioni che hanno indotto notevoli perplessità, non solo perché disattendevano differenti e pregressi orientamenti giurisprudenziali (Trib. Roma 28.11.2019 RG. 22917/2019, confermata da Corte appello Roma 11.1.2021 RG. 2525/2020) ma anche perché non si prendevano cura di spiegare né come possa essere legittimato l’ingresso nell’ambito dei c.d. corridoi umanitari in assenza di una disciplina normativa che li legittimi e dunque con criteri totalmente discrezionali, nè perché siano consentiti corridoi collettivi e non individuali.
Successivamente, il medesimo Tribunale ha in parte modificato il contenuto motivazionale dei rigetti delle domande giudiziali nel frattempo proposte, soffermandosi principalmente sulla questione della giurisdizione, ovverosia se essa sia esercitata nei luoghi delle Ambasciate italiane nel momento in cui una persona straniera chieda il visto d’ingresso e se, dunque, in quel caso lo Stato italiano eserciti un potere di natura tale da far sorgere l’obbligo di rispettare i doveri costituzionali o internazionali.
Questione affrontata nell’ ordinanza collegiale 24.6.2022 RG. 23824/2022  con cui il Tribunale di Roma ha rigettato il reclamo proposto avverso la decisione monocratica di diniego di visto d’ingresso umanitario di cittadini afghani, ritenendo insussistente la giurisdizione sulla base dei criteri ricavabili dalla giurisprudenza europea e della CEDU, ai quali la decisione ha fatto espresso e ampio richiamo. In sostanza, il giudice romano ha ritenuto che allorquando viene chiesto il visto d’ingresso presso le Ambasciate non si è sul territorio nazionale (criterio territoriale, principale, della giurisdizione), ma non c’è nemmeno una relazione qualificata tra lo Stato e l’individuo in quanto non viene esercitato su quest’ultimo alcun potere di controllo effettivo (tale essendo solo quello «attraverso l’uso della forza o dell’autorità»), come accade alle frontiere o in base alla legge del mare e dunque solo «Ove vi è una spendita di potere in grado di incidere con effetto sulla sfera giuridica del destinatario, lo Stato non può dichiararsi estraneo rispetto alle richieste che gli vengono rivolte». Secondo il Tribunale, la semplice richiesta di visto (che, secondo l’ordinanza in esame potrebbe essere chiesta a qualsiasi altra Ambasciata) non rientra in quella declinazione del concetto di giurisdizione e pertanto non fa sorgere alcun obbligo per lo Stato perché non c’è una relazione giuridicamente qualificata.
Peraltro, secondo la pronuncia in commento, il rilascio di visti umanitari, in forza dell’art. 25 Codice Visti o dell’art. 51 Carta di Nizza, è una mera facoltà discrezionale dello Stato e non un obbligo.
Infine, quasi come obiter dictum, con riguardo all’immediata precettibilità dell’art. 10, co. 3 Cost. affermata dalle Sezioni Unite della Cassazione fin dagli anni ’90 del secolo scorso (nn. 4674/97 e 907/99) e al diritto (quantomeno) di ingresso che la norma sottende (Cass. n. 8423/2004), il Tribunale afferma che detta giurisprudenza «esprime un principio generale che presuppone tuttavia come già risolto positivamente il tema della giurisdizione», precisando che «Nessuna di tali pronunce che hanno in tal senso statuito pone un dovere di accoglienza in capo allo Stato italiano, a prescindere cioè da una preesistente relazione qualificata idonea a radicare la giurisdizione su un particolare individuo».
Affermazione che riporta anche l’asilo costituzionale (dunque non solo la normativa europea di protezione internazionale) nell’alveo della cornice della giurisdizione, lasciando presagire uno scenario, anche giurisprudenziale, di forte contenimento di un precetto costituzionale che, tuttavia, non pare sinceramente offrire alcuna legittimazione in tal senso.
La preoccupazione che traspare anche da questa decisione, oltre che dalle altre rassegnate nei precedenti numeri della Rivista e dalla giurisprudenza europea, è di spalancare le porte a un flusso indistinto, indiscriminato e numeroso di richiedenti asilo, e non è un caso che la pronuncia in commento evochi il rischio di “scelta” dell’Ambasciata presso cui fare richiesta di visto, che farebbe saltare l’impianto del Regolamento Dublino, cioè le rigide (quanto inattuate e inefficaci) regole di distribuzione territoriale dei richiedenti asilo all’interno dell’Unione europea.
Diritto di scelta che, in generale, quando si tratta di persone straniere gli ordinamenti difficilmente riconoscono, perché la loro condizione è di subalternità giuridica, prima ancora che sociale.
 
