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Fascicolo 3, Novembre 2022


Coloro che arrivano qui / sulle nostre sponde

già tormentate dal freddo / già malate e già sole

non sanno che in noi / le finestre di grande speranza

sono ormai chiuse.

(Alda Merini)

Ammissione e soggiorno

PERMESSO DI SOGGIORNO PER MOTIVI DI LAVORO
 
Questioni di legittimità costituzionale in materia di alcuni reati ostativi
Sono da segnalare, innanzitutto, due ordinanze del Consiglio di Stato sia perché particolarmente ampie e dense di considerazioni,
sia perché in base ai potenziali esiti, in grado di assumere una significativa rilevanza nello sviluppo della normativa ovvero anche solo delle prassi in materia di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno e di limiti imposti dal legislatore attraverso l’introduzione di reati ostativi.
Il Consiglio di Stato, con ordinanze n. 5171 del 23.6.2022 e n. 5492 dell’1.7.2022, dubita infatti della legittimità costituzionale dell’art. 4, co. 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nei limiti in cui si dirà in seguito. I due provvedimenti hanno motivazione sostanzialmente eguale e sollevano l’incidente di costituzionalità in relazione ai medesimi parametri costituzionali.
In particolare, la prima ordinanza (n. 5171 del 23.6.2022) rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimità della richiamata norma nella parte in cui prevede che il reato di cui all’art. 474 c.p. («introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi») sia automaticamente ostativo al rilascio ovvero al rinnovo del titolo di soggiorno; la seconda ordinanza (n. 5492 del 1.7.2022), invece, rinvia al Giudice delle leggi nella parte in cui l’art. 4, co. 3 TU immigrazione, richiamando tutti «i reati inerenti gli stupefacenti», prevede che la fattispecie di cui all’art. 73, co. 5, d.p.r. n. 309 del 1990 sia anch’essa automaticamente ostativa al rilascio ovvero al rinnovo del titolo di soggiorno.
I parametri costituzionali entro i quali valutare la legittimità dell’art. 4, co. 3, d.lgs. 286/98 sono, a parere del Collegio, gli artt. 3 e 117, co. 1, Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, con esclusivo riferimento alla «protezione della vita privata» essendo quella «familiare» tutelata aliunde).
In entrambe le fattispecie concrete esaminate i ricorrenti, cittadini stranieri titolari di permesso di soggiorno di cui hanno chiesto il rinnovo per motivi di lavoro, non hanno alcun legame familiare in Italia. Conseguentemente, dà atto il giudice, che il motivo ostativo – letteralmente previsto come automatico – non potrebbe incorrere nelle limitazioni previste dall’art. 5, co. 5, d.lgs. 286/98, che impone all’Amministrazione di comparare, in termini di bilanciamento, l’interesse collettivo alla tutela della sicurezza pubblica con l’interesse alla vita familiare della persona non italiana e dei suoi congiunti, che trova tutela quale diritto fondamentale a partire dall’art. 8 Convenzione EDU (cfr. in tale senso anche Cons. St., n. 6699 del 2018). Non residuando all’Amministrazione alcun margine di valutazione discrezionale (eventualmente sindacabile dinanzi all’Autorità giurisdizionale in termini di ragionevolezza), non resterebbe che applicare in entrambi i casi l’automatismo di cui all’art. 4, co. 3, TU e, dunque, affermare l’impossibilità di continuare regolarmente il soggiorno in Italia poiché a carico di entrambi i cittadini stranieri gravano pregiudizi penali.
La giurisprudenza amministrativa, invero, in determinate ipotesi in cui era in valutazione la portata dell’art. 474 c.p., ha ritenuto che al giudice amministrativo residuasse comunque un potere di valutazione sulla pericolosità sociale «in concreto» del richiedente il rinnovo del titolo di soggiorno (cfr. ad esempio Cons. St., n. 4385/2016 e n. 1637 del 2014), così da potere prendere in considerazione, inter alia, la tenuità del fatto e l’incidenza della condotta della persona sul bene giuridico concretamente tutelato dalla norma.
Tale prospettiva non è tuttavia condivisa dai giudici remittenti innanzitutto in quanto sarebbe esclusa dalla lettera della legge e, in secondo luogo, in quanto la stessa Corte delle leggi ha escluso l’automatismo solo in ipotesi di rilevanza di pregressi legami familiari in Italia.
D’altra parte, pur essendoci, a dire del giudice remittente, un potenziale conflitto delle norme censurate anche con le norme del TFUE e, dunque, con la normativa unionale, poiché «all’ordinamento comunitario è precluso entrare nel merito della discrezionalità del legislatore nazionale in materia di sicurezza e ordine pubblico» non sarebbe ipotizzabile, nel caso specifico, la disapplicazione della norma interna e neppure la remissione della questione alla CGUE. Dunque, essendo le questioni ritenute non manifestamente infondate, l’unico rimedio è la remissione della questione di legittimità costituzionale.
Nelle ordinanze in commento sono affrontati, con particolare cura, i principi di proporzionalità e di ragionevolezza che qualsiasi norma deve rispettare allorquando impone sacrifici o limitazioni delle libertà personali, in base alla giurisprudenza della CGUE e della Corte EDU.
A seguito di articolata analisi il Consiglio di Stato afferma, innanzitutto, che «L’art. 4, comma 3, del TU immigrazione è, quindi, il punto di equilibrio raggiunto dal legislatore per la protezione del bene della sicurezza pubblica di fronte al quale la libertà di soggiorno del singolo diviene recessiva»; ma l’analisi delle fattispecie ostative al rilascio/rinnovo del titolo di soggiorno contemplate dalla norma fa emergere «fattispecie criminose disomogenee tra loro in termini di condotta, di bene giuridico protetto, di limiti edittali di trattamento sanzionatorio e di allarme sociale» che, con particolare riferimento all’art. 474 c.p. e all’art. 73, co. 5, d.p.r. n. 309 del 1990, fa dubitare del rispetto da parte della norma del 1998 dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, come pur interpretati dalla stessa Corte costituzionale.
Il Collegio rileva, in entrambe le ipotesi scrutinate, che il legislatore ha parificato, dal punto di vista della sanzione amministrativa, reati come l’omicidio volontario (punito, ai sensi dell’art. 575 c.p., con la reclusione non inferiore ad anni 21) e, da un lato, l’art. 474 c.p. (punito con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 3.500 a euro 35.000) e, dall’altro, l’art. 73 co. 5 d.p.r. 309/90 (punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro10.329).
Pur essendo consapevole che la Corte costituzionale ha, con particolare riferimento alla rilevanza in materia dell’art. 73, co. 5 d.p.r. 309/90, ritenuto che l’art. 4, co. 3, d.lgs. 286/98 sia legittimo, occorre tuttavia rivalutare, secondo il Consiglio di Stato, tale orientamento «avuto riguardo alla specificità della fattispecie e in considerazione soprattutto dell’evoluzione che la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale [n.d.r. richiamate nella pronuncia: sentenza n. 172/2012, ordinanza n. 97/2021, sentenza n. 55/2021] ha maturato negli ultimi anni in tema di proporzionalità della pena che possono applicarsi, in via più generale, alla proporzionalità delle sanzioni amministrative quale il provvedimento di espulsione che consegue al diniego del permesso di soggiorno ovvero alla revoca nel caso in questo sia stato già rilasciato».
 
