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Fascicolo 1, Marzo 2023


«Ogni classificazione delle popolazioni è arbitraria. Trovo disgustosa la situazione attuale e ammiro chi si oppone ma soprattutto l’ostinazione e il coraggio straordinario dei migranti»

(Étienne Balibar, in Confini, mobilità e migrazioni. Una cartografia dello spazio europeo, a cura di Lorenzo Navone, Milano, AgenziaX, 2020).

Asilo e protezione internazionale

LO STATUS DI RIFUGIATO
 
Razza
Il Tribunale di Brescia, con decreto del 25.10.2022 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino appartenente all’etnia Rhoingya (gruppo minoritario di fede musulmana sunnita, prevalentemente radicato nello stato di Rakhine al confine con il Bangladesh), ritenendo sussistente il fattore di inclusione relativo alla «razza».
Nel decreto esaminato, il Tribunale, dopo aver ricordato che, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. 19.11.2007 n. 257, la razza viene riferita «in particolare, a considerazioni inerenti al colore della pelle, alla discendenza o all’appartenenza ad un determinato gruppo etnico», è passato ad esaminare le più accreditate e pertinenti fonti di informazione, dalle quali emerge come le violenze e persecuzioni riservate ai Rohingya siano talmente gravi da far parlare di genocidio e di una vera e propria pulizia etnica.
 
Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
La Suprema Corte, con ordinanza n. 27658 del 2022, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da un cittadino della Sierra Leone, fuggito dal Paese d’origine per paura di essere perseguitato a causa del suo orientamento omosessuale, si è soffermata sul rilievo probatorio di un’attestazione relativa alla partecipazione del richiedente ad un’associazione LGBTQ, nonché sui presupposti per il riconoscimento di una protezione c.d. sur place. In particolare, nella decisione in esame, ha precisato che sebbene non possa ritenersi che il puro e semplice possesso di una tessera ad un’associazione LGBTQ abbia «decisivo rilievo al fine di rendere ex post univocamente credibile la narrazione – altrimenti non credibile – concernente le persecuzioni subite, nel Paese di provenienza, a causa del proprio orientamento sessuale», non risponde invece ad «un’accettabile massima di esperienza il negare che un’adesione fattiva, un impegno serio e reale, una disponibilità concreta e durevole a sostegno dell’associazione, sia da intendere almeno fino a prova contraria quale circostanza tale da far retrospettivamente luce, in ragione dell’orientamento sessuale del richiedente, sulla complessiva credibilità della sua narrazione». I giudici di legittimità sottolineano, inoltre, come la valutazione relativa al solo comportamento tenuto in Italia impone al giudice di scrutinare almeno la possibilità di riconoscere la c.d. protezione sur place.
Ancora in merito ad un ricorso proposto da un cittadino pakistano in ragione del proprio orientamento omosessuale, la Corte di cassazione, con ordinanza n. 28940 del 2022, ha ribadito come ai fini della concessione della protezione internazionale, la circostanza per cui l’omosessualità sia considerata un reato dall’ordinamento giuridico del Paese di provenienza è rilevante, costituendo una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la concessione della protezione richiesta. Tanto premesso, i giudici di legittimità hanno censurato la decisione della Corte territoriale che, pur avendo considerato il fatto che in Pakistan l’omosessualità costituisce un reato, ha ritenuto di poter sindacare le modalità con cui, in concreto, il ricorrente aveva dichiarato di aver vissuto il proprio orientamento sessuale. Nella decisione in esame la Corte ha, altresì, ricordato che «la naturale inclinazione sessuale, che costituisce, come già detto, uno dei più intimi profili di esplicazione della personalità umana, non può in nessun caso legittimare un trattamento discriminatorio».
Il  Tribunale di Bologna, con decreto del 7.7.2022 , ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una cittadina della Nigeria, vittima di mutilazioni genitali nonché vittima di tratta a fini sessuali, in quanto appartenente ad un particolare gruppo sociale. Con riferimento al rischio prognostico in caso di rimpatrio riferito alla vicenda di tratta, ormai conclusa, i giudici bolognesi hanno sottolineato come, sebbene la ricorrente, una volta giunta in Italia non sia stata più avvicinata dagli sfruttatori, debba comunque considerarsi che le donne poi rimpatriate diventano oggetto di una stigmatizzazione sociale, motivata dal fallimento della loro esperienza migratoria e dalle esperienze vissute di prostituzione: tale stigmatizzazione assurge a vera e propria persecuzione nella forma della discriminazione di genere.
 
Il  Tribunale di Roma, con decreto del 15.7.2022 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Gambia in ragione dell’appartenenza ad un particolare gruppo sociale identificato dal genere. Nella decisione in esame, i giudici capitolini – chiamati a decidere sul ricorso proposto da un ricorrente che aveva riferito di non possedere una definita identità sessuale e di essere stato accusato, nel Paese d’origine, di essere omosessuale – hanno affermato che non solo la reale ed obbiettiva esistenza di un rischio legato ad una chiara identità omosessuale, ma anche la «mera percezione nell’ambiente sociale di una tale “ambiguità” può bastare a determinare l’esposizione del soggetto a forme di persecuzione basate sull’appartenenza – anche soltanto immaginaria – ad un determinato gruppo sociale».
 
Religione
La Suprema Corte, con ordinanza n. 35526 del 2022, ha ribadito che il riconoscimento dello status di rifugiato, avuto riguardo alla libertà religiosa dello straniero, così come delineata nell’art. 2, co. 2, lett. e), d.lgs. 19.11.2007 n. 251, ed in particolare alla parte in cui definisce rifugiato «il cittadino straniero il quale, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di religione, si trovi fuori del territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non possa o, a causa di tale timore, non voglia avvalersi della protezione di tale Paese», richiede che il timore vada valutato sia alla luce del contenuto della legislazione, sia della sua applicazione concreta da parte del Paese di origine, in relazione al rispetto dei limiti “interni” alla libertà religiosa, che emergono dall’art. 19 Cost. e dall’art. 9, par. 2 CEDU, dovendo il giudice valutare se l’ingerenza da parte dello Stato di origine nella libertà del ricorrente di manifestare il proprio culto sia prevista dalla legge, sia diretta a perseguire uno o più fini legittimi e costituisca una misura necessaria e proporzionata al perseguimento di tali fini. Nella decisione in esame la Suprema Corte ha cassato la pronuncia di merito che, nel rigettare la domanda proposta da una cittadina cinese aderente alla «Chiesa Evangelica» aveva escluso in radice la possibilità che i limiti alla libertà di culto previsti dall’ordinamento cinese potessero essere privi di una giustificazione compatibile con la tutela dei diritti umani.
 
Con ordinanza n. 23805 del 2022, la Corte di Cassazione ha poi precisato che la nozione di libertà religiosa comprende la libertà del cittadino di praticare fedi religiose non ammesse dallo Stato, senza subire intimidazioni e costrizioni che, in quanto tali, possono configurarsi come atti di persecuzione, ai sensi degli artt. 7 e 8, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, anche se posti in essere dalle autorità statali o con provvedimenti di tipo legislativo, amministrativo, giudiziario o di polizia. In particolare, nella decisione cassata dalla Suprema Corte era stata erroneamente esclusa l’esistenza di una persecuzione per motivi religiosi di una cittadina cinese aderente alla chiesa di Dio Onnipotente, per il solo fatto che, trattandosi di associazione religiosa clandestina e vietata, ella avrebbe potuto manifestare la propria libertà religiosa aderendo ad un culto ammesso o non segreto.
 
Ancora sul tema del rischio di persecuzione che correrebbe una cittadina cinese aderente alla chiesa di Dio Onnipotente si è pronunciato il  Tribunale di Perugia, con decreto dell’11.11.2022 . Di particolare interesse quanto osservato nel decreto in esame dai giudici perugini in merito alla possibilità di ritenere sussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato sur place, in ragione del fatto che la ricorrente – anche a prescindere dalle persecuzioni per motivi religiosi già subite nel Paese d’origine – aveva abbracciato la fede cristiana in Italia.
 
Il  Tribunale di Bologna, con decreto del 28.9.2022  ha riconosciuto lo status di rifugiato, per motivi religiosi, ad un cittadino russo appartenente alla congregazione dei testimoni di Geova. I giudici bolognesi, dopo aver ricordato che, secondo le Linee guida UNHCR sulle domande di protezione internazionale per motivi religiosi, la definizione stessa di libertà religiosa fa esplicito riferimento alla libertà di manifestare, individualmente o in comune con altri, sia in pubblico che in privato la propria religione, e dopo aver ricordato le condanne della Russia, da parte della CEDU, per le persecuzioni nei confronti dei testimoni di Geova, ha ritenuto un chiaro indizio della fondatezza del timore del ricorrente la circostanza che egli aveva già subito, durante la sua attività evangelica, delle minacce di essere segnalato alla polizia, e di essere già stato sottoposto a delle perquisizioni presso la sua abitazione finalizzate alla ricerca di testi sacri banditi dalle autorità statali.
 
Il  Tribunale di Catania, con decreto del 3.11.2022 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Marocco, in ragione delle sue convinzioni ateistiche. In particolare, nella decisione in esame, il Collegio ha sottolineato come i provvedimenti legislativi adottati dallo stato del Marocco nei confronti di coloro che non aderiscono alla confessione religiosa islamica, nonché le sanzioni penali previste nei confronti di chi si dichiara pubblicamente ateo ovvero nei confronti di chi viola il digiuno durante il Ramadan, siano qualificabili come atti persecutori.
 
Opinioni politiche
Il  Tribunale di Firenze, con decreto del 30.11.2022  si è soffermato sul fattore di inclusione relativo alla “razza”, così come interpretato alla luce delle Linee guida UNHCR. Nel caso esaminato dai giudici fiorentini, il ricorrente, di etnia curda, nato e cresciuto in Iran, oltre ad aver subiti atti di tortura e trattamenti inumani e degradanti, aveva dovuto affrontare altresì perduranti ostacoli all’istruzione, gli era stato precluso l’accesso in determinati ambiti lavorativi, in ragione della sua etnia ed aveva subito forme di discriminazione linguistica: tali violazioni dei diritti economici e sociali, come sottolineato nella decisione esaminata, incidono negativamente sul godimento del diritto all’autodeterminazione, sono lesivi della dignità della persona (art. 1 e art. 6 Patto ONU sui diritti civili e politici del 66 come interpretati anche dai rispettivi commenti generali) e costituiscono unitariamente considerati, atti persecutori ai sensi dell’art. 7 co. 1 lett. b) del d.lgs. 19.11.2007 n. 251.
Il Tribunale ha riconosciuto la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato sia in ragione della persecuzione, da parte del governo iraniano, dettata da opinioni politiche imputate (per la sua appartenenza alla minoranza curda) sia per l’appartenenza al gruppo etnico curdo.
 
Il  Tribunale di Brescia, con decreto del 13.4.2022 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino pakistano, per le opinioni politiche espresse quale sostenitore e attivista del JKFL, partito indipendentista del Kashmir. Il Tribunale, ritenute credibili le dichiarazioni del ricorrente relative all’attività politica svolta e agli incarichi ricoperti all’interno del partito (dichiarazioni confermate dalla copiosa documentazione prodotta dalla difesa), ha sottolineato come, a prescindere dalla possibilità che in caso di rimpatrio il ricorrente possa essere nuovamente arrestato e subire altre torture (rispetto a quelle già sostenute prima della fuga), egli, in caso di rientro in Pakistan, non potrebbe liberamente riprendere la sua attività politica in quanto persistono le persecuzioni attuate dal governo pakistano nei confronti degli appartenenti al partito JKLF.
 
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
D.lgs. 19.11.2007 n. 251, art. 14, lett. c)
Il  Tribunale di Potenza, con decreto del 13.1.2023 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino del Burkina Faso. Nella decisione in esame, ritenuto che in tutto il territorio del Burkina Faso, e non solo nelle regioni del nord, sia presente un diffuso conflitto armato tale da mettere a serio repentaglio l’incolumità dei cittadini, il Collegio ha sottolineato come tale elemento esima il ricorrente dal fornire prova del rischio specifico che egli correrebbe nel caso di rientro nel Paese di origine.
 
Il  Tribunale di Firenze, con decreto del 3.8.2022 , è tornato a pronunciarsi sulla regione della Casamance, in Senegal (con riferimento alla domanda spiegata da un cittadino proveniente da Bignona, nella regione di Ziguinchor), per affermare che la situazione di elevata conflittualità interna e di estrema violenza dovuta agli scontri verificatisi di recente proprio in quell’area specifica, oltre al fatto che a causa di tali scontri si stanno verificando spostamenti forzati della popolazione, giustificano il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi della lett. c) dell’art. 14 del d.lgs. 251 del 2007.
 
