Regolamento 604/2013 e trasferimento del richiedente verso lo Stato membro competente: eventuale sospensione del termine in caso di impossibilità materiale
La sentenza Bundesrepublik Deutschland c. MA, PB e LE (CGUE, cause riunite C-245/21 e C-248/21, 22.9,2022) affronta la questione dell’impossibilità materiale del trasferimento del richiedente asilo verso lo Stato membro competente.
Nel caso concreto, tre richiedenti asilo in Germania avrebbero dovuto essere trasferiti in Italia, ma la decisione di trasferimento non poteva essere attuata per via dei limiti alla circolazione derivanti dalla pandemia di COVID-19. La Corte di giustizia, su richiesta della Corte amministrativa federale tedesca, doveva perciò pronunciarsi sull’interpretazione di due disposizioni del regolamento 604/2013 (Dublino III), da leggere in combinato disposto. Da una parte, l’art. 27, par. 4, che recita: «Gli Stati membri possono disporre che le autorità competenti possano decidere d’ufficio di sospendere l’attuazione della decisione di trasferimento in attesa dell’esito del ricorso o della revisione». Dall’altra, l’art. 29, par. 1, che impone di effettuare il trasferimento appena possibile e comunque entro un termine di sei mesi dall’accettazione della richiesta dello Stato membro ritenuto competente di prendere o riprendere in carico l’interessato, o della decisione definitiva su un ricorso o una revisione in caso di effetto sospensivo ai sensi dell’art. 27, par. 3. Più precisamente, il nodo giuridico da sciogliere era stabilire se il limite rappresentato dalla pandemia potesse giustificare un effetto sospensivo della decisione di trasferimento dei richiedenti, tale da arrestare temporaneamente il decorso del predetto termine di sei mesi. La Corte nega che ciò sia possibile. La ragione principale va rintracciata nel testo e nella collocazione dell’art. 27, par. 4, del regolamento Dublino III. La disposizione si applica solo al fine di garantire la tutela giurisdizionale effettiva dell’interessato, dunque nell’esclusivo contesto di un ricorso presentato avverso la decisione di trasferimento. Diversamente, l’art. 27, par. 4, non rileva in altre circostanze, quali l’impossibilità di trasferire il richiedente a causa della pandemia in atto. In aggiunta, la Corte osserva che il regolamento Dublino III non ha introdotto una clausola generale o particolare per sospendere o interrompere il trasferimento in caso di impossibilità materiale. Prevale, in sostanza, l’esigenza di speditezza del trasferimento verso lo Stato membro competente. Tutt’al più, in situazioni circostanziate è possibile prorogare il termine di sei mesi per i periodi previsti dal regolamento (art. 29, par. 2).
Direttiva 2013/32 e applicabilità o meno delle disposizioni in materia di domande reiterate in caso di rigetto di una precedente richiesta di protezione internazionale nel Regno di Danimarca
La causa SI e al. (CGUE, C-825/21, 20.10.2022) verte sull’interpretazione del concetto di domanda reiterata ai fini dell’art. 33, par. 2, lett. b), della direttiva 2013/32 (direttiva procedure). Alcuni cittadini georgiani avevano presentato domande di protezione internazionale in Germania. Le domande erano state respinte, poiché ritenute reiterate: era emerso che in precedenza queste persone avevano richiesto protezione internazionale nel Regno di Danimarca, ma senza successo. Tuttavia, in base ad un apposito protocollo la Danimarca non è vincolata dalle direttive 2011/95 e 2013/32. È dunque possibile affermare che le domande presentate in Germania dai richiedenti siano reiterate? È questo il quesito che la CGUE deve affrontare, su sollecitazione di un Tribunale amministrativo tedesco adito dai richiedenti georgiani. La CGUE risolve il dubbio con risposta negativa. Dal momento che la Danimarca non soggiace alla direttiva procedure, viene meno un criterio basilare dell’applicazione delle disposizioni sulle domande reiterate; inoltre, pur esistendo un accordo tra UE e Danimarca in merito ai criteri e ai meccanismi di determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo, nulla all’interno di questo strumento prevede che la Danimarca debba osservare la direttiva procedure.
Una domanda di protezione internazionale rivolta a uno Stato membro, non può – quindi – essere qualificata come reiterata se è presentata dopo il rigetto di una domanda analoga dello stesso richiedente da parte del Regno di Danimarca.