Reddito del richiedente ed elementi sopravvenuti al provvedimento impugnato
Ai sensi dell’art. 22, co. 11, d.lgs. 286/98 la perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno, il quale permane a seguito di iscrizione nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del titolo di soggiorno, e comunque per un periodo non inferiore ad un anno o a tutto il periodo di durata della prestazione di sostegno al reddito eventualmente percepita dal lavoratore straniero. Decorso tale periodo il cittadino straniero deve dimostrare il possesso di redditi non inferiori all’importo dell’assegno sociale, facendosi applicazione del requisito di cui all’art. 29, co. 3, lett. b), d.lgs. 286/98. Tale criterio, aveva già osservato la giurisprudenza amministrativa, è da ritenersi «orientativo di valutazione e non un parametro rigido la cui mancanza sia automaticamente ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, dovendosi tener conto delle varie circostanze che di fatto concorrono a consentire il sostentamento dell’immigrato» (Cons. St., sent. 4352/2016). Così, anche un reddito lievemente inferiore a quello indicato dalla norma non costituisce, ex se, motivo di rigetto dell’istanza volta all’ottenimento del titolo di soggiorno.
Il Consiglio Stato, sezione III, sentenza n. 6935 del 5.8.2022, riprendendo il precedente orientamento, ha tuttavia ulteriormente specificato che, in ipotesi di rilevante scostamento dal parametro reddituale di cui sopra, non è precluso al giudice valutare eventuali sopravvenienze reddituali emerse nell’anno successivo a quello formalmente oggetto di valutazione da parte della PA e, conseguentemente, rimettere la decisione in sede revisoria alla stessa PA. La pronuncia si presenta degna di interesse anche perché sottolinea che, oltre che considerare circostanze sopravvenute (quali appunto il reddito maturato dalla persona straniera nel periodo successivo all’adozione del provvedimento impugnato), l’Amministrazione deve tenere conto di ulteriori elementi giustificativi dello scostamento del livello di reddito richiesto dalla norma quali, a titolo esemplificativo, l’avanzata età anagrafica del cittadino straniero e le connesse limitazioni all’attività lavorativa. Tanto consegue da una attenta ricostruzione, operata dal Consiglio di Stato, della trasformazione del processo amministrativo «da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata» (Ad. plen., 2011, n. 3, richiamata dalla sentenza in rassegna) e dunque dalla nuova natura e funzione assegnata conseguentemente al processo amministrativo «tanto più nelle ipotesi in cui oggetto del giudizio sono diritti fondamentali della persona umana che possono trovare tutela nel quadro di un idoneo bilanciamento con i valori essenziali della sicurezza e della sostenibilità dei flussi migratori».
 