La grave instabilità politica che si è venuta a determinare a seguito del colpo di Stato in Guinea, ad avviso del  Tribunale di Brescia – decreto del 22.6.2022 , – dimostra come le istituzioni democratiche dello Stato, rappresentate dal Presidente Alpha Condé e dal suo apparato, abbiano perso del tutto il controllo del Paese, che, attualmente, è nelle mani dei militari golpisti, privi dell’appoggio della comunità internazionale. Tali elementi portano i giudici bresciani a ritenere sussistente una situazione di insicurezza/violenza generalizzata tale da mettere a repentaglio chiunque si trovi sul territorio per la mera sua presenza fisica in quel luogo.
 
Con riferimento al Niger – e, in particolare alla regione di Tahoua,  il Tribunale di Venezia, con decreto del 13.10.2022 , ha ritenuto sussistente una situazione di violenza generalizzata ed indiscriminata, di intensità tale da esporre a rischio qualsiasi civile che si trovi al suo interno.
 
Per quanto riguarda, infine, l’Ucraina, il  Tribunale di Genova – decreto del 3.9.2022  – nell’esaminare la domanda di un cittadino ucraino, che aveva riferito di aver lasciato il Paese d’origine subito dopo lo scoppio della guerra perché non voleva combattere, dopo aver escluso il rischio di essere arruolato (in quanto ultrasessantenne), ha esaminato i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria. In particolare, nella decisione in esame si legge che, pur «essendo doveroso leggere le fonti con cautela, considerata la forte influenza dell’opinione pubblica e la netta contrapposizione tra l’Occidente…e lo stato russo», deve ritenersi sussistente una situazione di violenza indiscriminata, derivante da conflitto armato interno. 
 
QUESTIONI PROCESSUALI
 
Sospensione dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti impugnati
Con decreto del 7.10.2022, il Tribunale di Roma , nell’esaminare la domanda di sospensione del provvedimento di manifesta infondatezza della domanda di protezione internazionale emesso dalla Commissione territoriale in ragione della provenienza del ricorrente, cittadino tunisino, da un Paese c.d. sicuro, ha affermato che la Tunisia non può essere considerata Paese di origine sicuro per chi lamenta timore di persecuzioni a causa dell’orientamento sessuale. In particolare, nella decisione viene precisato che la domanda non poteva essere dichiarata manifestamente infondata sulla base della provenienza da un «Paese sicuro» in quanto il ricorrente ha dichiarato di avere subito persecuzioni in quanto ritenuto omosessuale o «amico degli omosessuali», quindi rientrante in una categoria di persone riconosciuta come eccezione al riconoscimento della Tunisia come Paese sicuro, essendo irrilevante da tale punto di vista ogni giudizio sulla credibilità di quanto dichiarato.
A medesime conclusioni giunge il  Tribunale di Napoli – con decreto del 12.9.2022  –, con riferimento ad un ricorrente proveniente dal Senegal, dichiaratosi omosessuale.
 
Ancora con riferimento alla situazione della Tunisia, il  Tribunale di Catania, con decreto del 12.7.2022 , ha ribadito che sebbene l’art. 2-bis del d.lgs. 25 del 2008, introduca un onere di allegazione rinforzata per il richiedente in ordine alle ragioni soggettive o oggettive per le quali invece il Paese non può considerarsi sicuro, in considerazione delle peculiarità del procedimento di protezione internazionale, devono comunque ritenersi sussistenti i poteri-doveri d’indagine officiosi e di acquisizione di informazioni aggiornate sulla situazione del Paese stesso (artt. 3 del d.lgs. n. 251 del 2007 e 8 del d.lgs. n. 25 del 2008), anche al fine di verificare che le previsioni interne (nella parte in cui sono integrate da norme regolamentari) non contrastino con il diritto dell’Unione, ostando peraltro ad una diversa interpretazione i divieti inderogabili di espulsione previsti dagli artt. 2 e 3 della CEDU. Tanto premesso, i giudici catanesi, alla luce delle più pertinenti ed aggiornate fonti di informazione sulla situazione socio-politica del Paese, hanno ritenuto sussistenti gravi ragioni per sospendere l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, apparendo, allo stato e ad una valutazione sommaria, propria di questa fase cautelare, la situazione del Paese di origine tale da vincere la presunzione di cui al citato art. 2-bis d.lgs 25/2008.
 
Il  Tribunale di Salerno, con decreto del 6.6.2022 , chiamato a pronunciarsi sulla domanda di sospensione di una domanda di protezione internazionale dichiarata manifestamente infondata ai sensi dell’art. 28-ter, comma 1, lett. b), del d.lgs. 25 del 2008 spiegata da un cittadino del Marocco, ha affermato che «il principio di inserimento lavorativo in Italia» dimostrato dal ricorrente (il quale aveva prodotto un contratto di lavoro a tempo determinato sottoscritto nel febbraio del 2022), in ragione dell’applicazione della disciplina relativa alla protezione speciale, di cui al d.l. 130 del 2020, integrasse le «gravi e circostanziate ragioni» per sospendere l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato.
 
In merito alle c.d. procedure accelerate, si sono pronunciati sia il  Tribunale di Napoli, con decreto del 18.11.2022 , che il  Tribunale di Bologna, con decreto del 15.9.2022 . Nel primo caso i giudici partenopei, hanno rilevato che la Commissione territoriale non aveva rispettato «la procedura accelerata prevista dall’art. 28-bis, co. 2, del d.lgs. n. 25 del 2008» e che la condizione di violenza indiscriminata da conflitto armato internazionale sussistente in Ucraina, rendesse la ricorrente inespellibile e giustificasse, pertanto, la sospensione del provvedimento impugnato.
Nella decisione del Tribunale di Bologna, in forza dell’orientamento della Suprema Corte (Cass. 23021 del 2020; Cass. 6745 del 2021), è stato ribadito che il mancato rispetto dei termini di cui al citato art. 28-bis (nel caso in esame, in particolare, tra l’audizione del ricorrente e la decisione erano passati 6 giorni, invece che i due previsti) porta a qualificare il provvedimento finale come reso all’esito di una procedura ordinaria e non accelerata.
 
Competenza per territorio
Il  Tribunale di Venezia, con decreto del 9.6.2022 , chiamato a decidere sulla domanda di rigetto della protezione internazionale, emesso dalla Commissione territoriale di Roma, rilevato che la ricorrente era stata presa in carico dal Progetto N.A.V.I.G.A.Re., Network Antitratta Veneto Intersezioni Governance Azioni Regionali, di cui la Regione Veneto è titolare, in applicazione del disposto dell’art. 4, co. 3 del d.l. n. 13 del 2007, convertito nella l. n. 46 del 2017, ha ritenuto la competenza territoriale del Tribunale di Venezia.
 
Udienza di comparizione ed audizione del ricorrente
Con ordinanza n. 35807 del 2022, la Suprema Corte, richiamato quanto già affermato nella precedente sentenza n. 21584 del 2020, ha ribadito che il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, è tenuto disporre l’audizione quando nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda, quando sia necessario acquisire chiarimenti in ordine alle incongruenze o contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del ricorrente e quando il richiedente ne faccia istanza nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti. Nel caso portato all’attenzione dei giudici di legittimità, il ricorrente – il quale aveva riferito di essere fuggito dalla Cina per timore di subire persecuzioni a causa del suo credo religioso – aveva chiesto l’audizione allo scopo di superare le contraddizioni rilevate dalla Commissione territoriale e di riferire in merito alla frequentazione in Italia della Chiesa di Dio Onnipotente. Tanto premesso, la Corte ha affermato che la mancata audizione del ricorrente – anche sul rilevante profilo della possibile conversione religiosa in un momento successivo all’espatrio – determina la cassazione del provvedimento impugnato.
 
Valutazione di credibilità
Con specifico riferimento alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni di una richiedente cinese – la quale aveva allegato un rischio persecutorio legato a motivi religiosi – la Suprema Corte, con ordinanza n. 18455/2022, esplicitamente discostandosi dalle affermazioni contenute nella pronuncia n.15219/2020, ha affermato che il sindacato del giudice di merito sulla sindacabilità del racconto del richiedente asilo, il quale alleghi un rischio legato all’adesione ad un determinato credo religioso, è pieno e non trova limiti in barriere che vietino al giudice indagini, compiute nel doveroso rispetto della dignità umana, circa il livello di conoscenza dei relativi riti o il percorso individuale seguito dal richiedente asilo per abbracciare il credo religioso. Molto interessante anche quanto affermato dalla Cassazione in merito al fatto che la frequentazione, da parte della ricorrente, di una chiesa evangelica in Italia ben può assumere rilievo ai fini di una tutela sur place.
 
In merito alla censura relativa al difetto di cooperazione istruttoria con riferimento a domande fondate su un rischio di danno grave di cui all’art. 14, lett. a) e b) del d.lgs. n. 251 del 2007, la Suprema Corte, con sentenza n. 26149 del 2022 ha affermato che, in tali casi, una volta esclusa la credibilità intrinseca della narrazione offerta dal richiedente asilo alla luce di riscontrate contraddizioni, lacune e incongruenze, non deve procedersi al controllo della credibilità estrinseca – che attiene alla concordanza delle dichiarazioni con il quadro culturale, sociale, religioso e politico del Paese di provenienza, desumibile dalla consultazione di fonti internazionali meritevoli di credito – poiché tale controllo assolverebbe alla funzione meramente teorica di accreditare la mera possibilità astratta di eventi non provati, riferiti in modo assolutamente non convincente dal richiedente.
 
A conclusioni diverse in merito al rapporto tra valutazione di credibilità e dovere di cooperazione del Giudice, invece, è giunta la Suprema Corte nell’ordinanza n. 28320 del 2022, laddove ha affermato che: «il giudice, prima di decidere la domanda nel merito, deve assolvere all’obbligo di cooperazione istruttoria, che non può essere di per sé escluso sulla base di qualsiasi valutazione preliminare di non credibilità della narrazione del richiedente asilo, dal momento che anteriormente all’adempimento di tale obbligo, egli non può conoscere e apprezzare correttamente la reale e attuale situazione dello Stato di provenienza e, pertanto, in questa fase, la menzionata valutazione non può che limitarsi alle affermazioni circa il Paese di origine. Solo ove queste ultime risultino immediatamente false, oppure la ricorrenza dei presupposti della tutela invocata possa essere negata in virtù del notorio (cfr. Cass. n. 8819 del 2020) l’obbligo di cooperazione istruttoria verrà meno e non è questo il caso di specie dove il giudice da un canto non ha verificato con specifiche informazioni quale sia il ruolo e la condotta in genere della polizia politica in Gambia concentrandosi su inattendibilità del racconto a cui sostegno era stato esibito un tesserino che avrebbe dimostrato l’appartenenza politica del richiedente. A tal riguardo va rammentato che il giudice del merito per essere esonerato dagli approfondimenti istruttori connessi alla situazione dichiarata dal richiedente avrebbe dovuto quanto meno accertare la falsità del documento, preordinato e mendace. Diversamente, ferma la valutazione da parte del giudice di merito della rilevanza probatoria del documento, non è tuttavia esonerato dal dovere di cooperazione istruttoria nei termini sopra descritti».
 
Dovere di cooperazione istruttoria e C.O.I.
Con sentenza n. 26121 del 2022, la Corte di Cassazione ha affermato che l’omessa sottoposizione al contraddittorio delle informazioni sul Paese di origine (COI) assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non suffragato dall’indicazione di pertinenti informazioni relative alla situazione del Paese di origine, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poiché in tal caso l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a condizione che il giudice renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne l’eventuale critica in sede di impugnazione; sussiste, invece, una violazione del diritto di difesa del richiedente quando costui abbia esplicitamente indicato le COI, ma il giudice ne utilizzi altre, di fonte diversa o più aggiornate, che depongano in senso opposto a quelle offerte dal ricorrente, senza prima sottoporle al contraddittorio.
 
Sullo stesso tema la Suprema Corte si è soffermata anche con ordinanza n. 26463 del 2022, per affermare che il dovere di cooperazione istruttoria del giudice si sostanzia nell’acquisizione di C.O.I. pertinenti e aggiornate al momento della decisione (ovvero ad epoca ad essa prossima), da richiedersi agli enti a ciò preposti, non potendo ritenersi tale il sito ministeriale «Viaggiare sicuri», il cui scopo e funzione non coincidono, se non in parte, con quelli perseguiti nei procedimenti indicati.
 