Di diverso tenore l’ordinanza del Tribunale di Roma 24.5.2022 RG. 15094/2022 , con cui è stato riconosciuto il diritto al rilascio di un visto d’ingresso in Italia «per proporre domanda di protezione internazionale» a un cittadino del Marocco di etnia Saharawi, attivista politico di quel popolo, con una peculiare storia, anche processuale. Egli, infatti, aveva vissuto per alcuni anni in Italia per ricongiungimento al padre, dal 2002 al 2008 e, in occasione di un rientro in Marocco era stato detenuto e torturato dalle autorità marocchine, liberato dopo anni grazie a un forte intervento di Amnesty Italia e dell’UNHCR, fuggito poi in Tunisia ove non gli è stata offerta alcuna protezione ma anzi intimato di non denunciare le autorità del Marocco. In varie occasioni il cittadino saharawi aveva chiesto all’Italia il rilascio di visti d’ingresso per motivi di salute (stante le gravissime conseguenze delle torture subite), rifiutatigli per effetto di una segnalazione Schengen inserita dal Marocco. Nel frattempo Amnesty si era attivata per riattivare la procedura di rinnovo del permesso di soggiorno presentata nel 2007 e/o per l’eventuale rilascio di un permesso per protezione speciale, ma era stato opposto un rifiuto avverso il quale egli ha proposto ricorso davanti al Tribunale di Firenze, chiedendo il rilascio di un permesso di soggiorno provvisorio, per motivi umanitari o di protezione speciale, propedeutici al rilascio di un visto di reingresso. Il Tribunale di Firenze ha rigettato il ricorso nella parte relativa al permesso di soggiorno ritenendo necessaria la presenza sul territorio nazionale e declinando la propria competenza, a favore del Tribunale di Roma, per la parte relativa alla richiesta di visto. Riassunto il giudizio davanti al giudice romano, questi ha accolto la domanda, ordinando il rilascio del visto al fine di proporre domanda di protezione internazionale, dopo avere accertato la sua condizione di perseguitato politico e avere ritenuto la Tunisia (Paese ospitante) Paese terzo non sicuro.
La particolarità della pronuncia sta nella qualificazione di giurisdizione, ovverosia di quel collegamento tra il richiedente il visto per ragioni di asilo (latamente inteso) o umanitarie e lo Stato, che, come si è visto nella decisione del Tribunale sopra rassegnata, è stato sinora declinato rigidamente, ovverosia solo in presenza di un collegamento fisico con il territorio (frontiera o nave italiana o in caso di omesso soccorso in mare dovuto al rispetto della cd. legge del mare) o se c’è una forma di controllo statale sull’individuo o sul territorio, escludendosi che ciò avvenga in caso di richiesta di visto alle Ambasciate italiane.
L’ordinanza del Tribunale di Roma di maggio fa un passo avanti, attenuando la rigidità di tale schema. Essa, infatti, rinviene il «solido criterio di collegamento con lo Stato italiano» certamente nella pregressa presenza in Italia del cittadino saharawi, interrottasi nel 2008 per cause di forza maggiore (la detenzione in Marocco), ma anche nella strenua volontà dell’Italia di negargli il visto, per reingresso o per motivi di salute, quest’ultimo chiesto per motivi evidentemente indipendenti dalla pregressa presenza sul territorio italiano. Afferma, infatti, il Tribunale che «Il ricorrente è stato impossibilitato ad accedere sul territorio italiano […] per fatti indipendenti dalla sua volontà e dipendenti in parte dalle autorità italiane che gli avevano negato l’accesso a causa di una illegittima segnalazione alla banca dati del SIS da parte delle autorità marocchine».
A una prima lettura, pare potersi affermare che soprattutto il comportamento delle Autorità italiane, più che la pregressa presenza in Italia, sia stato dirimente per ordinare allo Stato italiano il rilascio del visto. Questo, infatti, non è “semplicemente” un visto, ma un visto per «presentare domanda di protezione internazionale», cioè per la tutela di un diritto fondamentale (l’asilo) che, rispetto alla presenza in Italia 14/15 anni or sono, è legato da tenuissimo filo “storico”, in quanto le ragioni che hanno indotto il cittadino saharawi a chiederlo risiedono nella sua attuale condizione giuridica, di asilante, di perseguitato dal Marocco e di non protetto dalla Tunisia, mentre quella vissuta fino al 2008 era di familiare di cittadino straniero regolarmente soggiornante in Italia. È con riguardo all’attuale condizione che lo Stato italiano ha posto in essere un’attività – il diniego di visto – che consente di ritenere integrato il requisito della giurisdizione, perché è attraverso quel comportamento amministrativo che si è attuata una forma di controllo sul richiedente, impedito giuridicamente e dunque fisicamente a fare ingresso regolare sul territorio italiano.
Se così non fosse, qualsiasi persona straniera che abbia vissuto per un determinato periodo di tempo in Italia potrebbe, anche a distanza di anni, chiedere e ottenere un visto per sfuggire oggi a una delle molteplici violazioni dei diritti umani che integrano il diritto d’asilo.
Dunque, pare scorgersi un timido ma importantissimo avanzamento nell’individuazione di un diverso e più effettivo criterio di giurisdizione, che attiene all’espletamento di concrete funzioni statali attraverso le quali lo Stato esercita sostanzialmente un controllo sull’individuo nel momento in cui nega (o, per converso, rilascia) un visto, cioè l’autorizzazione a entrare sul proprio territorio e dunque a fare ingresso fisico nella giurisdizione italiana. In altri termini, il diniego di visto equivale a negare l'ingresso e quel rifiuto è di per sé giustiziabile davanti all’Autorità giudiziaria (artt. 24 e 113 Cost.) e negarlo equivarrebbe a escludere dalla verifica giudiziale solo determinati provvedimenti della PA sul presupposto, tautologico, che solo per essi non vi sia giurisdizione. Ciò che, invece, non è ritenuto per tutti gli altri tipi di visto negati dalle Rappresentanze diplomatiche italiane (visto per lavoro, per famiglia, per studio, per motivi religiosi, ecc. ecc.), tutti giustiziabili davanti a differenti Autorità giudiziarie. Giurisdizione che, pertanto, sussiste tutte le volte nelle quali la PA neghi l’autorizzazione (visto) a entrare sul territorio nazionale, perché in quel momento, con quella determinazione, esercita un controllo, fisico e giuridico, sulla persona richiedente il visto.
Ma se c’è giurisdizione, non può non esserci un obbligo dello Stato di tutelare i diritti fondamentali inviolabili, come il diritto d’asilo, anche qualora il bisogno di protezione avvenga in luogo extraterritoriale, e la tutela giurisdizionale non può essere limitata al diritto a presentare ricorso, ma deve necessariamente riguardare anche il bene della vita (il diritto) richiesto all’Autorità giudiziaria, tanto più nel caso riguardi il diritto d’asilo, che notoriamente preesiste al suo riconoscimento e può essere accertato dal giudice qualora l’amministrazione lo neghi.
La tesi, invece, che nega esista la giurisdizione nelle Ambasciate italiane, di fatto non spiega perché la negazione di un’autorizzazione non equivalga al controllo su una persona esercitato attraverso le funzioni statali, limitandosi ad asserirlo.
 