Elementi sopravvenuti alla decisione amministrativa
Le considerazioni di cui sopra, in merito alla natura del giudizio amministrativo e all’incidenza degli elementi sopravvenuti alla decisione amministrativa, trovano conferma in ulteriori e differenti esempi.
Il Consiglio di Stato sembra evolvere nel senso di considerare rilevanti, a certi fini ed entro certi limiti, le sopravvenienze al procedimento amministrativo oramai concluso, proprio in considerazione della natura del processo amministrativo, che non può intendersi meramente impugnatorio dell’atto in quanto al centro della valutazione giudiziale devono porsi i diritti sostanziali e fondamentali della persona. Da tale ragionamento può conseguire, nonostante la piena legittimità dell’atto amministrativo impugnato, la necessità di una revisione della decisione sulla base di circostanze sorte nel corso del giudizio. In questo senso il Consiglio di Stato, sentenza n. 4467 dell’1.6.2022, ha ritenuto di rinviare alla PA la decisione sulla revoca del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato dovuta all’irrogazione di misura cautelare personale al cittadino straniero, ritenuta dunque la sua pericolosità sociale. Nelle more del procedimento, tuttavia, la parte era stata assolta con formula piena dalle imputazioni a lui ascritte e comunque il giudice penale aveva sottolineato «il forte ridimensionamento di quanto denunciato» e l’assenza di un quadro presuntivo di abituale delinquenza e il cittadino straniero aveva ottenuto un titolo di soggiorno provvisorio da parte del Tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 31, co. 3, d.lgs. 286/98 e, poi, anche un titolo di soggiorno per protezione speciale che aveva valorizzato il suo radicamento sociale in Italia. Conseguentemente, anche se è vero che la valutazione discrezionale e ponderata di pericolosità sociale compiuta dall’Amministrazione «può basarsi anche su elementi e condotte non ancora necessariamente cristallizzate in un provvedimento di condanna, ma è altresì vero che la sopravvenuta pronuncia di assoluzione, specie laddove essa intervenga, come è nel presente caso – OMISSIS –, con formula piena, impone una rimeditazione della decisione amministrativa alla luce di un quadro che risulta ormai completamente diverso in punto di fatto e di diritto, quadro che impatta in maniera decisiva sulla situazione giuridica dell’appellante».
 
Successivamente il Consiglio di Stato, sentenza n. 8387 del 29.9.2022, pur confermando i precedenti su citati, evidentemente a fronte di una fattispecie concreta in parte differente, ha ulteriormente affinato i concetti su cui sta intervenendo. E con riferimento al rigetto dell’istanza di rinnovo di permesso di soggiorno per motivi di lavoro a seguito di condanna ai sensi dell’art. 629 c.p. (estorsione) ha specificato che in materia di «elementi sopravvenuti e non conoscibili dalla PA» deve essere dato ingresso alla valutazione delle «circostanze sopravvenute favorevoli all’interessato», ma tale valutazione «non può estendersi fino al punto di inglobare anche le sopravvenienze autodeterminate, intendendo per tali quelle rimesse alla libera scelta del soggetto che chiede tutela, tra le quali rientra la scelta di contrarre matrimonio. Invero, diversamente opinando, la possibilità che l’amministrazione riesamini la posizione dell’interessato sarebbe riconducibile esclusivamente ad una circostanza lato sensu meramente potestativa, dunque rimessa al mero arbitrio della parte privata, che potrebbe in tal modo condizionare a proprio piacere l’esito del giudizio».
 
Requisito della continuità del periodo di assenza dall’Italia
L’art. 13, co. 4, del d.p.r. n. 394/1999 stabilisce che «Il permesso di soggiorno non può essere rinnovato o prorogato quando risulta che lo straniero ha interrotto il soggiorno in Italia per un periodo continuativo di oltre sei mesi, o, per i permessi di soggiorno di durata almeno biennale, per un periodo continuativo superiore alla metà del periodo di validità del permesso di soggiorno, salvo che detta interruzione sia dipesa dalla necessità di adempiere agli obblighi militari o da altri gravi e comprovati motivi».
Il Tar Umbria, sentenza 526 del 4.7.2022, afferma, da un lato, i criteri dell’interpretazione della norma anche da parte della PA, i quali non possono eludere il dato testuale e il significato attribuito dal legislatore tramite l’inserimento dell’aggettivo «continuativo». Conseguentemente solo in assenza di interruzione del periodo continuativo indicato dalla norma sarà possibile, valutate tutte le altre circostanze rilevanti, non rinnovare il titolo di soggiorno per motivi di lavoro. In secondo luogo la decisione in rassegna rammenta che vanno, altresì, considerate dalla PA anche circostanze impeditive del rientro in Italia tali da potere giustificare il prolungato allontanamento dal territorio nazionale e da essere ricompresi negli «altri gravi e comprovati motivi» che rendono giustificato il comportamento della parte. Tra essi le disposizioni normative o amministrative impeditive della libertà di movimento tra gli Stati in conseguenza della pandemia determinata dal Covid-19.
 