Con ordinanza n. 26418 del 2022, la Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da una donna proveniente dalla Nigeria, vittima di tratta ai fini di avvio alla prostituzione, ha precisato che: «il richiedente asilo ha l’onere di allegare i fatti, ma non di qualificarli, compito questo del giudice che deve, in adempimento del dovere di cooperazione, a tal fine analizzare i fatti allegati, senza modificarli né integrali, comparandoli con le informazioni disponibili, pertinenti e aggiornate sul Paese di origine e sui Paesi di transito, nonché sulla struttura del fenomeno, come descritto dalle fonti convenzionali ed internazionali, e dalle Linee guida per la identificazione delle vittime di tratta redatte dall’UNHCR e dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo». Con riferimento al contenuto del dovere di cooperazione del giudice, ha poi precisato che il giudice deve accertare, nel singolo caso, tramite informazioni pertinenti ed aggiornate sul Paese di origine, il rischio attuale di ulteriori atti lesivi, dello stesso tipo di quelli già subiti, ovvero anche diversi ma che possono comunque qualificarsi come atti persecutori, quali atti discriminatori fondati sul genere.
 
Presupposti per l’accoglimento dell’istanza di rimessione in termini
Il  Tribunale di Brescia, con decreto del 14.9.2022 15 Trib BS 14 9 2022 , si è pronunciato sui presupposti per l’accoglimento di un’istanza di rimessione in termini spiegata da un ricorrente che aveva depositato oltre il termine di 30 giorni (previsto dall’art. 35-bis, co. 2, del d.lgs. n. 25 del 2008) il ricorso avverso il rigetto della domanda di protezione, da parte della Commissione territoriale. Nella decisione in esame, il Collegio ha richiamato l’orientamento della Suprema Corte in forza del quale ai fini dell’accoglimento dell’istanza di rimessione in termini è necessario che la non imputabilità presenti il carattere dell’assolutezza, non potendosi considerare sufficiente la semplice difficoltà dell’impedimento, o impossibilità relativa (Cass. n. 4135/2019). Nel caso esaminato dai giudici bresciani, è stato ritenuto che la mancata traduzione del decreto di rigetto nella lingua ucraina (conosciuta dal ricorrente) non integrasse un’ipotesi di assoluta impossibilità oggettiva al rispetto dei termini, in quanto il ricorrente «ben avrebbe potuto chiedere aiuto per conoscere il contenuto dell’atto», in ragione della sua datata permanenza nel territorio italiano (ove aveva, peraltro, svolto anche attività lavorativa).
 
LA GIURISDIZIONE IN MATERIA DI PERMESSI PER MOTIVI UMANITARI / CASI SPECIALI
In un caso in cui era stato negato dalla questura di Palermo il rinnovo di un permesso umanitario con conversione in «casi speciali» (previsto dall’art. 1, co. 8, d.l. n. 113/2018) e detto provvedimento era stato impugnato davanti al Tribunale ordinario, era stata ottenuta la sospensione cautelare dei suoi effetti, a seguito della quale la questura aveva rilasciato un permesso «casi speciali» nelle more del giudizio. È accaduto, però, che il ricorso sia stato rigettato dal Tribunale (con successiva impugnazione della decisione davanti alla Cassazione) e conseguentemente la questura ha disposto la revoca del permesso poiché rilasciato solo in esecuzione della pronuncia cautelare. Impugnato il provvedimento di revoca davanti al Tar Sicilia, Palermo, con sentenza n. 2007/2022 il giudice amministrativo ha declinato la propria giurisdizione a favore del giudice ordinario, in quanto «le controversie relative al diniego o alla revoca di un permesso di soggiorno per motivi umanitari appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto il diritto alla protezione umanitaria ha consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali, come tali dotati di un grado di tutela assoluta e non degradabili ad interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, a cui è rimesso solo l’accertamento dei presupposti di fatto che ne legittimano il riconoscimento (Cass. civ., sez. lavoro, ord., 28.1.2022, n. 2716; in senso analogo Tar Piemonte, Torino, sez. I, 25.2.2022, n. 148; Tar Emilia-Romagna, Bologna, sez. I, 10.1.2022, n. 20)».
 
LA PROTEZIONE UMANITARIA e LA PROTEZIONE SPECIALE
In questo numero della Rivista pubblichiamo, oltre alle decisioni più rilevanti della Corte di cassazione, varie pronunce dei Tribunali di merito in tema di riconoscimento della protezione speciale, seguendo il catalogo aperto delineato dall’art. 19, commi 1, 1.1 e 1.2 TU d.lgs. 286/98. Dalle pronunce in rassegna e da quelle pubblicate in precedenza emerge che la maggior parte riguarda la tutela del diritto alla vita privata o familiare, e dunque l’integrazione sociale, non necessariamente declinata sul lavoro. Indubbiamente quel diritto è di più immediato riconoscimento, tenuto conto della molteplicità degli elementi che lo caratterizzano, non rinchiudibili in ipotesi tassative (Cass., SU, 24413/2021). È auspicabile, tuttavia, che l’attenzione possa essere data anche agli altri presupposti dell’art. 19 e in particolare a quelli indicati nel comma 1 e nella prima parte del comma 1.1., soprattutto quando la domanda di protezione speciale è presentata direttamente al questore e non nell’ambito della procedura di protezione internazionale. Essi, infatti, afferiscono a un bisogno di protezione che astrattamente potrebbe rientrare nell’ambito della protezione internazionale ma rispetto al quale la persona esercita il diritto di scegliere in quale contesto giuridico immettersi, senza necessità di dovere necessariamente scegliere quello più complesso e che impone la rescissione dei legami con il proprio Paese. Sotto questo profilo sono interessanti alcune pronunce di merito che pubblichiamo.
Di particolare interesse sono anche le decisioni in rassegna che intervengono sul valore giuridico della sospensione degli effetti del provvedimento di diniego di protezione speciale disposte dai Tribunali nelle more della definizione del giudizio, tenuto conto che la maggior parte delle questure si rifiuta di rilasciare all’interessato/a una ricevuta che attesti la regolarità di soggiorno e anche l’esercizio dei diritti afferenti il permesso di soggiorno.
Di straordinaria importanza sono, infine, due ordinanze, del Tribunale di Bologna e del Tribunale di Firenze, che si pronunciano sul contenuto della ricevuta del permesso per richiesta di protezione speciale presentata direttamente al questore, le quali offrono un’interpretazione sistemica delle norme generali e specifiche del diritto dell’immigrazione e dell’asilo, arrivando a concludere che, alla pari di altri permessi, anche questi consentono lo svolgimento di attività lavorativa.
 
Il divieto di refoulement
Il decreto 29.6.2022 del Tribunale di Brescia (R.G. 4878/2021)  è una delle rare pronunce con le quali la protezione speciale viene riconosciuta in relazione al principio dinon refoulement, in applicazione dell’art. 19, commi 1 e 1.1 prima parte TU d.lgs. 286/98. Il giudice lombardo si pronuncia su un ricorso proposto da richiedente asilo della Tanzania, che aveva motivato la sua richiesta di protezione in relazione ad accuse nel suo Paese di attività legate al terrorismo islamico, negando il riconoscimento della protezione internazionale perché la narrazione non trovava riscontro nelle COI e non essendo stati accertati né un rischio individuale né una violenza indiscriminata. Il Tribunale riconosce però la protezione speciale, come delineata nel riformato art. 19 TU 286/98, con specifico riferimento alle previsioni del comma 1.1 (rischio di tortura o di trattamenti inumani e degradanti o di violazione di obblighi costituzionali o internazionali). Dopo avere richiamato i principi espressi dalla giurisprudenza nazionale (Cass. 21929/2020) ed europea (CGUE 14.5.2019 cause riunite C-391/16, C-77/17, C-78/17 M, X e X) e varie disposizioni costituzionali italiane ed europee, nel decreto si afferma che «L’articolo 19, comma 1.1, d.lgs. 286/1998, nell’attuale formulazione, esprime, in linea con i vincoli ordinamentali di carattere sovranazionale e internazionale, il divieto di respingimento, espulsione o estradizione, ogniqualvolta vi sia il rischio concreto ed attuale che lo straniero o l’apolide possa subire un pregiudizio in relazione a beni giuridici fondamentali, quali la vita e l’integrità fisica, dipendenti anche da fattori oggettivi esterni alla sua persona (situazioni di grave instabilità sociopolitica caratterizzata da generalizzata violenza, generalizzate e gravi violazioni dei diritti umani, carestie o disastri ambientali o naturali etc.)».
Rapportati detti principi al caso esaminato, il Tribunale ritiene che la situazione socio-politica accertata in Tanzania, mediante specifiche COI, è tale da integrare il divieto di non refoulement, nonostante non vi sia una violenza indiscriminata, esponendo il richiedente asilo, in caso di rimpatrio, al «concreto rischio di subire un pregiudizio rispetto a beni giuridici fondamentali, tra cui, su tutti, l’incolumità individuale».
La pronuncia in esame è di interesse anche nella parte in cui respinge le pregiudiziali eccezioni del ricorrente per la mancata traduzione della decisione assunta dalla Commissione territoriale in quanto non aveva indicato il vulnus ad essa derivante (Cass., civ., sez. 1, 3.7.2020, n. 13769; Cass. civ., sez. 6-1, 11.7.2019, n. 18723), ricordando che anche in presenza di eventuale nullità del provvedimento il giudice è tenuto ad accertare l’esistenza o meno del diritto richiesto, non vertendosi in tema di impugnazione ma di accertamento del diritto alla protezione internazionale (Cass. civ., sez. 1, 23.11.2020, n. 26576). Parimenti respinge l’eccezione di nullità per omesso invio del cd. preavviso di rigetto (ex art. 10-bis l. 241/90) in quanto, come affermato dalla Cassazione, «[i]n tema di immigrazione, la nullità del provvedimento amministrativo di diniego della protezione internazionale, reso dalla Commissione territoriale, non ha autonoma rilevanza nel giudizio introdotto dal ricorso al Tribunale avverso il predetto provvedimento poiché tale procedimento ha ad oggetto il diritto soggettivo del ricorrente alla protezione invocata, sicché [il Tribunale] deve comunque pervenire alla decisione sulla spettanza, o meno, del diritto stesso e non può limitarsi al mero annullamento del diniego amministrativo (cfr. Cass. civ., sez. 6-1, 3.9.2014, n. 18632; id. sez. 1, 27.6.2019, n. 17318)».
 
La minore età
L’ordinanza n. 33430/2022 della Corte di cassazione censura una pronuncia del Tribunale di Salerno che aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale e di quella umanitaria a richiedente del Bangladesh entrato in Italia minorenne e solo. Afferma la Corte che nel valutare la riconoscibilità della protezione umanitaria, comparando la condizione attuale del richiedente e quella che viveva prima di lasciare il suo Paese, deve avere particolare rilievo la minore età al momento dell’ingresso in Italia perché già in sè rappresenta una condizione di «vulnerabilità estrema prevalente rispetto alla qualità di straniero illegalmente soggiornante nel territorio dello Stato». Condizione che determinerebbe una grave compromissione dei diritti fondamentali in caso di rimpatrio (in termini: Cass. n. 11743/2020, n. 17185/2020, n. 9247/2021). Interessante anche il passaggio della motivazione in cui la Corte afferma che «secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, in tema di protezione umanitaria, il livello di integrazione raggiunto in Italia dal richiedente deve intendersi non come necessità di un pieno, irreversibile e radicale inserimento nel contesto sociale e culturale del Paese, ma come ogni apprezzabile sforzo di inserimento nella realtà locale di riferimento, dimostrabile, in ipotesi, attraverso la produzione di attestati di frequenza e di apprendimento della lingua italiana e di contratti di lavoro anche a tempo determinato (Cass. n. 21240/2020».
 
Il diritto alla vita familiare
L’ordinanza n. 10201/2022 della Corte di cassazione censura una pronuncia della Corte d’appello di Torino che aveva ritenuto irrilevante il matrimonio contratto dal richiedente asilo con una connazionale e la nascita di un figlio, poiché entrambi i coniugi erano privi di attività lavorativa. Secondo la Cassazione, invece, i vincoli familiari esistenti in Italia hanno autonoma rilevanza rispetto agli altri criteri di accertamento del livello di integrazione sociale raggiunto, poiché l’art. 8 CEDU tutela il diritto in sé a vivere in famiglia: «la situazione di radicamento familiare, ove sussistente, come nel caso di specie, deve essere esaminata e valutata in modo autonomo come fattore di per sé espressivo e sintomatico del diritto al riconoscimento della vita familiare ex art. 8 CEDU al fine di verificare se l’eventuale rimpatrio del richiedente nel Paese d’origine renda probabile un significativo peggioramento delle sue condizioni di vita privata e/o familiare tale da pregiudicare il diritto riconosciuto dall’art. 8 CEDU».
Pronuncia da cui può trarsi la considerazione che i criteri individuati nel nuovo art. 19, co. 1.1 ultima parte, relativi al diritto alla vita privata e familiare (ovverosia: natura ed effettività dei vincoli familiari, effettivo inserimento sociale in Italia, durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine) non debbano essere considerati cumulativamente ma alternativamente e pertanto anche solo uno di essi può integrare i presupposti per il riconoscimento della protezione speciale (si veda anche Cass. n. 10130/2022, n. 677/2022 e n. 10130/2022, in questa Rivista n. 3/2022).
 