LA PROTEZIONE UMANITARIA E LA PROTEZIONE SPECIALE
 
La giurisdizione ordinaria in tutti i casi di rifiuto del permesso per motivi umanitari
L’ordinanza n. 2716/2022 della Corte di cassazione ha ritenuto sussistente la giurisdizione ordinaria in un caso di diniego di permesso di soggiorno per motivi umanitari (rilasciabile direttamente dal questore ai sensi dell’art. 5, co. 6 TU d.lgs. 286/98 nel regime previgente alla riforma del d.l. n. 113/2018) anche qualora manchi il propedeutico parere della Commissione territoriale. La Corte muove dalla premessa secondo cui l’originario art. 5, co. 6 TU immigrazione prevedeva due distinte possibilità per il rilascio del titolo umanitario: in sede di procedimento di protezione internazionale, con rinvio al questore da parte della Commissione territoriale (ex art. 32, co. 3 d.lgs. 25/2008), oppure con domanda presentata direttamente al questore che valutava direttamente (ex art. 5, co. 6, d.lgs. 286/98 e art. 11, co. 1 lett. c-ter) d.p.r. 394/99) o, ancora, in alcuni casi di inespellibilità (ex art. 19, co. 1 e co. 1.1 d.lgs. 286/98, art. 11, co. 1 lett. c-ter) e art. 28, co. 1 lett. d) d.p.r. 394/99). Nel caso esaminato dalla Cassazione il cittadino straniero aveva presentato domanda direttamente al questore, che l’aveva negato ritenendo insussistenti i presupposti di legge e, proposto ricorso, il Tribunale di Milano l’aveva dichiarato inammissibile in quanto la domanda doveva essere presentata alla Commissione territoriale nell’ambito di una domanda d’asilo; decisione confermata anche dalla Corte d’appello meneghina secondo cui il mancato rispetto della procedura amministrativa rendeva l’atto non impugnabile. La Cassazione ha censurato radicalmente dette statuizioni, innanzitutto perché non hanno tenuto conto delle differenti procedure indicate dalla legge per il rilascio del permesso per motivi umanitari, ma anche perché il provvedimento amministrativo che ritenga non rispettata una determinata procedura amministrativa è comunque impugnabile davanti al giudice ordinario quando si verta in materia di diritti soggettivi, come nel caso del permesso umanitario. Afferma la Corte che il questore si era comunque pronunciato sulla richiesta di rilascio del titolo umanitario e dunque quel provvedimento era giustiziabile davanti all’Autorità giudiziaria che non si limita alla verifica della mera legittimità amministrativa ma accerta l’esistenza, o meno, del diritto soggettivo, a natura fondamentale. Precisa la Cassazione che proprio perché il questore si era pronunciato «vi è stato un esplicito rigetto della richiesta, emesso da una Autorità astrattamente idonea a pronunciarsi, che andava valutato in sede giurisdizionale con riguardo alla motivazione del rifiuto».
 
Protezione umanitaria e comparazione attenuata
La Corte di cassazione continua a delineare i criteri per il riconoscimento della protezione umanitaria alla luce dell’importante arresto delle Sezioni Unite n. 24413/2021, che, pur ritenendo inapplicabile ai giudizi pendenti davanti a sé la nuova disciplina del novellato art. 19, commi 1, 1.1. e 1.2. TU d.lgs. 286/982020 (ex art. 15, d.l. n. 130/2020), ha rivisitato il concetto di comparazione che, nel previgente regime, la giurisprudenza aveva ritenuto necessaria per il riconoscimento della protezione umanitaria. Criteri che valgono a livello interpretativo anche per il riconoscimento della nuova protezione speciale, che detta comparazione, tuttavia, non richiede.
Con l’ordinanza n. 677/2022 la Cassazione ribadisce la necessità di applicazione del parametro di «comparazione attenuata» in presenza di un forte radicamento del/della richiedente asilo nella società italiana, accertabile alla luce delle relazioni familiari e/o sociali e/o lavorative, e/o delle attività eventualmente svolte, ovverosia in riferimento all’intera rete di relazioni che si è costruito/a in Italia, come espressamente chiarito dalle Sezioni Unite n. 24413/2021. In presenza di uno di tali indici di radicamento, il giudizio di comparazione deve considerare non tanto se nel Paese di origine il/la richiedente possa nuovamente rischiare la lesione di diritti fondamentali quanto se il rimpatrio in sé rappresenti lesione degli stessi. Sulla base di questi principi la Corte di legittimità ha annullato la sentenza della Corte d’appello di Bologna che, contrariamente al Tribunale, aveva ritenuto irrilevante per la protezione umanitaria la presenza di figli minori in età prescolare e i tirocini formativi seguiti dalla richiedente asilo, cittadina nigeriana già vittima di tratta.
Sulla rilevanza della comparazione attenuata si veda anche l’ordinanza di Cassazione n. 465/2022.
 
Protezione umanitaria e attività lavorativa
L’ordinanza n. 10130/2022 della Cassazione ha censurato la pronuncia con cui il Tribunale di Bologna aveva rigettato non solo la richiesta di riconoscimento della protezione internazionale ma anche di quella umanitaria in quanto le attività lavorative svolte (prevalentemente in agricoltura), pur dimostrando la seria intenzione del richiedente di integrarsi, non erano di per sé sufficienti al riconoscimento della tutela complementare, in assenza di elementi di particolare vulnerabilità e di rischio di lesione di diritti fondamentali in caso di rimpatrio in Nigeria. La Cassazione precisa che l’integrazione, anche se limitata all’attività lavorativa, impone di adottare un giudizio di comparazione attenuata in quanto la perdita del lavoro di per sé può indurre una lesione al diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU.
 
Nel senso della rilevanza dell’attività lavorativa si pone anche l’ordinanza n. 6111/2022 della Corte di cassazione che ha censurato la decisione del Tribunale di Napoli, il quale aveva negato anche la tutela umanitaria ritenendo non sufficiente la produzione del contratto di lavoro a tempo indeterminato/dichiarazione UNILAV in assenza di produzione delle buste paga o di altri documenti attestanti l’effettività del lavoro. Secondo la Cassazione «il documento prodotto costituisce prova sufficiente dell’effettiva sussistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, trattandosi di atto proveniente dal datore di lavoro, considerando altresì la possibilità di esercitare i poteri ufficiosi, di cui dispone il giudice nelle cause di protezione internazionale, al fine di accertare l’effettivo svolgimento di attività lavorativa».
 
Di interesse anche l’ordinanza n. 8373/2022 della Cassazione, che, censurando una pronuncia del Tribunale di Venezia, afferma la rilevanza anche di attività lavorative precarie e della correlata esigua capacità reddituale quando sia dimostrata una progressione reddituale «in grado di fornire indicazioni utili quanto al consolidarsi del processo di integrazione dello straniero nel nostro Paese».
 