PERMESSO DI SOGGIORNO UE DI LUNGO PERIODO
Revoca per pericolosità sociale e «tutela rafforzata»
Ai sensi dell’art. 9, co. 4, d.lgs. 286/98 «Il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo non può essere rilasciato agli stranieri pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. Nel valutare la pericolosità si tiene conto anche dell’appartenenza dello straniero ad una delle categorie indicate nell’articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituito dall’articolo 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, o nell’articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall’articolo 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646, ovvero di eventuali condanne anche non definitive, per i reati previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, nonché, limitatamente ai delitti non colposi, dall’articolo 381 del medesimo codice. Ai fini dell’adozione di un provvedimento di diniego di rilascio del permesso di soggiorno di cui al presente comma il questore tiene conto altresì della durata del soggiorno nel territorio nazionale e dell’inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero».
La giurisprudenza amministrativa ha da tempo assunto un orientamento che valorizza la «tutela rafforzata» di cui gode il cittadino straniero titolare di tale permesso (cfr. ad esempio, Cons. St., n. 6423/2022; n. 4455/2018; n. 4401/2016; n. 4708/2016), così affermando che il diniego e la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo non possono essere adottati per il solo fatto che lo straniero abbia riportato sentenze penali di condanna; al contrario, tali misure richiedono un giudizio di pericolosità sociale dello straniero e una motivazione articolata su più elementi, che tenga conto anche della durata del soggiorno sul territorio nazionale e dell’inserimento sociale, familiare e lavorativo dell’interessato, tale da escludere ogni automatismo tra provvedimento sfavorevole e condanne penali.
Questo orientamento viene ribadito dalle più attuali decisioni in materia. In particolare Consiglio di Stato, sentenza n. 6413 del 21.7.2022, in tema di revoca del PSUE, valorizza non solo la pregressa giurisprudenza nazionale e il dato normativo domestico, ma altresì la giurisprudenza della Corte di giustizia UE secondo cui «L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, dev’essere interpretato nel senso che osta alla normativa di uno Stato membro – come interpretata da una parte dei giudici di tale Stato – ai sensi della quale un cittadino di un Paese terzo può vedersi negato lo status di soggiornante di lungo periodo in tale Stato membro per il solo motivo che ha precedenti penali, senza un esame specifico della sua situazione per quanto riguarda, in particolare, la natura del reato che ha commesso, il pericolo che egli può rappresentare per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza, la durata del suo soggiorno nel territorio di tale Stato membro e l’esistenza di legami con quest’ultimo» (cfr. sentenza 3/9/2020, cause riunite C-503/19 C592/19).
 
La questione è ribadita in Consiglio di Stato, sentenza n. 6423 del 22.7.2022, per affermare che anche la gravità dei precedenti penali e le esigenze di pubblica sicurezza non possono eludere la necessità della effettiva ponderazione comparativa tra l’interesse pubblico al mantenimento dell’ordine e della sicurezza e l’interesse dello straniero a integrarsi nel tessuto sociale. Conseguentemente «Tale giudizio di bilanciamento va operato sulla base di una serie di indici, quali l’esistenza di legami familiari, di un lavoro stabile, di un conseguente adeguato reddito, di una dimora fissa, e di tutte le numerose situazioni che possono in vario modo comprovare un effettivo e pacifico radicamento sul territorio italiano in conformità alle regole fondamentali del nostro ordinamento. Solo all’esito di tale raffronto, adeguatamente motivato, si può pervenire ad una ponderata e sindacabile valutazione di pericolosità sociale dello straniero, espressiva di un corretto esercizio del potere discrezionale rimesso all’autorità amministrativa». Inoltre, la valutazione di tali elementi che ex se escludono l’automaticità della condanna in sede penale ai fini del rinnovo del predetto titolo di soggiorno, deve essere ulteriormente supportata da stringente motivazione allorquando si tratta «non di un iniziale diniego della carta di soggiorno UE di lungo periodo, ma di revoca, per la quale la normativa europea di cui alla direttiva 2009/109/CE prevede necessariamente una specifica valutazione in ordine alla minaccia attuale per la sicurezza pubblica». Ancora, afferma la decisione, dall’analisi combinata dei commi 4 e 7 dell’art. 9 TU 286/98 emerge «che la revoca può essere disposta quando il cittadino extracomunitario sia considerato pericoloso per la tutela dell'ordine pubblico o della sicurezza dello Stato in ipotesi di condanna ma, in ogni caso, il giudizio espresso in sede penale (eventualmente con condanne non definitive) non può essere l’unico elemento di valutazione» da parte dell’Amministrazione, che, in ogni caso, deve essere un giudizio ancorato a requisiti di attualità e di concretezza specifici.
 