Direttiva 2013/32 e diritti processuali del richiedente protezione internazionale: trasmissione di atti e documenti in formato digitale
Il caso BU (CGUE, C-564/21, 1.12.2022) porta la Corte a pronunciarsi sui diritti processuali del richiedente protezione internazionale a fronte dell’avanzare della digitalizzazione dei processi negli Stati membri. La difesa di BU, richiedente protezione internazionale in Germania, impugnava la decisione di rigetto della domanda contestando le modalità con le quali era accessibile il fascicolo dell’interessato in base a una prassi apparentemente in via di diffusione. Il giudice adito rivolgeva alla Corte di giustizia due quesiti interpretativi: con il primo chiedeva se l’art. 23, par. 1 (accesso alle informazioni contenute nella pratica del richiedente), e l’art. 46, parr. 1 e 3 (diritto a un ricorso effettivo), della direttiva 2013/32, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta, consentono all’autorità nazionale che decide sulla domanda di protezione internazionale di trasmettere al rappresentante del richiedente il relativo fascicolo elettronico sotto forma di una serie non strutturata di file separati in formato PDF, senza numerazione continua delle pagine, la cui struttura può essere visualizzata mediante un software gratuito liberamente accessibile on line.
La Corte rileva che la direttiva procedure non si sofferma sulle modalità con le quali il richiedente deve poter ottenere le informazioni inerenti alla propria pratica; dagli elementi a disposizione, la prassi in oggetto non sembra in contrasto con il diritto dell’Unione. Il giudice del rinvio dovrà comunque verificare se le modalità contestate dal ricorrente sono effettivamente idonee ad assicurare la trasmissione di informazioni complete e la rappresentazione fedele della struttura e della cronologia del fascicolo. Con il secondo quesito, il giudice tedesco chiedeva se una decisione di rigetto della domanda di protezione internazionale fosse da considerarsi legittima anche se priva della firma autografa dell’autore materiale. Il dubbio sorgeva perché l’art. 11, par. 1, della direttiva impone che le decisioni sulle domande di protezione internazionale siano comunicate per iscritto. La Corte conclude che la firma autografa dell’autore della decisione è irrilevante ai fini dell’obbligo di comunicazione di atto scritto.
Direttiva 2013/32 e direttiva 2011/95: revoca dello status di rifugiato per ragioni connesse alla sicurezza nazionale dello Stato membro
L’interpretazione della direttiva 2013/32, oltre che della direttiva 2011/95 (direttiva qualifiche), costituisce il centro di gravità della sentenza GM (CGUE, C-159/21, 22 settembre 2022). Qui l’elemento distintivo è il presunto rischio del richiedente protezione internazionale per la sicurezza nazionale dello Stato membro competente. La CGUE era stata attivata da un giudice ungherese, a sua volta adito da un cittadino di Stato terzo (GM) che contestava la revoca dello status di rifugiato. La decisione di revoca era stata assunta anche in base a un parere non motivato di un ufficio diverso dell’autorità competente; in quegli atti si stabiliva che il soggiorno di GM in Ungheria metteva a repentaglio la sicurezza nazionale.
Nel procedimento pregiudiziale introdotto dal giudice ungherese, la Corte doveva statuire su tre questioni: in forza della prima, se è in linea con il diritto UE una normativa nazionale che impedisce a chi voglia contestare una decisione di rigetto della domanda di protezione internazionale o di revoca dello status l’accesso e/o l’utilizzo di informazioni che costituiscono il nucleo essenziale del provvedimento contestato, ma che, se divulgate, comprometterebbero la sicurezza nazionale dello Stato membro. La Corte isola l’art. 45, par. 4, della direttiva, concernente obblighi che gli Stati membri devono osservare allorché sia disposta la revoca della protezione internazionale, e che rinvia all’art. 23, par. 1, sull’accesso alle informazioni circa la pratica del richiedente in caso di decisione (già presa o da prendere). Se la divulgazione di queste informazioni può compromettere la sicurezza nazionale, l’art. 23, par. 1, consente agli Stati membri di limitarne l’accesso; al tempo stesso impone agli Stati di assicurare i diritti di difesa, in particolare il diritto a un ricorso effettivo. Gli Stati possono poi scegliere le misure più opportune per conciliare i due interessi in gioco. La Corte conclude che, anche in ossequio all’art. 47 della Carta, i limiti all’accesso alle informazioni ex art. 23, par. 1, della direttiva procedure non possono essere utilizzati in modo da impedire in via assoluta l’esercizio dei diritti di difesa dell’interessato, non essendo possibile invocare ragioni di sicurezza nazionale per compromettere il contenuto essenziale di queste prerogative. Pertanto, almeno il contenuto essenziale di quelle informazioni dovrà poter essere conoscibile dall’interessato e, naturalmente, utilizzabile nel procedimento amministrativo o giudiziario che lo vede coinvolto (nel caso specifico, per ottenere l’annullamento di una revoca dello status di rifugiato).