Infine, merita di essere segnalata l’ordinanza n. 26089/22 della Cassazione, che, annullando una sentenza della Corte d’appello di Cagliari, ha ribadito la rilevanza di vari indici di integrazione, tra i quali l’attività lavorativa pur svolta con contratti precari. Evidenzia la Corte che la giurisprudenza di legittimità ha «sottolineato sia il peso specifico dell’integrazione lavorativa che delle attività formative (Cass. 7396 del 2021) e da ultimo, ha evidenziato che (Cass. 16369/2022) anche la seria intenzione d’integrazione sociale, desumibile da una pluralità di attività, può rilevare ai fini della protezione umanitaria, quantunque essa non si sia ancora concretizzata in un’attività lavorativa a tempo indeterminato, specie se si consideri che tale obiettivo presenta difficoltà non irrilevanti anche per i cittadini del paese ospitante».
 
Protezione umanitaria e diritto all’unità familiare
Con ordinanza n. 467/2022 la Cassazione ha annullato una sentenza della Corte d’appello di Bologna che aveva negato a richiedente asilo del Marocco la protezione umanitaria (oltre a quella internazionale) ritenendo irrilevante la presenza in Italia di una figlia cittadina italiana, avuta da pregressa relazione affettiva. La Corte precisa, innanzitutto, la differenza della tutela umanitaria rispetto al divieto di inespellibilità di cui all’art. 19, co. 2 lett. c) TU d.lgs. 286/98 (che richiede la convivenza con il familiare italiano) e anche rispetto all’autorizzazione ex art. 31, co. 3 del medesimo TU immigrazione (che volge l’attenzione essenzialmente sul pregiudizio del minore). La tutela umanitaria, invece, può valorizzare il pregiudizio che al genitore sia recato dalla privazione di una relazione con il figlio presente sul territorio nazionale. Afferma, infatti, la Corte che «L’esistenza di una significativa relazione con la discendente, anche se non convivente, doveva però essere valutata in funzione dell’eventuale concessione della protezione umanitaria, venendo in rilievo, alla luce della tutela approntata dagli artt. 2 e 3 Cost., “il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive” (cfr. Cass., SU, 24413/2021, par. 43)».
 
Protezione umanitaria, tratta, violenze domestiche
Con l’interessante ordinanza n. 676/2022 la Cassazione ha affrontato nuovamente la questione dell’incidenza del fenomeno della tratta di esseri umani, in specifico finalizzata alla prostituzione, sulla protezione internazionale e/o sulla protezione umanitaria. La Corte ricostruisce ampiamente, innanzitutto, il quadro normativo, internazionale europeo e nazionale di contrasto alla tratta di esseri umani, mettendo poi in relazione le disposizioni ivi previste con gli strumenti normativi di prevenzione e lotta contro la violenza di genere (Convenzione di Istanbul del 2011 - legge 77/2013) e con la normativa in materia di protezione internazionale, arrivando a definire la tratta non solo violazione di diritti umani fondamentali ma anche atto di persecuzione contro un particolare gruppo sociale (quello delle donne), presupposto per il rifugio politico. Partendo da tale approdo, precisa la Corte che non è sufficiente il fatto in sé di essere stata vittima di tratta, tuttavia qualora questa condizione emerga deve essere esaminata secondo le regole normative in materia di protezione internazionale, le quali, quanto alla credibilità soggettiva, subiscono modificazioni in ragione della specifica condizione secondo i c.d. indicatori della tratta elaborati dal Ministero dell’interno e da UNHCR, e, quanto alla credibilità estrinseca, impongono al giudice di verificare attentamente e approfonditamente le pertinenti informazioni sul fenomeno e sulla realtà ad esso afferente sia nei Paesi di transito che in quello di origine, ove avverrebbe il rimpatrio. Afferma la Corte che «Il giudizio di plausibilità o di verosimiglianza, quando si faccia riferimento a fenomeni che hanno una loro specifica connotazione e che non possono essere compresi se non assumendo delle informazioni pertinenti, deve essere necessariamente rapportato nel contesto delle condizioni esistenti del Paese di origine e nel contesto delle condizioni del richiedente (Cass. 6738/2021). Esso è infatti fondato sull’id quod plerumque accidit, che ha una sua dimensione spaziale e temporale; ciò che è vero o verosimile in un dato luogo e in dato tempo può non esserlo in altro luogo ed in altro tempo». Informazioni pertinenti sul Paese di origine che, precisa la Cassazione, devono riguardare anche il rischio di un eventuale rimpatrio, se cioè comporti l’esposizione a una particolare vulnerabilità in termini di svantaggio sociale o economico o per il rischio di essere nuovamente trafficate.
La Corte esclude che, il rischio di re-trafficking possa condurre al riconoscimento della protezione sussidiaria, giacché esso comporta di per sé il riconoscimento del rifugio, afferendo al timore di subire atti persecutori. Qualora, invece, pur essendo credibile la condizione di (già) vittima di tratta ma difetti il rischio in caso di rimpatrio, potrà essere riconosciuta, caso per caso, la protezione umanitaria (se non sia stato riconosciuto il permesso ex art. 18 TU 286/98, di cui la pronuncia in Rassegna evidenzia le differenze) secondo il paradigma della comparazione, «in questo caso ponendo particolare attenzione al fatto che le violenze subite, nel Paese di origine, nel Paese di transito o in Italia, possono essere state fortemente traumatiche e idonee ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (Cass. 25734 del 22/09/2021), nonché sulla sua capacità di reinserirsi, preservando le inalienabili condizioni di dignità umana, in un contesto sociale punitivo verso le donne che hanno esercitato il meretricio».
 