Il medesimo orientamento, che appare dunque solido anche in considerazione dei precedenti su segnalati, è espresso nella poco successiva sentenza n. 7314 del 19.8.2002 del Consiglio di Stato. In questa decisione, inoltre, l’Alto Consesso non effettua una mera lettura della parte finale dell’art. 9, co. 4, d.lgs. 286/98, ma amplia la necessità di valutazione comparativa della PA ad elementi non esplicitamente previsti dalla norma (che sono solo la durata del soggiorno e l’inserimento sociale, familiare e lavorativo della persona straniera) e quindi a «tutte le numerose situazioni che possono in vario modo comprovare un effettivo e pacifico radicamento sul territorio italiano in conformità alle regole fondamentali del nostro ordinamento».
 
Requisito reddituale
Ai sensi dell’art. 9, co. 1, d.lgs. 286/98 uno dei requisiti per ottenere il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo è costituito dalla disponibilità «di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell’articolo 29, comma 3, lettera b)».
La medesima decisione già prima indicata, ovvero Consiglio di Stato, sentenza n. 6423 del 22.7.2022, afferma che «l’incapacità di produrre reddito per un determinato periodo, imputabile a specifiche e particolari cause addotte dall’istante nel procedimento di primo grado, non può precludere il rilascio del titolo di soggiorno, laddove sussista la concreta possibilità – dimostrata dall’appellante – di riacquistare in tempi brevi la capacità di guadagnare lavorando onestamente».
 
Idoneità alloggiativa
Ai sensi dell’art. 9, co. 1, d.lgs. 286/98 uno dei requisiti per ottenere il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo è costituito dalla disponibilità «di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall’Azienda unità sanitaria locale competente per territorio».
Il Questore della Provincia di Ravenna aveva negato il riconoscimento del diritto a una cittadina straniera che aveva dimostrato la disponibilità di un alloggio della superficie di 36 mq per 4 persone, dovendosi, a dire dell’Amministrazione, computare anche i 2 minori componenti il nucleo familiare. A tal fine l’Amministrazione aveva richiamato la circolare del Ministero dell’interno n. 400/A/2014/12.214.9 del 9 ottobre 2014 la quale valorizzava, ai fini di cui sopra, anche la presenza dei figli infra quattordicenni. Il Tar Emilia Romagna, Bologna, sentenza n. 484 del 6.6.2022, rileva la erroneità della decisione in base all’assoluta irrilevanza della indicata circolare ministeriale in materia, in quanto la normativa nazionale (art. 9, co. 1, cit.) rinvia a quella regionale ai fini della indicazione dei parametri atti ad identificare i requisiti alloggiativi idonei al rilascio del titolo di soggiorno. Considerando la l.r. Emilia-Romagna n. 24 del 2001 «Disciplina generale dell’intervento pubblico nel settore abitativo», emerge l’idoneità per 2 adulti di un alloggio di 36 mq. e la necessità di non computare a tal fine i minori facenti parte del nucleo familiare.
 
Documentazione mendace, revoca del titolo di soggiorno e necessaria valutazione di elementi (anche sopravvenuti) idonei al rilascio di altro titolo di soggiorno
Il Consiglio di Stato, sentenza n. 7426 del 24.8.2022, ritiene che la produzione in fase amministrativa di documentazione mendace (nel caso concreto si trattava documenti attestanti il requisito di idoneità alloggiativa di cui all’art. 16, comma 2, lett. c), d.p.r. n. 394 del 1999 e dell’attestato della conoscenza della lingua italiana di livello «A2» ai sensi dell’art. 9, co. 2-bis, d.lgs. 286/98) sia motivo sufficiente a revocare il permesso di soggiorno UE per soggiornante di lungo periodo. Tanto in continuità con la giurisprudenza amministrativa pur citata nella pronuncia in rassegna.
Tuttavia, qualora anche nel corso del giudizio di primo grado sia prodotta documentazione attestante l’ampio e radicato inserimento familiare, sociale e lavorativo (con produzione, ad esempio, del certificato di stato di famiglia, del contratto di locazione, degli estratti conti previdenziali, contratto di lavoro, CU dell’anno precedente, etc.) e dunque la possibilità di rilascio di un permesso di soggiorno ad altro titolo, occorre effettuare una valutazione più ampia sulla possibile rilevanza delle circostanze maturate in un momento successivo all’adozione dell’atto. Tali circostanze sopravvenute, se pur non idonee a intaccare sfavorevolmente l’effettuata valutazione amministrativa di revoca del permesso di lungo soggiorno – che si regge sul principio tempus regit actum –, incidono significativamente sulla situazione giuridica della parte comportando l’accoglimento del ricorso e il rinvio ai fini della revisione dell’originaria decisione da parte dell’Amministrazione. Devono essere, dunque, valorizzati i principi in ordine alle circostanze sopravvenute successive al giudizio di cui abbiamo dato conto nella presente Rassegna.
 