La seconda questione posta alla CGUE può essere riassunta come segue: il diritto UE ammette una normativa nazionale in virtù della quale l’autorità accertante deve sistematicamente rigettare la domanda di protezione internazionale o disporre la revoca dello status quando degli organi incaricati di funzioni specializzate abbiano constatato (anche mediante un parere non motivato) che l’interessato costituisce una minaccia per la sicurezza nazionale? La Corte attinge a numerose disposizioni della direttiva procedure e della direttiva qualifiche per escludere la legittimità di tale automatismo. Dall’insieme di queste disposizioni si ricava che l’autorità accertante deve disporre di tutte le informazioni pertinenti, usandole per determinare la propria valutazione dei fatti e delle circostanze. Ciò serve per motivare e formulare la decisione finale. Una simile decisione non può essere assunta né direttamente né indirettamente da alcun organo diverso da quello che gli Stati membri devono istituire come «autorità accertante» in ottemperanza alla direttiva qualifiche.
La terza e ultima questione riguarda il rapporto tra rigetto della protezione sussidiaria e precedente revoca dello status di rifugiato per la stessa persona. Per rispondere alla sollecitazione del giudice a quo, che voleva sapere quanto potesse incidere la conoscenza, da parte dell’autorità accertante, di una condanna penale pregressa, la Corte si limita a interpretare l’art. 17, par. 1, lett. b), della direttiva 2011/95: «(u)n cittadino di un Paese terzo o un apolide è escluso dalla qualifica di persona avente titolo a beneficiare della protezione sussidiaria ove sussistano fondati motivi per ritenere che (...) abbia commesso un reato grave». Senza dimenticare che l’esame da condurre deve tenere conto di tutti gli elementi rilevanti del caso individuale da trattare, l’autorità competente può decidere indipendentemente da come la commissione di quel reato grave sia stata considerata nell’ambito di altri procedimenti relativi a richieste di protezione internazionale presentate dalla stessa persona.
Direttiva 2004/81 e periodo di riflessione a beneficio dell’interessato: limiti all’allontanamento del richiedente protezione internazionale
Nel caso O.T.E. (CGUE, C 66/21, 20.10.2022), la Corte ha avuto modo di soffermarsi sul senso del «periodo di riflessione» previsto dall’art. 6 della direttiva 2004/81 (direttiva riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di Paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un’azione di favoreggiamento dell’immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti). Ad attivare la Corte tramite rinvio pregiudiziale era stato il Tribunale dell’Aia, nell’ambito di un giudizio in cui un richiedente asilo si opponeva alla decisione di trasferimento dall’Olanda all’Italia – ovverosia lo Stato membro competente ad esaminare la domanda – perché lamentava di essere stato vittima di tratta di esseri umani in Italia. Sorgeva l’esigenza di interpretare l’art. 6, par. 2, della direttiva 2004/81. Posto che il primo paragrafo dell’art. 6 prescrive che al cittadino di un Paese terzo sia concesso un periodo di riflessione «per consentirgli di riprendersi e sottrarsi all’influenza degli autori dei reati, affinché possa decidere consapevolmente se voglia cooperare con le autorità competenti», il par. 2 aggiunge un limite al margine di manovra residuale degli Stati membri: durante questo periodo non può essere eseguita nessuna misura di allontanamento contro l’interessato.
Per risolvere i dubbi del giudice del rinvio, la Corte affronta due questioni principali: in primo luogo, ravvisa che l’espressione misura di allontanamento deve includere anche una decisione di trasferimento del richiedente protezione internazionale verso lo Stato membro ritenuto competente; dunque, la situazione dell’interessato nel procedimento principale ricadrebbe in principio nel campo di applicazione dell’art. 6, par. 2, della direttiva. L’interpretazione della Corte consentirebbe di assicurare il duplice scopo della disposizione: offrire maggiore protezione alle vittime della tratta di esseri umani e facilitare la loro cooperazione con le autorità competenti per favorire l’individuazione e lo smantellamento delle reti criminali. Secondariamente, il divieto stabilito dall’art. 6, par. 2, ha ad oggetto solo l’esecuzione di una misura di allontanamento già adottata. Al contrario, dal testo di questo secondo paragrafo non si ricava l’assoluta proibizione dell’adozione di una simile misura o di misure ad essa preparatorie; tali iniziative possono essere intraprese, a patto che non compromettano ne’ l’effetto utile del periodo di riflessione, né i due obiettivi richiamati sopra.