Anche l’ordinanza n. 5467/2002 della Corte di cassazione ha esaminato un ricorso in cui si dibatteva del riconoscimento della protezione internazionale o di quella umanitaria richiesta da una donna nigeriana che dichiarava essere stata vittima sia di violenze domestiche che di traffico di esseri umani. Tutela negatale dalla Corte d’appello di Milano e prima ancora dal Tribunale, per difetto di credibilità. La Corte ricorda che, secondo la giurisprudenza di legittimità, «la valutazione di inattendibilità del racconto del richiedente, per la parte relativa alle vicende personali di quest’ultimo, non può impedire l’accertamento officioso, relativo all’esistenza ed al grado di deprivazione dei diritti umani nell’area di provenienza del cittadino straniero, in ordine all’ipotesi di protezione umanitaria». Ricorda anche che qualora emerga un quadro indiziario, anche incompleto, che faccia temere che la richiedente sia stata vittima di tratta, il giudice non può arrestarsi al difetto di allegazione ma deve disporre l’audizione per cercare di comprendere meglio la vicenda personale (Cass. n. 24573 del 2020). Afferma, poi, che gli atti di violenza domestica rappresentano violazione di diritti fondamentali ai sensi dell’art. 3 della Convenzione di Istanbul del 2011, i quali possono condurre al riconoscimento della protezione sussidiaria, ex art. 14 lett. b), d.lgs. 25/2008 (Cass. 21 ottobre 2020, n. 23017; Cass. 12 febbraio 2021, n. 3701). In caso, tuttavia, non si rinvengano i presupposti della protezione internazionale va valutata la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, effettuando la comparazione tra la condizione vissuta in Italia e il rischio di compromissione dei diritti fondamentali in caso di rimpatrio «ponendo particolare attenzione al fatto che le violenze subite possono essere state fortemente traumatiche e idonee ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona, nonché sulla sua capacità di reinserirsi socialmente in caso di rimpatrio, preservando le inalienabili condizioni di dignità umana (Cass. n. 676 del 2022)».
 
Protezione umanitaria, disabilità e discriminazione sociale
Lordinanza n. 13400/2022 della Corte di cassazione ha trattato la questione della rilevanza, ai fini della protezione umanitaria, della condizione di invalidità del richiedente invalido, al quale il Paese di origine non offra adeguata tutela ma, anzi, lo discrimini. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte per difetto di valida procura alle liti (cfr. Corte cost. n. 13/2022) ma ha deciso di esaminare comunque la questione in pubblica udienza data la sua importanza. Il Tribunale di Bologna aveva respinto il ricorso ritenendo insussistente una condizione di grave e seria vulnerabilità perché il richiedente non era indigente e poteva ricevere cure sanitarie anche in Tunisia. La Cassazione ha censurato la mancata valutazione della condizione di discriminazione allegata in giudizio dal richiedente, lesiva della sua dignità personale, in quanto aveva dimostrato di non riuscire nemmeno a trovare lavoro a causa dello stigma sociale in Tunisia nei confronti delle persone affette da disabilità. Discriminazioni la cui credibilità non è stata messa in discussione dal giudice bolognese che, tuttavia, ha omesso di trarne le debite conseguenze ovverosia che «la condizione individuale del ricorrente sia espressiva di una grave compressione del nucleo essenziale dei diritti umani che compongono lo statuto minimo della dignità personale», irrilevante che nel Paese di origine siano previsti ausili che non eliminano le gravi discriminazioni attuate nella società. Il principio di diritto nell’interesse della legge affermato dalla Cassazione è il seguente: «la condizione di vulnerabilità idonea a sorreggere il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, può essere fondata sull’allegazione di una situazione di disabilità fisica o psichica generatrice, nel Paese di origine, di un trattamento discriminatorio, pur non derivante da atti o comportamenti statuali, dovuto ad emarginazione sociale e relazionale, secondo un modello culturale diffuso e non contrastato, tale da integrare una grave violazione dei diritti umani così come garantiti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione e dall’art. l e seguenti della Convenzione ONU, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata in Italia con l. n. 19 del 2009».
 
La protezione speciale e lo sfruttamento lavorativo
Un’interessante pronuncia del  Tribunale di Torino – ordinanza 24.5.2022 RG. 2945/2022  – ha riconosciuto la protezione speciale a cittadino guineano a cui la questura di Torino aveva negato il rinnovo del permesso di soggiorno umanitario sulla base del parere negativo espresso dalla Commissione territoriale. Dopo avere dato conto delle modifiche legislative intervenute, ovverosia del nuovo istituto della protezione speciale applicabile ai procedimenti amministrativi e ai giudizi in corso (ex art. 15 d.l. n. 130/2020), e avere rilevato che, nonostante il parere negativo della Commissione territoriale, il questore è tenuto, ex art. 5, co. 9 TU 286/98, a verificare l’esistenza di motivi nuovi sopravvenuti e/o della permanenza delle ragioni umanitarie, il Collegio torinese individua il presupposto per il riconoscimento della protezione speciale nello sfruttamento lavorativo subito dal cittadino guineano negli anni passati. È stato, infatti, accertato che era stato costretto a lasciare una struttura SAI siciliana di accoglienza per richiedenti asilo a causa della necessità di lavorare per provvedere al mantenimento della famiglia in Guinea, trovando lavoro in provincia di Foggia come bracciante agricolo per 13 ore al giorno e paga oraria di 4 euro. Condizione emersa nelle dichiarazioni del cittadino straniero (che ha evidenziato l’assenza di controlli delle istituzioni) e con riscontro anche in una relazione OIM redatta nell’ambito di un progetto contro la tratta e lo sfruttamento lavorativo.
Secondo il Tribunale di Torino «Non vi è dunque dubbio che le condizioni di lavoro particolarmente degradanti a cui è stato sottoposto il ricorrente siano idonee “ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla
libertà e all’autodeterminazione dell’individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima” (circostanza che la Corte di cassazione ha ritenuto sufficiente per il riconoscimento della protezione speciale prevista dall’art. 19, co. 1 e 1.1, d.lgs. n. 286 del 1998, laddove chiamata a decidere il caso di un richiedente i cui familiari versavano in condizioni di “povertà estrema” nel Paese d’origine; cfr. sentenza n. 15961/2021)». Richiamo alla giurisprudenza della Cassazione che evoca lo stretto legame tra sfruttamento lavorativo e povertà estrema, quest’ultima determinando l’inevitabilità, spesso, di assoggettarsi al primo laddove siano assenti controlli e interventi istituzionali (sulla rilevanza della povertà si veda anche, nella precedente Rassegna n. 2.2022, l’ordinanza della Cassazione n. 39848/2021). L’ordinanza valorizza anche il lavoro non regolare a cui il cittadino guineano era stato costretto, quale sforzo e volontà di integrazione, rilevante per il riconoscimento della protezione speciale.
Interessante anche la parte in cui nella pronuncia in esame il Giudice torinese rimette in termini il ricorso, pur presentato oltre i 30 gg. previsti dalla legge (art. 19-ter, d.lgs. 150/2011), ritenendo scusabile l’errore per la complessità delle questioni tecniche riferitegli dal primo avvocato a cui si era rivolto.
 