Sempre la Cassazione, con ordinanza n. 1074/2022, censurando un decreto del Tribunale di Milano, ha ritenuto rilevante lo stato di gravidanza di una richiedente asilo, pur intervenuta dopo il rigetto della protezione da parte del giudice di 1° grado, in quanto, in analogia con altre fattispecie, «il fatto sopravvenuto alla decisione di merito, e documentato in sede di legittimità, è equiparabile al jus superveniens, e dunque di esso deve tenersi conto nell’esame del ricorso (sez. 3, n. 26757 del 24.11.2020, Rv. 659865 - 02; in precedenza, nello stesso senso, sez. 1, n. 2341 del 17.4.1982, Rv. 420225 - 01)».
 
Il  decreto del Tribunale di Bari, 10.10.2022 R.G. 3815/2022  riconosce a donna richiedente asilo della Nigeria la protezione speciale in quanto, pur non avendo dimostrato una continuativa attività lavorativa, ha un figlio in Italia che risulta positivamente inserito nella società e pertanto va presentato il diritto alla vita familiare di cui all’art. 8 CEDU. Il caso è di particolare interesse per la peculiare e approfondita disamina della specifica condizione del nucleo familiare monoparentale e di una concreta declinazione del superiore interesse del minore. Infatti, nonostante la madre (che vive nel ghetto di Borgo Mezzanone e dunque in condizioni di estremo disagio) sia stata sospesa dalla responsabilità genitoriale ha dimostrato di continuare ad avere buone e costanti relazioni con il figlio (ospite in una comunità per minori) e dunque è stato accertato «l’interesse della stessa per le condizioni del figlio e la volontà di mantenere il loro rapporto affettivo». Il positivo percorso di integrazione sociale del figlio subirebbe un pregiudizio in caso di rientro con la madre in Nigeria, ove non esiste un sistema sanitario che offra sostegno psicologico ai minori, e pertanto, precisando che «l’integrazione socio-economica non costituisce una condicio sine qua non della protezione umanitaria, bensì uno dei possibili fatti costitutivi del diritto a tale protezione, da valutare, quando sussista, in comparazione con la situazione oggettiva e soggettiva che il richiedente ritroverebbe tornando nel suo Paese di origine, anche – con riguardo alla situazione soggettiva – sotto il profilo della permanente sussistenza di una rete di relazioni affettive e sociali», il Tribunale pugliese ha ritenuto che vi sia «un giudizio prognostico positivo in ordine alla condizione di vulnerabilità soggettiva in cui la ricorrente verrebbe a trovarsi qualora fosse costretta a fare rientro nel proprio Paese, con conseguente violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare ex artt. 7 e 8 CEDU».
 
Il diritto alla vita privata: la declinazione del concetto di integrazione sociale
Le attività svolte nel sistema accoglienza
La pronuncia n. 7938/2022 della Cassazione censura una sentenza della Corte d’appello di Torino che dopo avere escluso la protezione internazionale aveva negato anche il riconoscimento della protezione umanitaria in quanto insufficiente la dimostrazione di attività svolte nell’ambito del sistema di accoglienza e per avere lavorato solo saltuariamente. La Cassazione afferma, invece, che per accertare il livello di integrazione sociale in Italia di richiedente asilo debba essere valorizzato l’intero percorso intrapreso, anche se svolto nell’ambito del sistema di accoglienza di cui al d.lgs. 142/2015 attraverso la frequenza di corsi di lingua, di attività di formazione, ecc. Secondo la Corte, infatti, «priva di giustificazione è anche l’esclusione di qualsiasi rilievo probatorio all’attività svolta dal ricorrente all’interno del percorso di accoglienza previsto dalla legge e realizzato dagli Enti locali posto che essa non può essere ignorata nella valutazione complessiva della condizione di radicamento del richiedente protezione umanitaria. L’accertamento da svolgere deve essere eseguito in concreto valutando l’intero percorso svolto dal richiedente, la sostanziale continuità temporale dell’attività (o delle attività) svolte senza che l’esame di questa prima fase d’impegno, ove sussistente, possa venire deliberatamente ignorata solo perché rientrante in un programma d’accoglienza e primo inserimento previsto dalla legge».
(Si veda anche Cass. n. 26089/22 in questa Rivista n. 3/2022).
 
Con decreto 23.3.2021 il Tribunale di Brescia (R.G. 2983/2019) ha riconosciuto la protezione speciale a richiedente asilo della Nigeria, che ha dimostrato di avere svolto, durante il periodo di accoglienza pubblica, varie attività di volontariato e di impegno civico e un inizio di percorso lavorativo. Elementi i quali, alla luce del nuovo art. 19 introdotto dal d.l. n. 130/2020, hanno consentito al giudice bresciano di riconoscergli la tutela complementare in quanto «Si tratta di esperienze che denotano l’intenzione del ricorrente di partecipare attivamente alla vita sociale del Paese di accoglienza e di inserirsi anche nell’azione ispirata ai principi di solidarietà sociale e di tutela dell’ambiente espressi dell’art. 2 e 41 della Costituzione».
 
L’attività lavorativa
Con ordinanza n. 19466/2022 la Corte di cassazione censura la decisione del Tribunale di Bologna che, nel negare anche il riconoscimento della protezione umanitaria/speciale, ha ritenuto insufficienti le attività svolte dal richiedente asilo nel sistema di accoglienza e l’avere intrapreso saltuarie attività lavorative, omettendo di considerare il contratto di lavoro a tempo indeterminato, nonostante la sua rilevanza ai fini dell’accertamento dell’effettiva integrazione sociale. Secondo la Cassazione, infatti, «[l]a decisività del contratto di assunzione a tempo indeterminato deriva dal più recente orientamento di questa Corte secondo cui, in base alla normativa del Testo unico sull’immigrazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. 113/ 2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria occorre operare una valutazione comparativa tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia, attribuendo alla condizione del richiedente nel Paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nella società italiana; qualora si accerti che tale livello è stato raggiunto e che il ritorno nel Paese d’origine renda probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare tali da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, per riconoscere il permesso di soggiorno (Cass., SU, 24413/2021)».
 
L’ordinanza della Cassazione n. 33315/2022 censura la decisione del Tribunale di Salerno che aveva negato anche la protezione speciale ritenendo non sufficiente a dimostrare l’integrazione sociale la sottoscrizione di un contratto a tempo indeterminato poco prima della decisione giudiziale. Secondo la Cassazione, infatti, «l’art. 19, comma 1, d.lgs. n. 286 del 1998 enuncia plurimi criteri da valutare nel merito da parte del Tribunale, secondo una valutazione complessiva che permetta di ritenere l’integrazione sociale del soggetto, in cui l’integrazione lavorativa è sintomo centrale (sia essa in base a contratto di lavoro a tempo determinato, ma ripetuto e costante nel tempo, tale da permettere il mantenimento del nucleo, sia in base a contratto di lavoro a tempo indeterminato ed adeguatamente retribuito)».
 
La durata della presenza in Italia
L’ordinanza della Cassazione n. 7861/2022 censura un decreto del Tribunale di Bologna che aveva negato anche la protezione speciale «richiedendo ai fini dello stabile insediamento e della tutela del diritto alla vita privata anche un lungo periodo trascorso sul territorio nazionale e l’acquisizione di una vera e propria identità sociale e di un legame significativo con lo Stato ospitante». La Corte precisa, invece, che il nuovo art. 19 TU 286/98, riformato dal d.l. n. 130/2020, pur non richiamando espressamente l’art. 8 CEDU lo evoca certamente anche attraverso il richiamo all’art. 5, co. 6 del medesimo TU, e indica i tre parametri di «radicamento» desumibili dalla norma: «Il primo è familiare, espresso in relazione ai vincoli di tal genere esistenti in Italia, che debbono essere effettivi (termine, non a caso, utilizzato due volte nell’ambito dello stesso periodo) ed esprimersi quindi in una relazione intensa e concreta che accompagni il rapporto di coniugio o il legame di sangue, anche se la legge non ha preteso un rapporto di convivenza. Il secondo è sociale e si traduce nella necessità di un inserimento, ancora una volta richiesto nella sua dimensione di effettività. Il terzo parametro considerato dalla legge è la durata del soggiorno del richiedente asilo sul territorio nazionale ed esprime un concorrente elemento di valenza presuntiva (dello sradicamento dal contesto di provenienza e del radicamento in Italia), che sembra difficile potersi apprezzare in via autonoma». Richiamando la pronuncia a Sezioni unite n. 24413/2020 la Corte ricorda che la protezione offerta dall’art. 8 CEDU copre l’intera rete di relazioni costruite dal richiedente in Italia, non limitate al lavoro e conclusivamente ritiene che il Tribunale di Bologna non abbia «valutato i molteplici elementi addotti dal ricorrente, sia in ordine alla durata del soggiorno in Italia (che risaliva all’aprile 2017), sia in ordine alla partecipazione a molteplici attività culturali, integrative e volontaristiche, sia alla partecipazione a corsi di lingua, sia soprattutto alle attività lavorative svolte a partire dal maggio 2019 e all’assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato a partire dal 1.12.2020 e al reddito conseguentemente ricavato».
 
L’attività lavorativa e l’instabilità sociale e politica nel Paese di origine
Con decreto 14.9.2022 il Tribunale di Firenze (R.G.12068 /2019)  decide in merito a un ricorso introdotto da richiedente asilo del Senegal nella vigenza del d.l. n. 113/2018 ma con domanda di riconoscimento della protezione internazionale presentata antecedentemente (nel 2017) e ricorso deciso dopo la riforma recata dal d.l. n. 130/2020. Il giudice fiorentino esamina dettagliatamente e prioritariamente i presupposti per il rifugio politico, escludendolo, e quelli per la protezione sussidiaria, in relazione a cui, dopo analitica disamina della situazione in Casamance riferita anche alle singole province, la esclude in quanto la provenienza del richiedente è da una provincia in cui non è acclarata una violenza indiscriminata.
Con riguardo alla protezione umanitaria o speciale, il Tribunale analizza le varie riforme intervenute dal 2018 ad oggi e ritiene applicabile la normativa precedente il d.l. n. 113/2018 (applicando dunque l’art. 5, co. 6 TU 286/98 originario) in quanto la riforma recata dal d.l. n. 130/2020 non ha abrogato l’art. 5, co. 6 riformato dal d.l. del 2018 ma l’ha integrato con il richiamo nuovamente agli obblighi costituzionali o internazionali, senza ripristino delle serie ragioni di carattere umanitario. Secondo il Tribunale, dunque, «L’art. 15 del decreto legge in oggetto stabilisce sì l’immediata applicabilità delle disposizioni di cui all’articolo 1, comma 1, lettere a), e) ed f) ai procedimenti pendenti avanti alle Commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei Tribunali, con esclusione dell’ipotesi di cui all’art. 384 c.p.c., ma presuppone la vigenza ratione temporis della disciplina introdotta dal d.l. 113/2018, restando ferma l’applicazione della disciplina sostanziale del diritto fatto valere vigente al momento della presentazione della domanda di protezione internazionale. Il nuovo decreto va, infatti, a modificare, secondo le intenzioni del Legislatore, il sistema come riformato dal d.l. 113/2018, che non solo aveva abrogato la misura della protezione umanitaria ma aveva anche sostituito la clausola generale e aperta di cui all’art. 5, comma 6, d.lgs. 286/1998 con un sistema tipizzato composto dalla protezione speciale e dalle altre ipotesi tipiche di permesso».
Esaminata, dunque, la richiesta di riconoscimento della protezione umanitaria, il giudice fiorentino la riconosce, applicando il principio della comparazione attenuata tra la condizione di integrazione sociale raggiunta in Italia e il rischio di compromissione di diritti fondamentali in caso di rientro in Senegal. L’attività lavorativa svolta dal richiedente in Italia con contratto a tempo indeterminato e buon reddito è ritenuto confliggere con il rimpatrio perché «la grave situazione di instabilità politica attualmente esistente in Casamance renderebbe molto più difficile il reinserimento socio lavorativo di una persona che ormai ha incentrato il centro della sua vita privata in Italia».
 