Direttiva 2008/115 e permesso di soggiorno per motivi di salute assegnato dallo Stato membro di riferimento al cittadino di Stato terzo in posizione irregolare
Con la sentenza pronunciata al termine della causa UP (CGUE, C-825/21, 20.10.2022), la Corte di giustizia ha fatto chiarezza sui possibili effetti giuridici del permesso di soggiorno autonomo (o altra autorizzazione) che gli Stati membri possono rilasciare per conferire il diritto di soggiorno a un cittadino di un Paese terzo in posizione irregolare. Era dunque in gioco l’art. 6, par. 4, della direttiva 2008/115 (direttiva rimpatri), invocato da una cittadina della Repubblica democratica del Congo. La donna soggiornava irregolarmente in territorio belga: contro di lei era stata emessa una decisione di rimpatrio, ma dopo l’adozione di quest’atto era riuscita a ottenere l’autorizzazione al soggiorno in Belgio per motivi di salute. Poiché in un secondo momento detta autorizzazione era stata revocata, veniva avviato un procedimento che culminava in un giudizio di Cassazione, nel quale la Corte belga si chiedeva se la concessione dell’autorizzazione al soggiorno per motivi di salute o per altri motivi previsti dall’art. 6, par. 4, della direttiva rimpatri, potesse altresì comportare la revoca implicita della precedente decisione di rimpatrio emessa contro l’interessato. Il timore del giudice del rinvio era che si potesse verificare un contrasto con l’effetto utile della direttiva 2008/115.
La Corte di cassazione belga ricorda infatti che la direttiva avrebbe come obiettivo finale l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare e che il rispettivo art. 8, letto in un’ottica di leale collaborazione, imporrebbe di procedere all’allontanamento della persona in posizione irregolare con la massima celerità. La CGUE ritiene, invece, che la concessione, in base ai motivi ex art. 6, par. 4, della direttiva, di un’autorizzazione al soggiorno a favore dello straniero in posizione irregolare possa anche produrre la revoca implicita di una precedente decisione di rimpatrio. Lo si desume dall’ultima frase della disposizione in esame, secondo cui «(q)ualora sia già stata emessa, la decisione di rimpatrio è revocata o sospesa per il periodo di validità del titolo di soggiorno o di un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare». La richiesta di soggiorno per motivi di salute di fatto attenua la portata dell’obbligo dell’art. 8, che invece acquisirebbe una sostanza diversa in casi ulteriori: ad esempio, qualora l’interessato, dopo avere subito il rigetto di una domanda di protezione internazionale, presenti più domande dello stesso tenore.
Direttiva 2008/115 e limiti al rimpatrio per motivi di salute in caso di assenza di cure mediche determinanti nello Stato di destinazione
La direttiva 2008/115 è anche al centro del caso X c. Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (CGUE, C-69/21, 22.11.2022). Questa volta, però, il giudizio si focalizza sul rapporto tra stato di salute dell’interessato e limiti all’esecuzione del rimpatrio. X è un cittadino russo che soffre di una grave malattia. Si trova in Olanda, dove può essere sottoposto ad una terapia a base di cannabis, che in Russia è proibita. L’autorità competente aveva deciso l’allontanamento di X verso il Paese di origine, stante la sua situazione di irregolarità nel territorio olandese. Tuttavia, il provvedimento veniva contestato principalmente perché X riteneva che l’avvenuto rimpatrio avrebbe pregiudicato considerevolmente il suo stato di salute. Il giudice olandese chiamato a decidere la controversia rivolgeva allora una serie di quesiti pregiudiziali alla Corte di giustizia. I quesiti riconducono la situazione di X non solo alla direttiva 2008/115, ma anche a vari articoli della Carta dei diritti fondamentali, per la precisione gli artt. 1, 4, 7 e 19, par. 2.
La Corte articola il proprio ragionamento in più punti. In primo luogo, ricorda che l’obbligo di rimpatrio a carico degli Stati membri può subire alcuni temperamenti, a cominciare da quelli previsti dall’art. 5 della stessa direttiva 2008/115. Inoltre, i limiti all’obbligo di rimpatrio dipendono dall’esigenza di rispettare i diritti fondamentali dell’interessato, soprattutto se assoluti: è il caso del divieto di trattamenti inumani o degradanti, collegato al rispetto della dignità umana (artt. 4 e 1 della Carta), e del divieto di refoulement (art. 19, par. 2). Affidandosi alla clausola di equivalenza ex art. 52, par. 3, della Carta, la CGUE osserva che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ammette in modo chiaro e uniforme che l’allontanamento di una persona gravemente malata può essere ricondotto al campo di applicazione dell’art. 3 CEDU, dunque al divieto di trattamenti inumani e degradanti. A tal fine, non è necessario dimostrare che sussista un rischio di decesso imminente; è sufficiente che la persona di