Protezione speciale e violenza nei Paesi di origine
Il  Tribunale di Genova, con ordinanza 15.5.2022  ha riconosciuto la protezione speciale a richiedente asilo della Guinea, Paese nel quale nel 2021 è intervenuto un colpo di Stato che ha limitato fortemente le libertà fondamentali. Il Tribunale ha escluso la sussistenza dei presupposti della protezione sussidiaria in quanto il livello di violenza non rispetta i parametri indicati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.
 
Protezione speciale e revoca permesso - sospensione efficacia provvedimento
Con ordinanza 27.7.2022 RG. 3419/2022 il Tribunale di Messina  ha concesso la sospensione dell’efficacia di un provvedimento del questore di revoca del permesso di soggiorno rinnovato per protezione speciale (già umanitario). La decisione è di interesse già nella descrizione della procedura, in quanto il questore aveva rinnovato il titolo di soggiorno pur in assenza del parere della Commissione territoriale, a cui era stato chiesto ma che non aveva risposto entro 30 gg., ritenendosi integrato il silenzio-assenso; successivamente, tuttavia, era pervenuto il parere negativo della CT e il questore aveva dunque disposto la revoca del permesso. Nell’ambito del giudizio proposto è stata chiesta la sospensione dell’efficacia del provvedimento, stante l’ordine contestuale di allontanamento dall’Italia, e il Tribunale l’ha concessa, a prescindere dalla correttezza o meno della procedura amministrativa, per avere accertato l’integrazione del cittadino straniero, titolare di contratto di lavoro a tempo indeterminato.
 
DIRITTI - VARIE
 
Il Titolo di viaggio e il permesso per protezione umanitaria/speciale
Da tempo i titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari (o protezione speciale) incontrano notevoli difficoltà nell’ottenere, o rinnovare, il proprio titolo di soggiorno a causa della impossibilità di ottenere il passaporto dalle proprie Autorità consolari, talvolta perché dalla richiesta deriverebbe un pericolo concreto, in altri per impossibilità oggettiva (non presenza in Italia dell’Autorità consolare o necessità di reperimento di documenti imprescindibili per il rilascio del passaporto acquisibili solo nel Paese di appartenenza, ecc.).
La questione rileva non solo per il rischio per il/la titolare di permesso umanitario/speciale di essere indotto/a alla irregolarità di soggiorno, ma per l’impossibilità stessa di fare rientro nel Paese di origine, con grave limitazione del diritto di circolazione.
Si segnala, in materia, Consiglio di Stato, sentenza n. 5947 del 13.7.2022 che, annullando la decisione del Tar Trento di rigetto del ricorso proposto avverso il diniego di rilascio di Titolo di viaggio a cittadino straniero titolare di permesso umanitario gravato da condanne, afferma innanzitutto l’irrilevanza della circolare del Ministero dell’interno del 1961 che lo escludeva in presenza di motivi «imperiosi di sicurezza nazionale» o di «ordine pubblico» (cioè anche in presenza di pregiudizi penali) in quanto all’epoca non esisteva la protezione internazionale e neppure quella umanitaria, ma, ancor prima, perché una circolare non può incidere su una norma di legge. Inoltre, afferma il Consiglio di Stato che il rilascio del Titolo di viaggio non è soggetto a valutazione di opportunità da parte della PA e il suo rifiuto non può oggi basarsi su prove rigorose di impossibilità di acquisire il passaporto bensì su fondate ragioni che impediscano alla persona di rivolgersi alle Autorità del proprio Paese (art. 24, d.lgs. 251/2007). Infatti «la rigorosa condizione per il rilascio del titolo di viaggio dell’aver lo straniero dimostrato di essere nell’impossibilità di ottenere un passaporto dalle autorità del suo Paese, non pare trovi più giustificazione, posto che le categorie alle quali è riconosciuto ora il titolo di viaggio non sono più le “persone cui le Autorità Italiane riterranno opportuno rilasciare il detto titolo”, ma sono espressamente coloro i quali sono titolari dello status di protezione sussidiaria (come si desume da dir. n. 2004/83/CE e artt. 10 e 11 Cost.) e coloro che sono titolari di status di protezione umanitaria (tutelati ex art. 10 Cost.), di conseguenza tale prova rigorosa non è più prevista, infatti l’art. 24 del d.lgs. 251/2007 prevede solo “fondate ragioni che non consentono al titolare dello status di protezione sussidiaria di chiedere il passaporto alle autorità diplomatiche del Paese di cittadinanza”». Fondate ragioni che si integrano «in tutte quelle circostanze in cui gli apparati burocratici del Paese di appartenenza rendono impossibile al cittadino di conseguire il documento richiesto» e non solo nel caso in cui il contatto o il rientro nel proprio Paese di origine costituirebbero motivo di pericolo per la persona. Inoltre, qualora vengano in rilievo i «gravissimi motivi attinenti la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico che ne impediscono il rilascio», di cui all’art. 24, co. 3, d.lgs. 251/2007 attuativo dell’art. 25, dir. 2004/83/CE, comunque «la valutazione, connotata da ampia discrezionalità, del questore, circa la sussistenza di ragioni di ordine pubblico per negare il titolo di viaggio, non può tuttavia trasformarsi in una statuizione arbitraria, una mera petizione di principio», per cui il mero riferimento alla pregressa commissione di reati, senza alcuna ulteriore valutazione, non consente di ritenere positivamente accertata la sussistenza di detti gravissimi motivi attinenti all’ordine pubblico.
 