Lo sradicamento dal Paese di origine
Il  Tribunale di Potenza, con decreto 29.11.2022 R.G. 373/2019 , esclusa la protezione internazionale per un richiedente asilo della Tunisia (nonostante le plurime criticità accertate mediante specifiche COI, ma tali da non integrare i presupposti né per il rifugio politico né per la protezione sussidiaria), gli riconosce la protezione speciale, nel testo novellato dal d.l. n. 130/2020, evidenziando il completo sradicamento dal Paese di origine derivante dalla risalente emigrazione (avvenuta 35 anni or sono) e dalla mancanza di legami significativi con esso, oltre che in relazione all’attività lavorativa svolta, sia pur non continuativa, in Italia. Il Tribunale prende in considerazione anche le condanne subite nel corso del tempo dal richiedente ritenendo, tuttavia, che «non rientrano fra quelli contrari alla sicurezza pubblica o all’ordine pubblico ricompresi nel libro II titolo I del codice penale». Secondo il Tribunale, dunque, «a fronte di una situazione, come indica la Corte EDU di uno «stabile insediamento», da accertarsi secondo precisi parametri connessi alla durata, stabilità e consistenza qualitativa della condizione di permanenza in Italia, l’allontanamento può configurarsi come evento idoneo a provocare la lesione dei diritti umani fondamentali che connotano il «radicamento» dello straniero nel Paese di accoglienza e dei quali il richiedente risulterebbe privato nel Paese di origine. Dunque, la vulnerabilità, in questa ipotesi può scaturire dallo “sradicamento” del cittadino straniero che, col tempo, abbia trovato nel Paese ospitante una stabile condizione di vita, da intendersi riferita non solo all’inserimento lavorativo, che è indice indubbiamente significativo, ma anche ad altri ambiti relazionali rientranti nell’alveo applicativo dell’art. 8 …».
 
In termini analoghi, ovverosia sulla rilevanza della risalente presenza in Italia, si pone sempre il Tribunale di Potenza, con decreto 10.10.2022 R.G. 3458/2019 , che riconosce la protezione speciale a richiedente della Bosnia, di etnia rom, nato in Italia e che qui ha sempre vissuto e dove vivono tutti i familiari.
 
I pregiudizi penali e la pericolosità sociale
Con  decreto 14.10.2022 R.G. 9582/2022 il Tribunale di Torino  ha riconosciuto a richiedente del Marocco, entrato in Italia nel 2009, posto agli arresti domiciliati nel 2010 per il reato di violenza sessuale, rientrato in Marocco nel 2011 per assistere il padre, successivamente espatriato, dal 2012 al 2019, in Francia e nel 2020 estradato in Italia in esecuzione della sentenza di condanna per il suddetto reato, divenuta irrevocabile nel 2013. Dopo avere ricostruito la normativa in materia di protezione umanitaria e speciale, ritenendo applicabile la nuova previsione dell’art. 19 TU 286/98 introdotta con il d.l. n. 130/2020, il Tribunale afferma che il richiamo all’art. 5, co. 6 TU immigrazione «assicura e garantisce una forma di protezione idonea ad abbracciare tutte le ipotesi di lesione rilevante dei diritti inviolabili della persona umana che, pur non rientrando nei rigidi canoni della protezione internazionale, siano tuttavia idonee a condizionare pesantemente, in senso negativo, la vita dell’individuo e le sue aspettative e prerogative individuali» e dunque, accertato il positivo percorso, anche rieducativo dai pregiudizi penali, riconosce al richiedente la protezione speciale ricorrendo «seri motivi idonei a giustificare il rilascio di un permesso di soggiorno, onde consentire al ricorrente, un congruo periodo di stabilità al fine di completare il proprio sviluppo individuale e sociale e di proseguire nel percorso psicologico e di reinserimento nel mondo del lavoro, già proficuamente intrapreso una volta scarcerato, tenuto conto anche della presenza in Italia di tutti i suoi parenti più stretti, che lo hanno supportato anche nel periodo di detenzione».
 
I traumi subiti nel Paese di origine e di transito - diritto alla salute e alla vita privata
Il Tribunale di Brescia, con decreto 23.7.2021 R.G. 14628/2018 , ha riconosciuto a richiedente asilo del Gambia la protezione speciale (dopo avere esclusa la protezione internazionale) in ragione della documentata condizione personale attestante la sua particolare vulnerabilità soggettiva, vittima di soprusi sia nel Paese di origine, sia in quelli attraversati nel percorso migratorio. Dalla certificazione sanitaria allegata in giudizio è emerso, infatti, «il quadro psicotico che connota la sua situazione, nel quale si innesta il consumo di cannabis; il fattore eziologico decisivo di questa condizione, come ragionevolmente ipotizzato nella valutazione citata, è da ricercare nel passato traumatico vissuto dal ricorrente nel suo Paese e lungo il viaggio che lo ha condotto in Italia, come attesterebbe appunto la funzione essenzialmente “reattiva” dei quadri psicotici», di fatto confermato anche dalle numerose cicatrici sul corpo del giovane. Dalle produzioni documentali in giudizio emerge anche il positivo percorso lavorativo e integrativo compiuto in Italia e la specifica tutela sanitaria-psicologica che qui riceve, di cui non potrebbe beneficiare in Gambia, come attestato da specifiche COI.
La protezione speciale è stata, dunque, riconosciuta sia in relazione alla tutela del diritto alla salute, sussumibile nell’alveo dell’art. 5, co. 6 TU 286/98, che per il diritto al rispetto della vita privata.
 
Le calamità nel Paese di origine
Il Tribunale di Firenze, con decreto 14.9.2022 R.G. 17893/2019  affronta il caso di un richiedente asilo del Pakistan negandogli la protezione internazionale in quanto non esplicitato il timore di persecuzione o di danno grave, non essendo mai comparso davanti alla Commissione territoriale (stante la sua irreperibilità) né davanti al giudice (a cui ha rinunciato). Tuttavia, il Tribunale gli riconosce la protezione «casi speciali» in applicazione della normativa di cui al d.l. n. 113/2018 e nonostante l’intervenuta modifica del d.l. n. 130/2022, conseguentemente valutando i presupposti della “vecchia” protezione umanitaria.
Su questo aspetto del regime applicabile a seguito delle varie riforme succedutesi dal 2018 ad oggi, il Tribunale di Firenze è l’unico, per quanto risulta, che offre un’interpretazione peculiare della successione delle leggi, ritenendo che il d.l. n. 130/2020 «non ha abrogato l’art. 5 comma 6 del Testo unico immigrazione nella versione modificata dal d.l. 113/2018 epurando la protezione umanitaria, ma si è limitato a reinserire nella disciplina ordinaria il doveroso rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato italiano quale motivo ostativo al rifiuto del permesso di soggiorno» e pertanto ritenendo applicabili i presupposti legittimanti la protezione umanitaria nel regime pre-d.l. n. 113/2018.
In applicazione dei principi espressi dalla giurisprudenza ampiamente richiamata, il giudice fiorentino valorizza il positivo inserimento lavorativo del richiedente in Italia e il rischio, conseguente, di rimanere privo di risorse in caso di rientro nel Paese di origine, ma accerta anche, mediante specifiche COI, l’attuale esistenza di un’emergenza climatica nazionale in Pakistan e nella particolare area di provenienza del richiedente con abbondanti e devastanti inondazioni: «attualmente 33 milioni di persone sarebbero colpite da inondazioni improvvise. Dal 14 giugno si sarebbero verificati tra i 600 e i 1.396 morti oltre a circa 13 mila persone ferite; 1,74 milioni di case, 22.000 scuole e 6.675 km di strade risulterebbero distrutte o danneggiate. Si stima che circa 6,4 milioni di persone necessitino di assistenza immediata».
Situazione per la quale, secondo il Tribunale, «In caso di rientro vi è il ragionevole rischio che il ricorrente si troverebbe a vivere in situazioni incompatibili con la dignità umana o in situazioni degradanti, motivo per il quale il rientro nel Paese di origine non sarebbe sicuro».
 
PROTEZIONE SPECIALE CON DOMANDA DIRETTA AL QUESTORE
Il diritto alla vita privata
In un caso in cui la domanda di protezione speciale era stata proposta direttamente al questore (art. 19, co. 1.2 TU 286/98) il Tribunale di Firenze, con decreto 5.10.2022 R.G. 6456/20 riconosce il diritto al rilascio del permesso per protezione speciale, nonostante il parere negativo della Commissione territoriale, valorizzando sia la presenza in Italia dal 2015 (trattasi di persona del Bangladesh già richiedente asilo, diniegato anche in sede giudiziale) che l’attività lavorativa svolta dal 2017 e fino a quando non è intervenuto il licenziamento in conseguenza della perdita del titolo di soggiorno e del diniego anche della regolarizzazione (per fatto dipendente dal datore di lavoro). Lo sradicamento dal Paese di origine determinerebbe, in caso di rimpatrio, «una lesione del diritto all’inclusione maturato dal ricorrente ai sensi del disposto dell’art. 8 CEDU». Da evidenziare che nella parte motivazionale conclusiva il Tribunale fiorentino qualifica il permesso per protezione speciale «convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, ai sensi del combinato disposto degli artt. 19 comma 1.2. e 6 comma 1-bis) TUI e dell’art. 32 comma terzo d.lgs. 25/2008 come modificati rispettivamente dagli artt. 1, lett. a ) e 1, co. 1 2 lett. e) del d.l. 130/2020».
 
La convertibilità del permesso per protezione speciale conseguito con domanda diretta al questore
In un caso in cui la questura aveva negato la conversione del permesso per protezione speciale in lavoro, il Tar Veneto, Venezia, con sentenza n. 1812/2022 R.G. 1345/2022, ha affermato la convertibilità del permesso per protezione speciale in permesso per lavoro, offrendo un’interpretazione costituzionalmente orientata della vigente normativa e in particolare dell’art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008 e art. 6, co. 1-bis, TU d.lgs. 286/98, come modificati dal d.l. n. 130/2020. L’apparente limitazione alla convertibilità derivante dal richiamo nell’art. 6, co. 1-bis citato al permesso per protezione speciale rilasciato in applicazione dell’art. 32, co. 3, d.lgs 25/2008, e dunque nell’ambito del sistema della protezione internazionale, viene superata dal giudice regionale veneto analizzando l’istituto della protezione speciale innovato dal d.l. n. 130/2020 e riconducendo a unità il medesimo poiché fondato su medesimi presupposti, irrilevante che la norma preveda un doppio e autonomo percorso procedurale per conseguirlo (all’interno della procedura di protezione internazionale o con domanda diretta al questore, ex art. 19, co. 1.2 TU 286/98).
Dunque, secondo il Tar «si rende possibile una interpretazione costituzionalmente orientata in ragione della quale, al ricorrere delle condizioni di cui ai punti 1 e 1.1. dell’art. 19 del TUI, cui il comma 3 dell’art. 32 del d.lgs. 25/2008 subordina il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale, lo straniero può ottenere un titolo (per protezione speciale, per l’appunto) suscettibile di conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, a prescindere dal procedimento seguito per ottenerlo, essendo irrilevante che tale permesso sia stato rilasciato in esito a una richiesta direttamente rivolta al questore, così come previsto dal punto 1.2. dello stesso art. 19 ed essendo essenziale, al contrario, solo che non ricorrano le condizioni escludenti espressamente previste dall’art. 6, comma 1-bis del d.lgs. 286/98 (condizione che, allo stato, non parrebbe ricorrere, ma che potrà essere valutata dalla questura in sede di riedizione del potere)».
 
LA NATURA GIURIDICA DEL PERMESSO PER RICHIESTA PROTEZIONE SPECIALE
La protezione speciale con domanda diretta al questore ha presentato, fin dal suo avvento, notevoli problemi applicativi, tra i quali l’accesso alla procedura e la sospensione cautelare dell’efficacia dei provvedimenti di diniego nelle more del giudizio, tenuto conto che, a differenza dei ricorsi ex art. 35-bis d.lgs. 25/2008 in materia di protezione internazionale (salvo tassative ipotesi), il ricorso proponibile ex art. 19-ter d.lgs. 150/2011 non ha un effetto sospensivo ex lege. Necessaria è dunque la proposizione di una specifica istanza cautelare, ex art. 5 d.lgs. 150/2011, nel caso in cui l’impugnazione non sia proposta con lo strumento già di per sé cautelare dell’art. 700 c.p.c.
Un’ulteriore criticità che si sta riscontrando riguarda gli effetti delle sospensive giudiziali riconosciute dai Tribunali nelle more del giudizio, stante il diffuso rifiuto delle questure di rilasciare in quel contesto il titolo di soggiorno per richiesta protezione speciale o la sua ricevuta e dunque viene in rilievo la questione pregiudiziale a tutte, ovverosia la natura giuridica del permesso di soggiorno per richiesta di protezione speciale quando chiesta direttamente al questore.
Su questa fondamentale questione comincia a delinearsi un ben preciso orientamento che riconduce a unità l’intero sistema.
 