cui trattasi vada incontro al rischio reale di essere esposta a un declino grave, rapido e irreversibile delle sue condizioni di salute, che possa comportare intense sofferenze o una significativa riduzione della sua speranza di vita. Questo rischio ulteriore può fare scattare la tutela dell’art. 3 CEDU anche a causa dell’assenza di trattamenti adeguati nel paese di destinazione, o in mancanza di accesso ad essi. Affinché l’art. 3 CEDU possa essere validamente invocato occorre, ad ogni modo, che sia raggiunta una soglia minima di gravità, che deve essere ricostruita in considerazione del complesso dei dati della causa. Ebbene, per la CGUE quanto appena rilevato vale anche con riferimento all’art. 4 della Carta. Pertanto, l’art. 5 della direttiva, interpretato alla luce dell’art. 4 e dell’art. 19, par. 2, della Carta, nel caso di specie può fungere da elemento determinante per impedire il rimpatrio di X. La Corte aggiunge altresì che alle condizioni indicate sopra, vale a dire la gravità del dolore, il suo rapido innalzamento e l’irreversibilità del pregiudizio, non deve essere sommato un limite temporale entro il quale l’aumento di dolore (secondo le caratteristiche appena riassunte) debba realizzarsi; al massimo, il diritto nazionale potrà prevedere un termine puramente indicativo. Le tutele accordate dal diritto UE all’irregolare gravemente malato, per come interpretate dalla Corte, non devono essere osservate unicamente per stabilire se la persona sia o meno in grado di viaggiare verso lo Stato di rimpatrio; esigono che sia effettuato un controllo più ampio, cioè che la situazione dell’individuo non subisca un peggioramento nei termini anzidetti anche durante la permanenza in quest’ultimo Stato. Infine, la Corte si sofferma sull’eventuale rapporto tra la situazione di una persona nelle condizioni di X e un altro diritto: il diritto alla vita privata, tutelato dall’art. 7 della Carta. La Corte spiega che il diritto alla vita privata, contrariamente al divieto di trattamenti inumani e degradanti e di refoulement, non è assoluto ed è passibile di bilanciamento ai sensi dell’art. 52 della Carta. Nel caso concreto, l’art. 7 può avere un valore aggiunto nel senso che l’autorità che deve pronunciarsi sul rimpatrio dovrò comunque considerare tutti i fattori pertinenti. Diversamente, anche in caso di peggioramento dello stato di salute dell’interessato nel paese di rimpatrio lo Stato membro ospitante non perde il diritto di decidere il rimpatrio, a meno risulti pregiudicato il contenuto essenziale del diritto che l’art. 7 sancisce.
Direttiva 2008/115, direttiva 2013/33 e regolamento 604/2013: valutazione della sussistenza delle condizioni di legittimità del trattenimento
Nelle cause riunite C, B, X (CGUE, C-704/20 e C-39/21, 8.11.2022) la Corte ha statuito sulla possibilità per l’autorità nazionale competente di rilevare d’ufficio presupposti di illegittimità del trattenimento del richiedente protezione internazionale e dell’irregolare. La questione derivava da giudizi instaurati in Olanda e risultava determinante per consentire ai giudici dei rinvii di decidere. Le disposizioni da interpretare sono tre e riguardano tutte il trattenimento dell’interessato: l’articolo 15, parr. 2 e 3, della direttiva 2008/115, sul trattenimento dei cittadini di Stati terzi in posizione irregolare; l’articolo 9, parr. 3 e 5, della direttiva 2013/33 (direttiva accoglienza), relativo al trattenimento dei richiedenti protezione internazionale nei casi previsti all’art. 8; e l’art. 28, par. 4, del regolamento 604/2013, riferito al trattenimento del richiedente protezione internazionale ai fini del suo trasferimento verso lo Stato membro competente. In tutto sempre mantenendo l’art. 47 della Carta sullo sfondo. La Corte conferma la sua giurisprudenza sull’esigenza di limitare il trattamento ai soli casi previsti dalle norme di diritto UE in materia e comunque quale opzione del tutto eccezionale e da praticare per il minor tempo possibile. Corollario legislativo di questo sistema garantistico è che laddove i presupposti di legittimità del trattenimento non appaiano più soddisfatti, l’interessato deve essere liberato immediatamente. A tal fine, il diritto UE applicabile detta anche norme procedurali comuni agli Stati membri, specie per far sì che possano essere messe in campo verifiche rapide della legittimità del trattenimento. Segnatamente, il legislatore dell’Unione richiede, senza eccezioni, che il riesame del rispetto dei presupposti di legittimità del trattenimento abbia luogo «a intervalli ragionevoli», sottintendendo che l’autorità competente è tenuta a effettuare detto controllo d’ufficio, se l’interessato non lo richiede espressamente; e l’autorità deve essere in grado di deliberare su tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti, invitando ciascuna delle parti a prendere posizione sul presupposto in parola.