Passaporto e domanda di rinnovo del permesso per protezione speciale
La questione del possesso del passaporto per la presentazione della domanda di permesso per protezione speciale (o suo rinnovo) è stata nuovamente portata all’attenzione dell’Autorità giudiziaria, stante la prassi in uso in molte questure di ritenerlo imprescindibile per l’avvio del procedimento. Pretesa che ha già avuto censure da parte dei Tribunali. Oltre alle decisioni indicate nelle precedenti Rassegne (n. 3.2021 e n. 2.2022), si segnala l’ ordinanza 7.6.2022 RG. 13135/2022 del Tribunale di Milano , che ha riguardato il caso di un cittadino pakistano, originario della provincia del Belucistan, a cui la Commissione territoriale aveva riconosciuto la protezione umanitaria (oggi speciale) in ragione della grave instabilità ivi accertata, e al quale, tuttavia, la questura di Milano negava da un anno la formalizzazione della domanda di rinnovo a causa della mancanza di passaporto. Il giudice meneghino esclude che per la protezione speciale valga la deroga prevista dall’art. 9, co. 3 e 6, d.p.r. 394/99 (Regolamento di attuazione del TU immigrazione) per i richiedenti asilo o per i permessi ex artt. 18 e 20 TU d.lgs 286/98 o per acquisto cittadinanza o apolidia, in quanto il comma 3 distingue il passaporto dalla documentazione e pertanto il passaporto è astrattamente requisito di ammissibilità. Tuttavia, il Tribunale analizza il concetto di «altro documento equipollente» al passaporto indicato proprio dal predetto comma 3 e la conclusione a cui perviene è che il permesso di soggiorno rilasciato precedentemente dalla questura è da ritenersi documento equipollente in quanto risponde alla previsione generale della norma regolamentare («a) il passaporto o altro documento equipollente da cui risultino la nazionalità, la data, anche solo con l’indicazione dell’anno, e il luogo di nascita degli interessati, nonché il visto di ingresso, quando prescritto») e dall’art. 4, co. 1, d.lgs 142/2015 («Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445»).
Dopo avere richiamato le circolari del Ministero degli affari esteri n. 48 del 1961 e del Ministero dell’interno n. 300 del 2003 sulla rilasciabilità del Titolo di viaggio anche per coloro che hanno avuto il riconoscimento della protezione umanitaria se i contatti con le Autorità del Paese di appartenenza esporrebbero la persona a rischi per l’incolumità o di violazione di diritti fondamentali, nell’ordinanza viene giustificata l’identificazione attraverso il pregresso titolo di soggiorno e non mediante passaporto perché il mancato rinnovo del permesso di soggiorno comporterebbe il rischio di espulsione verso il Paese di origine in cui è stata accertata l’esistenza a tutt’oggi di una situazione di grave instabilità.
 
Permesso di soggiorno per richiesta asilo e attivazione di PostePay Evolution
Il Tribunale di Catania, con ordinanza ex art. 700 c.p.c. del 2.8.2022 RG. 9410/2022 , ha accolto il ricorso proposto da richiedente asilo al quale Poste italiane aveva negato il rilascio della PostePay Evolution (che dispone di un codice IBAN) perché aveva ritenuto non idoneo quel tipo di permesso. Il giudice siciliano censura il rifiuto di Poste italiane, che qualifica come discriminatorio, richiamando l’art. 126-noviedecies del Testo unico in materia bancaria e creditizia (d.lgs. n. 385/1993 e successive modifiche), secondo cui «Le banche, la società Poste italiane s.p.a. e gli altri prestatori di servizi di pagamento abilitati ad offrire servizi a valere su un conto di pagamento» garantiscono il diritto all’apertura di un «conto di base» non solo ai cittadini italiani ed europei ma anche a tutte le persone straniere non comunitarie regolarmente soggiornanti nell’Unione europea in forza del diritto europeo e/o nazionale, compresi espressamente i richiedenti asilo (oltre che le persone senza fissa dimora). Disposizione che precisa che quel diritto deve essere riconosciuto senza discriminazione e a prescindere dal luogo di residenza.
Sulla medesima questione, che incide negativamente sul diritto al lavoro dei richiedenti asilo (e non solo) che possono ricevere lo stipendio solo su un conto creditizio con IBAN, si rinvia anche alla Rassegna del n. 2.2022.
 
LE MISURE DI ACCOGLIENZA PER RICHIEDENTI ASILO
 
Il diniego di accesso al sistema pubblico di accoglienza nella vigenza del d.l. n. 113/2018
A seguito della riforma recata dal d.l. n. 113/2018 anche al sistema di accoglienza per richiedenti asilo (di cui al d.lgs. 142/2015), il Tar Marche aveva rinviato alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell’art. 12, co. 6 di detto d.l., per ritenuta sospetta violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui, a seguito dell’abrogazione del permesso di soggiorno umanitario (art. 5, co. 6 TU d.lgs. 286/98) e della restrizione dei destinatari delle misure di accoglienza, aveva disposto che i titolari della protezione umanitaria già accolti nel sistema pubblico di accoglienza SPRAR alla data di entrata in vigore della riforma del 2018 potevano permanervi sino alla conclusione del progetto di accoglienza, nulla disponendo per «coloro che, sempre per mera casualità, non vi sono stati ammessi per mancanza di posti» (Tar Marche ord. 109/2020).
 
Con sentenza n. 97 del 14.4.2022 la Corte costituzionale ha restituito gli atti al Tar Marche perché nelle more del giudizio costituzionale la normativa in materia di sistema pubblico di accoglienza è stata nuovamente riformata con il d.l. n. 130/2020, che ha ampliato la platea dei destinatari delle misure e ha diversificato i due livelli del sistema: «il primo dedicato ai richiedenti protezione internazionale, il secondo a coloro che ne sono già titolari, con servizi aggiuntivi finalizzati all’integrazione». La Corte rinvia al giudice a quo perché la riforma del sistema per richiedenti asilo può consentire oggi al ricorrente di beneficiare delle nuove misure previste e, richiamando una propria recente pronuncia, afferma che «lo ius superveniens, costituito dall’art. 4 del d.l. n. 130 del 2020, come convertito, ha inciso “profondamente sull’ordito logico che sta alla base delle censure prospettate” (ordinanza n. 60 del 2021)». Nel contempo, la Corte evidenzia che anche il secondo livello del sistema potrebbe riguardare l’interessato, facendo applicazione dei principi espressi dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite nn. 29459, 29460 e 29461 del 2019, secondo cui la disciplina del d.l. n. 113/2018 si applica solo ai permessi per protezione umanitaria richiesti successivamente all’entrata in vigore di detta riforma.
 