L’accesso alla procedura e il passaporto
Con decreto 23.11.2022 R.G. 69777/2022, inaudita altera parte, il Tribunale di Roma  ha ordinato alla questura di Roma di «provvedere alla convocazione immediata ed alla formalizzazione dell’istanza» di permesso per protezione speciale, dopo che il 1° aprile 2022 detta questura aveva dato appuntamento al richiedente per la formalizzazione per il 28 settembre 2022 con la richiesta di portare anche il passaporto. L’ordine giudiziale di provvedere con immediatezza alla formalizzazione discende dall’art. 9, co. 3 lett. a) d.p.r. 394/99 (Regolamento di attuazione del TU 286/98) che consente di essere identificati anche con documenti diversi dal passaporto (l’interessato disponeva di una carta consolare).
Quanto al periculum in mora, il Tribunale l’ha ravvisato in re ipsa in quanto «in assenza di qualsiasi permesso, il ricorrente rischierebbe il rimpatrio immediato».
 
La sospensiva nelle more del giudizio
Con  decreto 27.4.2022 R.G. 4635-1/2022 il Tribunale di Bologna  ha concesso la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato, di diniego di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale, in relazione al danno grave e irreparabile alla vita privata derivante dal suo allontanamento dall’Italia.
 
Negli stessi termini anche il  Tribunale di Roma, decreto 5.7.2022 R.G. 40799/2022 , che ha concesso la sospensiva «alla luce del fatto che l’allontanamento dal territorio nazionale costituirebbe in re ipsa un danno, considerato che il ricorrente è arrivato almeno dal 2011» e analogamente il  medesimo Tribunale, decreto 25.8.2022 R.G. 51420/2022 , ha specificato che, se il ricorrente fosse allontanato, la decisione sul ricorso sarebbe inutilmente data.
 
Gli effetti delle sospensive in giudizio
Tra le decisioni che hanno affrontato la questione degli effetti giuridici delle sospensive accordate, è necessario distinguere tra rinnovo del permesso umanitario/speciale e primo rilascio, giacché se per il rinnovo non dovrebbe porsi il dubbio che nelle more del giudizio la persona conservi i diritti afferenti il permesso di cui è stato negato il rinnovo (nonostante le prassi restrittive delle questure), diversa è la questione del primo rilascio del permesso per protezione speciale, perché afferisce alla natura giuridica di esso. Le soluzioni proposte dalla giurisprudenza stanno delineando un quadro che applica a questa peculiare tipologia di permessi i principi generali evincibili dall’ordinamento giuridico, delineando il contenuto del permesso di soggiorno.
 
a) la sospensiva nel giudizio relativo al rinnovo del permesso umanitario/protezione speciale
In ordine a questa tipologia di giudizio si segnalano tre pronunce del Tribunale di Roma –  5.10.222 RG. 47500/2022 , 7.10.2022 R.G. 36219/2022  e  14.10.2022 R.G. 58124/2022  – con le quali viene ordinato alla questura il rilascio di un permesso nelle more del giudizio, per non ledere i diritti dei richiedenti relativamente al diritto al lavoro e all’accesso ai diritti sociali. Il Tribunale equipara la condizione di chi abbia ottenuto in giudizio la sospensione dell’efficacia cautelare del provvedimento di diniego del rinnovo a quella di chi è in attesa di determinazioni della PA sulla sua domanda, nel contempo evidenziando che se è pur vero che con la sospensiva si evita il rischio di allontanamento, tuttavia «essa non garantisce il persistere di altre prerogative di non poco rilievo». Secondo la prospettazione del giudice romano, è applicabile analogicamente l’art. 13, co. 3 d.p.r. 394/99 «per identità delle situazioni fattuali (quella regolata dalla legge e quella su cui la legge tace)», pena la discriminazione tra situazioni che hanno la medesima ratio.
 
Sempre con riguardo a un giudizio di impugnazione di un diniego di rinnovo del permesso umanitario, si pronuncia anche il  Tribunale di Bologna, con decreto 16.12.2022 R.G. 12813-1/2022 a integrazione della sospensiva già accordata, ordinando alla questura il rilascio, nelle more del giudizio, della ricevuta di avvenuta presentazione della domanda di rinnovo in quanto «Finché dunque la sua domanda di rinnovo non sia rigettata, lo straniero conserva la posizione equiparata a quella dello straniero regolarmente soggiornante e mantiene i diritti e le facoltà riconosciute dal possesso del titolo. Con l’effetto che la sospensiva concessa blocca gli effetti del diniego ripristinando la situazione giuridica dello straniero in attesa della decisione sul rinnovo».
 
b) primo rilascio del permesso per protezione speciale nelle more del giudizio
Il  Tribunale di Bologna, con decreto 9.1.2023 R.G. 14313/2022 , ha ordinato alla questura il rilascio della ricevuta attestante l’avvenuta presentazione della domanda di rilascio del permesso per protezione speciale, dopo che, nel giudizio proposto avverso il diniego, il medesimo giudice aveva concesso la sospensione cautelare di cui all’art. 5 d.lgs. 150/2011. Censurando il rifiuto della questura di rilasciare la ricevuta del permesso, il Tribunale ha ritenuto che «la tutela cautelare concessa dall’art. 5 citato non può limitarsi alla sospensione del provvedimento impugnato ovvero ad inibire alla Pubblica amministrazione l’adozione di provvedimenti conseguenti al diniego (provvedimento di espulsione, revoca del progetto di accoglienza etc.), ma autorizza il richiedente a richiedere il ripristino della condizione/situazione giuridica precedente al provvedimento di diniego questorile», precisando che «il richiedente chiede il rilascio della ricevuta di formalizzazione dell’istanza di protezione, di cui a ben vedere era già in possesso, prima del ritiro conseguente all’emissione del provvedimento di diniego; trattasi di richiesta cautelare di ripristino di una situazione giuridica di cui era in precedenza in possesso, senza che vengano avanzate richieste ampliative della sua condizione giuridica».
 
Anche il  Tribunale di Venezia, con decreto 31.1.2023  si è pronunciato, sia pur sinteticamente, in senso analogo.
 
La natura giuridica del permesso per richiesta protezione speciale
Con ordinanze del  4.2.2023 il Tribunale di Bologna (R.G. 10625/2022) , il Tribunale di Firenze (R.G. 13380/2022)  e il  Tribunale di Bologna 13.2.2023 hanno approfondito la questione della natura giuridica del permesso per richiesta di permesso per protezione speciale, arrivando tutte alla medesima conclusione, nonostante nei casi bolognesi l’oggetto del giudizio abbia riguardato la natura giuridica della ricevuta rilasciata dalla questura al momento della formalizzazione della domanda di permesso (per la quale, però, la questura negava l’attribuzione del codice fiscale, necessario per svolgere attività lavorativa) e i diritti da essa derivanti (svolgimento attività lavorativa, iscrizione al S.S.N., attribuzione del codice fiscale), mentre nel caso fiorentino si è trattato di ricorso cautelare per avere la restituzione della ricevuta, dopo che il Tribunale aveva concesso la sospensiva.
Questioni che, come detto, afferiscono alla natura giuridica della ricevuta o del permesso per richiesta protezione speciale, sia nella fase amministrativa che in quella giudiziale e in tutti i giudizi è stato riconosciuto il diritto alla titolarità della ricevuta o del permesso e, pur con differenti ma convergenti percorsi argomentativi, affermano che il permesso per richiesta protezione speciale sottende il diritto della persona richiedente a svolgere attività lavorativa, pur nel vuoto legislativo che riguarda il solo permesso con cui la domanda di protezione speciale viene inoltrata direttamente al questore e non nell’ambito della procedura di protezione internazionale.
Il ragionamento svolto dal  Tribunale felsineo  4.2.2023  muove dall’analisi della protezione speciale novellata dal d.l. n. 130/2020 e oggi contenuta nell’art. 19, co. 1, 1.1 e 1.2 TU d.lgs. 286/98, la quale prevede due percorsi per il suo riconoscimento: all’interno della procedura di protezione internazionale, quale forma complementare e residuale rispetto agli status maggiori, oppure con domanda presentata direttamente al questore, con parere obbligatorio della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Doppio percorso che, è importante evidenziare, lascia libera la persona di scegliere quale dei due intraprendere e, precisa il Tribunale, poiché la domanda diretta al questore è più snella «corrisponde peraltro ad una esigenza della stessa parte pubblica secondo canoni di buona amministrazione».
Il giudice bolognese riconduce a unità il sistema, riaffermando quanto già ritenuto dalla concorde giurisprudenza secondo cui la protezione umanitaria, oggi denominata speciale, partecipa insieme alla protezione internazionale di derivazione euro-unitaria al complessivo sistema dell’asilo di cui all’art. 10, co. 3 della Costituzione. Pertanto, poiché ai/alle richiedenti protezione internazionale l’art. 4, co. 1 d.lgs. 142/2015 riconosce il diritto al rilascio di un permesso provvisorio nelle more della procedura, amministrativa e/o giudiziale, per il riconoscimento della protezione internazionale (che l’iscrizione al S.S.N. e, dopo 60 giorni dalla richiesta, lo svolgimento di attività lavorativa), il medesimo contenuto non può che riguardare anche la ricevuta o il permesso di richiesta protezione speciale presentata direttamente al questore. Il Tribunale prende atto del vuoto legislativo lasciato dal d.l. n. 130/2020 che, innovando l’art. 32, co. 3 d.lgs. 25/2008 (definendo durata, contenuto e convertibilità del permesso per protezione speciale riconosciuto nell’ambito della procedura di protezione internazionale), non ha provveduto a inserire le medesime prescrizioni nell’art. 19, co. 1.2 TU 286/98 per la disciplina della protezione speciale richiesta direttamente al questore. Vuoto che, tuttavia, il giudice riempie superando l’apparente disparità di trattamento mediante ricorso al principio di non discriminazione a fronte di situazioni identiche (art. 3 Cost.) e, come detto, riconducendo a unità l’intero sistema dell’asilo. Se, infatti, il permesso provvisorio per richiesta asilo è pacificamente riconosciuto ai/alle richiedenti protezione internazionale anche nelle more del giudizio avverso il diniego disposto dalla Commissione territoriale, anche in sede di domande reiterate e anche qualora l’impugnazione si limiti alla sola richiesta di riconoscimento della protezione speciale, non vi è ragione per non equiparare a queste fattispecie quella della persona che impugni il diniego di protezione speciale dopo avere presentato domanda diretta al questore.
Il Tribunale propone un’analisi molto interessante, muovendo dalla constatazione che il permesso di soggiorno è rilasciato, in generale, secondo le regole ordinarie del TU immigrazione solo a seguito di accoglimento della domanda di rilascio del titolo, ponendosi dunque il permesso provvisorio di cui all’art. 4, co. 1 d.lgs. 142/2015 quale eccezione rispetto alla regola, con la conseguenza che potrebbe ritenersi astrattamente inapplicabile l’analogia di cui all’art. 14 preleggi. Tuttavia, l’analogia va considerata non rispetto a detta regola generale ma nello specifico sistema dell’asilo e, pertanto, secondo l’ordinanza qui in rassegna, «non è in gioco l’applicazione di una norma prevista per il richiedente asilo a casi diversi, atteso che il detto permesso di soggiorno provvisorio come si è visto può e deve essere rilasciato e rinnovato al cittadino straniero irregolare in pendenza di un procedimento di sola protezione speciale, persino se da un punto di vista tecnico giuridico il procedimento avente ad oggetto la protezione internazionale in senso stretto (rifugio o protezione sussidiaria) sia stato definito con provvedimento irrevocabile. Per conseguenza, in presenza di una manifesta lacuna in materia attinente a diritti fondamentali, non può dirsi preclusa ai sensi dell’art. 14 preleggi l’applicazione analogica di una norma che trova già applicazione in pendenza di una domanda di protezione speciale proposta secondo una via procedimentale, anche al caso in cui lo stesso accertamento avente ad oggetto lo stesso diritto soggettivo venga richiesto seguendo un’altra via procedimentale».
In buona sostanza, non vi è eccezione nel complessivo e unitario sistema dell’asilo e dunque è applicabile l’analogia tra una disposizione espressamente prevista dal legislatore (l’art. 4, co. 1 d.lgs. 142/2015) e un vuoto legislativo in quanto «L’applicazione analogica delle disposizioni normative è una diretta conseguenza del principio di completezza dell’ordinamento giuridico».
Quanto al trattamento che si vorrebbe differenziato per le sole diverse modalità di presentazione della domanda di protezione speciale, il Tribunale di Bologna ne offre un’interpretazione costituzionalmente orientata applicando il principio di non discriminazione di cui all’art. 3 Cost., arrivando a concludere che, fermo restando il divieto di espulsione per chi abbia presentato domanda di protezione speciale, deve essergli riconosciuto nelle more anche il diritto a svolgere attività lavorativa perché «appare del tutto irrazionale precludere alla persona di lavorare con un contratto in regola, sostanzialmente costringendola a ricercare in condizioni di irregolarità gli indispensabili mezzi di sostentamento. Non è chi non veda gli effetti criminogeni e la spinta verso il mercato nero del lavoro».
Decisione con cui si paventa il costo e la gravosità anche per la Pubblica amministrazione qualora si ritenesse che il sistema spinga, per superare detta discriminazione, a presentare domanda di protezione internazionale anche quando si voglia limitare la richiesta alla sola protezione speciale e pertanto risponde anche all’interesse pubblico la corretta definizione dell’unitario trattamento nei due differenti percorsi procedimentali, che può condurre pure al benefico effetto deflattivo «nella, congestionata, materia della protezione internazionale».
Conclusivamente, richiamando l’art. 11, co. 1 lett. a) del regolamento di attuazione d.p.r. 394/99, il Tribunale afferma che «la ricevuta della domanda di protezione speciale rilasciata al ricorrente ha valore ope legis di permesso di soggiorno provvisorio ai sensi dell’art. 4, d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142» e dunque con analoghi diritti sottostanti.
Interessante è anche il passaggio motivazionale, pur non sviluppato, relativo all’accoglienza del richiedente protezione speciale, ma i principi affermati possono valere anche con riguardo a questo diritto, oggi negato per chi non ha mezzi personali di sostentamento.
 