Direttiva 2003/109 e soggiorno del cittadino di Stato terzo familiare del cittadino dell’Unione
Nel caso E.K. (CGUE, C-624/20, 7.9.2022) è stata analizzata la portata di un limite al campo di applicazione della direttiva 2003/109. La Sig.ra E.K. è cittadina ghanese e vive nei Paesi Bassi. Nel 2013 ha ottenuto permesso di soggiorno temporaneo ex art. 20 TFUE con l’annotazione «familiare di un cittadino dell’Unione»: suo figlio, infatti, è cittadino olandese. E.K. nel 2019 ha presentato una domanda per il rilascio di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, ai sensi della direttiva 2003/109. La domanda è stata rigettata, perché l’autorità competente osservava che il diritto di soggiorno di cui godeva E.K. era di natura temporanea e ciò avrebbe impedito all’interessata di ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo. E.K. ricorreva contro il provvedimento di rigetto della domanda e il giudice adito si rivolgeva alla Corte di giustizia per comprendere, essenzialmente, se il diritto UE applicabile alla fattispecie ammettesse o meno la possibilità di conversione dello status, come richiesto da E.K. La pronuncia della Corte muove da un presupposto di fondo: l’interpretazione dell’art. 3, par. 2, lett. e) della direttiva 2003/109. Tale specifica disposizione introduce un limite al campo di applicazione dell’atto, che non può essere invocato dai cittadini di Stati terzi che (tra le altre cose) «soggiornano unicamente per motivi di carattere temporaneo». Dopodiché, la Corte affronta due punti chiave. Il primo attiene al significato da assegnare a questa disposizione, che di fatto contiene una nozione non definita dal diritto UE. Per la Corte l’espressione in esame costituisce anzitutto una nozione autonoma di diritto dell’Unione, che deve essere interpretata in modo uniforme nel territorio di tutti gli Stati membri. E in ragione del significato comune dei termini indicati, oltre che delle finalità della disposizione e del contesto nel quale si situa, l’art. 3, par. 2, lett. e), della direttiva 2003/109 ha ad oggetto qualsiasi soggiorno nel territorio di uno Stato membro che sia esclusivamente e rigorosamente limitato nel tempo e destinato ad avere breve durata. In altre parole, il limite prefigurato dalla direttiva sussiste perché in una simile situazione l’interessato non riuscirebbe a insediarsi stabilmente nel territorio dello Stato membro ospitante.
Nel secondo passaggio della sentenza, la Corte riconosce i limiti temporali insiti nell’ipotesi di soggiorno di cui all’art. 20 TFUE laddove l’interessato sia un cittadino di Stato terzo. Tuttavia, dalla giurisprudenza della Corte si ricava che in situazioni molto particolari l’art. 20 TFUE può garantire la permanenza sul territorio dello Stato membro ospitante al cittadino di Stato terzo che sia familiare di un cittadino dell’Unione: in specie, quando la relazione di dipendenza tra i due è così intensa che in caso di mancata permanenza del cittadino di Stato terzo il suo familiare cittadino dell’Unione sarebbe costretto ad abbandonare il territorio dell’Unione.
Un’interpretazione dell’art. 20 TFUE in questi termini serve ad assicurare che il cittadino dell’Unione possa godere in maniera effettiva del contenuto essenziale dei diritti conferiti da tale status, almeno finché perdura la relazione di dipendenza con il cittadino di Stato terzo. Ecco che allora il soggiorno del cittadino di un Paese terzo nel territorio di uno Stato membro ai sensi dell’art. 20 TFUE non equivale per forza a un soggiorno «unicamente per motivi di carattere temporaneo», di cui all’art. 3, par. 2, lett. e), della direttiva 2003/109. Un cittadino di Stato terzo potrebbe riuscire a soddisfare i requisiti prescritti da questa direttiva anche se in origine beneficiava di un diritto di soggiorno che di regola riguarda periodi di breve durata, come quello derivante dall’art. 20 TFUE. A tale proposito, inoltre, è irrilevante il fatto che il cittadino di Stato terzo risieda regolarmente nel territorio dell’Unione sulla base di un diritto autonomo o perché beneficia di un diritto derivato da quelli di cui gode il suo familiare cittadino dell’Unione: la direttiva 2003/109, sul punto, non opera alcuna distinzione al riguardo.
Direttiva 2003/86 e rifugiato minore non accompagnato: rilevanza di eventuale matrimonio dell’interessato ai fini del ricongiungimento familiare
La pronuncia X c. Stato belga (CGUE, C-230/21, 17.11.2022) chiarisce alcuni presupposti per il ricongiungimento familiare del rifugiato minore non accompagnato. In un giudizio attivato in Belgio, avente come parte una cittadina straniera minorenne che aveva contratto matrimonio nel Paese di origine, si era reso necessario sciogliere un dubbio riguardo allo status di soggiornante ai fini del ricongiungimento familiare per questa particolare categoria di rifugiato in forza della direttiva 2003/86: posto che nella fattispecie rilevava il ricongiungimento con gli ascendenti diretti di primo grado e che il diritto belga considera il matrimonio di minorenne in contrasto con l’ordine pubblico nazionale, è necessario che il richiedente in questione sia non coniugato per potere ottenere il ricongiungimento richiesto?