La revoca delle misure di accoglienza per comportamento violento del richiedente asilo
La Corte di giustizia dell’Unione europea, con sentenza 1.8.2022, C-422/21, si è pronunciata sulla domanda pregiudiziale rinviatale dal Consiglio di Stato sull’interpretazione dell’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della Direttiva 2013/33/UE (cd. Direttiva accoglienza), che indica i casi nei quali possono essere revocate le misure di accoglienza ai richiedenti asilo. Disposizione europea attuata dall’art. 23, d.lgs. 142/2015. Il rinvio era stato disposto in un giudizio proposto da richiedente asilo al quale erano state revocate le misure di accoglienza dalla prefettura di Firenze a seguito di una denuncia per lesioni a pubblici ufficiali in occasione di un accesso ad un treno senza biglietto; provvedimento annullato dal Tar Firenze che aveva ritenuto tale revoca e dunque l’art. 23 d.lgs 142/2015 contrario al diritto unionale «come interpretato dalla Corte nella sua sentenza del 12 novembre 2019, Haqbin (C-233/18, EU:C:2019:956)» in quanto sanzione unica e automatica prevista in circostanze quali quelle che hanno dato origine al contenzioso.
Il Ministero dell’interno aveva proposto appello davanti al Consiglio di Stato il quale, dubitando della correttezza della sentenza del Tar, ha rinviato in via pregiudiziale alla CGUE in relazione a due questioni: la prima «se l’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33 debba essere interpretato nel senso che esso si applica a comportamenti gravemente violenti posti in essere al di fuori di un Centro di accoglienza» e la seconda «se l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33 debba essere interpretato nel senso che osta all’irrogazione, a un richiedente protezione internazionale che abbia posto in essere un comportamento gravemente violento nei confronti di pubblici funzionari, di una sanzione consistente nel revocare le condizioni materiali di accoglienza , ai sensi dell’articolo 2, lettere f) e g), di tale direttiva».
Al primo quesito la Corte risponde che l’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33 comprende anche comportamenti gravemente violenti posti in essere al di fuori di un Centro di accoglienza perché qualunque comportamento particolarmente violento può determinare un rischio per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone e dei beni, in qualunque luogo si manifesti.
Con riguardo al secondo quesito, invece, la CGUE richiama «il criterio di proporzionalità stabilito all’articolo 20, paragrafo 5, seconda frase, della direttiva 2013/33, in quanto anche le sanzioni più severe intese a contrastare, in ambito penale, le violazioni o i comportamenti di cui all’articolo 20, paragrafo 4, di tale direttiva non possono privare il richiedente della possibilità di provvedere ai suoi bisogni più elementari (sentenza del 12 novembre 2019, Haqbin, C‑233/18, ECLI:EU:C:2019:956, punto 48)», ritenendo che comunque debba essere sempre salvaguardato il diritto del richiedente a un tenore di vita dignitoso, che soddisfi i suoi bisogni primari. Diritto rispetto al quale diventano recessive le garanzie procedurali prima della revoca, giacché anche in tal caso il richiedente asilo potrebbe trovarsi nell’impossibilità di far fronte ai suoi bisogni primari. Conclude, dunque, la Corte europea affermando il seguente principio: «L’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33 deve essere interpretato nel senso che esso osta all’irrogazione, a un richiedente protezione internazionale che abbia posto in essere comportamenti gravemente violenti nei confronti di funzionari pubblici, di una sanzione consistente nel revocare le condizioni materiali di accoglienza, ai sensi dell’articolo 2, lettere f) e g), di tale direttiva, riguardanti l’alloggio, il vitto o il vestiario, qualora ciò abbia l’effetto di privare detto richiedente della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. L’irrogazione di altre sanzioni ai sensi del citato articolo 20, paragrafo 4, deve, in qualsiasi circostanza, rispettare le condizioni di cui al paragrafo 5 di tale articolo, in particolare quelle relative al rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana».
 
I PROVVEDIMENTI c.d. DUBLINO (reg. 604/2013)
 
Il Tribunale di Roma è stato adito in via d’urgenza da richiedente asilo nei confronti del quale nel 2021 era stato annullato, dal medesimo Tribunale, il provvedimento di rinvio in Austria di richiedente asilo afghano ma il cui procedimento amministrativo non è mai stato definito dall’Unità Dublino con conseguente paralisi di quello attivabile in Italia per il riconoscimento della protezione internazionale. Mancata chiusura del procedimento Dublino giustificata dal Ministero dell’interno per la pendenza del ricorso davanti alla Corte di cassazione. Con  ordinanza 2.9.2022 il Tribunale romano  ha accolto il ricorso affermando che non vi è alcun effetto sospensivo automatico in relazione al ricorso per Cassazione (art. 3, co. 3-octies, d.lgs. n. 25/2008), diversamente da quanto disposto per il giudizio di protezione internazionale ex art. 35-bis, co. 13, d.lgs. 25/2008 e ciò in coerenza con le previsioni dell’art. 27, paragrafo 3, del regolamento 604/2013.
Inoltre, secondo il Tribunale «la sospensione del decreto di trasferimento [ndr: riconosciuta al ricorrente nel giudizio avverso il provvedimento di trasferimento] esaurisce la sua efficacia con la definizione del procedimento innanzi al Tribunale e la sospensione del decreto del Tribunale per il caso di ricorso in Cassazione non risulta prevista dal legislatore, tanto che – ove proposta – viene dichiarata inammissibile per costante orientamento della sezione specializzata adita».
Conseguentemente, il giudice ha ordinato al Ministero la chiusura del procedimento volto alla determinazione della competenza dell’Italia a esaminare la richiesta di riconoscimento della protezione internazionale, con attivazione immediata di questo procedimento.
La pronuncia in rassegna è interessante anche nella parte in cui rileva il pregiudizio derivante al richiedente asilo dalla mancata chiusura del procedimento Dublino, sia in termini di accessibilità, con il relativo permesso di soggiorno, ai diritti civili, sia per il ricongiungimento familiare (quest’ultimo nella prevedibile ipotesi di accertamento degli status trattandosi di cittadino afghano di etnia hazara), tenuto conto che i familiari rimasti in Afghanistan sono a rischio di incolumità e non sono riusciti a far parte dei c.d. corridoi umanitari, nonostante la gravità della situazione afghana accertabile attraverso numerosissime COI.

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