Alle stesse conclusioni perviene anche il Tribunale di Firenze, ordinanza del 4.2.2023 (R.G. 13380/2022) , in un caso in cui, dopo avere ottenuto la sospensiva in un giudizio avverso il diniego di protezione speciale, la questura negava la restituzione della ricevuta del permesso perché ritenuta non prevista dall’ordinamento.
Per giungere ad affermare il diritto alla restituzione del permesso o sua ricevuta, il giudice fiorentino prende atto del duplice percorso per ottenere la protezione speciale e del fatto che in uno (quello attraverso la procedura della protezione internazionale) esiste una specifica disciplina, assente invece nel caso di domanda diretta al questore. Tuttavia, afferma che gli elementi costitutivi della disciplina anche in questo vuoto normativo «non possono che essere cercati e rinvenuti nelle norme generali che disciplinano la condizione giuridica del cittadino straniero e del richiedente asilo, non potendo certo il silenzio del legislatore comportare una totale assenza di diritti in capo a chi si trovi nella condizione di attendere dall’Amministrazione una risposta alla propria domanda di protezione speciale o, in caso di impugnativa, si trovi in attesa della decisione», al fine di non legittimare una ingiustificata disparità di trattamento.
Come già nella pronuncia bolognese, anche in questa la protezione speciale viene ricondotta nell’alveo del c.d. asilo costituzionale di cui all’art. 10, co, 3 Cost., senza che possa prospettarsi una differenza sostanziale tra chi presenta la domanda di protezione speciale nell’ambito della procedura di protezione internazionale rispetto a chi la presenti direttamente al questore (anche per evitare che si determini un fenomeno di abuso oggettivo delle domande reiterate di protezione internazionale fondate sui soli presupposti della speciale) poiché la diversità procedimentale «non cambia il contenuto del diritto essendo peraltro la Commissione territoriale il medesimo organo deputato a valutarne i presupposti, in un caso in via diretta, nell’altro caso in sede di parere obbligatorio e vincolante».
Richiamando anche la sentenza del Tar Veneto n. 1812/2022 (dianzi rassegnata), sulla convertibilità del permesso per protezione speciale comunque rilasciato, alla cui interpretazione il Tribunale fiorentino aderisce, si affronta la questione dei diritti nelle more della procedura ammnistrativa o giudiziale, escludendo innanzitutto la necessità di fare ricorso all’analogia con l’art. 7 d.lgs. 25/2008 poiché il/la richiedente protezione speciale è ontologicamente inespellibile (se lo fosse si vanificherebbe la tutela prevista dall’art. 19) e dunque con conseguente diritto al soggiorno nelle more della definizione della sua condizione. Diritto che viene poi declinato anche con riguardo all’attività lavorativa nella fase di primo rilascio del permesso, in applicazione analogica dell’art. 5, co. 9-bis TU 286/98 che, pur formalmente destinato al lavoratore, esprime un principio generale dell’ordinamento già applicato dalla stessa PA in altre fattispecie diverse dal permesso per lavoro (circolare del Ministero del lavoro prot. 4079/2018).
Secondo il Tribunale «Se, come detto, anche il permesso per protezione speciale consente lo svolgimento di attività lavorativa non vi è quindi nessun motivo per escludere che la stessa attività possa essere svolta anche in forza della “ricevuta” rilasciata al momento della presentazione della domanda, trattandosi di ipotesi – sotto tale profilo – analoga al permesso di soggiorno per motivi familiari ed essendo peraltro tale facoltà prevista espressamente per il richiedente asilo».
Ne consegue che anche con la semplice ricevuta del permesso per protezione speciale possa essere svolta attività lavorativa, pena la violazione del principio di non discriminazione di cui all’art. 3 Cost.
Quanto al dovere della questura di rilasciare detta ricevuta una volta che in giudizio sia stata concessa la c.d. sospensiva non vi è dubbio che esso sussista, perché «Il danno paventato in sede cautelare consiste infatti non solo nell’espulsione del ricorrente ma anche nell’impossibilità di accedere all’inserimento sociale e lavorativo sia pure provvisoriamente, fino alla definizione della causa del merito per cui occorre valutare come tale pregiudizio possa essere evitato».
Interessante è, nella parte motivazionale, il richiamo a pronunce del giudice amministrativo che afferma il diritto al permesso di soggiorno nelle more dello speciale procedimento davanti al Tribunale per i minorenni ex art. 31, co. 3 TU 286/98 (Tar Lombardia n. 719/2021 e Tar Liguria n. 219/2020), a supporto del principio generale applicato.
 
Infine, con  ordinanza 13.2.2023 il Tribunale di Bologna arriva alle medesime conclusioni delle pronunce dianzi rassegnate (il caso verteva sulla richiesta di attribuzione del codice fiscale per titolare di ricevuta per richiesta protezione speciale diretta al questore), muovendo dalla medesima affermazione dell’unitarietà del sistema asilo, comprensivo sia della protezione internazionale di derivazione europea (rifugio politico e protezione sussidiaria), sia della protezione speciale di derivazione nazionale (che può essere riconosciuta attraverso vari e autonomi percorsi amministrativi e giudiziali), in quanto forme di declinazione del diritto d’asilo costituzionale. Partendo da detti presupposti, il Tribunale afferma che «Se l’istanza di protezione speciale è istanza di una delle forme in cui si estrinseca il diritto di asilo, il nostro ordinamento conosce, tra le varie tipologie di permesso di soggiorno, il permesso di soggiorno “per richiesta asilo, per la durata della procedura occorrente” (cfr. art. 11 comma 1 lett. a) d.p.r. 394/99)».
Dunque, sin dalla presentazione dell’istanza di protezione speciale la persona è richiedente asilo e pertanto ha diritto al rilascio del permesso che attesti detta condizione, alla pari di chi presenti domanda di protezione internazionale e la norma regolamentare che la giustifica, stante l’unitarietà del sistema, è l’art. 11 del medesimo regolamento, che tra i permessi rilasciabili indica anche quello per «richiesta asilo, per la durata della procedura» (co. 1 lett. a), specificando al comma 2 che il permesso «contiene l’indicazione del codice fiscale». Disposizione che non può non riguardare anche la ricevuta di richiesta, perché significherebbe lasciare privi di tutela i/le richiedenti asilo nelle more, spesso lunga, della procedura.
Nello specifico dell’attività lavorativa, ammissibile per effetto dell’attribuzione del codice fiscale, la decisione ricorda che l’art. 22, co. 12 TU 286/98 sanziona il datore di lavoro che impiega lavoratori/lavoratrici stranieri/e privi/e di permesso di soggiorno, ma tale non è chi presenta domanda di protezione speciale al quale è rilasciato, per l’appunto, il titolo di soggiorno nelle more della procedura. Pertanto, «Ne deriva che lo straniero può essere assunto e quindi può lavorare non appena formalizza la richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale, dovendo tale richiesta essere intesa come richiesta di asilo». E pertanto deve attribuito il codice fiscale nella ricevuta di avvenuta richiesta.
Stante la ricomprensione del permesso richiesta protezione speciale nell’alveo dell’art. 11 d.p.r. 394/99, il Tribunale afferma anche il diritto anche all’iscrizione al S.S.N. in virtù dell’art. 34 TU 286/98 e conclusivamente il Tribunale afferma che «al momento della formalizzazione della domanda di protezione speciale, l’istante è da qualificarsi richiedente asilo ai sensi del TUI ed ha diritto, per la durata della procedura amministrativa, al rilascio di un permesso di soggiorno per richiesta asilo ex art. 11, d.p.r. 394/99; siccome il rilascio di tale permesso di soggiorno non potrà essere contestuale, ma considerato che egli è dal momento della formalizzazione richiedente asilo nella forma della protezione speciale, dovranno essergli riconosciute le tutele previste dal testo unico per chi sia titolare del permesso di soggiorno per richiesta asilo; la ricevuta dovrà contenere il codice fiscale e darà diritto al ricevimento della tessera sanitaria; il richiedente la protezione speciale potrà lavorare sin dal momento del rilascio della ricevuta della presentazione della domanda».
 
DIRITTO DI ACCESSO ALLA PROCEDURA ASILO E DIRITTO ALL’ACCOGLIENZA
A fronte dell’ormai cronico ritardo, quando non vero e proprio impedimento, alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale e conseguentemente alle misure di accoglienza, si pongono alcune importanti decisioni del Tribunale di Ancona e del Tribunale di Bologna.
Il problema, ormai da un anno, riguarda le attese di mesi per formalizzare la domanda e dunque per accedere alle misure di accoglienza pubblica previste dalla legge (d.lgs. 142/2015), con la conseguenza che nell’attesa migliaia di persone sono costrette a vivere in strada e/o a fare lunghissime, quanto inutili file, agli Sportelli delle questure, sempre più spesso sentendosi rispondere che in mancanza di un domicilio non possono procedere alla formalizzazione della domanda d’asilo, così determinandosi un oggettivo gravissimo cortocircuito.
 
L’ordinanza 14.1.2023 R.G. 5011/2022 del Tribunale di Ancona  si pronuncia in un caso in cui un richiedente protezione internazionale aveva chiesto sin dall’agosto 2022 alla questura di Ancona di formalizzare la domanda d’asilo ricevendo in più occasione un rinvio (da ultimo a fine gennaio 2023) a causa dell’indisponibilità di posti nel sistema pubblico dell’accoglienza pubblica, confermata anche dalla prefettura in sede di giudizio. Con cristallina pronuncia il giudice marchigiano censura detto comportamento ordinando alla questura la ricezione entro 5 gg. della domanda di protezione internazionale e alla prefettura di provvedere all’accoglienza del richiedente asilo. L’ordinanza, dopo avere affermato la giurisdizione ordinaria per «l’indubbia natura di diritto soggettivo della posizione giuridica a tutela della quale è invocato il provvedimento cautelare d'urgenza (cfr. ex multis Cass. civ., sez. I, 25.11.2005, n. 25028; Cass. civ., sez. I, sent., 28.8.2006, n. 18549; Cass. civ., SU, ord. 28.2.2017, n. 5059) e rispetto alla quale l’agire della Pubblica amministrazione si pone come mera attività materiale», ricostruisce la disciplina normativa sia in tema di ricezione della domanda e sua tempistica (artt. 6 e 26 d.lgs. 25/2008) che di diritto all’accoglienza (d.lgs. 142/2015), evidenziando che solo con la formalizzazione il/la richiedente asilo consegue il permesso di soggiorno provvisorio che legittima la permanenza regolare sul territorio nazionale (artt. 4 e 5-bis, d.lgs. 142/2015) escludendo il rischio espulsivo e, nel contempo, consentendo l’accesso a diritti sociali quali il lavoro (art. 22, d.lgs. 142/2015).
Quanto al domicilio, il Tribunale esclude che sia legittimo subordinare a esso la formalizzazione della domanda d’asilo, sia perché la normativa non lo prevede affatto (art. 6, co. 1 d.lgs. 25/2008), sia perché la finalità del domicilio è quella di rendere conoscibile l’esito della domanda e pertanto estranea alla sua presentazione. Inoltre, è definita ancora più illogica la pretesa della subordinazione al domicilio in quanto nel caso esaminato la sua mancanza è dipesa proprio dalla dichiarata indisponibilità di posti da parte della prefettura e pertanto «La prassi seguita nella vicenda in esame ha completamente capovolto il percorso previsto dal legislatore, atteso che si è provveduto prima a verificare la disponibilità di posti per l’inserimento del soggetto nel sistema di accoglienza e, rilevata l’assenza di tale disponibilità, non è stato consentito al soggetto di formalizzare l’istanza di protezione» e dunque è la stessa PA ad avere determinato un cortocircuito logico.
Secondo il Tribunale di Ancona, peraltro, il diritto all’accoglienza per i/le richiedenti privi di mezzi di sostentamento è un diritto e un correlativo obbligo dello Stato, che non può nemmeno essere vincolato alla formalizzazione della domanda ma è dovuto a fronte della mera manifestazione della volontà di presentare domanda d’asilo (art. 9, d.lgs. 142/2015).
 