PERMESSO DI SOGGIORNO PER CURE MEDICHE
L’art. 19, co. 2, lett. d)-bis d.lgs. 286/98, come modificato dal d.l. n. 130/2020, dispone il divieto di espulsione (salvi i casi in cui ciò avvenga «per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato attraverso provvedimento del Ministero dell’interno») delle persone straniere che versano «in gravi condizioni psico-fisiche o derivanti da gravi patologie, accertate mediante idonea documentazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, tali da determinare un rilevante pregiudizio alla salute degli stessi, in caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza».
Nell’interpretare tale norma il Tribunale di Salerno, ordinanza cautelare 17.6.2022 , ritiene necessaria la verifica della sussistenza di gravi patologie pericolose «nell’immediato o suscettibili di aggravamento in futuro, a cui corrispondono prestazioni sanitarie che non possono essere differite o che sono essenziali per scongiurare aggravamenti che nel tempo potrebbero determinare maggior danno per la salute o rischi per la vita in caso di rientro nel Paese di origine». Il Tribunale considera rilevanti sia le necessità di cura nell’immediato, sia le cure riabilitative ed effettua un approfondito esame comparativo tra il sistema sanitario italiano e quello del Marocco attraverso la consultazione di fonti qualificate (World Health Organization, Comitato istituito dalla Convenzione per i Diritti Economici Sociali e Culturali, CESCR Committee, etc.) nonché attraverso fonti di stampa; affronta, dunque, la concreta accessibilità alle cure mediche da parte di una persona con disabilità nell’ambito di un sistema normativo caratterizzato dall’assenza di una disciplina a tutela delle persone con disabilità e, riconosciuta l’urgenza, ordina il rilascio del relativo titolo di soggiorno.
 
In altra fattispecie, si segnala la particolarità di Tar Sardegna, sentenza n. 513 del 18.7.2022, innanzitutto perché afferma la propria giurisdizione in materia, nonostante il chiaro disposto dell’art. 3, co. 1, lett. d-bis), d.l. n. 13/17, come convertito, con modificazioni, dalla l. 1.12.2018, n. 132, che affida alle sezioni specializzate presso il Tribunale ordinario la cognizione delle controversie in materia. Nel merito il giudice amministrativo rileva che il ricorrente, cittadino senegalese soggiornante in Italia dal 1991, era affetto da gravi patologie cliniche documentate (cecità a entrambi gli occhi intervenuta poco dopo il suo primo ingresso in Italia) e richiama la giurisprudenza costituzionale (sentenza 27.1.2015, n. 22) a tutela del diritto alla salute e della parità di trattamento dei cittadini stranieri (anche qualora non regolari sul territorio nazionale) disabili, per valorizzare la portata degli artt. 14 CEDU e 2 Cost. al fine di assicurare ogni opportuno sostegno alle persone non vedenti, come il ricorrente. Viene conseguentemente annullato il provvedimento dell’Amministrazione reiettivo del rinnovo del titolo di soggiorno richiesto dalla parte.
 
Di interesse anche l’ ordinanza 28.7.2022 RG. 6583/2022 del Tribunale di Bologna ex art. 700 c.p.c. con cui è stato riconosciuto il diritto al rilascio del permesso per cure mediche, ex art. 19, co. 2-bis TU d.lgs. 2986/98, a un cittadino del Marocco, a cui era stata diagnosticata una seria patologia psichica per la quale è seguito da istituti sanitari pubblici. L’interesse sta nel fatto che il cittadino straniero era trattenuto in CPR in attesa di espulsione, ma il Giudice di pace non ha convalidato il trattenimento in attesa della decisione del ricorso d’urgenza presentato nelle more dall’interessato.
 
LA REGOLARIZZAZIONE ex art. 103, d.l. n. 34/2020
Anche nell’ambito della presente Rassegna continuiamo a seguire le sorti della «procedura di emersione/regolarizzazione» avviata dall’art. 103, d.l. n. 34/2020, convertito con modificazioni dalla l. 17.7.2020, n. 77. Come nei precedenti numeri teniamo distinte le due ipotesi normativamente previste al comma 1 e al comma 2 di detta norma.
 