La CGUE, interpellata dal giudice nazionale, ritiene che ciò non sia affatto necessario: per il rifugiato minore non accompagnato, un simile onere non è previsto da alcuna disposizione della direttiva 2003/86. In aggiunta, la ratio di questa omissione è comprensibile e risiede nell’esigenza di assicurare un alto grado di protezione a un soggetto che è giocoforza in posizione di elevata vulnerabilità. Pertanto, in specie, il matrimonio contratto nello Stato di provenienza non costituisce di per sé elemento ostativo per il ricongiungimento familiare a beneficio del rifugiato minore non accompagnato.
Accordo di associazione CEE-Turchia e ricongiungimento familiare: eventuale rilevanza della conoscenza della lingua ufficiale dello Stato membro ospitante da parte dell’interessato
La causa X (CGUE, C-279/21, 22.12.2022) verte sui limiti al ricongiungimento familiare in attuazione dell’accordo di associazione CEE-Turchia del 1963. Alle fondamenta del procedimento pregiudiziale, vi è la vicenda di un cittadino turco al quale veniva negato il ricongiungimento familiare con il coniuge, residente da molto tempo in Danimarca. Il diniego era stato disposto perché il coniuge, pur essendo lavoratore e legalmente soggiornante, non possedeva un determinato livello di conoscenza della lingua danese, così come previsto dal diritto nazionale. Nel giudizio interno instaurato dall’interessato, il giudice adito chiedeva alla Corte di giustizia se tale requisito fosse ammissibile in considerazione della decisione 1/80 del Consiglio di associazione istituito dall’accordo CEE-Turchia: l’art. 13 della decisione, infatti, vieta l’introduzione di «nuove restrizioni sulle condizioni d’accesso all’occupazione dei lavoratori e dei loro familiari che si trovino sui loro rispettivi territori in situazione regolare quanto al soggiorno e all’occupazione».
La Corte ritiene che il requisito della conoscenza della lingua dello Stato ospitante configurato dalla legge danese non sia previsto dalla decisione di riferimento: costituisce quindi una nuova restrizione, in principio vietata. Un limite di questo tipo inciderebbe negativamente sulla circolazione dei cittadini turchi nell’UE e svilirebbe il regime pattuito nell’accordo di associazione. Per giustificare la restrizione disposta dal diritto danese occorre invocare una delle eccezioni consentite dalla decisione 1/80 o un motivo di interesse generale: la prima ipotesi non è contemplabile, perché la decisione 1/80 consente espressamente la conoscenza della lingua dello Stato ospitante. Quanto alla seconda, il giudice del rinvio indica che l’obiettivo perseguito dalla normativa controversa consiste nel garantire un’integrazione riuscita del familiare che chiede la concessione di un diritto di soggiorno nello Stato membro interessato ai fini del ricongiungimento familiare. I giudici, tuttavia, obiettano che la normativa danese impedisce di prendere in considerazione le capacità di integrazione che sono proprie del cittadino turco, attribuendo alla conoscenza della lingua ufficiale dello Stato membro interessato un peso decisivo a tale proposito, andando così oltre quanto necessario per perseguire il proprio scopo.
Artt. 18 e 21 TFUE: estradizione verso uno Stato terzo di cittadino dell’Unione che ha esercitato il diritto di libera circolazione
Il caso S.M. (CGUE, C-237/21, 22.12.2022) verte sull’estradizione dei cittadini dell’Unione verso uno Stato terzo e sul bilanciamento tra esigenze di tutela dei diritti insiti nello status di cittadino dell’Unione, da una parte, e di interessi di diritto interno che al tempo stesso sono oggetto di norme di diritto internazionale. S.M. è cittadino bosniaco, serbo e croato e dal 2017 viveva in Germania come residente permanente assieme alla moglie. Alla fine del 2020 le autorità bosniache avevano chiesto a quelle tedesche l’estradizione di S.M. ai fini dell’esecuzione di una pena detentiva di sei mesi stabilita da un Tribunale municipale per fatti di corruzione. Va detto che la Bosnia e la Germania sono parti della Convenzione europea di estradizione del 1957, e che l’art. 6, par. 1, della Convenzione stabilisce che ciascuna parte ha la facoltà di rifiutare l’estradizione dei propri cittadini. Ai sensi del diritto tedesco è possibile che l’interessato sconti la pena in Germania, a condizione che lo Stato estero abbia dato il consenso; in ogni caso, non è consentita l’estradizione dei soli cittadini tedeschi. La procura competente nel caso in esame, rilevava che S.M. ha la cittadinanza di uno Stato membro (la Croazia) diverso da quello richiesto, in cui vive (la Germania). Si poneva quindi il problema di capire se gli artt. 18 e 21 TFUE, relativi al divieto di discriminazione e ai diritti di circolazione a favore dei cittadini dell’Unione, permettessero o meno l’estradizione di S.M. verso la Bosnia, anche alla luce della sentenza Raugevicius (CGUE, C-247/17, 13 novembre 2018). Il giudice interno chiamato a pronunciarsi sull’estradizione di S.M. rivolgeva allora tale quesito alla Corte di giustizia.