Con 3 ordinanze il Tribunale di Bologna ha affrontato vari casi di ritardo nella formalizzazione della domanda di protezione internazionale e conseguente rifiuto di fatto di accesso alle misure di accoglienza pubblica. Di esse si rassegna l’ultima in ordine temporale, ordinanza 26.1.2023 R.G. 14518/2022 , ma allegando anche le due di pochi giorni precedenti ( 18.1.2023 R.G. 14331/202 2  e 14333/2022 ).
I casi esaminati riguardavano tutti il rifiuto di formalizzazione della domanda di protezione internazionale operato dalla questura di Parma con rinvii di mese in mese per difetto di dichiarazione di ospitalità e rifiuto di fatto di accoglienza, mai formalmente riscontrato dalla prefettura di Parma. Situazione che aveva imposto la presentazione di ricorsi cautelari e in quello esaminato dall’ordinanza in commento recante tre domande giudiziali: l’accertamento del diritto soggettivo a presentare la domanda di protezione internazionale, del diritto soggettivo a divenire titolare della ricevuta della detta domanda avente valore legale di permesso di soggiorno provvisorio nelle more del procedimento e del diritto soggettivo ad accedere all’accoglienza per richiedenti asilo. Il Tribunale affronta per primo le eccezioni di difetto assoluto di giurisdizione prospettato dall’Avvocatura di Stato, secondo la quale non esiste alcun diritto alla formalizzazione quando il richiedente abbia manifestato la volontà di chiedere protezione, essendo tutti i termini previsti dalla normativa meramente ordinatori e senza sanzione in caso di loro violazione. Secondo il Ministero, peraltro, il ricorso era comunque infondato perché il richiedente, pur essendo entrato irregolarmente in Italia attraverso la frontiera triestina, si sarebbe reso colpevole di non avere ivi presentato domanda scegliendo la questura di Parma. Quanto all’accoglienza, la difesa dello Stato aveva eccepito la giurisdizione del Tar in forza di quanto previsto dall’art. 15, d.lgs. 142/2015.
Il Tribunale rigetta tutte le eccezioni della parte pubblica. Quanto alla giurisdizione, richiama la parte motiva delle precedenti due ordinanze del medesimo Tribunale che hanno affermato la giurisdizione ordinaria in applicazione del principio di «interesse procedimentale» espresso, in generale, dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 8236/2020 in tema di responsabilità da contatto sociale qualificato della PA, la cui legittimazione trova fonte nella legge n. 241/90, che, con le ultime riforme, ha parificato le posizioni dell’amministrazione e dei cittadini nell’ambito di un procedimento amministrativo, prescrivendo i doveri di collaborazione e buona fede. Trattasi di responsabilità relazionale da «contatto sociale qualificato» allorquando il privato chieda un determinato diritto alla PA, in riferimento al quale sussiste la giurisdizione ordinaria. Rapportando quei principi ai casi esaminati, il Tribunale bolognese ha ritenuto sussistente analogo interesse procedimentale «come specie del diritto soggettivo proprio [ndr: alla protezione internazionale] per la funzione preliminare ed ineliminabile dell’istanza rispetto al riconoscimento del diritto», a prescindere dal riconoscimento di detto diritto, non oggetto del giudizio. In altri termini, è il diritto alla formalizzazione della domanda che assume rilievo in sé e poiché esso è propedeutico all’avvio dell’iter procedimentale per il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale, è attratto nella natura giuridica, fondamentale e inviolabile, di quest’ultimo, giustiziabile davanti al giudice ordinario.
Tanto precisato, il Tribunale di Bologna prende atto che, dopo «gravissimo ritardo», la questura ha consentito la formalizzazione della domanda di protezione internazionale, senza però rilasciare il permesso provvisorio previsto dall’art. 4, co. 1 d.lgs. 142/2015 e dall’art. 11, co. 1 lett. a) d.p.r. 394/99 con le caratteristiche tipiche, in particolare annotando su di esso (o meglio, sulla ricevuta) che il richiedente presenterà dichiarazione di ospitalità e senza indicare il codice fiscale, pur previsto dalla circolare dell’Agenzia delle entrate n. 8 del 26 luglio 2018. Si poneva, pertanto, la qualificazione giuridica della ricevuta/permesso provvisorio.
Sul punto, il giudice censura innanzitutto la tesi dell’Avvocatura di Stato sulla colpevolezza del richiedente per non avere formalizzato la domanda di protezione già in frontiera, affermando che è del tutto indifferente il luogo in cui essa sia presentata (art. 26, d.lgs. 142/2015) e altrettanto indifferente è l’irregolarità dell’ingresso. Viene, dunque, affermato il diritto al permesso di soggiorno che consenta l’accesso ai diritti, compreso il lavoro, la salute, l’iscrizione anagrafica, ecc., e conseguentemente viene ordinato alla questura, «senza indugio», il rilascio di un permesso con tutti gli adempimenti di legge, compreso il rilascio del codice fiscale.
Infine, quanto al diritto all’accoglienza, il Tribunale di Bologna respinge l’eccezione dell’Avvocatura di Stato di difetto di giurisdizione evocata ex art. 15, d.lgs. 142/2015, perché detta norma riguarda il diniego o la revoca delle misure di accoglienza, mentre il rifiuto di fatto opposto dalla prefettura di Parma esprime un diniego della stessa qualificazione di richiedente asilo, nonostante la manifestazione di volontà di chiedere la protezione internazionale, che di per sé integra il diritto soggettivo all’accoglienza.
 
Sempre in tema di accoglienza e con diversa prospettazione, il Tar Puglia, sede di Lecce, con decreto cautelare monocratico n. 60/2023 R.G. 76/2023, a fronte del silenzio serbato dalla prefettura di Taranto sulla richiesta di inserimento nelle strutture pubbliche di accoglienza di un gruppo di richiedenti asilo e dunque a seguito di ricorso contro il silenzio della PA (art. 31 c.p.a. d.lgs. 104/2010), ha ordinato a detta prefettura «di dare immediato riscontro scritto esplicito e motivato, entro il termine di 24 ore dalla comunicazione del presente decreto presidenziale, alle istanze presentate in via amministrativa da tutti gli extracomunitari odierni ricorrenti (richiedenti la protezione internazionale) dirette ad ottenere la loro collocazione in strutture/centri di accoglienza del territorio».
Ordine pronunciato dopo che il presidente del Tar aveva avuto conferma telefonica dalla prefettura che riferiva «di una situazione di “congestione dei Centri provinciali di accoglienza sopra specificati (n. 13 C.A.S. nel territorio provinciale per un numero totale di posti di 340 persone dedicati all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale) in considerazione degli innumerevoli arrivi e sbarchi”, sia della avvenuta recente collocazione nei C.A.S. (in data 24 gennaio 2023) di n. 6 migranti dei 17 indicati nel ricorso (utilizzando il criterio dell’ordine cronologico della formalizzazione della richiesta presso la locale questura)».
Secondo il Tar Lecce evidentemente quella riferita non è una legittima motivazione e, al contrario, vi è un «pregiudizio di estrema gravità ed urgenza per gli extracomunitari ricorrenti (richiedenti asilo in condizioni di indigenza, privi di qualsiasi alloggio e che dichiarano di vivere da tempo all’addiaccio)».
 
I PROVVEDIMENTI cd. DUBLINO (Reg. 604/2013)
Con  decreto 13.10.2022 R.G. 533/2022 il Tribunale di Roma  annulla il provvedimento di rinvio di richiedente asilo in Romania dopo avere accertato che in detto Paese vi è una completa impreparazione del sistema asilo derivante anche dal massiccio arrivo, nel corso dell’anno, di profughi dall’Ucraina. Il trasferimento avrebbe dunque comportato la violazione di diritti fondamentali del richiedente asilo, rendendo necessaria l’applicazione della clausola discrezionale.
 
Con decisione 3.11.2022 R.G. 14936/2021 il Tribunale di Bologna annulla il provvedimento dell’Unità Dublino, di rinvio di richiedente asilo in Germania (ove aveva a suo tempo presentato domanda di riconoscimento della protezione internazionale, negatagli) in applicazione della clausola discrezionale prevista dall’art. 17 Regol. n. 604/2013. Il caso riguardava un richiedente asilo nigeriano disabile, vittima di sfruttamento ai fini di accattonaggio in ragione della sua condizione di vulnerabilità fisica, trafficato anni addietro dalla Nigeria e con ingente debito ancora da ripagare. Il Tribunale, applicando la clausola discrezionale, afferma che essa non riguarda solo le accertate carenze sistemiche nel sistema asilo nel Paese di rinvio ma anche il caso in cui il rinvio comporti violazione dei diritti fondamentali del richiedente asilo, come ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE 16.2.2017 C-587/16 PPU, C.K. c. Rep. Slovenia – CGUE 21.12.2011 C-411/10 e C-493/10 N.S. et al.). Il Tribunale afferma che la disabilità fisica e mentale del richiedente asilo sia un presupposto per l’applicazione della discrezionalità tenuto conto che solo in Italia gli è stato offerto un percorso terapeutico e riabilitativo, di cui non aveva mai beneficiato in Germania.
 
Regolamento Dublino e protezione speciale
Con  decreto 20.10.2022 R.G.8008/2022 il Tribunale di Venezia  interviene in un ricorso in cui una domanda di protezione speciale era stata dichiarata irricevibile per pendenza di una procedura c.d. Dublino. In sede cautelare il giudice veneziano sospende l’efficacia del diniego affermando l’irrilevanza della coesistenza delle due procedure, in quanto «l’eventuale riconoscimento di un permesso per protezione speciale non può incidere sulla diversa domanda di protezione internazionale (status o protezione sussidiaria), uniche forme di protezione oggetto della disciplina Dublino, ferma, in ogni caso, la possibilità per il ricorrente d rinunciare alla domanda di protezione maggiore».
 
DIRITTI
Apertura di conto corrente presso Poste italiane
Con  ordinanza 6.8.2022 il Tribunale di Roma , in sede di reclamo, ha affermato il diritto di richiedente protezione internazionale, titolare di permesso per richiesta asilo, all’apertura di conto corrente presso Poste italiane, dopo che gli era stato rifiutato per ritenuta insussistenza di un valido documento di riconoscimento.
Il ricorrente era titolare di permesso per richiesta asilo previsto dall’art. 4, co. 3 d.lgs 142/2015, in attesa della decisione della Commissione territoriale sulla sua domanda di protezione internazionale (nelle more del giudizio riconosciuta nella forma sussidiaria) e aveva necessità dell’apertura del conto corrente per potervi far riversare lo stipendio mensile per l’attività lavorativa. L’opposizione di Poste italiane riguardava la non validità del titolo di soggiorno semestrale, poiché decorso quel termine. Il Tribunale censura detto rifiuto innanzitutto in applicazione dell’art. 126-duodecies del Testo unico bancario che consente l’apertura di conto corrente anche per richiedenti asilo e rilevando che il permesso per richiesta asilo costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’art. 4, co. 3 d.lgs. 142/2015, che perde di validità solo una volta che venga riconosciuta la protezione internazionale in una delle sue forme.
 
 

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