Art. 103, co. 1, d.l. 34/2020
Il Tar Piemonte, ordinanza n. 650 del 10.6.2022, si esprime sulla necessità del certificato di idoneità abitativa al momento della stipula del contratto di soggiorno a seguito della procedura di emersione di cui all’art. 103, co. 1, d.l. 34/2020. Il Collegio, infatti, rileva che l’unico profilo ostativo riscontrato dall’Amministrazione era circoscritto all’attestazione di idoneità alloggiativa dell’unità immobiliare ove era domiciliata la collaboratrice domestica interessata dalla procedura di emersione, ma che tale mancanza era stata sanata dalla stessa collaboratrice straniera. Conseguentemente il Tribunale fa uso della più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (su segnalata) in materia di sopravvenienze probatorie nel corso del giudizio di impugnazione dell’atto amministrativo, affermando che «la disciplina legislativa ascrive rilevanza centrale alle sopravvenienze di fatto che consentano il rilascio del titolo di soggiorno nelle more dell’istruttoria procedimentale (ibidem art. 5, co. 5 d.lgs. 286/1998), accreditando un indirizzo ermeneutico incline ad una valutazione prognostica e non tassativamente statica nell’apprezzamento del possesso dei requisiti richiesti per il rilascio dei titoli di soggiorno (cfr. in termini la recente sentenza Cons. St., sez. III, 1° giugno 2022, n. 4467 ... »). Il Tar non manca di sottolineare di dover comunque riservare a successivo approfondimento (proprio della fase di merito) «il tema decisorio concernente l’imprescindibilità del certificato di idoneità alloggiativa e la sua sussumibilità tra le irregolarità amministrative sanabili ex art. 5, co. 5 d.lgs. 286/1998 (cfr. ex multis Cons. St., ord. n. 2328 del 20 maggio 2022)».
 
Il Tar Marche, sentenza n. 239 dell’11.4.2022, è chiamato a decidere sulla prassi dello SUI di Ascoli Piceno che, differentemente dagli altri uffici marchigiani, rifiuta il positivo esito della procedura di emersione allorquando sia provato che il cittadino straniero, successivamente alla presentazione della domanda, si sia allontanato dall’Italia. Il Collegio rammenta che l’art. 103, co. 1, d.l. 34/2020 stabilisce che i cittadini stranieri che vogliano accedere alla procedura di emersione devono dimostrare l’ingresso in Italia prima dell’8 marzo 2020 con gli strumenti indicati dalla norma. Si sofferma, dunque, sulla interpretazione del requisito di non allontanamento dal territorio nazionale specificando, innanzitutto, che in via generale «i requisiti previsti dalla legge per l’accesso del cittadino ad un determinato beneficio debbono sussistere alla data prevista dalla norma o dalla lex specialis (bando, avviso, etc.), salvo che non sia previsto il mantenimento di tali requisiti per un determinato periodo ulteriore (come accade ad esempio nelle gare d’appalto)». La stessa legge speciale in commento, inoltre, non utilizza l’avverbio «mai» (o espressione equivalente), per cui quand’anche esistessero decreti attuativi o circolari ministeriali che abbiano «riempito di contenuto» l’art. 103 inserendo la predetta locuzione, gli stessi andrebbero disapplicati dal giudice. Indipendentemente dalla questione di gerarchia delle fonti, ciò che maggiormente rileva è un profilo sostanziale «non potendo ritenersi che, a fronte della prevedibile dilatazione dei tempi di smaltimento delle istanze di emersione, al cittadino extracomunitario fosse inibita sine die la possibilità di lasciare il T.N. anche in presenza di valide o urgenti ragioni (morte di un familiare residente nel Paese di origine, matrimonio, etc.), anche il divieto di lasciare il T.N. va ancorato ad una data certa, che non può che essere quella di presentazione della domanda di emersione». Il Tribunale amministrativo sottolinea anche la rilevanza della valutazione delle ragioni per le quali la parte si sia allontanata dall’Italia (nel caso di specie, per procurarsi il passaporto con maggiore semplicità rispetto a quanto sarebbe occorso recandosi presso il locale ufficio consolare) ed evidenzia pure la difformità della prassi dell’Ufficio di Ascoli Piceno rispetto agli omologhi marchigiani.
 
Anche Tar Napoli, sentenza n. 4239 del 22.6.2022, affronta il medesimo tema dell’allontanamento dall’Italia successivo alla presentazione della domanda di regolarizzazione e ricorda, in premessa, come quelli di cui all’art. 103, co. 1, d.l. 34/2020 siano tipici «procedimenti di massa». Secondo il Collegio «il termine finale dell’obbligo di “non allontanamento” (e salva comunque la presenza di giustificati motivi) deve individuarsi nel termine finale del procedimento di emersione» e rileva che in ordine ad esso la giurisprudenza amministrativa si sta orientando nel senso che, in difetto di previsione normativa specifica, «il termine per la definizione dei procedimenti di emersione è quello di 180 giorni indicato nel comma 4 dell’articolo 2 l. 241/90» (in questo senso cfr. Cons. St., sez. III, 9 maggio 2022, n. 3578 nella precedente Rassegna).
 