La Corte precisa da subito che lo status di cittadino dell’Unione rileva anche nel caso di specie. S.M., d’altronde, è pur sempre un cittadino croato che ha esercitato il suo diritto di libera circolazione in Germania; pertanto, dovranno essere osservati gli artt. 18 e 21 TFUE. Così, si rileva che la disparità di trattamento tra S.M. e un cittadino tedesco in punto di estradizione è in principio inammissibile: può essere giustificata solo stanti «considerazioni oggettive e se è proporzionata all’obiettivo legittimamente perseguito dalla normativa nazionale», ossia evitare il rischio di impunità delle persone che hanno commesso un reato.
Sebbene il fine appena indicato sia sicuramente meritevole di tutela, uno Stato membro che introduce una simile distinzione tra i propri cittadini e i cittadini di altri Stati membri ha l’obbligo di verificare attivamente se esista una misura alternativa all’estradizione e che sia meno pregiudizievole per l’esercizio dei diritti e delle libertà riferiti agli articoli 18 e 21 TFUE. Riferendosi alla normativa tedesca potenzialmente applicabile, la Corte ritiene che la soluzione migliore per non comprimere indebitamente queste prerogative sia consentire all’interessato di scontare la pena nello Stato membro nel quale è residente permanente. Ciò perché i cittadini di quello Stato membro e i cittadini di altri Stati membri che lì risiedono in via permanente (e sono certamente inseriti nel tessuto sociale della comunità ospitante) si trovano in una situazione comparabile. Poiché il diritto tedesco subordina l’esecuzione della pena derivante da condanna pronunciata dallo Stato richiedente al consenso di quest’ultimo, l’obbligo appena enunciato ha come corollario la celere ricerca del consenso di cui trattasi.
Detto altrimenti, la Germania è tenuta «ad utilizzare tutti i meccanismi di cooperazione e di assistenza in materia penale di cui dispone nell’ambito delle sue relazioni» con la Bosnia. Solo in mancanza di tale consenso, lo Stato membro richiesto dovrebbe estradare l’interessato verso lo Stato terzo richiedente, in forza della predetta Convenzione europea di estradizione.
Direttiva 2004/38/CE e significato di «ogni altro familiare convivente con un cittadino dell’Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale»
In SRS e AA (CGUE, C-22/21, 15.9.2022) la Corte ha fatto luce sulla nozione di familiare di cittadino dell’Unione europea nel quadro della direttiva 2004/38. La richiesta di chiarimenti in merito era pervenuta dalla Corte Suprema irlandese che doveva decidere una causa instaurata da un cittadino pachistano (AA), cugino di altro cittadino pachistano ma anche titolare di cittadinanza del Regno Unito (SRS). Nello specifico, AA e SRS avevano vissuto insieme nel Regno Unito, ma dopo qualche tempo SRS si era trasferito in Irlanda. AA voleva raggiungere il cugino, dichiarando di essere membro del suo stesso nucleo familiare, nonché dipendente economicamente da lui. Non essendo la relazione tra gli interessati coperta dall’art. 2 della direttiva 2004/38, alla Corte di giustizia veniva chiesto di interpretare l’art. 3, par. 2, co. 1, lett. a), nella parte in cui si riferisce all’agevolazione dell’ingresso e del soggiorno di «ogni altro familiare convivente con un cittadino dell’Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale».
La Corte propone un’interpretazione sistematica e teleologica della disposizione, che deve avere un significato unitario di diritto UE. Il punto di partenza è che l’art. 3, par. 2, della direttiva ha lo scopo di preservare l’unità della famiglia in senso più ampio. Nella sentenza viene affermato che tale disposizione riguarda le persone che intrattengono col cittadino dell’Unione – spostatosi in altro Stato membro – «un rapporto di dipendenza, basato su legami personali stretti e stabili, creati all’interno di uno stesso nucleo familiare, nell’ambito di una comunione di vita domestica che va al di là di una mera coabitazione temporanea, determinata da motivi di pura convenienza».
Per giustificare le richiamate agevolazioni procedurali, il legame da appurare non corrisponde a quello che caratterizza i rapporti interpersonali ricavabili dall’art. 2 della direttiva, ma dovrà comunque esprimere la sussistenza di una dipendenza effettiva, al punto che – in caso di separazione – almeno una delle due persone ne risulterebbe danneggiata.