Interviene, invece, su una questione procedimentale il Tar Puglia, Bari, ordinanza n. 274 del 13.6.2022 relativa al caso di un Centro di assistenza fiscale a cui si era affidato un datore di lavoro, che aveva presentato la domanda di regolarizzazione del lavoratore straniero all’INPS e non allo Sportello unico immigrazione. Il Giudice amministrativo ritiene doversi procedere «in applicazione di un generale principio di buona amministrazione» in base al quale «l’autorità amministrativa che ha ricevuto domanda esulante dalla sua competenza è tenuta a trasmetterla all’autorità competente, anche al fine di evitare inutili aggravamenti procedimentali» per poi affermare che la trasmissione erronea della domanda di emersione dal lavoro irregolare di cittadino extracomunitario, presentata ai sensi dell’art. 103 del d.l. 34/2020, convertito in legge 77/2020 non può provocare effetti pregiudizievoli all’interessato, specie quando l’errore è imputabile a terzo, come nel caso di trasmissione dell’istanza a cura di un Centro di assistenza fiscale».
 
Art. 103, co. 2, d.l. n. 34/2020
Il Consiglio di Stato, sentenza n. 7477 del 26.8.2022, ha respinto l’appello presentato dal Ministero dell’interno avverso la sentenza del Tar Piemonte che aveva ritenuto illegittimo il diniego del permesso di soggiorno per regolarizzazione in favore del richiedente in quanto richiedente asilo. Il Collegio afferma che il tenore letterale della disposizione fa emergere tre requisiti per richiedere il rilascio di un permesso temporaneo di cui al secondo comma dell’art. 103, cit.: avere un titolo di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, essere stato presente sul territorio nazionale prima dell’8 marzo 2020 e aver svolto attività di lavoro in alcuni specifici settori lavorativi antecedentemente al 31 ottobre 2019.
Le ipotesi di esclusione/inammissibilità della procedura sono anch’esse normativamente disciplinate mentre «Con specifico riguardo alla posizione delle persone richiedenti asilo e, in particolar modo, alla compatibilità della richiesta con l’accesso alla procedura di emersione, il legislatore non ha fatto menzione alcuna nella norma». Richiamate le circolari amministrative in materia e le FAQ pur pubblicate dai Ministeri competenti, il Consiglio di Stato ricorda che tali atti «non costituiscono fonti di diritto» e, quanto alla circolare del Ministero dell’interno, di concerto con il Ministero del lavoro e il Ministero delle politiche sociali del 24.7.2021 (pur relativa in parte qua alla procedura di cui al comma 1) ne chiarisce la portata in questi termini: essa «afferisce alla species delle circolari “interpretative”, quella particolare categoria di circolari che interpreta il dato normativo per evitare una applicazione difforme, dando, se necessario, indicazioni su singoli ma frequenti casi concreti. Anche a tale tipologia di circolare non può in alcun modo assegnarsi efficacia vincolante. Da ciò discende che il provvedimento amministrativo che non tenga conto della stessa e venga adottato sulla base di una interpretazione da parte dell’amministrazione non può dirsi illegittimo. Da tali premesse di sistema emerge chiaramente che, non trattandosi di fonti normative, il giudice non solo non è tenuto a conoscerle ma non ne è vincolato. Il Giudice è tenuto unicamente ad interpretare il dato normativo».
Ciò chiarito, passando all’esame della norma, il Collegio afferma che, dalla disamina dell’art. 103 d.l. 34/2020, non emerge alcun dato «di carattere testuale, sistematico e teleologico per escludere dall’ambito di applicazione della norma e, più in generale, dalla procedura di emersione lo straniero titolare di un permesso di soggiorno temporaneo per richiesta asilo/protezione internazionale et similia», sottolineando la ontologica diversità del permesso di soggiorno per richiesta asilo dagli altri titoli di soggiorno previsti dalla normativa in materia di immigrazione in Italia. Sottolinea, dunque che «Escludere il cittadino richiedente asilo non è né necessario per la finalità del legislatore né proporzionato in quanto provoca un sacrificio ingiustificato sulla posizione giuridica del destinatario».
 
La medesima impostazione ritroviamo nella immediatamente successiva pronuncia – Consiglio di Stato, sentenza n. 7581 del 30.8.2022 – avverso precedente pronuncia del Tar Emilia Romagna. Oggetto del giudizio era la legittimità del provvedimento con il quale il questore di Ferrara aveva dichiarato inammissibile l’istanza di rilascio del permesso di soggiorno temporaneo di cui all’art. 103, co. 2, d.l. n. 34 del 2020, da parte di un titolare – alla data della presentazione della richiesta – di permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale. Anche in tale caso viene valorizzato il dato normativo per poi sottolineare che, considerato che gli stessi Ministeri convenuti hanno riconosciuto l’ammissibilità delle domande di emersione in relazione alle ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 103, d.l. 34/2020, sarebbe disomogeneo anche nei confronti della normativa europea escludere gli stessi dalla procedura che permette l’accesso al permesso di soggiorno temporaneo di cui al comma 2 della indicata norma.

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